venerdì 28 aprile 2017

Attacchi di panico in gravidanza: cosa fare


Attacco di panico in gravidanza? Non sottovalutare mai il problema, soprattutto, nello stato in cui ti trovi. Ecco i rimedi per cercare di sconfiggere gli stati di ansia e di panico

Attacco di panico in gravidanza? Non sottovalutare mai il problema, soprattutto, nello stato in cui ti trovi. Ecco i rimedi per cercare di sconfiggere gli stati di ansia e di panico

Attacco di panico: cosa sono

L’attacco di panico è un disturbo d’ansia caratterizzato da ricorrenti attacchi di tremori, paura, brividi e stati di malessere che possono condurre anche a complicanze. Esso può condurre a significativi cambiamenti comportamentali; inoltre, non sempre è possibile prevederli adeguatamente, possono cogliere alla sprovvista. Di solito, i soggetti ansiosi e preoccupati sono quelli più a rischio di essere colpiti da un attacco imprevisto di timore, ansia e paura. Possono verificarsi ad ogni età ed ad ogni stato o condizione in cui si versa, compreso lo stato di gravidanza.

Attacco di panico in gravidanza: sintomi

Per chi è in stato di gravidanza, occorre attenzionare e monitorare i sintomi che si manifestano e possono cogliere all’improvviso:

Mancanza di respiro e iperventilazione

Palpitazioni o battito cardiaco accelerato

Dolore o fastidio al petto

Tremore o senso di agitazione

Sensazione di soffocamento

Sensazione di irrealtà o sensazione di essere staccati dall’ambiente intorno

sudorazione

Nausea o mal di stomaco

Sensazione di vertigini, senso di stordimento, o sensazione di svenimento

Intorpidimento o sensazione di formicolio

Vampate di calore o brividi di freddo

Paura di morire

Le donne in gravidanza che soffrono di questi disturbi di panico, mostrano una serie di intensi episodi di estrema ansia, i quali durano una decina di minuti ma possono arrivare anche a 20 minuti. I sintomi più comuni di un attacco includono battito cardiaco accelerato, sudorazione, vertigini, dispnea, e iperventilazione e pensieri di morte imminente, oltre al rischio e terrore di avere un aborto spontaneo.
Attacchi di panico in gravidanza: cause

Una donna di gravidanza può essere colpita alla sprovvista da un attacco di panico per diversi motivi riconducibili al fatto di essere già un soggetto stressato ed ansioso oppure dalle alterazioni ormonali che influenzano la regolazione delle emozioni, oltre a svolgere un importante ruolo nelle sensazioni fisiche. Il solo pensiero di diventare mamma può cagionare stress, il fatto di non sentirsi pronte o all’altezza di sapere badare al bambino, può influenzare lo stato emotivo e di stress della donna.

Attacchi di panico in gravidanza: ecco come fare

Come procedere a rimediare con gli attacchi di panico? Per prima cosa occorre imparare a riconoscere gli attacchi di panico e a procedere con esercizi di rilassamento e di respirazione profonda: esercizi di yoga, rilassamento muscolare ed iperventilazione consentono di alleviare lo stato d’ansia. Inoltre, è bene non sempre essere negativi ma pensare in maniera positiva, cogliendo anche i lati belli e felici della nascita del bambino è un buon rimedio per gestire lo stress ed alleviare le paure.

Rivolgersi ad uno psicoterapeuta che ci ascolti e ci consigli durante lo stato di gravidanza sicuramente è, nella maggioranza dei casi, una valida soluzione insieme alla riscoperta profonda degli affetti e sentimenti materni. Infine, anche il recarsi a visite e controlli in maniera costante è sicuramente un rimedio utilissimo per calmierare lo stato d’ansia ed il timore che qualcosa possa andare storto durante la gravidanza o all’indomani della nascita del bambino. Anche, il regime alimentare della futura mamma gioca un ruolo di prim’ordine dato che la stessa debba assumere tutti i principi e macro-nutrienti utili da assicurare al bambino ed a sé il giusto apporto calorico. Evitare di fumare, bere alcolici, assumere droghe e psicofarmaci.

Dal Sito: www.notizie.it

giovedì 27 aprile 2017

Il vaso della felicità – Elizabeth M. Gilbert


«Circa un anno fa, quando ho lanciato la mia pagina Facebook, ho postato una foto del mio Vaso della Felicità.

Il Vaso della Felicità è un progetto che ho iniziato nella mia vita molti anni fa ed è rimasta una pratica che ho cercato di mantenere con regolarità da allora. (Anche se con delle dimenticanze, perché mi capita di impigrirmi e talvolta sono sopraffatta dalla vita, come tutti noi).

Nella sua essenza, il Vaso della Felicità è un’idea semplicissima e quasi assurda – ogni singolo giorno, a fine giornata, prendo un pezzo di carta (l’angolo di una bolletta telefonica o il pezzo di una vecchia to-do-list) e ci scrivo il momento più felice di quel giorno. E ci metto la data. E poi piego la nota e la inserisco nel vaso. E questa è l’intera pratica.

Ci vogliono circa 35 secondi per farlo, ma quello che mi porta questo esercizio è enorme – non solo il piacere di trovare un buon momento ogni giorno (anche i giorni orribili hanno un momento meno brutto degli altri), ma benefici duraturi dal registrare quel momento per sempre.

Col passare degli anni, ogni volta che sto vivendo un periodo difficile, scavo attraverso il barattolo e tiro fuori casualmente foglietti di carta, e gioia attraverso loro – tutte quelle istantanee gemme vita che avrei subito dimenticato, se non le avessi annotate. Essi mi portano infinito conforto.

Sono continuamente sorpresa di come di solito il mio momento più felice della giornata sia semplice. Quasi mai è un momento di successo esplosivo o un eccesso delirante. Nonostante tutti i miei sforzi e le mie ambizioni e tutta la mia ricerca di esperienze straordinarie, è importante riconoscere che i miei momenti più felici sono generalmente molto comuni, silenziosi e pure insignificanti.

In realtà, il mio momento più felice ogni giorno di solito è solo un colpo d’occhio di qualcosa di dolce e piccolo, il fluire inaspettato di un’emozione, un po’ di sole sul mio viso, un piacevole incontro sul marciapiede, un fresco bicchiere di acqua proprio al momento giusto, la mia gioia felina dopo un pisolino, la vista fugace di un uccello appena con la coda dell’occhio, il riconoscimento di qualche piccola e bellissima cosa.

Per esempio, il giorno in cui ho iniziato ad andare allo show di Oprah Winfrey (che era ovviamente l’esperienza in assoluto di maggior spicco nella mia vita) il mio momento più felice si è verificato la mattina in camera d’albergo, quando mia mamma mi stava aiutando a prepararmi per andare allo show, stirando la fascia del mio vestito per me. (Guardandola, mi sentivo come di nuovo bambina, andare al mio primo giorno di scuola, o ad un ballo della scuola media. E ho sentito il suo amore per me, ed è stato bellissimo). Niente è stato migliore, durante quella giornata (ed è stata fantastico e avventurosa), di quel piccolo, dolce momento.

Così ho presentato ai miei amici di fb il mio vaso della Felicità, e la gente ha iniziato a fare il proprio e ad inviarmi foto, che ho poi condiviso. E’ stato così straordinario vedere la diffusione di questa pratica!

Le persone fanno i loro vasi con tutto, dai vecchi contenitori di sottaceti, a splendide ceramiche fatte a mano, a vasi situati al centro del tavolo, a rari pezzi d’antiquariato, all’artigianato di un bambino. Abbiamo avuto Vasi della Felicità da tutto il Nord America, ma anche dall’Egitto, Filippine, Polonia, Iran, Turchia, Russia, Brasile, Colombia, Indonesia. Mi hanno inviato Vasi della Felicità familiari, relativi al rapporto madre-figlia, Vasi della Felicità post-divorzio, Vasi della Felicità di attraversamento del cancro, Vasi della Felicità di Capodanno (da leggere il seguente nuovo anno, per celebrare i momenti più felici dell’anno passato) – e ogni iterazione immaginabile. Amo ognuno di loro.

Devo anche aggiungere come a volte mi si spezza il cuore -nel modo più dolce- quando sento alcune delle domande riguardo a ipotetiche “regole” del Vaso della Felicità. E’ come se la gente non volesse finire nei guai, facendo un Vaso della Felicità sbagliato! Mi è stato chiesto: “Posso leggere sempre i foglietti che ho scritto, anche più volte?” Oppure: “Posso scrivere a volte una preghiera, invece di un momento di felicità?” O, “Va bene se permetto a qualcuno di mettere un momento felice nel mio barattolo?” Oppure: “Il mio Vaso della Felicità ha bisogno che abbia scritto Vaso della Felicità su di esso?” O, “Va bene se il mio Vaso della Felicità è in realtà una ciotola?” Oppure, “Si possono mettere pietre fortunate nel proprio Vaso della Felicità?” Oppure (e questo è di solito chiesto con un senso di panico): “Cosa succede quando il mio Vaso della Felicità è PIENO?!!” Oppure (e questo mi spezza il cuore ancora di più): “Dove posso acquistare un Vaso della Felicità??? L’ho cercato ovunque su Internet e non riesco a trovarlo da nessuna parte”

Vedi come queste domande sono toccanti e rivelanti? Vedi quanto queste preoccupazioni ci raccontano di che incertezza abbiamo riguardo alla nostra felicità, o le autorizzazioni che sentiamo il bisogno di cercare? Come disperatamente vogliamo sapere le regole? Come i nostri timori di finire nei guai ci bloccano la nostra felicità? Senza contare l’idea che la nostra felicità è, naturalmente, qualcosa che deve essere acquistato da una fonte commerciale legittima! (Fidati di me, queste domande mi risuonano, perché sono tutti i tipi di domande che mi faccio, quando sto complicando quelle che dovrebbero essere interazioni molto semplici nella mia vita).

