giovedì 26 gennaio 2017

Perché iniziare una psicoterapia?

In Italia andare da uno psicologo vuol dire ancora essere etichettato come malato di mente? Perché spesso si preferisce assumere farmaci piuttosto che rivolgersi ad uno psicoterapeuta?



Attualmente nell'immaginario collettivo è ancora molto diffusa l'idea del ricorso allo psicologo come “ultima spiaggia”: spesso solo quando si avverte di aver esaurito tutti i tentativi di soluzione del problema e prevale la confusione mista all'incertezza, si affaccia nella nostra mente il pensiero di ricorrere all'aiuto di uno psicoterapeuta.

L'inizio di una psicoterapia, a volte viene erroneamente vissuto come la certificazione del passaggio da una condizione normale ad una condizione patologica, che necessita di una “cura”.

Questa convinzione fa riferimento ad un atteggiamento che tende ad assimilare la professionalità dello psicoterapeuta a quella del medico, circoscrivendo il suo ambito di competenza esclusivamente alla patologia.

Questo modo di pensare ha notevolmente favorito la difficoltà ad accettare gli aspetti della propria personalità che giudichiamo “anomali” solo perché non coincidono con la rappresentazione ideale alla quale cerchiamo di assomigliare, in altre parole, noi ci percepiamo diversi da come vorremmo essere e, da questa distanza tra il sé ideale e il sé reale, deriva una sensazione di inadeguatezza che spesso è alla base del disagio o della sofferenza.

Un'esperienza emozionale correttiva

Ad esempio, una persona che sta affrontando una separazione/divorzio, non necessariamente presenta disturbi psicopatologici, ma ciò non esclude che egli possa ugualmente aver bisogno di uno specialista che l'accompagni durante una fase significativa della sua storia personale, offrendogli l'opportunità di vivere “un'esperienza emozionale correttiva” (Alexander, 1946).

Vivere un'esperienza emozionale correttiva, significa avere uno spazio “protetto” (rapporto con il terapeuta), nel quale poter sperimentare modalità relazionali efficaci, che poi potranno essere utilizzate nell'affrontare le difficoltà che ciascuno di noi vive all'interno delle relazioni significative che accompagnano la propria storia.

Se è vero che si apprende dall'esperienza, perché il processo comunicativo possa dirsi terapeutico bisogna che il terapeuta si ponga per il cliente come opportunità di fare un'esperienza altra rispetto a quella (o quelle) che lo portarono ad imparare a stare al mondo ...male, troppo per potere,come si suol dire, andare avanti così.

Dire un'esperienza altra è come dire un'esperienza tale da permettere di imparare qualcos'altro rispetto a quello che è stato imparato fino ad oggi ai vari livelli sui quali ognuno di noi si dibatte per stare al mondo: quello cognitivo (io penso così perché...), quello emotivo (sento che ...provo questo perché...).

Ad esempio, un genitore che si rivolge allo psicologo non lo fa perché ha una psicopatologia, ma solo perché vive la frustrazione di un rapporto disfunzionale con il figlio e, desidera confrontasi con uno specialista che l'aiuti ad individuare quelle modalità che si sono rivelate inefficaci in una relazione così significativa come quella genitore/figlio.

Questi sono solo alcuni esempi della versatilità dell'intervento psicologico, che non ha alcuna relazione con una condizione psicopatologica, e quindi non va automaticamente associato alla presenza di un disturbo che necessita un intervento terapeutico.

La psicoterapia serve a diminuire la sofferenza?

Ci sono momenti nella nostra vita in cui sentiamo il bisogno di guardarci dentro e ristabilire un contatto con noi stessi, riprendere quel dialogo interiore che è stato interrotto dalla sofferenza.

Rivolgersi ad uno psicoterapeuta significa essere accompagnati in un viaggio di esplorazione nel nostro mondo interiore, incontrare la propria sofferenza che finalmente troverà uno spazio e un luogo in cui essere ascoltata, accettata, compresa e che,“illuminerà” quelle parti di noi di cui non siamo pienamente consapevoli e, grazie alle quali, è possibile trovare nuove chiavi di lettura della propria storia.

A volte durante la nostra vita ci sono delle “battute d'arresto”, momenti in cui avvertiamo una “dissonanza” tra la nostra esperienza interiore e le situazioni che ci troviamo ad affrontare nella vita. Ad esempio una persona pur credendo delle proprie capacità non si sente sufficientemente considerata dai familiari o dai colleghi sul luogo di lavoro e ciò, inevitabilmente, si ripercuote sulla sua autostima, generando un abbassamento del tono dell'umore associato ad una sensazione di inadeguatezza.

Perché chiedere aiuto ad uno psicologo?

Chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta non vuol dire ammettere la sconfitta definitiva, delegando all'altro il compito di risolvere il problema, ma al contrario, avere l'umiltà di mettersi in discussione, assumendosi la responsabilità di orientare consapevolmente il proprio processo di crescita personale.

Significa darsi l'opportunità di incontrare i propri limiti, riconoscerli e individuare le risorse necessarie ad affrontare in modo proattivo le situazioni che creano difficoltà e rendono faticosa l'espressione delle potenzialità individuali.

La psicoterapia è un percorso durante il quale, inevitabilmente, emergono le contraddizioni che appartengono ad ognuno di noi, ma che spesso non riusciamo ad decodificare chiaramente nel momento in cui le stiamo vivendo.

Ognuno di noi ha una rappresentazione mentale di sé più o meno definita, ma in realtà siamo in continua evoluzione, ed è per questo che anche in condizioni sfavorevoli, tendiamo alla naturale espressione della nostra individualità, non a caso sono proprio le condizioni peggiori a rendere le esperienze straordinarie.

Le leggende metropolitane sulla psicoterapia

Nell'immaginario collettivo esistono tuttavia delle “false credenze” che riguardano la decisione di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per migliorare il proprio benessere interiore, una di queste è il timore di diventare dipendente da lui per il resto della nostra vita.

Al contrario, uno degli obiettivi principali della psicoterapia, è favorire il recupero della fiducia nelle risorse personali e nella capacità di utilizzarle per riconquistare la piena autonomia nell'affrontare situazioni stressanti in modo funzionale.

Psicoterapia: ma quanto mi costi?

Un altro pregiudizio molto diffuso è quello relativo ai costi elevati della psicoterapia, pregiudizio derivante dall'iniziale diffusione della psicoanalisi che prevedeva almeno tre sedute settimanali e si prolungava a volte anche per più di un decennio.

Attualmente, con il diffondersi di altri approcci psicoterapeutici e il proliferare di ricerche scientifiche che hanno individuato i fattori di efficacia dell'intervento psicoterapeutico, si è verificato un profondo cambiamento in questo scenario; infatti oramai da molti anni si è verificata un'inversione di tendenza che ha condotto ad un ridimensionamento generale sia della frequenza delle sedute (quasi sempre a cadenza settimanale), sia della durata complessiva della psicoterapia, che è prevedibile soltanto in alcuni orientamenti psicoterapeutici, ma non può certo prolungarsi per un decennio.

D'altro canto, bisogna rilevare il costo, non solo economico, dell'effetto dello stress e delle varie somatizzazioni (ad es. disturbi psicosomatici come alcune reazioni allergiche), determinate da piccoli o grandi “terremoti” emozionali e dalle conseguenti ripercussioni sulla salute fisica, sulla produttività e sulle nostre relazioni interpersonali.

Psicologo o amico?

Un altra convinzione molto diffusa è:”gli amici e i familiari sono gli unici che possono aiutarmi, perché loro mi vogliono bene”.

A tal proposito, non bisogna confondere il sostegno che può essere offerto da un amico che simpatizza identificandosi con noi, dal ruolo svolto da uno psicoterapeuta che entra in empatia con le nostre emozioni, in altri termini, egli è in grado di sentirle come se fossero le proprie, senza dimenticare che non appartengono a lui, quindi non cede alla tentazione di sostituirsi a noi, offrendo indicazioni e suggerimenti sul modo di risolvere i nostri problemi.