Quali sono le regole, vi chiederete?

Ragazzi, non ci sono regole! Non ne ho idea! Ho appena fatto questa cosa, perché funziona per me! E’ la tua felicità; puoi farci assolutamente tutto ciò che ti piace!

Metti quello che vuoi là dentro – tutto ciò che ti porta pace e gioia. E quando il tuo vaso si riempie (come mi auguro accada), non ti resta che farne un altro. Leggi i foglietti, se ti va; oppure lasciali tranquillamente piegati, se lo preferisci. E lo puoi fare con una scatola di tessuto vecchio, se vuoi!

Il vaso non è la parte magica; il vaso è il vaso.

Cosa c’è dentro è semplicemente – molto semplicemente – la parte migliore della tua vita sulla terra.»

E voi? Che cosa metterete nel vostro vaso della felicità?   

Love addiction (dipendenza affettiva)


Con il termine inglese ‘love addiction ’ si intende la dipendenza affettiva, un tipo di dipendenza che non è stata ancora diagnosticata come patologia nei diversi manuali diagnostici.

E’ stato Giddens che, per primo, ha considerato la dipendenza affettiva come un disturbo autonomo e ne ha riconosciuto le seguenti caratteristiche:

- l’ebbrezza: è la sensazioni che si prova nel relazionarsi con l’altro, paragonabile a quella del tossicodipendente nel momento in cui sta per la prendere la sua dose di sostanza;

- la dose: rappresenta ciò che il dipendente affettivo trova nell’altro e, anche qui, come avviene per il tossicodipendente, cercherà sempre dosi maggiori, intese come presenza e tempo per stare con l’altro;

- la paura: una sensazione che accompagna ogni forma di dipendenza. Si tratta di una paura devastante, che possiamo riassumere nella massima del poeta latino Ovidio: “Non posso stare né con te, né senza di te.” Con te, a causa del dolore che si prova nel subire umiliazioni, offese e maltrattamenti; senza di te, perché l’angoscia che provoca il solo pensiero di perdere l’altro è assolutamente insopportabile.

Vorrei presentare una breve descrizione dei diversi stili di attaccamento, per mettere in luce l’importanza fondamentale che riveste l’infanzia e i suoi vissuti nella successiva formazione del proprio sé e della sua organizzazione nelle relazioni adulte.

1. Attaccamento sicuro – l’amore sicuro: la persona sicura di se stessa ha la capacità di riconoscere le persone alle quali legarsi sentimentalmente. Queste ultime saranno persone altrettanto sicure. Insieme, saranno consapevoli dei periodi di alti e di bassi che fanno parte di una relazione e avranno la capacità di affrontarli insieme. Queste saranno storie solide e durature.

2. Attaccamento ansioso/ambivalente – l’amore ossessivo: si tratta di persone molto passionali, convinte per questo di aver sempre trovato la persona giusta per loro. In realtà, scelgono inconsciamente persone che presentano proprio quei tratti di personalità che non sopportano. Restano sempre nella fase dell’innamoramento e la separazione viene vissuta con profonda ansia. Tutto viene vissuto in maniera estrema. Queste relazioni presentano un alto grado di rischio, soprattutto quando si tratta di persone che hanno modelli negativi del sé, per i quali non ci si sente degne di amore. Saranno fortemente e ingiustamente gelose, ossessive, possessive fino ad arrivare a condurre gesti estremi, quali i delitti passionali.

3. Attaccamento evitante/distanziante – l’amore freddo/distaccato: sono persone che soffrono profondamente. Non hanno avuto nell’infanzia una base sicura alla quale fare riferimento e questo comporta il fatto di non avere in età adulta alcun tipo di sicurezza affettiva. Il loro modello interiore della madre è quello di una madre cattiva che non elargisce nessuna cura o protezione. Hanno la sensazione di poter contare solo sulle proprie forze. Non hanno fiducia negli altri e soprattutto, per paura di essere rifiutate, sopprimono la loro emozionalità.

4. Attaccamento disorganizzato- l’amore patologico: si tratta di stili di attaccamento che rimandano a storie di maltrattamento o abuso infantili, da parte della figura allevante. Di conseguenza, in età adulta, avranno dei modelli interiori dell’interpretazione della realtà sempre inquinati, oscurati da una confusione e da una mancanza di controllo. Non hanno assolutamente la capacità di scegliere partners affidabili, e, quindi, presentano il rischio di farsi coinvolgere in relazioni distruttive, con persone violente e aggressive.

E’ importante quindi considerare il fatto che se nella nostra infanzia abbiamo vissuto esperienze negative, che non hanno portato alla strutturazione di un sé sicuro, e non intraprendiamo un percorso di conoscenza di sé per andare a vedere, naturalmente non senza dolore, il nostro passato, da adulti, cercheremo incessantemente e inesorabilmente situazioni e persone che ripropongono le nostre antiche relazioni, in quanto sono le sole che conosciamo.

Tra i sintomi della dipendenza affettiva troviamo:

- la paura di perdere l’amore;

- la paura dell’abbandono;

- la paura di mostrarsi per quello che si è;

- il senso di colpa;

- il senso di inferiorità nei confronti del partner;

- il coinvolgimento totale e una vita sociale limitata.

Nella nostra società, si tratta soprattutto di donne, spesso anche di successo, in carriera, ricche e anche belle; nel guardarle, apparentemente, diresti che sono donne con una vita piena ed appagante. Ma, sotto il vestito della superdonna, si nasconde la bambina richiedente che, anche se autonoma sul lavoro, non è in grado di difendere le proprie idee, accompagnate sempre da un senso di insicurezza, così profondo da chiedere continue rassicurazioni, ma mai appagate del tutto.

Si tratta di donne perché la componente affettiva appartiene maggiormente al mondo femminile che a quello maschile, soprattutto per ragioni culturali.

Infatti, sin da piccole, le donne sono invitate ad assumere una serie di comportamenti in sintonia con l’affettività, la comprensione dell’altro, l’essere materne, il sacrificio. Insomma, viene loro inviato un messaggio di invito alla dedizione, perché altrimenti non saranno mai delle brave donne, delle bravi moglie e delle brave madri.

Si tratta di donne che hanno chiaramente una bassa autostima e che, per questo, si sentono loro le colpevoli, le poco meritevoli e quindi destinate a non essere ricambiate dell’immenso amore che provano e dimostrano continuamente, annullando se stesse.

‘Ho bisogno che tu abbia bisogno di me’ è un bisogno di sopravvivenza che spinge la donna ad illudersi di cambiare l’altro.

La donna insegue un uomo inevitabilmente sfuggente, sempre impegnato in qualcosa di più importante di lei, che la maltratta e non teme di perderla. Tanto più lui usa questa forma di sadismo e trascuratezza, tanto più lei lo insegue, proseguendo un cammino di masochismo.

La ricerca inesausta delle conferme dell’altro proviene dall’incapacità di darsele da sé: l’altro diventa lo specchio ed il nutrimento dal quale si finisce col dipendere, anche se si tratta di qualcuno che non ci ama e non ci merita.

La dipendente affettiva dedica tutta se stessa all’altro, perché vede nell’amore la risoluzione a tutti i suoi problemi che, come detto, spesso hanno origini antiche, di ‘vuoti affettivi’. Il partner diventa ‘colui che la salverà’, quindi lo scopo della propria esistenza, e non può più farne a meno.

Per uscire dalla dipendenza affettiva, è necessario cambiare, scegliere nuovi ruoli, perseguire nuove mete, confidando in se stesse.

E’ necessario un percorso di conoscenza di sé, di accettazione dei propri vuoti, per arrivare ad amarsi e a scegliere l’altro spinte da un autentico desiderio e non da un incessante bisogno.

Non scordiamo mai che l’amore è scambio di gioia e presenza attiva nella sofferenza!

Di Alessandra Paulillo

Dal Sito: www.nienteansia.it

Shopping Compulsivo: I Love Shopping… Too Much!



UN MODELLO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DEL COMPULSIVE BUYING O SHOPPING COMPULSIVO

In letteratura sono presenti pochi riferimenti relativi al disturbo dell’acquisto compulsivo (Compulsive Buying, CB) o shopping compulsivo e solo recentemente è diventato un tema di interesse per i ricercatori.

Stephen Kellett e Jessica V. Bolton (2009) hanno tentato di fornire un possibile modello cognitivo-comportamentale del disturbo dello shopping compulsivo al fine di stimolare una valutazione e un trattamento più adeguato dei pazienti che presentato le particolarità dello shopping compulsivo.

Gli autori hanno individuato in letteratura le principali caratteristiche, definendo quindi lo shopping compulsivo come essenzialmente caratterizzato da singoli comportamenti disadattivi ed estremi. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo. Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali.