Al contrario, il compito del terapeuta è quello di facilitare un processo di autoconsapevolezza che ci consenta di riprenderci il nostro potere personale e di esercitarlo proprio in quelle situazioni in cui, in passato, abbiamo sperimentato un senso di inadeguatezza.

Non a caso, è proprio quando il coinvolgimento emotivo è molto intenso, abbiamo bisogno di qualcuno in grado di fare da “specchio” alla nostra sofferenza, tollerandone l'intensità e mantenendo la “giusta distanza”, accompagnandoci attraverso la qualità della sua presenza nel percorso di crescita personale che è alla base di qualsiasi processo di cambiamento.

Il timore di essere giudicati dal terapeuta

Ancora una volta la notevole diffusione della psicanalisi ha determinato una costante generalizzazione nell'immaginario collettivo che ha prodotto lo stereotipo di un rapporto “sbilanciato” tra terapeuta e cliente dove il potere sta tutto nelle “mani” del terapeuta e che si manifesta attraverso la sua interpretazione dell'esperienza del paziente.

Al contrario, la psicoterapia è un processo relazionale che si basa sulla collaborazione paritaria, il cui obiettivo non è la valutazione della personalità, lo specialista infatti, deve essere in grado di sospendere il giudizio nei confronti del cliente che, a sua volta, dovrebbe avvertire tale atteggiamento non giudicante e sentirsi dunque libero di esprimere il suo vissuto senza farsi condizionare dal timore di essere giudicato dal suo terapeuta.

Se la psicoterapia è efficace, promuove la fiducia in sé stessi, quindi rende inutili l'utilizzo di “maschere” per nascondere agli altri i nostri pensieri o sentimenti, l'autenticità diventa quindi una condizione indispensabile ad orientare le scelte e i comportamenti in sintonia con la propria personalità.

Che succede se provo sentimenti negativi verso il terapeuta?

Tali sentimenti sono una parte fondamentale del processo terapeutico e possono essere un utile “strumento” per la comprensione di sé stessi. E' importante che il cliente non reprima i sentimenti negativi dentro di sé, ma si senta libero di condividerli con il terapeuta, sicuro che egli sarà in grado di tollerarli, offrendogli l'opportunità di sperimentare modalità di gestione della conflittualità alternative e non distruttive.

E' fondamentale che la persona possa avvertire da parte del terapeuta la capacità di contenere tali vissuti negativi, in questo modo, l'alleanza terapeutica ne verrà inevitabilmente rinforzata.

La relazione terapeutica si costruisce a partire da una domanda di cambiamento, accettare l'incognita e la sfida del viaggio alla scoperta del nostro mondo interiore, implica un atto di fiducia verso chi ci accompagnerà e in seguito verso sé stessi.

L'Approccio centrato sulla Persona

Ed è stato proprio il desiderio di accettare l'incognita e la sfida di questo viaggio che mi ha indotto a scegliere l’Approccio Centrato sulla Persona in quanto più aderente alla mia concezione di psicoterapia, come progetto volto a restituire il potere personale del cliente ed a favorirne la piena autorealizzazione.

Questo orientamento psicoterapeutico nato negli anni '40 negli Stati Uniti dal lavoro di Carl Rogers, rientra nell'area della Psicologia Umanistica, è un orientamento nel quale non si utilizzano strategie e metodi, nel senso comune della parola, proprio perché si utilizza il modo di essere del terapeuta, la sua capacità di entrare in relazione con l'altro e di comprendere come viene percepito dal cliente, al fine di facilitare il cambiamento; solo se il terapeuta riesce ad instaurare un autentico clima di accettazione, consentirà alla persona di esplorare gli aspetti di sé che maggiormente lo spaventano, o di cui si vergogna, o che svaluta. L’accettazione positiva incondizionata del cliente da parte del terapeuta determina l’abbassamento delle difese che permette al cliente di rimettere in discussione alcuni aspetti di sé, promuovendo un processo di crescita personale.

Il primo colloquio

Solitamente offro alla persona la possibilità di fare un primo colloquio durante il quale ascolto il suo vissuto relativo al “qui ed ora” ovvero partendo da quella che è l'esperienza attuale e dalle difficoltà che la persona incontra, facendo emergere i suoi bisogni e le sue aspettative riguardo al percorso psicoterapeutico.

I primi colloqui sono molto importanti perché consentono ad entrambi (terapeuta e cliente) di valutare se esistono i presupposti per la costruzione di un'alleanza terapeutica, in fondo si tratta di una scelta reciproca che non si basa tanto sulla competenza del terapeuta riguardo al problema specifico del cliente, quanto piuttosto sulla capacità del terapeuta di promuovere un processo di cambiamento che coinvolga attivamente il cliente in un percorso di crescita personale.

Solitamente io consiglio al cliente di non decidere al termine del primo colloquio se proseguire o meno il rapporto professionale, poiché ritengo sia importante concedersi un tempo minimo per lasciar “sedimentare” dentro di sé le emozioni, a volte molto intense scaturite durante il colloquio e, lasciar affiorare eventuali sensazioni positive o negative legate alla propria esperienza.

La responsabilità della scelta

In questo modo già dalla prima seduta la persona viene invitata ad assumersi la responsabilità della propria scelta e a focalizzare la sua attenzione sul carattere di unicità che caratterizza la relazione tra “quel terapeuta” e “quella persona”.

Si tratta infatti di una scelta reciproca e significativa nella quale entrambi sono chiamati ad essere onesti: il terapeuta deve chiedersi “posso entrare in relazione con questa persona in modo autentico e non giudicante in modo da facilitare un processo di cambiamento?”, al tempo stesso il cliente potrà interrogarsi “questa persona è riuscita a facilitare la comprensione dei miei stati d'animo? Come mi sono sentito durante il colloquio? Sento che questa persona è entrata in relazione empatica con me?”.

Oltre al sollievo provato nel constatare che i propri vissuti personali sono compresi da qualcuno che li ascolta, il soggetto inizia a cambiare il suo modo di affrontare la vita. Una persona scopre nuovi aspetti della sua personalità, riesce ad individuare nuove chiavi di lettura della propria esperienza, sperimenta sulla “sua pelle” la capacità di accedere alle proprie risorse interiori e di utilizzarle per assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Decidere di dare ascolto al proprio malessere vuol dire affrontare la sofferenza in modo costruttivo, evitando che con il passare del tempo possa consolidarsi originando una patologia vera e propria.

Imparare ad essere se stessi

Concludo questo articolo con le parole di una cliente che descrive la sua esperienza durante la psicoterapia: “La fatica più grande: affidarmi ad un'altra persona (…) ma la salvezza è stata proprio quella. Abbandonarmi e scoprire il sollievo di non annegare (…) di non precipitare nel vuoto della pazzia, perché uno sguardo altro mi sosteneva (…) dare voce a tutte le parti di me, dare a tutte una dignità e diritto di esistere con la loro verità. Ho scoperto che non volevo perderne neppure una, in tutte mi sono riconosciuta” (Kopp, 1975, pp. 26)

La relazione terapeutica si costruisce all'interno di un processo comunicativo caratterizzato da una speciale mancanza: manca l'oggetto della comunicazione, quello di cui si parla, quello a cui si accenna, quello che si cerca di comprendere.

Attraverso il crearsi tra terapeuta e cliente di una dimensione relazionale tale da correggere gli effetti di altre esperienze disfunzionali avute nella sua vita. Si tratta dunque di un processo in cui la comprensione reciproca- il comprendersi – si pone come condizione indispensabile per comprendere il problema che motiva la domanda in terapia

E' un'esperienza che cura l'esperienza.


Dr.ssa Sabrina Camplone

dal sito: www.medicitalia.it


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Alexander F., French T. M.et al.(1946),Psychoanalytic Therapy: Principles and Application, Ronald Press, New York.
O'Leary C., (1999), Counseling alla coppia e alla famiglia, Erikson,Trento.
Kopp S. (1975),Se incontri il Budda per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma.
Watzlawick P., Beavin e Jakson, (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.

Sono diventata “amica” dei miei attacchi di panico, e ho ripreso il controllo sulla mia vita.


La mia psiche ha ricevuto ben tre epifanie, che hanno cambiato le regole del gioco



A 12 anni ho avuto il mio primo attacco di panico. Mani sudate, cuore che batteva all’impazzata, tremore e la sensazione che tutto intorno a me fosse svanendo; non avevo idea di quello che stava accadendo a me. Sapevo soltanto che non riuscivo a controllare il mio corpo. È stato terrore allo stato puro. Mi feci visitare da alcuni medici, che mi sottoposero ad una serie di test e mi fecero andare a casa. Sebbene fossi sollevata perché non furono riscontrati problemi di salute, vivevo con la paura che sarebbe successo di nuovo. E succedette. Più e più volte.

Man mano che sono diventata più matura, ho cominciato a mettere insieme i pezzi del puzzle. Questi “eventi” non erano nati dal nulla, c’era una causa scatenante. Ogni incidente è stato preceduto da una preoccupazione o da una paura intensa. Un dolore addominale per me significava appendicite, un viaggio aereo mi faceva presagire una collisione imminente, e così via.

Nervosa per natura fin da bambina, conoscevo bene la paura e il panico. Ma con questi casi stavo raggiungendo un livello completamente nuovo.

Ho passato degli anni vivendo nella paura che tutto ciò potesse ripetersi. Avevo paura di rimanere a dormire a casa di amici, di fare un’escursione o, in generale, di correre il rischio di allontanarmi troppo da casa. Smisi di prendere l’aereo, di utilizzare l’ascensore e di viaggiare per lavoro.

Nel corso del tempo, uno psichiatra ha confermato ciò che io avevo già intuito: soffrivo di disturbi d’ansia e di attacchi di panico. Mi prescrisse due tipi di farmaci e mi fece seguire da un terapeuta cognitivo-comportamentale.

Sebbene la terapia conversazionale e i farmaci mi abbiano aiutato in vari aspetti della mia vita, non ebbero particolare successo in merito all’intensità e alla frequenza dei miei attacchi di panico; o almeno non nella direzione prevista.

È anzi successo l’esatto contrario; le pressioni della vita mi hanno spinto verso un punto in cui tutto iniziò a peggiorare, e continuavo a percorrere la mia spirale fuori controllo.

A volte ho avuto paura di uscire di casa e anche il solo pensiero mi faceva rabbrividire. Finivo per farmi coraggio e poi uscire, ma in generale non stavo bene, nella mia situazione di madre di due figli che lavora a tempo pieno. Mi paralizzava la paura di avere un attacco di panico al di fuori dei confini sicuri di casa mia.

Un sabato mattina i miei figli mi chiesero di portarli al parco. Sopraffatta dalla paura e dall’ansia, dissi di no e mi giustificai dicendo di avere mal di pancia. Li misi di fronte alla televisione nella speranza che questo li avrebbe soddisfatti.

Eccomi lì, seduta sul divano, a fissare i miei figli guardare la TV. Cosa stavo facendo? Cosa ero diventata? I miei due figli, pieni di energia, volevano soltanto trascorrere un bel sabato mattina nel parco insieme alla madre. E io avevo risposto proprio così? Il tutto perché temevo di avere un attacco di panico?

Quel giorno decisi di smettere di vivere nella paura. Quel giorno entrai in azione.

Decisi di imparare tutto quello che potevo sui disturbi d’ansia e sugli attacchi di panico. Pensavo che forse, se avessi sviscerato la cosa, avrei potuto capire meglio quello che mi stava succedendo.

Quanto più imparai a conoscere l’anatomia dei disturbi d’ansia e a comprendere i motivi dei miei attacchi di panico, e più avvertivo in me un cambiamento interiore. Una serie di epifanie cambiò la mia prospettiva al problema. Ecco i miei punti di svolta:
Primo punto di svolta: I miei attacchi di panico cercano di aiutarmi

Sì, avete letto bene. È qualcosa che viene definito nella risposta di lotta o di fuga: un processo interno che prepara il nostro corpo alla percezione di una minaccia. In altre parole, è il modo in cui il nostro cervello ci aiuta in quanto responsabile della nostra sicurezza.

Una volta che ho iniziato a interiorizzare questa idea, ho capito che il mio panico non era l’avversario malvagio che per così tanto tempo pensavo fosse. Non era affatto un mostro. Non stava cercando di uccidermi. Era semplicemente un meccanismo di protezione del mio cervello, che crede di aiutarmi agendo in questo modo.

“Il disturbo di panico è in realtà una reazione naturale del corpo che avviene fuori dal contesto”, spiega lo psicologo Thomas A. Richards del Social Anxiety Institute.
Secondo punto di svolta: È parte di ciò che sono e la accetto

Ho passato molti anni terrorizzata da questa bestia enorme e malvagia, cercando di combatterla. Ogni volta che avevo un attacco promisi che non avrei mai permesso che accadesse di nuovo.

“Questa è l’ultima volta! Adesso mi rialzo, con tutte le mie forze!”

Poi, inevitabilmente, succedeva di nuovo. E i sentimenti di fallimento, delusione e sconfitta avevano la meglio.

Come potevo permettere di soccombere un’altra volta?

Ma in questo processo, imparando sempre di più su me stessa, riuscii a riconoscere che questo approccio così dispregiativo verso di me era qualcosa di tremendamente distruttivo e controproducente. Così ho scelto una nuova prospettiva: invece di investire tantissima energia emotiva cercando di evitare il panico, ho deciso di abbassare la guardia e di accettarlo come parte di ciò che costituisce il mio essere. Ho deciso di essere padrona di quella parte di me e di amarmi nonostante essa. E così ho “fatto amicizia” con il mio disturbo.

Accettando questa “cosa” come un semplice pezzo del grande puzzle che sono io, sono più in pace con me stessa.

Smettendo di combattere questa lotta inutile contro qualcosa che viveva dentro di me, la pressione è sparita.
Terzo punto di svolta: Non sono davvero in pericolo

Anche se un attacco di panico ha il potere di convincere che si è in grave pericolo, il suo potere finisce lì. “Durante un attacco di panico, il corpo sperimenta gli stessi processi fisici che avrebbe se tu fossi davvero in pericolo”, sostiene Richards. “La differenza, naturalmente, è che anche se ci si sente in pericolo, in realtà non lo si è”.

Anche se i sentimenti di pericolo sono reali, non vi è alcuna vera minaccia. Questa prospettiva è stata una grande scoperta per me, perché da quel momento potevo permettere che tutto accadesse senza avere paura di morire. Questo pensiero continua ad avere, in me, un effetto calmante: è una cosa in meno di cui preoccuparmi durante l’attacco di panico.

Ora, quando sento di essere vicino ad un attacco di panico, mi limito ad attenderlo. Dico a me stessa che sto bene con ciò che sento, che accada pure. Permetto che accada e ricordo a me stessa che non si tratta di nulla più di un innocuo meccanismo di difesa. E faccio un respiro.

Non sono arrabbiata con me stessa. Non metto pressione su me stessa per reprimere questa cosa. Mi limito a lasciarla lì dov’è.

Se riesco tenere a bada il panico, festeggio il mio successo e mi do una pacca sulla spalla per il lavoro ben fatto. Se non ci riesco mi ricompongo, minimizzo la cosa, pratico un po’ di amor proprio e volto pagina.