In letteratura emerge che lo shopping compulsivo, a differenza di altri disturbi del controllo degli impulsi, come il gioco d’azzardo patologico o la tricotillomania (DSM-IV), sembra essere tollerato dalla società invece di essere seriamente considerato come possibile genesi di un disagio familiare, sociale ed individuale, significativo e potenzialmente cronico. Inoltre risulta che lo shopping compulsivo può essere facilmente mascherato come shopping, attività socialmente accettabile; inoltre non esistono segni fisici indicativi di un problema e comportamenti da shopping compulsivo isolati non risultano agli occhi degli altri immediatamente bizzarri o comunque evidenti.

Il modello presentato da Kellett e Bolton prevede quattro fasi distinte:

1. Fattori antecedenti: precoci esperienze di vita e ambiente familiare (abuso e/o maltrattamento, criticismo e/o perfezionismo genitoriale) che costituiscono fattori di vulnerabilità. Ad esempio genitori in difficoltà (ad esempio depressi o alcolizzati, solo per citare due casi) che ignorano i propri figli o che utilizzano soldi e regali come rinforzo positivo per elicitare comportamenti desiderati nei propri figli costituiscono le condizioni favorevole per porre le basi per un forte attaccamento al patrimonio, che in seguito potrebbe funzionare da strumento per creare e mantenere un senso di autodefinizione;

2. Trigger interni ed esterni: stati emotivi interni (depressione, ansia, senso di sé sgradevole) e stimoli esterni (pubblicità, interazioni con i negozi, utilizzo di carte di credito) che possono indurre a fare acquisti di impulso.

3. Atto dell’acquisto: nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dei processi attentivi che sembra essere indicativo di uno stato mentale “assorbito” (stato alterato e dissociato della mente durante il quale l’elaborazione efficace delle informazioni è generalmente alterata) compromettendo qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo, che facilita gli sforzi di autoregolazione efficace (ad esempio: “io sono consapevole di me stesso e delle mie vere motivazioni per l’acquisto di questo prodotto mentre sto considerando di comprarlo”). Durante uno stato dissociato/assorbito aumenta la responsività emotiva e si riduce il processo di elaborazione dell’informazione, favorendo così gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Generalmente l’acquisto in questa fase viene fatto in solitudine poiché la presenza degli altri provoca irritazione e noia. Probabilmente perché, presupponendo che i compratori compulsivi ricerchino effettivamente uno stato di assorbimento, l’interazione con gli altri impedisce il raggiungimento di tale stato;

4. Post-acquisto: consapevolezza di un’incapacità di autoregolazione che determina emozioni come senso di colpa, vergogna, rimorso e disperazione, seguite da comportamenti specifici come nascondere l’acquisto o ignorarlo.

Il modello descrive lo shopping compulsivo come un circolo vizioso, in cui la fase finale, dove si sperimentano gli aspetti negativi dell’acquisto ed emerge lo schema disfunzionale che ha dato origine all’acquisto stesso “Sono sgradevole ed indesiderato”, pone le basi per i trigger emotivi e psicologici per l’inizio di un nuovo circolo, mantenendo così il disturbo. Lo shopping compulsivo può quindi auto-rinforzarsi nel corso del tempo.

La principale implicazione per il trattamento di questo disturbo è rappresentato dal fatto che lo shopping compulsivo potrebbe essere ri-concettualizzato come un fallimento cronico e ripetitivo nell’auto-regolazione, e quindi gli interventi psicologici possono regolare questo aspetto nel tentativo di favorire il cambiamento.

Scritto da: Francesca Soresi
Dal Sito: www.stateofmind.it

SENSI DI COLPA? HO SMESSO


Sensi di colpa? Ho smesso. Avete fatto qualcosa di sbagliato e vi sentite malissimo. Ora questo stato d’animo non passa e può arrivare a farvi sentire “cattivi”. Nessuno ci insegna come gestire una tale malessere. Di certo non abbiamo ricevuto lezioni del genere a scuola. Ma c’è un esperto che può aiutarci a trovare delle risposte.

David Burns è un professore di psichiatria presso la Stanford University Medical School e autore del libro Feeling Good: The New Mood Therapy (Sentirsi bene: la nuova terapia dell’umore). Già dal titolo, il libro sembra essere un manuale di auto-aiuto. La cosa interessante è che il dottor Burns, ha condotto uno studio per verificarne l’efficacia. I risultati dello studio indicano che “Sentirsi bene:la nuova terapia dell’umore” ha un notevole effetto antidepressivo. Al termine di 4 settimane di biblioterapia, il 70% dei soggetti appartenenti al gruppo, non rispondeva più alla diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore secondo DSM (Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali). In effetti i risultati furono così buoni che la maggior parte dei pazienti non si sono sottoposti a ulteriori forma di trattamento presso l’istituto.

Wow, allora questo lavoro può essere utile. Ora, cerchiamo di capire come mai ci sentiamo in colpa, come funziona e come superarlo per riuscire a vivere più serenamente.

PERCHE’ CI SENTIAMO IN COLPA?

Come sapete, sentirsi intrappolati nei sensi di colpa è disarmante. Come mai ci sentiamo così? La cosa più strana è che le neuroscienze ci hanno mostrato che il cervello ci premia quando ci sentiamo in colpa. A dispetto delle differenze, orgoglio, vergogna e colpa attivano tutte gli stessi circuiti neuronali, coinvolgendo la corteccia prefrontale dorsomediale, l’amigdala, l’insula e il nucleo accumbens. L’orgoglio è la più potente nello stimolare l’attività di queste regioni – a eccezione del nucleo accumbens dove la colpa e la vergogna hanno la meglio. Da un certo punto di vista questo spiega come mai possa essere così “invitante” accumulare colpa e vergogna dentro di noi – attivano il circuito “premiante” del cervello. Il senso di colpa ha una funzione sociale potente in termini di controllo del nostro comportamento.

Le ricerche pubblicate sulla Harvard Business Review mostrano che le persone propense al senso di colpa lavorano più duro e vengono viste come buoni leader. Le persone portate al senso di colpa tendono a lavorare più duramente e meglio rispetto a quelle che non lo sono, e vengono percepite come leader capaci. Infatti chi si sente spesso in colpa risulta essere amico, amante e impiegato migliore:

…le persone propense al senso di colpa tendono a essere più comprensive, a mettersi nei panni degli altri, a pensare alle conseguenza del proprio comportamento prima di agire e a rispettare i propri principi morali. Sono quindi meno portate a mentire, spettegolare o ad agire in modo immorale quando fanno affari o hanno l’opportunità di fare soldi. Tendono anche ad essere lavoratori migliori mentre chi si preoccupa meno delle conseguenze future delle proprie azioni, è più probabile che arrivi in ritardo, imbrogli e che sia poco educato con i clienti.

Quindi, ci sono buone ragioni per provare sensi di colpa. Ma è proprio il modo migliore di sentirsi quando facciamo qualcosa di sbagliato? In realtà no.. Gli effetti collaterali del senso di colpa superano di gran lunga i benefici..

GLI EFFETTI COLLATERALI DEL SENSO DI COLPA

Parte del problema sta nel fatto che pensiamo che dovremmo sentirci male se facciamo qualcosa di sbagliato. È un gesto nobile, ma le ricerche dimostrano che non è un buon modo per motivarci ad agire meglio o a sentirci bene nel futuro. Moltissimi studi hanno mostrato che l’auto-critica è fortemente associata con una motivazione minore e un autocontrollo peggiore. È anche uno dei predittori maggiori di depressione che “esaurisce” sia il senso di potere personale, che la volontà e la fiducia in se stessi. Ora, è facile immaginare a cosa stiate pensando: “Senza sensi di colpa.. non continuerei forse a compiere azioni negative al pari di uno psicopatico o un assassino?” Negativo. È il perdono verso se stessi, non il senso di colpa ad accrescere il senso di responsabilità personale.

Le ricerche dimostrano che un punto di vista auto-compassionevole nei confronti del proprio fallimento, aiuta le persone a prendere in maggior considerazione le responsabilità personali rispetto a quando viene assunto un punto di vita auto-critico. È anche più probabile che ricevano feedback e suggerimenti dagli altri, e che apprendano dalla propria esperienza. Ciò che è davvero pericoloso sul senso di colpa è che spesso lo proviamo dopo attività piacevoli (come “gli strappi alla regola” alimentare), per cui con il tempo possiamo facilmente associare la colpa al piacere. Quindi, le cose che ci fanno sentire in colpa vengono alla fine percepite come ancor più premianti. In definitiva, siamo più attratti verso i comportamenti che potrebbero farci sentire in colpa.

Non è perciò il metodo migliore per rimediare ai nostri errori. Per cui, cosa dovremmo fare? La scienza ci fornisce delle risposte.

NON “ENFATIZZARE”

Avete “sgarrato” la dieta. Avete insultato un amico. Male. Nessuno lo mette in discussione. Ma è necessario sentirvi in colpa per settimane o mesi? Un approccio razionale all’infrazione delle regole, ci permette di porre dei limiti. Non finiremo in prigione 30 anni per aver preso una multa. Talvolta ci condanniamo per mesi o anni per molto meno. Quale condanna avete scelto di infliggervi? Pensate che smetterete di soffrire quando avrete espiato la pena? Sarebbe in effetti un metodo responsabile qualora fosse limitato nel tempo. Ma il senso di colpa ci rende spesso irrazionali. Come possiamo sapere se ci stiamo comportando in modo razionale? Come possiamo distinguere il senso di colpa eccessivo dal più salutare rimorso o pentimento? Valutate l’intensità, la durata e le conseguenze delle emozioni negative che provate. Vi sembrano appropriate? Probabilmente no. Forse state esagerando le cose. E più le esagerate, più le cose peggiorano.