Non mi autocommisero né traggo piacere nel lamentarmi o nel vergognarmi; neanche guardo al futuro con timore. Mi limito a voltare pagina e ad andare avanti. E ne sono lieto, perché non importa cosa succede, sto facendo dei progressi.

Continuo a prendere le mie medicine e sono ancora in terapia. Sarò sempre incline ad avere attacchi di panico, sono e sarò sempre un processo in evoluzione.

Ma demistificando la mia percezione di questa cosa che mi ha afflitto per la maggior parte della mia vita, accettandola per quello che è e amando me stessa a prescindere da essa, sono riuscita a strappare gran parte del suo potere e riprendere il controllo sulla mia vita. Anche se ognuno ha dei meccanismi di sopravvivenza diversi, questa è la formula che ho scoperto funzionare meglio per me.

Adesso, quando i miei figli chiedono la mia attenzione, posso offrirla liberamente, completamente e senza paura.

STEPHANIE YOUNG

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]


dal sito: it.aleteia.org

venerdì 13 gennaio 2017

Ipocondria: l’ansia si placa così.


Ne soffrono 2 persone su 10, le donne più degli uomini. 
Per smontare i pensieri negativi le armi vincenti sono le tecniche di rilassamento e la respirazione profonda.

Ognuno di noi, almeno una volta, si è chiesto se il proprio mal di stomaco dipendesse da ciò che aveva mangiato o non fosse il sintomo di qualcosa di più grave. Se il dolore al petto fosse il segnale del troppo lavoro o l’avvisaglia di un problema cardiaco. A volte tali preoccupazioni diventano eccessive fino a interferire con le attività di tutti i giorni (possono occupare fino a 14-16 ore al giorno).

L’ansia per la salute, o ipocondria, è molto diffusa: le statistiche dicono che quasi il 20% delle persone ne soffre, soprattutto le donne, a qualunque età.
Autodiagnosi e terapie fai-da-te

È definita dagli esperti come “la preoccupazione o la convinzione di avere una malattia grave, basate sulla erronea interpretazione di sintomi”. L’ipocondriaco monitora e tasta continuamente il proprio corpo alla ricerca di cambiamenti, trascorre un sacco di tempo a cercare informazioni su internet, segue terapie fai-da-te, fa ripetuti controlli. E, nonostante siano negativi l’ansia anziché diminuire aumenta.
Fatevi qualche domanda

Per prima cosa, per capire se ne soffrite chiedetevi: quanto tempo trascorro a preoccuparmi di avere una malattia? Quante volte ho consultato il medico, nonostante mi avesse già rassicurato? Le preoccupazioni sulla salute stanno compromettendo le mie relazioni o il lavoro?
Ricordate due cose: gli ipocondriaci focalizzano costantemente la propria attenzione sul corpo, avvertendo di conseguenza sintomi più numerosi e più intensi. Secondo: la reazione da stress causa tipicamente quel tipo di sensazioni (interpretate erroneamente come sintomi di una malattia).
Come affrontare l’ansia

La soluzione migliore per calmare l’ansia è ricorrere alle tecniche di rilassamento e di respirazione profonda. E poi, una volta imparata quella più adatta a voi, identificate i pensieri o i sintomi che vi preoccupano (provate ad annotarli). Quando avvertite l’ansia arrivare, fate un bel respiro e cominciate a fare gli esercizi: questo vi permetterà di ridurla sino a un livello accettabile. Se i pensieri negativi sono così tanti da farvi sentire sopraffatte, provate a concentrarvi solo su alcuni (massimo 3), dedicandovi agli altri soltanto dopo aver affrontato i primi. Se vi riesce difficile, cominciate l’esercizio concentrandovi su pensieri di modesto grado ansiogeno, passando in seguito a quelli più preoccupanti. Con la pratica riuscirete a farlo, pervenendo gradualmente a spiegazioni alternative (e più rassicuranti) dei vostri sintomi.

giovedì 12 gennaio 2017

14 illustrazioni fin troppo reali per le persone che soffrono d'ansia.

I disordini d'ansia sono fortemente fraintesi dalla società, nonostante un elevato numero di americani li abbia testati sulla propria pelle. Fortunatamente, l'artista Pranita Kocharekar ha realizzato delle immagini per provare a spiegarli.

Dopo aver affrontato l'ansia da sola, la Kocharekar ha cominciato a parlare di ciò che sentiva ai suoi amici. Ha così scoperto che molti di loro hanno condiviso delle esperienze simili, e quindi ha deciso di continuare a documentarsi e realizzare il suo progetto "Riconoscere l'ansia".

"Sapevo che solo parlare di queste cose non sarebbe stato abbastanza per sensibilizzare su questa malattia," Kocharekar dichiara all'Huffington Post America. "È molto semplice per una persona che soffre d'ansia preoccuparsi di avere l'ansia. Io spero che le mie illustrazioni possano dargli aiuto".
Nonostante le illustrazioni siano umoristiche, il lavoro pone un focus sull'interpretazione delle paure da parte di persone che soffrono regolarmente d'ansia. Questa condizione può causare panico e stress, spesso senza motivo, che si ripercuotono sulla salute del malato.



In sostanza il lavoro della Kocharekar vuole accendere un faro sulla realtà dei disordini mentali e spiegare che va bene chiedere aiuto.

"Non autodiagnosticatevi una malattia, per favore parlate con un dottore o un terapista," dice. "La consapevolezza di avere un problema è il primo passo per superarlo. Spero che le persone con o senza ansia possano comprendere meglio la malattia, così che possano aiutarsi l'un l'altro".

Sembrerebbe proprio una missione. Date un'occhiata ad altri lavori che potrete vedere in "Riconoscere l'ansia" (Acknowledge Anxiety, titolo originale).

Stai sempre troppo a pensare.


Non ti chiamano per l'orario previsto e cominci a sudare.


Quando senti un piccolo rumore nella notte, cominci ad immaginare scenari come una pugnalata mortale.


Hai chiuso a chiave la porta?


Quando controlli se hai con te il tuo cellulare prima di sederti in taxi, durante, dopo essere scesa. Due volte.


Sei estremamente indecisa.


La meditazione è...


I videogiochi ti stressano.


Non puoi leggere il giornale perché...


Sei sempre in preda a paranoie e troppa prudenza.


Hai paure irrazionali.


Il tuo subconscio è preoccupato dal non avere nulla di cui preoccuparsi.



PRANITA KOCHAREKAR

Gastrite nervosa: quanto incide l’ansia sui dolori di stomaco?



Soffrite di gastrite? Allora fate attenzione, perché avete più probabilità di soffrire di ansia o disturbi dell’umore.



L’ansia è uno dei disturbi psicologici più diffusi e ognuno di noi lo ha probabilmente sperimentato almeno una volta nel corso della propria vita. Anche se non diventa una vera e propria condizione patologica, rimanendo solo allo stato di un lieve disagio, può avere ripercussioni sul nostro benessere generale, anche su quello fisico.

Che l’ansia si manifesti attraverso sintomi fisici è forse ormai noto: sudorazione delle mani, mal di pancia, mancanza d’aria e respiro corto sono i più comuni e immediati.

Ma c’è di più. Ora, infatti, uno studio della National Health Interview tedesca dimostra che vi è uno stretto legame tra ansia e gastrite, in generale disturbi dell’apparato digerente.

I ricercatori hanno scoperto che nei pazienti con gastrite la probabilità di aver avuto alcun disturbo d’ansia negli ultimi 12 mesi era di circa il doppio rispetto alla popolazione generale, così come per gli attacchi di panico, la fobia sociale, qualsiasi disturbo dell’umore e la depressione maggiore negli ultimi 12 mesi.
Cosa è la gastrite e come riconoscerla?

Per prima cosa, cerchiamo di chiarire cosa è la gastrite e come riconoscerla. La gastrite è un’infiammazione della mucosa gastrica dello stomaco, causata dall’abuso di alcol, farmaci, da una dieta errata o dal batterio Helycobacter Piroli.

I sintomi più comuni sono:
intenso bruciore di stomaco;
forte dolore all’addome;
reflusso gastrico;
nausea e vomito;
dimagrimento.
Perché l’ansia causa mal di stomaco?

Lo studio ha preso in considerazione 4181 adulti, di età compresa tra i 18 e i 79 anni, 861 dei quali avevano ricevuto una diagnosi di gastrite cronica a vita.

Il team ha scoperto che negli adulti con gastrite vi era una prevalenza significativamente più alta di qualsiasi disturbo d’ansia (27,0 vs 15,3%), attacchi di panico (10,3 vs 4,5%), fobia sociale (17,2 vs 8,1%), qualsiasi disturbo dell’umore (21,3 vs 11,5 %), e depressione maggiore (20,1 vs 10,5%) negli ultimi 12 mesi.

Le associazioni tra la gastrite e l’umore e disturbi d’ansia erano più forti negli uomini rispetto alle donne, anche se la differenza non era significativa. I risultati suggeriscono quindi che vi è un legame significativo tra una diagnosi di gastrite e una maggiore probabilità di soffrire di disturbi dell’umore e d’ansia.

Gli studi futuri dovranno ora indagare le possibili vie fisiologiche di questi rapporti e mettere in luce i metodi per tenerli sotto controllo.
La gastrite nervosa ha effetti permanenti sul nostro apparato digerente?

Secondo ciò che è emerso dall’indagine, l’ansia potrebbe agire sull’equilibrio gastrico, rendendo il disturbo anche cronico per molti pazienti.
Come curare la gastrite nervosa?

Per trattare in maniera adeguata la gastrite, gli specialisti consigliano antiacidi e gastroproptettori. Di certo, la prevenzione è sempre molto importante ed è necessario capire bene quali sono le cause all’origine del disturbo.

Non ultima cosa da fare è modificare la propria dieta, rendendola più leggera ed equilibrata.


Andrea Salvadori

www.pazienti.it

mercoledì 11 gennaio 2017

Attacchi di panico: le 10 cose che rendono migliori le persone che ne soffrono, secondo la Scienza.


Sappiamo che gli attacchi di panico sono come un flagello per coloro che ne soffrono, ma vi sono alcuni lati che potrebbero persino essere usati a nostro favore: ecco 10 cose che rendono migliori per le persone ansiose

Gli attacchi di panico sono come un flagello per le persone che ne soffrono. Spesso ci cambiano il nostro stile di vita, il modo di pensare e di affrontare la realtà. Nei casi più gravi, possono persino compromettere i rapporti con i nostri famigliari, gli amici e il datore di lavoro. Secondo gli esperti, però, esistono anche alcune caratteristiche positive che, se usate nel modo corretto, possono diventare un valore aggiunto. Eccone 10 che tutte le persone ansiose hanno.


Intelligenza: secondo uno studio, è emerso che le persone affette da ansia e attacchi di panico, sono generalmente più acute della media.

Maggiore affidabilità: le persone ansiose tendono a considerare ogni singolo aspetto della situazione e a prendere una decisione solo quando sono perfettamente consapevoli dei rischi.

Empatia: chi soffre di ansia e, soprattutto, di attacchi di panico, si trova quotidianamente a combattere contro emozioni forti, intense e inevitabilmente impara a conoscere il senso del dolore negli altri.

Riflessività: l'ansia porta a pensare continuamente, a indagare tutti gli aspetti di una data situazione. In molti casi questo meccanismo si trasforma in analisi, sia verso se stessi che nei confronti degli altri.

Maggiore resistenza emotiva: come si dice di solito, a furia di incassare, prima poi ci si fa il callo. Ed è proprio il caso delle persone ansiose. Queste, a lungo andare, sviluppano una resistenza alle emozioni forti, soprattutto a quelle improvvise, imparando a gestirle più efficacemente.

Maggiore creatività: la capacità che hanno le persone ansiose di collegare eventi a volte apparentemente distanti fra loro, come nei casi della paranoia, le rende molto più creative della media.

Capacità organizzativa: proprio per evitare di incorrere in situazioni inaspettate, favorendo così l'insorgere dell'ansia e degli attacchi di panico, le persone ansiose sviluppano nel tempo diverse doti organizzative.

Affrontare la solitudine: gli attacchi di panico, spesso, possono isolare chi ne soffre. Le persone ansiose, in questi casi, riescono nel tempo a rendere la solitudine un valore aggiunto, imparano a gestirla e a farla un punto di forza.

Prendersi cura degli altri: proprio perché soffrono, le persone ansiose imparano a conoscere il dolore, a conviverci e a cercare soluzioni ai loro problemi emotivi. Questa esperienza personale li porta a essere più efficienti nella cura verso il prossimo.

Importanza delle cose semplici: sono le prime cose che l'ansia e gli attacchi di panico negano a chi ne soffre. La bellezza delle piccole cose. Con il tempo, la sensibilità verso questi aspetti aumenta, aiutando a capire cosa conta o meno nella vita, e per cosa vale la pena di soffrire.



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La pillola “sticazzi”



“Lei è depresso” mi dice la psichiatra, e ci rimango di sale. Io che scrivo di serial killer e sociopatici, io che ho imparato a memoria il DSM-4, che studio avidamente ogni cosa che riguarda il cervello umano, come mai non mi sono reso conto di una cosa tanto banale? Che non è per lo stress se mi trasformo ciclicamente in un gorilla desideroso di scassare il mondo per poi danzare sulle macerie, in un essere feroce capace di tirare il culo a colleghi e amici per ogni minima mancanza. Che gli attacchi di panico che mi tengono sveglio di notte con la certezza che ogni respiro sarà l’ultimo (perché quando hai un attacco sei sicuro di stare morendo, non ne hai solo timore) non dipendono dal fatto che me la meno troppo.
Con lo stupore, però, mi sale anche uno strano e imprevedibile sollievo. Perché capisco che non è solo colpa mia per le cazzate che ho fatto e le persone che ho ferito. Per quanto evidentemente insufficienti, i miei studi mi hanno insegnato che la depressione è una malattia, non uno stato d’animo volontario. Al depresso non puoi mica intimare “tirati su” o “fatti una risata ogni tanto”, non è che sta fingendo. È il suo cervello che sballa. Le endorfine che mancano, i neuroni che arrancano.

Mentre torno a casa dopo la seduta, ho un satori, un momento di chiarezza assoluta durante il quale mi scorrono davanti agli occhi i miei ultimi anni.
Quando è stata l’ultima volta che mi sono divertito davvero? E non parlo delle serate in cui scivolo nell’oblio sbronzo o alterato. Non riesco a ricordarmelo. Anzi, ricordo la festa di matrimonio di un caro amico durante la quale mi sono dovuto fare violenza per non scappare via e tornare a casa a scrivere.
O a fingere di scrivere, che è quello che faccio più spesso.