Il senso di colpa può impedirvi di porre rimedio alla situazione e farvi sentire talmente male da non riuscire a fare quanto vorreste, portandovi magari a peggiorare la situazione. Siamo in grado di rimediare ai nostri errori nella misura in cui riusciamo a riconoscere di aver sbagliato ma senza compromettere il nostro senso di valore. Questo ci permette di muoverci e trovare una soluzione o una strategia per risolvere il problema. Molto spesso, credere di essere “cattivi” porta a comportarci da “cattivi”.

Cosa fare allora?

PENSARE DI ESSERE PERSONE CATTIVE PUO’ PORTARCI A COMPORTARCI MALE

Quando il senso di colpa ci assale, ci si può sentire corrotti o macchiati indelebilmente. E questa sensazione rende più probabile un cattivo comportamento futuro. Come il professor Dan Ariely spiega, credere di essere persone cattive ci porta sulla cattiva strada. Perché resistere alla tentazione di fare del male quando si crede sia nella nostra natura?

Quello che gli esperimenti ci dicono è che quando ci sentiamo “macchiati”, non c’è motivazione ad agire meglio, e la discesa verso il baratro ha inizio. Se avete interrotto la dieta o ceduto a una tentazione, potreste dirvi “non ho autocontrollo”. È un’affermazione che può spingerci a comporatrci meglio? Beh, no. Il maggiore ostacolo che si presenta quando state cercando di cambiare una cattiva abitudine come quella di mangiare, fumare o bere troppo è credere di non avere autocontrollo. Il problema è che le emozioni come la colpa sono tanto potenti da interferire con la capacità di ragionare efficacemente. Vi sentite cattivi e dunque pensate di esserlo.

Ma questa conclusione deriva da una credenza irrazionale “Per essere una brava persona, devo esserlo sempre”. Ma è anche remotamente possibile? Rifletteteci. Potete predire il futuro con assoluta certezza? Ancora una volta la risposta dovrebbe essere no. Avete due scelte: potete decidere di accettare voi stessi come esseri umani imperfetti, con una conoscenza limitata e la possibilità di compiere sbagli, oppure odiarvi per questo.

Quindi come gestire questa sensazione negativa?

NON SIETE LE VOSTRE AZIONI

Ora, non si intende dire che non siamo responsabili per le nostre azioni. Lo siamo. Ma il nostro valore (e quello altrui) non è definito da una qualsiasi cattiva azione. Quindi.. qual’è la risposta migliore? È l’ auto-accettazione universale, della quale parlò già Albert Ellis. È irrazionale pensare che siamo in grado di valutarci come brave o cattive persone. Non avremo mai informazioni sufficienti. La “cattiva persona” che al lavoro vi tormenta, potrebbe essere un magnifico genitore. Non avremo mai abbastanza informazioni per valutare una persona come completamente “buona o cattiva” Per cui, accetate voi stessi, ma sappiate che alcuni dei vostri comportamenti potranno essere negativi.

Qual’è dunque il punto?

Il senso di colpa non aiuta. E con cosa potremmo sostituirlo? Col rimorso. Il rimorso si avverte quando ci si pente di quello che abbiamo fatto ovvero del nostro comportamento. La colpa arriva quando ci sentiamo male a proposito di noi stessi ovvero del nostro valore personale.

Qual è dunque il modo di fare ammenda per i propri errori e sentirsi meglio?

COME SENTIRSI MEGLIO

Avete dunque compreso di non essere persone cattive. Ma avete compiuto una “cattiva azione”.

Molte persone credono che si sentirebbero meno in colpa se avessero un’autostima migliore. Sbagliato. Non avete bisogno di un’autostima migliore ma di più compassione verso voi stessi. Perdonare voi stessi e mostrare auto-compassione vi aiuterà ad aumentare la vostra autostima senza rendervi narcisisti.

Secondo le scienze, l’autocompassione sembra offrire gli stessi vantaggi dell’elevata autostima. Quindi autostima e autocompassione viaggiano di pari passo. Se siete autocompassionevoli, tenderete ad avere una maggiore autostima. E come l’autostima, l’autocompassione è associata con minore ansia e depressione, come anche a maggiore ottimismo e più emozioni positive. In secondo luogo vorrete scusarvi se avete ferito qualcuno. Chiedere scusa fa la differenza. Che ci creiate o no, le ricerche dimostrano che le persone preferiscono le scuse al denaro. Qual’è la cosa più importante da ricordare quando si chiede scusa? Non chiedete perdono per quello che credete di aver sbagliato, ma per come l’altro si è sentito ferito. E c’è un ultimo passo da fare. Chiedetevi: “Cosa posso imparare da tutto questo?” Sto imparando dai miei errori a sviluppare delle strategie per cambiare, oppure sto ruminando inutilmente o punendomi in modo distruttivo? Il rimorso ha uno scopo. Quello di comunicarci che dobbiamo rimediare a un errore. Per cui facciamolo, e ci sentiremo meglio.

Quindi, riassumendo, ecco i passi per smettere di provare tanti :
NON ENFATIZZARE: chiedetevi se la punizione che vi siete inflitti risolva il problema. Probabilmente no.
NON SIETE LE VOSTRE AZIONI: siete responsabili per le vostre azioni, ma non vi rendono per forza delle cattive persone.
COMPASSIONE VERSO SE STESSI: essere comprensivi verso voi stessi vi aiuterà a fare scelte migliori in futuro. Al contrario il disprezzo porta di solito a peggiorare il proprio comportamento.
CHIEDERE SCUSA: chiedete scusa per ciò di cui le persone si sentono ferite, non per quello che voi credete sia il problema.
“COSA HO IMPARATO DA TUTTO QUESTO?”: torturarvi non vi rende migliori. Solo imparando potrete esserlo.

FONTE: Time.com

Dal Sito: psicofisico.wordpress.com

La vita è adesso: vivere “qui ed ora”


Un proverbio arabo cita: “Il passato è fuggito, quello che speri è assente, ma il presente è il tuo”.
Parliamo del “qui ed ora”, della capacità di vivere l’oggi con costanza e presenza, un concetto apparentemente banale eppure tutt’altro che semplice da trasferire nella vita reale.
Il passato non torna e come tale, non può essere modificato, il futuro, per quanto pianificabile, non lo si può controllare, mentre il presente, è l’unico tempo che realmente ci appartiene Il presente rappresenta la sola dimensione temporale con cui effettivamente possiamo fare i conti, l’unica che possa essere vissuta pienamente e con consapevolezza, cercando di assaporarne ogni istante. Tutto questo sembra essere scontato, eppure moltissime persone vivono costantemente ancorate al passato, crogiolandosi in ciò che sono state in grado di raggiungere o facendosi sovrastare dai loro rimpianti; altri invece sono orientati al futuro, facendo mille previsioni su cosa proveranno e faranno nel momento in cui riusciranno a realizzare i loro sogni o, al contrario, su come superare la paura del domani.
I ritmi frenetici della quotidianità, la routine, i mille impegni ed obiettivi da portare a termine ogni giorno, non solo sono una fonte inesauribile di stress ma soprattutto ci distraggono dal presente e dalla possibilità di godere della magia delle piccole cose, una magia che spesso non siamo in grado di vedere.

La nostra è l’era della distrazione, in cui non c’è spazio per la calma ed il silenzio, in cui il tempo scorre talmente veloce da renderci spesso inconsapevoli delle nostre azioni.

Siamo affetti da quella che viene chiamata “sindrome del pilota automatico”: viviamo le nostre giornate facendo la maggior parte delle cose in maniera meccanica, mentalmente assenti; è appunto la scarsa consapevolezza con cui ci approcciamo alla vita, che spesso ci predispone allo sviluppo di problemi di ansia, stress o comportamenti nocivi per il nostro benessere.

Alcune difficoltà che si possono riscontrare nella quotidianità sono spesso dovute alla “non abitudine a vivere il presente”: chi soffre d’ansia, ad esempio, tende a proiettarsi nel futuro, prospettando eventi catastrofici, lasciandosi sfuggire, in tal modo, la possibilità di sfruttare le risorse e le potenzialità insite nella propria quotidianità. Chi invece è bloccato dalle sue paure, probabilmente è ancora legato al suo passato: il timore di commettere errori già fatti o di soffrire nuovamente, gli impedisce di cogliere la bellezza del momento presente e le opportunità che possono presentarsi lungo il suo cammino.
Un altro grande ostacolo alla possibilità di vivere “adesso” è la nostra tendenza a “rimuginare”: preoccuparci per ciò che non è ancora accaduto e che forse non accadrà o pensare continuamente ad eventi già trascorsi, positivi o negativi che siano, ci fa commettere un errore gravissimo, quello di pensare che ciò che accade oggi possa essere affrontato guardando al passato o prevedendo il futuro. Siamo spesso portati a credere che ciò che eravamo, siamo e saremo, che se le cose sono andate in un certo modo in passato, allora sarà così anche nel presente e nel futuro. Nulla di più sbagliato!
È normalissimo pensare al proprio “ieri” o immaginare il proprio “domani”, a patto che questa attività rappresenti una piccola parentesi della nostra vita, non la parte principale.

Il concetto del “qui ed ora” deriva dalla locuzione latina “Hic et nunc”, un motto che riprende il “carpe diem” di Orazio. Esso sta ad indicare una posizione esistenziale, ovvero, un atteggiamento nel vivere rivolto alla situazione presente. Significa considerare che l’unica realtà concreta a cui possiamo riferirci è quella che stiamo vivendo in questo momento. Attenzione! Vivere nel qui ed ora non equivale al “vivere alla giornata”, ovvero senza alcuna pianificazione o impegno, né vuol dire lasciare che tutto scorra senza intervenire in alcun modo sul corso degli eventi. Vivere nel qui ed ora significa concentrarsi sul presente lasciando andare i sentimenti negativi, i pensieri spiacevoli, le ansie e la paura di non riuscire.
Il “qui ed ora” è un concetto chiave della Psicoterapia della Gestalt, approccio nato negli anni ‘50 dalle intuizioni dello psicanalista ebreo tedesco Friedrich Perls. Secondo tale orientamento, l’esperienza svolta nel presente, se guidata dalla consapevolezza, è l’unica che può favorire il cambiamento, ovvero il passaggio ad uno stadio psicologico più salutare, l’unica che può portare l’individuo all’autorealizzazione.
Il passato e il futuro, in realtà, esistono solo come funzioni del presente: il primo, rivive nel presente attraverso i ricordi dell’individuo, il secondo, non ancora accaduto, esiste solamente sotto forma di ipotesi fatte nel presente. Immaginiamo di rappresentare il tempo su una linea retta, dove il presente è una variabile che si può muovere verso sinistra (il passato), attuando la funzione del ricordare, oppure verso destra (il futuro) attuando la funzione del programmare. Il presente è il punto-zero, sempre mutevole tra i due opposti, “passato” e “futuro”. Il passato vive in noi come memoria e questo è un bene, poiché è grazie alla memoria che evitiamo di ripetere errori già commessi; il problema è quando la memoria e i ricordi diventano un peso, prendendo il sopravvento sulla nostra persona e sulla nostra vita. Allo stesso modo, chi si focalizza unicamente sul futuro (“Solo quando troverò la mia anima gemella, sarò veramente felice!”, ecc.), viene rapito dal suo quotidiano, vivendo una tensione continua che lo porta a disperdere inutilmente tutte le sue energie. Diverso è guardare al domani con un senso di progettualità, vivendo il presente con le idee ben chiare.
Perché è così difficile vivere nel “qui ed ora”?

Perché essere nel “qui ed ora” porta con sé un profondo senso di incertezza che deriva dall’abbandonare le costruzioni del passato e le pianificazioni del futuro. Obbliga in qualche modo a lasciarsi andare al continuo flusso di trasformazione della vita. Possiamo frequentemente constatare che ogni istante che viviamo è differente dal precedente e che il manifestarsi di circostanze diverse richiede di volta in volta di riferirci a qualcosa di nuovo. Nonostante ciò, l’individuo tende a rispondere alla maggior parte delle situazioni che gli si presentano, in maniera stereotipata, ricorrendo a modelli appresi in passato e rivelatisi funzionali.
La nostra mente, pur essendo uno degli strumenti più sofisticati di cui disponiamo, spesso ci impedisce di andare oltre, di svincolarci da vecchi schemi mentali o dalle angosce sul futuro, per poter esprimere le nostre potenzialità “ora” e per provare il piacere di “essere liberi”proprio in questo istante. Per riuscire ad essere completamente presenti nel “qui ed ora”, è quindi necessario comprendere che la mente è uno strumento al nostro servizio e come tale può essere domata e controllata.

Alcune indicazioni per beneficiare del momento presente:
Impara a fermarti: il primo passo da compiere è riconoscere quando è il momento di concedersi una pausa. Fermarsi vuol dire rendersi conto che ci stiamo muovendo automaticamente e che è necessario aspettare che la nostra attenzione e la nostra respirazione tornino a focalizzarsi sul presente, su ciò che stiamo facendo in quel preciso momento; in questo modo, potremmo tornare ad apprezzare quei dettagli che, essendo parte della nostra quotidianità, tendiamo a dare per scontati. Non solo, prestare nuovamente attenzione a ciò che ci circonda ed apprezzare quanto possediamo, ci permetterà di essere più consapevoli del nostro grado di benessere.
Pratica la presenza: cosa vuol dire? E’ tutta una questione di esercizio: bisogna abituarsi ad essere coscienti di ciò che si fa, a vivere l’adesso, a spegnere la mente, sganciarsi da altre dimensioni temporali che non corrispondano al presente, per focalizzarsi solo ed unicamente su un’azione specifica, allargando la percezione dei propri sensi. In questo modo, anche dei semplici gesti quotidiani, se compiuti con presenza, possono diventare momenti preziosi.
Pratica la Consapevolezza: la consapevolezza è il principale strumento di cambiamento personale. Avere consapevolezza di sé, vuol dire sapersi ascoltare, identificare le proprie sensazioni e percezioni, anche corporee, per conoscersi e comprendersi a fondo. Praticando la consapevolezza si impara a “stare con quello che c’è”, quindi, anche con le proprie paure e i propri blocchi, producendo un più veloce processo di cambiamento. L’infelicità non è altro che uno stato di inconsapevolezza: siamo infelici perché non siamo consapevoli di ciò che facciamo, pensiamo e sentiamo: ci muoviamo in una direzione, mentre il nostro pensiero e il nostro sentire, spesso, prendono rotte opposte. Questo movimento così conflittuale non è salutare e non di rado è all’origine di disturbi a livello fisico o psicologico.
Impara a meditare: negli ultimi anni si è molto diffusa la Mindfulness, ovvero la meditazione basata sulla consapevolezza. Tale pratica consiste nel mantenere la nostra attenzione momento per momento, imparando, attraverso un allenamento costante, ad essere coscienti di alcuni aspetti della nostra vita (camminare, mangiare, osservare l’ambiente che ci circonda) a cui spesso non diamo il giusto peso, a vedere ed accettare alcune cose per come sono, cambiando, in tal modo, il nostro atteggiamento verso i problemi, le diverse situazioni e noi stessi. La meditazione come pratica quotidiana può essere utile non solo per godersi maggiormente il presente, ma anche per acquisire il potere di dirigere il flusso dei propri pensieri.
Presta attenzione al tuo respiro: respirare è il gesto più naturale e potente che compiamo ogni giorno ed è una delle poche funzioni corporee su cui possiamo agire consapevolmente. La maggior parte delle persone respira in maniera superficiale, riempiendo i polmoni solo in parte (scarsa ossigenazione e scarsa concentrazione): riappropriarsi di un corretto metodo di respirazione (es. la respirazione diaframmatica), ovvero di una respirazione consapevole, è fondamentale ai fini di una buona connessione con il presente e di un miglioramento della qualità della propria vita.
Sii padrone dei tuoi pensieri: è importantissimo saper accogliere i propri pensieri, ma quando disfunzionali, ovvero, quando essi arrivano a boicottarci, impedendoci di maturare e di crescere, diventa essenziale intervenire per modificarli. I pensieri, seppur radicati, sono un prodotto della nostra mente e, come tali, possono essere controllati.

Prestare attenzione, in maniera cosciente, al presente, apporta una serie di benefici, sia a livello fisico, che psicologico. Vediamone alcuni:
• migliora le relazioni e l’umore;
• riduce lo stress, rafforza il sistema immunitario ed abbassa la pressione sanguigna;
• incrementa l’autostima;
• favorisce la concentrazione e la memoria;
• ottimizza le performance, specie in situazioni d’emergenza;
• facilita il processo decisionale,
• consente di sfruttare al massimo le risorse di cui si dispone, per trasformare gli eventi negativi in opportunità.

Lungi dall’essere un atto di deresponsabilizzazione o passività rispetto al futuro, scegliere di vivere il presente, ci da l’opportunità di essere più consapevoli di noi, delle nostre relazioni e di ciò che ci circonda, restituendoci il potere di agire in maniera feconda ed efficace.
In fondo … “Ci sono solo due giorni all’anno in cui non puoi fare niente: uno si chiama ieri, l’altro si chiama domani, perciò oggi è il giorno giusto per amare, credere, fare e, principalmente, vivere”. (Dalai Lama)

Pubblicato da: Sara Belli

Dal Sito: www.benessere4u.it

venerdì 21 aprile 2017

"L'anima"





L'anima è qualcosa d'invisibile, impalpabile, possiamo sceglierle un nome, un colore, un profumo.
Gioia e dolore. 
L'anima quando piange non fa rumore.
L'anima è un abisso, più immensa del mare, del cielo.
Sta a noi amarla, proteggerla, curarla.
La speranza è, che un giorno ci renderemo conto che l'anima lega tutto, mente e corpo.
La nostra anima si nutre in silenzio, luce, speranza, amore, soffre in silenzio e nessuno mai potrà vederla soffrire.
Non restiamo sordi al dolore della nostra anima, solo noi saremo in grado di proteggerla.