2
Pubblico dal ’98, e primi due romanzi li ho partoriti con facilità e agio. Dal terzo romanzo in poi, però, le cose sono cambiate. Mi siedo alla tastiera senza avere il coraggio di toccarla per ore, e quando ci riesco il giorno dopo cancello quello che ho scritto. A volte passano mesi prima che riesca a scrivere una pagina che mi sembri decente. A volte anche anni.
Il gorilla dentro di me mi blocca le mani, mi insulta per il mio ardire, mi deride ripetendo che dovrei tornare a fare il cuoco, o suicidarmi. I tentativi di esorcizzarlo trasformandolo in un personaggio dei miei romanzi non hanno successo. Vince lui quasi sempre, e io me ne vergogno e non lo dico a nessuno. Sparo balle che vanno dal classico “quasi finito” al “ho avuto un lutto in famiglia”, e mi tocca spesso scansare i colleghi cui ho promesso la consegna. Ricordo fughe alla Fiera di Francoforte per non incrociare il mio editor, ma anche nella stessa Mondadori. Cercavo di non passare davanti alle scrivanie di chi aspettava il mio manoscritto e temevo mi avrebbe preso a bastonate. Ho scritto anche un racconto in proposito, in cui il mio alter ego, dopo essersi bruciato in droga l’anticipo, uccide l’agente per aver una proroga.
Seduta dopo seduta, comincio a mettere a fuoco altri sintomi che ho trascurato negli anni. In testa a tutti la mia incapacità di frenare la rabbia, al limite dell’autolesionismo. Litigo e insulto direttori editoriali e produttori, qualche volta rischiando di venire alle mani, qualche volta arrivandoci, perdendo amici, soldi e lavori.
E poi c’è l’isolamento, cazzo. Sono diventato un solitario, chiuso in casa e spaventato a uscire. Trascorro almeno cento notti all’anno in qualche albergo, ma nessuno di quei viaggi è stato fatto per piacere personale. Incontri di lavoro, presentazioni di libri che vivo come stessero per fucilarmi, rare vacanze che trascorro nella hall degli alberghi con il computer sulle ginocchia, disgustato all’idea di mettere il naso fuori.
L’unico posto dove sono a mio agio che non sia casa è il cinema, perché non devo parlare con le altre persone, neanche quelle che mi accompagnano. L’unico problema è che piango sempre quando c’è una scena triste.

3
Quando chiedo alla psichiatra perché sono depresso, e da così tanto tempo che non riesco a vedere l’inizio, lei non dà risposte precise. Ma lascia cadere con delicatezza l’idea che in parte sia connesso a problemi che ricadono nella “sfera autistica”.
What?
All’alba dei cinquant’anni non solo scopro di essere depresso fin dall’adolescenza, ma anche autistico? Pare di sì, ad alto funzionamento e solo per certe cose. Come stare in mezzo agli altri, per esempio, che per me è più difficile che per i normodotati. E per la sensibilità eccessiva, come avessi uno strato in meno di pelle, al punto che mi ferisco troppo facilmente.
Ne so poco, ammetto, perché la psichiatra affronta malvolentieri la questione, che io vivo eccitato come un bambino che scopre di avere dei poteri mutanti. Invece cominciamo la cura chimica per i sintomi. Ho troppo poche endorfine nel cervello, bisogna fare in modo che ne rimangano in circolo di più.
Il farmaco che mi viene prescritto è la Sertralina, una roba che fa sì che le endorfine ci mettano di più a smaltirsi. All’inizio mi dà una notevole nausea e un po’ di sonnolenza. Poi, nel giro di una ventina di giorni comincia a succedere qualcosa, che posso definire solo per la sua mancanza.
Avete mai vissuto accanto a una ferrovia o una cascata? Il rumore continuo diventa alla fine un sottofondo cui non fai più caso, se non quando cessa.
Per me è lo stesso.
Una mattina mi rendo conto che la voce del gorilla nella mia testa c’è ancora, ma non è più rabbiosa. Non è più un pungolo costante che trasforma tutto in un carico da mille, le sue braccia non mi stringono più facendomi soffocare ogni volta che guardo al futuro. È solo cinica e cupa, e posso tenerla a bada se non sono sottoposto a uno stress eccessivo.
Un po’ alla volta le discussioni di lavoro diventano solo discussioni, senza strepiti e insulti, l’ansia si placa come non è mai accaduto con i tranquillanti e gli ansiolitici che ho preso a badilate. Quando mi chiama la banca perché ho sfondato il fido, invece di nascondere il telefono sotto il cuscino e sperare che cada un asteroide, rispondo e contratto un prestito. Litigo ancora, non sono diventato un santo, ma con meno frequenza. E, soprattutto, riesco a fermarmi a un certo punto, senza andare avanti tutta la notte in loop. Quando il gorilla esce, lo rimetto in gabbia.
Le cose che mi agitano e preoccupano sono molte di meno, e ciò che prima mi provocava notti insonni e sudori gelidi adesso lo risolvo con un’alzata di spalle. ‘Sti cazzi, come si dice a Roma. Ed è così che comincio a chiamare la pillola.
La pillola ‘sti cazzi.
E scrivo. Ho ancora blocchi, problemi e momenti di sconforto, ma sono quelli che ritengo normali, posto che ci sia qualcosa di normale in questo mestiere o nel mondo. Riscrivo ancora un sacco, e sono sempre insoddisfatto del risultato finale, ma questo è ok, mi va bene così, mi spinge a migliorarmi, a non accontentarmi. Quello che conta è che comporre le mie storie e darle in pasto ai lettori è diventato un piacere, che vivo senza sensi di colpa.
Scrivere è bello, me n’ero dimenticato.
Non so come andrà da qui in poi. Per adesso, visto che nel giro di due anni ho scritto e pubblicato un migliaio di pagine, direi bene. Ma ci sono cose da cui non si “guarisce”, e la depressione è una di queste (per non parlare dell’altra questione sulla sfera autistica: e no, non so fare calcoli a mente e non ho la memoria perfetta, cazzo), e quindi probabilmente avrò ricadute e momenti brutti.
Ma sapete chi vi dico?
‘Sti cazzi.

Sandrone Dazieri
                (Scrive thriller per la carta stampata e la televisione, cura qualche volta anche libri altrui. Prima faceva il cuoco. Il suo ultimo romanzo è L'Angelo (Mondadori). @sandronedazieri su Twitter.)

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martedì 10 gennaio 2017

Insonnia addio, 7 trucchi per dormire.

Addio insonnia e disturbi del sonno.
E via di colpo anche stanchezza, sbadigli e frustrazione. Riposare bene e in modo efficace è possibile e fondamentale. Secondo l''American Academy of Sleep Medicine' - si legge su Business Insider - è possibile curare l'insonnia senza medicine o i cosiddetti rimedi 'naturali', ma piuttosto eliminando comportamenti scorretti. In che modo? Non esiste la strategia migliore, ma ci sono sette strategie di aiuto al sonno consigliate dagli esperti.

1. Smetti di infuriarti per il sonno. Chi affronta la notte con timore e guarda la sveglia fino all'ora di alzarsi inizia a sviluppare emozioni negative quali paura, ansia e rabbia associate al provare a prendere sonno. La terapia del controllo dello stimolo cerca di interrompere questa associazione, per associare al sonno solo il letto e non tutto questo carico extra. Invece di preoccuparti di quanto la tua giornata sarà tremenda perché sei stanco, pensa che ciò ti farà dormire meglio la notte seguente.

2. Pratica il rilassamento. Quando l'incapacità di dormire ti rende ansioso, il tuo corpo produce ormoni dello stress che rendono più difficile liberarti da quest’ansia. Può essere utile esercitarti al rilassamento. Usa una tecnica per rilassare progressivamente i muscoli (concentrandoti sul rilassare in sequenza ogni parte del corpo) o la meditazione.

3. Cambia il tuo modo di pensare il sonno. Questa è una strategia in due parti. La parte cognitiva comprende il mutamento delle proprie convinzioni sull'insonnia. In molti casi, chi è stressato dalla propria incapacità al sonno tende a esagerare il problema, pensando di aver dormito meno di quanto effettivamente fatto. Cambiare questi pensieri negativi può attenuare lo stress. Per cambiare il comportamento, gli esperti consigliano di combinare l'esercizio al rilassamento e la terapia del controllo dello stimolo prima descritti. Anche creare un ambiente che favorisce il sonno, come una stanza tranquilla e scura, può essere di aiuto.