Vincere la paura della paura



Chi di noi non conosce la paura?

È un’emozione che abbiamo certamente sperimentato nelle sue varie sfaccettature e in relazione a diversi eventi o cose.

Ogni individuo ha il proprio tallone d’Achille, la propria paura. Qualunque essa sia, non è mai troppo tardi per iniziare a cambiare l’atteggiamento che abbiamo nei suoi confronti. La paura è un allarme che scatta di fronte a rischi dai quali fuggire o difendersi, oppure davanti a ciò che ci sembra a prima vista estraneo, sconosciuto. Nella maggior parte dei casi però, è la paura della paura quella che ci condiziona maggiormente, ossia il timore di poter rivivere una minaccia che in passato ha minato la nostra sicurezza, reale o simbolica che sia. Pensiamo per esempio agli attacchi di panico. Esiste un primo episodio che determina tutta una serie di disturbi psicofisici, di intensità più o meno elevata. Tutti gli altri episodi che si susseguono nel tempo, sono semplicemente il timore, e quindi la paura, di rivivere le stesse medesime sensazioni drammatiche e di sperimentare lo stesso malessere che il primo attacco di panico ha provocato. Per l’appunto la paura (della prima) paura.

Dal punto di vista psichico, anche la paura si manifesta attraverso una sensazione di allarme, di forte ansia, anche se è soprattutto il corpo che reagisce nella maniera più intensa: tachicardia, respiro corto e spezzato, senso di debolezza, o nei caso estremi, brividi, tremori, scariche di diarrea, fin quasi a raggiungere la perdita dei sensi.

Le modificazioni corporee che si attivano hanno lo scopo di predisporre l’organismo a scappare o difendersi attaccando. Questo meccanismo “attacco-fuga” è una reazione innata e istintiva che si attiva di fronte a ciò che consideriamo minaccioso.

Quali paure?

Le paure possono essere infinite, per quanto infiniti possono essere gli oggetti o le situazioni che ci troviamo ad affrontare nella vita di tutti i giorni. La stessa cosa che fa star bene una persona, può allo stesso tempo terrorizzarne un’altra: dal timore di un oggetto, anche di per sé non pericoloso (es. il sangue, i ragni) al timore di una situazione concreta (es. gli spazi chiusi, gli spazi aperti, le malattie, guidare l’automobile). Pensiamo per esempio alla paura del futuro. Si tratta di una paura indefinita e impalpabile. Potremmo spiegarla come la paura della perdita delle certezze, del senso di sicurezza, di vedere la nostra vita e le nostre abitudini, che con tanta fatica abbiamo fondato, sconvolte da un evento che non è possibile prevedere, come un terremoto, e che ci lascia senza più nulla di quello che prima ci dava invece protezione e sicurezza.

La paura è perciò un sentimento del tutto soggettivo, che nasce profondamente dentro di noi, dal nostro modo di affrontare la vita e di attribuire significati a ciò che ci circonda. In un certo senso è come se “ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli”.

La paura ha un senso

Se per un momento riuscissimo a liberare il campo dai pregiudizi e osservare la paura da un punto di vista nuovo, si aprirebbe davanti a noi uno scenario denso di significati. Dietro ad una nostra paura, per quanto inoffensiva o incontenibile sia, si nasconde una sua ragione d’essere: la paura svolge una precisa funzione che affonda le sue origini nella storia personale di ognuno di noi, o meglio ancora nel suo inconscio.

Allo stesso tempo però, possiamo azzardarci a dire che la paura è una nostra alleata, nel senso che serve a mantenerci stabili, ossia a mantenerci in una situazione d’equilibrio psicofisico che in quel preciso momento è la migliore che possiamo consentirci.

La paura è quindi un’amica fidata che ci segnala pericoli e ci protegge da situazioni rischiose.

A questo punto sarebbe utile chiederci: ma come si fa a vincere una paura? O meglio a vincere la paura della paura?

Vincere una paura non vuol dire cancellarla ignorandola e neppure arrendersi impotenti ad essa. Anche assumere atteggiamenti del tipo “dichiarazione di guerra” non portano a nessun risultato. Piuttosto è certamente vantaggioso disporsi con uno stato d’animo aperto ed incontrare la paura sul suo stesso terreno, avvicinandola e guardandola con meno diffidenza e più interesse e curiosità.

Comprendere e trasformare la paura

Se desideriamo veramente superare una paura, qualsiasi essa sia, dobbiamo inevitabilmente accoglierla come si farebbe con un ospite fastidioso ma necessario. L’accettazione è il primo passo. Questo vuol dire ammettere intanto di avere una paura, ma anche cercare di comprenderla, che non significa cercare di capirla con la mente, ossia razionalmente. Comprendere vuol dire prenderla dentro di noi, dando alla paura la possibilità di esserci, di esistere. Sento quella paura e le faccio spazio dentro di me, così da consentirle di svolgere la sua funzione, ma allo stesso tempo la conosco per capire meglio chi sono io, perché la paura rivela aspetti di noi di cui spesso non siamo consapevoli.

La paura, è vero che ci protegge da esperienze, anche se piacevoli, che minacciano un equilibrio che non siamo ancora pronti a lasciar andare, ma allo stesso tempo erige intorno a noi un muro invisibile: più grande e invasiva è la paura, più alto è il muro e angusto lo spazio interno che comunica con il mondo esterno. Insomma una prigione. Con l’aiuto di un percorso psicoterapeutico è possibile trasformare questa prigione in uno spazio di lavoro alchemico, un luogo protetto nel quale, ognuno con i suoi tempi, può costruire o rinforzare quegli aspetti fragili, vulnerabili di sé, aspetti che non sono ancora pronti a relazionarsi e confrontarsi con il mondo. In questo modo la paura diventa un potenziale strumento di crescita e d’evoluzione per ogni individuo che intende mettersi in gioco e trasformare aspetti disarmonici di sé.

Quando vinciamo una paura, significa che ci siamo aperti a una nuova consapevolezza, che abbiamo fatto nostri quegli aspetti di noi stessi e della vita che non accettavamo, anzi che disdegnavamo con tanta energia.

Scritto da CRISTIANA MILLA

Dal Sito: www.quipsicologia.it

Autostima: cos'è e come si struttura la stima di Sé


L'autostima è l' insieme dei giudizi valutativi che l'individuo dà di se stesso. Essa può essere costruita giorno dopo giorno attraverso strategie cognitive.

Definizione di Autostima



Definire il costrutto di autostima non è semplice, in quanto si tratta di un concetto che ha un’ampia storia di elaborazioni teoriche. Una definizione concisa e condivisa in letteratura potrebbe essere la seguente:

Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso (Battistelli, 1994).

Tre elementi fondamentali ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima (Bascelli, 2008):

La presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto-osservarsi e quindi di auto-conoscersi.
L’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di se stessi.
L’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi.

La costruzione cognitiva dell’autostima

L’autostima è un paradigma che può essere costruito giorno dopo giorno attraverso strategie cognitive.

Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James (cit. in Bascelli e all, 2008), il quale la concepisce come il risultato scaturente dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi.

Alcuni anni dopo Cooley e Mead definiscono l’autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

Infatti l’autostima di una persona non scaturisce esclusivamente da fattori interiori individuali, ma hanno una certa influenza anche i cosiddetti confronti che l’individuo fa, consapevolmente o no, con l’ambiente in cui vive. A costituire il processo diformazione dell’autostima vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.

Il sé reale non è altro che una visione oggettiva delle proprie abilità; detto in termini più semplici corrisponde a ciò che noi realmente siamo.

Il sé ideale corrisponde a come l’individuo vorrebbe essere. L’autostima scaturisce per cui dai risultati delle nostre esperienze confrontati con le aspettative ideali. Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di noi stessi.

La presenza di un sé ideale può essere uno stimolo alla crescita, in quanto induce a formulare degli obiettivi da raggiungere, ma può generare insoddisfazioni ed altre emozioni negative se lo si avverte molto distante da quello reale. Per ridurre questa discrepanza l’individuo può ridimensionare le proprie aspirazioni, e in tal modo avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

Possedere un’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra il sé reale e il sé ideale. Significa saper riconoscere in maniera realistica di avere sia pregi che difetti, impegnarsi per migliorare le proprie debolezze, apprezzando i propri punti di forza. Tutto ciò enfatizza una maggiore apertura all’ambiente, una maggiore autonomia e una maggiore fiducia nelle proprie capacità.

Le persone con un’alta autostima dimostrano una maggiore perseveranza nel riuscire in un’attività che le appassiona o nel raggiungere un obiettivo a cui tengono e sono invece meno determinate in un ambito in cui hanno investito poco. Si tratta di persone più propense a relativizzare un insuccesso e ad impegnasi in nuove imprese che le aiutano a dimenticare.

Al contrario, una bassa autostima può condurre ad una ridotta partecipazione e a uno scarso entusiasmo, che si concretizzano in situazioni di demotivazione in cui predominano disimpegno e disinteresse. Vengono riconosciute esclusivamente le proprie debolezze, mentre vengono trascurati i propri punti di forza. Spesso si tende a evadere anche dalle situazioni più banali per timore di un rifiuto da parte degli altri. Si è più vulnerabili e meno autonomi. Le persone con una bassa autostima si arrendono molto più facilmente quando si tratta di raggiungere un obiettivo, soprattutto se incontrano qualche difficoltà o sentono un parere contrario a ciò che pensano.

Si tratta di persone che faticano ad abbandonare i sentimenti di delusione e di amarezza connessi allo sperimentare un insuccesso. Inoltre, di fronte alle critiche, sono molto sensibili all’intensità e alla durata del disagio provocato.

Ma cosa concorre a far sì che un individuo si valuti positivamente o negativamente? Ebbene ci si autovaluta in merito a tre processi fondamentali:

Assegnazione di giudizi da parte altrui, sia direttamente che indirettamente. Si tratta del cosiddetto ‘specchio sociale‘: mediante le opinioni comunicate da altri significativi noi ci autodefiniamo.
Confronto sociale: ovvero la persona si valuta confrontandosi con chi lo circonda e da questo confronto ne scaturisce una valutazione.
Processo di autosservazione: la persona può valutarsi anche autosservandosi e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri. Kelly (1955), il padre della Psicologia dei Costrutti Personali, ad esempio considera ogni persona uno ‘scienziato’ che osserva, interpreta (i.e: attribuisce significati alle proprie esperienze) e predice ogni comportamento od evento, costruendo, tra l’altro, una teoria di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.
Autostima e ideali

In pratica l’assunto centrale della teoria è che la gente si muove attraverso ideali e mete e monitora il proprio percorso verso di esse, confrontando continuamente la percezione del proprio comportamento rispetto agli standard di riferimento. Quando l’individuo percepisce una discrepanza tra il proprio stato attuale e la meta cerca delle strategie comportamentali per ridurre tale discrepanza.

Le persone si muovono attraverso molteplici piani ideali, alcuni sono legati alle abitudini concrete (“ideale di andare in palestra due volte la settimana”), altri sono legati a ideali più astratti da realizzare (“diventare una persona sportiva e dinamica”). In generale la percezione di una distanza tra come siamo e come vorremmo essere genera emozioni negative di tristezza, tale per cui siamo portati in qualche modo a minimizzare tale differenza percepita. Esistono però due tipi di idealistudiati: gli ideali propriamente intesi, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui tendere e a cui riferirsi, e gli ideali negativi (sé temuti) ovvero situazioni, persone (reali o simboliche), mete e circostanze da cui le persone cercano di distanziarsi e di tenere lontane perché giudicano negativamente.

In generale il senso comune e la letteratura ipotizzano un ruolo negativo degli ideali sull’autostima, specie se essi sono troppo ambiziosi e irraggiungibili (Marsh, 1993).

In generale si può dire che nonostante il chiaro valore che l’autoregolazione verso le mete ha per la società, poiché spinge l’individuo a migliorarsi e a tendere verso nuovi obiettivi, la rincorsa verso gli ideali ha dei costi individuali in termini di risorse mentali e senso del proprio valore.

Le distorsioni cognitive

Talvolta le autoanalisi che contribuiscono definire l’autostima di una persona sono falsate dalle sue distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé.

Sacco e Beck (1985) indicano una serie di distorsioni cognitive, che sono:

Le inferenze cognitive, attraverso le quali gli individui maturano delle idee arbitrarie su se stessi senza l’avallo di dati reali e obiettivi;
Le astrazioni selettive, per mezzo delle quali un piccolo particolare negativo viene estrapolato, divenendo emblematico e rappresentativo del proprio modo di essere;
Le sovrageneralizzazioni, per cui si è portati a generalizzare partendo, per esempio, da un singolo tratto di personalità che contraddistingue un individuo o da un singolo episodio esperienziale che lo ha visto protagonista;
La massimizzazione, che consente di implementare gli effetti negativi di una singola azione svolta;
La minimizzazione, la quale permette di rimpicciolire la portata positiva di qualche evento;
La personalizzazione, che autorizza a sentirsi colpevole per qualche evento negativo accaduto;
Il pensiero dicotomico, che non ammette sfumature nell’ambito delle assunzioni di responsabilità, riconducendo l’analisi ai costrutti del tutto e niente (visione in bianco e nero).Autostima ed attribuzioni causali

Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali. Detto in termini più semplici le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa. Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.

Weiner, nel 1994, ha affermato che le attribuzioni possono essere distinte in base a tre dimensioni:

Locus of control: ossia se la causa di un successo (o di un fallimento) è interna o esterna alla persona;
Stabilità: per cui le cause possono essere stabili o instabili nel tempo (per esempio la facilità del compito è stabile, al contrario la fortuna è instabile);
Controllabilità: non tutte le cause possono essere controllate dal soggetto;Pare che l’attribuzione a cause stabili, controllabili e interne all’individuo abbia, in caso di raggiungimento di un successo, un innalzamento dell’autostima nell’individuo.

Di contro l’attribuzione a cause esterne a sé, instabili e poco controllabili portano ad un calo dell’autostima e della fiducia in se stessi.

Bassa autostima: le strategie per incrementarla

Secondo Toro (2010), per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, quali:
l’incremento delle capacità di problem solving, poichè spesso l’autostima è funzione delle proprie capacità di risolvere i problemi.
l’implementazione del dialogo interno (self – talk) positivo; l’autostima, infatti, può essere incrementata attraverso il dialogo positivo con se stessi, utilizzando la propria voce interiore. In altre parole, se noi per primi inviamo dei messaggi positivi alla nostra mente, è molto probabile che le autopercezioni possano migliorare.
la ristrutturazione dello stile attribuzionale, tesa a farci raggiungere una maggiore obiettività, grazie alla quale potremmo, ad esempio, interpretare gli avvenimenti o le situazioni che non dipendono da noi come semplicemente sfavorevoli.
il miglioramento dell’autocontrollo;
la modificazione degli standard cognitivi; ponendoci aspettative eccessivamente elevate, infatti, corriamo il rischio di non essere all’altezza di quelle attese e, quindi, di influenzare l’autopercezione.
il potenziamento delle abilità comunicative.

Autostima ed immagine corporea

Secondo lo psicoterapeuta Luca Saita, sarebbero tre i meccanismi che interferirebbero negativamente con la creazione dell’immagine corporea, ovvero:
attacco diretto o indiretto
proiezione
etichettamento

Nel primo caso la persona subisce un attacco, diretto o non, al proprio corpo (‘Oggi hai davvero un aspetto orribile!’); nel secondo caso qualcuno, in modo inconsapevole, per liberarsi delle proprie caratteristiche fisiche ritenute inaccettabili, le attribuisce a qualcun altro (ad es., la madre che dice alla figlia ‘Non metterti quel vestito, ti ingrassa‘); nell’ultimo caso vengono attribuite delle etichette alla persona (il ‘nasone‘, il ‘roscio‘, ‘gambe storte‘).

Quando una persona viene costantemente sottoposta ad influenze negative di questo genere non c’è da meravigliarsi che impari a vedersi solo ed unicamente attraverso le lenti distorte della disistima. Non bisogna sottovalutare gli effetti di un tale atteggiamento: l’immagine corporea, il modo in cui ci vediamo e ci presentiamo agli altri ha delle ripercussioni molto profonde a livello di sicurezza di sé; in altre parole, il vedersi brutti, il percepirsi inadeguati ha conseguenze che influiscono non solo sul corpo, ma anche sulla mente, sul modo di stare al mondo.

Chiaramente si tratta di un vissuto del tutto personale e soggettivo; esistono, come è possibile osservare nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, persone considerate belle che, però, si vivono come costantemente inadeguate e sono sempre alla ricerca di un qualcosa che manca per sentirsi, finalmente, a proprio agio nel proprio corpo. Al tempo stesso, ci sono persone che, pur avendo dei piccoli difetti, si vogliono bene, vivono il proprio corpo con serenità e trasmettono tale serenità anche all’esterno, in termini di sicurezza di sé.

Per questa ragione diventa importante aiutare la persona che non si accetta e tende ad ingigantire i propri difetti, fino, in alcuni casi, a non riuscire a condurre una vita gratificante, a prendere coscienza delle convinzioni erronee che sono alla base della percezione di sé, in modo da sottoporle ad un vaglio critico, riguadagnando un’immagine positiva.

Per fare ciò l’autore suggerisce alcune strategie, che passano attraverso il contestare le etichette e l’imparare a difendersi dagli attacchi mossi alla propria immagine di sé, anche e soprattutto quando questi attacchi vengono da persone significative.

In ultima analisi, bisogna tenere a mente che la mente è ‘come una lente: la visione di sé stessi e del proprio corpo avviene attraverso questa lente che può modificare, deformare, ampliare o distorcere ciò che osserva‘.

Dobbiamo quindi imparare a conoscere questa lente e i suoi filtri, perché essa influisce non solo sul modo in cui vediamo il nostro corpo, ma sul modo in cui vediamo noi stessi in generale. A sua volta, il modo in cui vediamo noi stessi è a fondamento del nostro modo di porci rispetto all’ambiente, alla nostra vita.

Per questo dobbiamo neutralizzare le visioni distorte che non ci permettono di volerci bene per come siamo; come scrive l’autore tirando le somme:

"Date al vostro cigno una chance e non permettete mai a nessuno di convincervi che siete solo un brutto anatroccolo e che niente potrà cambiarvi."

Autostima e social network

Secondo i risultati di una ricerca americana, l’utilizzo del social network Facebook favorirebbe l’incremento della propria autostima. Lo studio in questione è stato condotto da Hancock e colleghi della Cornell University (New York) ed ha coinvolto 63 studenti della stessa università.