4. Se non riesci a dormire, esci dal letto. È una strategia semplice: se non riesci a dormire non restare sdraiato a letto provando ad addormentarti. Se ci stai provando da più di 20 minuti, esci dal letto e vai a fare qualcos'altro. Ma non usare computer, telefono o televisione, possono solo peggiorare il problema. Secondo gli esperti uscire dal letto quando non si riesce a dormire aiuta a interrompere il ciclo che associa il letto a emozioni negative. Inoltre, la dolce privazione del sonno che viene indotta potrebbe rendere più facile dormire il giorno dopo.

5. Cambia il tuo comportamento. Già solo seguire la terapia del controllo dello stimolo descritta sopra, aggiungendo l'esercizio al rilassamento e un migliore ambiente del sonno, può essere efficace.

6. Smetti di impegnarti troppo. Per quanto suoni ridicolo, il trucco per addormentarsi potrebbe essere provare a restare sveglio. È stato dimostrato che se restano a letto contenti di essere svegli e non preoccupandosi di addormentarsi, gli insonni si addormentano in realtà più velocemente e dormono meglio. Secondo gli esperti succede perché (senza guardare telefono, computer ma facendo niente e basta) si rimuove l'ansia che si può provare mentre si tenta di addormentarsi.

7. Impara a riconoscere lo stress. Gli psicologi usano spesso la retroazione biologica per aiutare i pazienti a gestire lo stress, e può funzionare anche con l’insonnia. Devi imparare a riconoscere i sintomi: ad esempio l’elevato battito cardiaco, la tensione muscolare e il respiro affannoso. Poi prova a riportare questi sintomi dello stress a un livello normale. Se hai problemi ad addormentarti, fa qualcosa per te e nei prossimi giorni prova una o più strategie tra quelle suggerite. Se ti danno conforto, puoi continuare a usarle.


lunedì 9 gennaio 2017

7 cose da sapere se amate una persona che soffre di ansia.

Amate una persona che soffre di ansia? Ecco alcune cose che dovreste sapere.


Convivere con l’ansia è davvero difficile, non solo per chi ne soffre, ma anche per coloro che sono vicini alla persona che ne soffre, ad esempio un marito o un fidanzato. Talvolta i piani devono essere cambiati all'ultimo minuto, lo stato emotivo del vostro partner potrebbe cambiare in un attimo, e alcune situazioni devono essere evitate, proprio a causa dell’ansia. Ecco dunque alcuni consigli per migliorare il vostro rapporto con una persona di questo tipo di problema:

Ricordate che una persona ansiosa è più della sua "ansia": a nessuno piace essere definito in base a un solo attributo. Se veramente volete aiutare la persona che amate, evitate di considerarla semplicemente una “persona ansiosa”, riconoscete che in lei c’è molto più che la sola ansia, ma che si tratta di un essere umano con tutte le complessità e i pregi che hanno tutti gli altri.
  • Una persona ansiosa potrebbe stancarsi facilmente: in che senso? Provate ad immaginare di vivere costantemente in uno stato di allarme e di allerta. Questa agitazione ci porta a stancarci ed affaticarci con molta facilità, quindi cercate di comprenderlo ed evitate di accusare la persona per questo motivo.
  • Una persona ansiosa si sente facilmente sopraffatta: coloro che soffrono di ansia potranno confermarlo. Questa sensazione, che talvolta ci accompagna durante l’intera giornata, ci porta a sentirci facilmente sopraffatti e schiacciati da cose che coloro che non soffrono di ansia avvertono o notano a malapena. Se dovete andare in un luogo che potrebbe mettere in ansia la vostra dolce metà, ricordatele che potrete sempre andar via non appena ne sentirà il bisogno, e che voi le siete accanto per sostenerla in ogni circostanza.
  • Le persone ansiose sanno bene che la loro ansia spesso è irrazionale, e non serve che lo facciate notare in ogni momento. Non aiuta. Sapere che una paura è irrazionale non sempre aiuta ad eliminarla. Se così fosse, quasi nessuno avrebbe fobie o soffrirebbe di ansia, non trovate? Sapere che una paura è irrazionale non sempre aiuta ad eliminarla. Se così fosse, quasi nessuno avrebbe fobie o soffrirebbe di ansia, non trovate?
  • I cambiamenti possono essere più difficili del normale: ognuno ha una zona di comfort, sia che soffra di ansia, sia che non ne soffra, ma per chi soffre di ansia i cambiamenti possono essere spaventosi. Cercate quindi di avere un po' di pazienza e di comprensione nei confronti della vostra dolce metà.
  • Durante un attacco di ansia, evitate di chiedere "Stai bene?": Il respiro è spezzato, le mani tremano, il petto si alza e si abbassa velocemente, le ginocchia non smettono di sbattere l’una contro l’altra, e la mente è annebbiata. E’ evidente che in quel momento la persona che avete accanto non sta bene. Piuttosto sarà utile ricordarle che voi siete li se c’è bisogno, o aiutarla con frasi come: “Concentrati sul tuo respiro”, “In questo momento sei nel panico, ma non durerà. Ci sei già passata e sai che finirà presto”, "Posso fare qualcosa per farti stare meglio?".
  • Una persona ansiosa apprezza il vostro sostegno: in determinati momenti potrebbe non sembrare che sia così, ma una persona ansiosa sa bene quanto è importante il vostro sostegno e quanto vi impegnate per farla stare meglio, e ve ne è davvero grata.

Di Maria Vasta

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Attacchi di panico: secondo uno studio, l’ansia deriva dalla paura dell’ignoto.

Secondo un recente studio scientifico, è stato dimostrato che l’ansia, così come gli attacchi di panico possono trarre origine da un’antica paura dell’ignoto.  



Tutti noi, da piccoli, avevamo paura del buio. Non era solo per le figure più o meno folcloristiche o per i racconti del terrore dei nostri genitori e dei nostri nonni.  

Era una diffidenza ancestrale, qualcosa che difficilmente è possibile spiegare. La paura dell’ignoto. Uno studio pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology e condotto dai ricercatori dell’Università dell’Illinois, ha rivelato come questa paura sia un tratto comune in chi soffre di attacchi di panico, ansia e fobie sociali.


Secondo Stephanie Gorka, assistente ricercatrice di psicologia e psichiatria clinica dell'Istituto di Medicina dell'Università dell'Illinois e co-autore dello studio: "Un trattamento o un insieme di trattamenti focalizzati sulla paura dell’ ignoto risulterebbe in una modalità di trattamento più efficiente e di forte impatto destinata a numerosi disturbi e sintomi d’ansia". Le persone sensibili a questo tipo di paura possono finire con il passare l'intera giornata alle prese con l'ansia e gli attacchi di panico, vi è sempre un dettaglio che può far credere che qualcosa di brutto stia per succedere. Al contrario, le minacce prevedibili non sortiscono lo stesso effetto e possono essere controllate con più facilità. La risposta, in questi casi è di 'attacco-o-fuga' e la crisi si riduce non appena la minaccia scompare.

Durante lo studio, i ricercatori hanno analizzato i dati emersi da due diversi esperimenti condotti su soggetti di età compresa fra i 18 e i 65 anni. I soggetti erano così suddivisi: 41 con Fobia Sociale, 29 con Disturbo d'Ansia Generalizzata, 25 con Depressione Maggiore e 24 con Fobia Specifica, più 41 persone senza alcuna diagnosi. Ai partecipanti è stato chiesto di completare un'esperienza basata su stimoli che innescavano la paura. Sono stati misurati i battiti di ciglia di ogni partecipante come risposta a piccole scosse elettriche indotte tramite i polsi, alcune prevedibili, altre imprevedibili.

Inoltre, ai soggetti venivano somministrati tramite cuffie alcuni suoni. Stephanie Gorka ha spiegato: "Non importa chi sei o qual è il tuo stato di salute mentale, strizzerai gli occhi, battendo le ciglia, in risposta al suono. È un riflesso naturale, tutti lo fanno, senza alcuna eccezione". Per comprendere come funzionava il meccanismo, i ricercatori hanno misurato, tramite appositi elettrodi posizionati sotto gli occhi dei partecipanti, la forza dei battiti di ciglia, confrontando la risposta a scosse prevedibili e imprevedibili.

Dai dati è emerso che chi soffriva di Ansia Sociale, strizzava gli occhi in maniera più forte quando subiva scosse elettriche imprevedibili, rispetto ai partecipanti che non avevano alcuna diagnosi o che soffrivano di Depressione Maggiore o attacchi di panico e ansia. Luan Phan, un altro autore dello studio e docente di psichiatria, ha concluso: "Sapere che la paura dell’ ignoto sottostà a tutti i disturbi d’ansia basati sulla paura suggerisce inoltre che i farmaci che agiscono in modo specifico su questa sensibilità potrebbero essere usati o sviluppati per trattare questi disturbi".



* Il contenuto riportato è di carattere orientativo a fini informativi: non sostituisce diagnosi e trattamenti medici. Non deve essere utilizzato per prendere decisioni in merito ad assunzione o sospensione di terapie farmacologiche e non può sostituire il parere di un professionista afferente a qualsiasi disciplina medico scientifica autorizzata.

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martedì 3 gennaio 2017

Smetti di pianificare e inizia a vivere veramente


Smetti di pianificare e inizia a vivere veramente.

Inizia lʼanno con una svolta: secondo gli studi pianificare sempre tutto aumenta ansia e stress.

Organizzare aiuta a sfruttare meglio il tempo e non dilapidare energie inutili, tuttavia può essere fonte di stress. Ti capita di provare ansia verso le novità o gli imprevisti? È il momento di cambiare strategia e adottare un nuovo stile di vita. Ecco le ispirazioni per iniziare il 2017 con grinta: scopri la tua forza interiore.


LE PAURE NASCOSTE – Spesso i periodi neri contengono un messaggio importante, perché ci mettono di fronte a un disagio interiore che chiede di essere risolto. Tuttavia, il cambiamento può fare paura perché rappresenta un salto nel buio. Ce la farò? Questa domanda porta in superficie una paura antica, che stimola al confronto con noi stessi. Non ignorare la tua inquietudine. Il vero interrogativo è chiederti che cosa hai paura di perdere.

SOSTENERE SE STESSI - La posta in gioco talvolta è il timore di perdere ciò che abbiamo e non importa se si tratta di un lavoro che ci complica la vita o un amore tossico: lo spettro della solitudine terrorizza. Eppure la capacità di sostenere il peso delle proprie scelte costituisce anche una fonte di autentica libertà: sei in grado di farlo, prendi il timone della tua vita nelle tue mani. Il primo passo è smettere di rimandare. Non si tratta di mandare tutto all'aria, ma semplicemente iniziare a sentire dal profondo ciò che per te ha davvero importanza.

LA FORZA DELLA GIOIA - Dare una nuova priorità alle cose può portare a incredibili rivoluzioni. Secondo gli esperti chi tende a programmare tutto in modo da evitare imprevisti rischia di vedersi travolgere dall'ansia quando la realtà sfugge al controllo: questo accade con particolare frequenza nelle città o nelle metropoli, dove, dal lavoro al traffico, si moltiplicano gli eventi inattesi. Quando inizi a costruire l'esistenza sui valori in cui credi e hai il coraggio di aggiungere alla giornata più occasioni in grado di renderti felice scopri una nuova sorgente di energia e forza.

STOP CON IL CONTROLLO! - Training autogeno, meditazione, yoga e arti marziali possono aiutare a sviluppare l'equilibrio corpo-mente. Ricorda che meditare non è solo questione di corsi o tecniche: trova dieci minuti ogni giorno per stare in silenzio e ritrovare il contatto con te stessa. Discipline come lo yoga della risata insegnano che anche in un ingorgo stradale ci si può mettere a ridere: gli imprevisti sono tali solo se rimaniamo fermi sulle nostre posizioni. In realtà il fuori programma apre la porta alla magia del cambiamento e allena all'elasticità.

LA MAGIA DEL FLUSSO - La tendenza al controllo porta verso comportamenti impostati su una rigidità in senso fisico e mentale. Invece di provare rabbia verso gli eventi inaspettati inizia a chiederti come puoi affrontare al meglio la situazione. Spesso accade di perdere energia e tempo nel tentativo di mantenere invariati i programmi fatti, anziché osservare le necessità del momento. Lasciati andare al flusso. Il controllo è sicuro solo in apparenza: la vera sicurezza è la forza interiore che nasce a livello interiore. Affidati alla vita e scoprirai quanto sa essere generosa quando abbiamo il coraggio di seguire le intuizioni che vengono dal cuore.


Cinque consigli contro l'ansia da anno nuovo.


La lista dei buoni propositi per il nuovo anno è sempre troppo lunga. E alla vigilia di quello successivo le aspettative iniziali molto spesso sono risultate disattese. Ma come fare ad affrontare i nuovi progetti con la giusta emotività senza l'angoscia del fallimento? Lo psichiatra Michele Cucchi, direttore sanitario del Centro medico Santagostino di Milano, spiega come inseguire nuove mete senza farsi abbattere dall'ansia di realizzare ogni sogno:

1) No rimpianti. Non lasciamo spazio al rimpianto di errori ed esperienze che hanno segnato il nostro passato, ma valutiamo attentamente l'opportunità di imparare dalle difficoltà e dagli errori per migliorare concretamente il nostro futuro;

2) Sì a nuove cime. Non confondiamo obiettivi ambiziosi con elevate aspettative. L'obiettivo ci aiuta a tracciare la direzione da perseguire con volontà, l'aspettativa innesta in noi stessi l'ansia del fallimento;

3) Vivi il momento. Viviamo la magia del momento, non aspettiamo sempre ciò che deve arrivare domani. Oggi è il nostro giorno speciale in cui potremmo fare scoperte e vivere esperienze incredibili;

4) Take your time to plan. Diamoci tempo per pianificare al meglio i nostri programmi futuri, scegliamo ciò che veramente conta per noi e sentiamoci liberi di dare tutti noi stessi per realizzare i sogni che desideriamo realizzare da molto tempo;

5) Tieni vivo il fuoco. Coltiviamo il desiderio, 'la pancia sempre piena' ci allontana dalla capacità di raggiungere i nostri obiettivi. L'ardente fuoco che accende la passione, il sapore di ciò che vorremmo ma ancora non abbiamo, renderà ancora più speciale l'attesa.

"La fine dell'anno e l'inizio di quello nuovo rappresentano sempre un momento in cui si fanno i bilanci su come è andato l'anno trascorso e si azzardano previsioni su come andrà quello in arrivo - afferma Cucchi - Molto spesso ci troviamo a fare un'analisi, soprattutto nel caso in cui le cose non sono andate molto bene. E' lecito sognare un futuro migliore, ma non sempre le ipotesi più rosee si concretizzano. L'aspettativa di puntare in alto può generare quest'ansia da nuovo anno".

"Non dobbiamo vivere il principio del nuovo anno come una corsa a ostacoli con la sensazione di essere sotto esame, con la paura di essere bocciati se non rispettiamo il ruolino di marcia - ammonisce lo psichiatra - La vera felicità la troveremo invece nella gioia di tutti i giorni, avvertendo nei muscoli la fatica della lotta quotidiana, di sacrificarsi insieme alle persone care per un importante progetto, un sogno in cui crediamo ciecamente".

"E' bello sognare - conclude Cucchi - ma per dare fiato e gambe ai sogni bisogna prendersi del tempo per pensare, pianificare, valutare, calcolare, capire. Spesso non ce lo concediamo questo tempo, dobbiamo ricavarlo assolutamente".