Le condizioni sperimentali erano così strutturate: gli studenti del primo gruppo potevano navigare liberamente su Facebook senza alcun impedimento, quelli del secondo gruppo, invece, rimanevano di fronte al monitor spento. Infine, un terzo gruppo di studenti rimaneva di fronte a degli specchi, collocati davanti ai monitor. Dopo tre minuti, ad ogni partecipante veniva dato un test per valutare la propria autostima. Nel gruppo di controllo, ovvero quello formato dagli studenti che osservavano i computer spenti e da quelli posizionati davanti agli specchi, non si registrava alcun aumento nei livelli di autostima, mentre gli studenti che avevano navigato Facebook riportavano aumenti significativi della stima di sé.

Hancock e colleghi hanno ipotizzato che Facebook mostrerebbe un’immagine positiva di noi stessi, mentre, al contrario, uno specchio ci ricorderebbe chi siamo veramente e per questo potrebbe avere un effetto negativo sulla nostra autostima.

Naturalmente non tutti gli utenti abituali risentono di un incremento dell’autostima, anzi, alcune ricerche hanno suggerito una correlazione tra l’uso intensivo di Facebook e narcisismo e, più in generale, tra l’utilizzo dei social network e altre patologie.

Autostima e bullismo

Pare che la stima attribuita a noi stessi possa avere un sua influenza nei fenomeni di bullismo. Tuttavia, in letteratura, la relazione tra autostima e bullismo, fornisce dati in parte contraddittori.

La maggior parte degli studi sembra concorde nel sostenere che i bambini vittime di bullismosoffrono di scarsa autostima, hanno un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).

I bulli invece appaiono spesso caratterizzati da un’alta autostima. In una importante ricerca sul tema (Salmivalli, 1999) si è indagata l’autostima a 14 e 15 anni e i risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media, combinata a narcisismo e manie di grandezza. Un ulteriore studio ha evidenziato che i bulli sono soggetti popolari, e ciò ha portato i ricercatori a ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima e delle condotte aggressive, in quanto il bullo non avrebbe paura di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di Balsio, 2009).

Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che i bulli percepiscono sé stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di sé stessi.

I dati che supportano l’ipotesi che i bulli hanno una positiva percezione di sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni (Salmivalli, 2001).

In conclusione, le ricerche sono concordi nel sostenere che l’essere vittima di bullismo correla con la bassa autostima, meno chiaro è invece il ruolo che gioca l’autostima nel comportamento antisociale del bullo. Le correlazioni emerse dalle varie ricerche tra autostima e comportamento aggressivo sono poco concordanti.

L’autoefficacia

Con il termine autoefficacia (Bandura, 2000) si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare le strategie che ci consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza. Il concetto di autoefficacia dipende da molte variabili, quali:

l’esito brillante di precedenti situazioni problematiche affrontate;
le esperienze vicarie, date dall’aver visto altri fronteggiare contesti situazionali difficoltosi ed esserne usciti vittoriosi;
le autopersuasioni positive;
lo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative;
la capacità di immaginarsi vincenti in esperienze gravose.

Come si evince da questa lista, anche il concetto di autoefficacia interviene nelle valutazioni che la persona compie su se stessa e che, in ultima analisi, definiscono la sua autostima.

A cura di: Claudio Nuzzo

Dal Sito: www.stateofmind.it




Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/tag/autostima/


Tristezza prolungata e rischio depressione


La tristezza è un sentimento che, come la gioia, la rabbia, la noia, il disprezzo, l'amore, fa parte della nostra vita quotidiana.

Oltretutto, gli eventi tristi non mancano durante l'arco della vita ed anche questi possono contribuire a rendere più malinconica l'esistenza. Ma se questi stati di tristezza si prolungano per settimane o addirittura mesi, allora c'è qualcosa che non va; in questi casi si può addirittura arrivare a parlare di depressione.

Essere depressi non sempre viene considerato nella giusta misura; la maggior parte delle persone, infatti, ritiene che chi è depresso è 'semplicemente' un po' triste e si rifiuta di credere ad una condizione patologica, figurarsi a parlare di psichiatra e psicoterapia o di antidepressivi. Questo anche perché negli ultimi tempi della parola 'depressione' si è abusato molto per designare soltanto un leggero malessere psicologico.

I sintomi e le cause

I primi sintomi a cui fare attenzione sono una perdita di interesse nelle attività quotidiane, soprattutto se in quelle che il soggetto effettuava con particolare piacere, ed un umore infelice che si protraggono per più di due settimane. A questi due sintomi principali, vanno aggiunti anche una difficoltà nella concentrazione, alterazione del sonno, apatia, pensieri ricorrenti di inutilità e propensione al suicidio.

Non c'è una sola causa che scateni la depressione, ma pare accertato che una certa familiarità esista; in pratica, se in famiglia si ha un congiunto con la depressione, gli altri componenti sono più a rischio di soffrire anche loro della stessa malattia. Sotto la lente anche lo stress quotidiano, gli squilibri tra fattori biochimici a livello cerebrale, ma anche più semplicemente le piccole e grandi delusioni della vita: un matrimonio fallito, un licenziamento, la morte di un parente stretto o di una persona ritenuta importante.

Un dramma al femminile

Se prendiamo in considerazione la popolazione femminile e maschile in generale, ci accorgiamo che sono soprattutto le donne a soffrire di depressione, sebbene non siano assenti gli uomini.

Sarà perché sono più vulnerabili nei loro ambienti culturali e sociali, sarà perché parlano con più facilità di problemi legati alla tristezza e al mal di vivere rispetto agli uomini, sarà perché la vita della donna è costellata di scompensi ormonali continui (menarca, sindrome premestruale, mestruazioni, gravidanze, menopausa), fatto sta che la popolazione femminile ha il 50% di rischio in più di soffrire di depressione.

Soprattutto in un periodo così delicato come la menopausa, le donne sono altamente a rischio. Non soltanto i cambiamenti ormonali, ma anche tanti cambiamenti a livello sociale, intimo, antropologico incidono in maniera deleteria sull'umore della donna.

La fine della fertilità, infatti, coincide, secondo molte donne, con la fine del proprio ruolo all'interno della famiglia, con la decadenza del proprio fisico e con l'avviarsi verso la vecchiaia; tutto ciò associato alla crescita e all'indipendenza dei propri figli, alla conseguente impressione di essere messe da parte, alla morte di chi si conosce.

Cosa fare?

Il trattamento della Depressione non può e non deve assolutamente essere basato sul detto 'il tempo cura ogni ferita'; non se ne andrà da sola, a meno che non siate enormemente fortunate. È necessario, nei casi di depressione, affidarsi presto ad uno specialista psicoterapeuta, lasciando da parte vecchi pregiudizi.

Parlare con uno specialista può essere d'aiuto per affrontare il problema che vi affligge in quel determinato momento (adolescenza, Menopausa, morte di un parente, divorzio...) e risolverlo nel migliore dei modi, mandando via così anche la depressione.

Potrebbe essere necessario assumere degli antidepressivi; anche in questo campo i pregiudizi sono tanti, primo fra tutti quello della dipendenza. Il vostro medico specialista saprà sicuramente cosa prescrivervi per migliorare la qualità della vostra vita ed impedirvi di stare male, quindi affidatevi a lui senza timore.

A queste terapie si possono abbinare una sana dieta e soprattutto dell'attività fisica, che migliora l'autostima, fa rilasciare endorfine e stimola la produzione di Serotonina, allontanando lo spettro della depressione.

Dal Sito: www.paginemediche.it

Ipocondria: quando ci si ammala della paura di ammalarsi


L' ipocondriaco non trova mai una risposta adeguata al suo malessere perché non viene mai affrontato il vero problema: il senso di fragilità personale.

L’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale. I pazienti tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia.

Il sapere produce forza, ma anche incertezza. Da quando abbiamo sviluppato una medicina scientifica siamo diventati più consapevoli dei mali che potrebbero affliggerci, nel corpo e nell’anima. A testimonianza di una modernità che è però antica, in occidente siamo diventati ipocondriaci da un paio di millenni: il termine ipocondria risale a Ippocrate che descrisse il ‘Male degli ipocondri‘, un disordine dello stomaco e della mente, che cagionava problemi digestivi, grande melanconia e paura di morire. La congiunzione di stomaco e tristezza non deve sorprendere: i greci credevano che nell’addome fosse situata la sede dei sentimenti e delle passioni umane.

Al giorno d’oggi la diagnosi riconosciuta in modo unanime è quella individuata in un manuale americano adottato universalmente, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Esso definisce l’ipocondria come ‘La preoccupazione legata alla paura oppure alla convinzione di avere una malattia grave basata sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto‘; inoltre ‘la preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriata’, e ‘la durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi’.

Il vero ipocondriaco, insomma, non riconosce la natura psicologica del suo problema e ricerca la soluzione medica della malattia. Dietro il timore di malattia vi è un grande senso di vulnerabilità e debolezza, gestito erroneamente ricercando un’impossibile certezza di perfetta sanità. Il paziente non riesce mai a trovare una risposta adeguata al malessere perché non viene mai affrontato il vero problema della sua ipocondria, che è il senso di fragilità personale.

L’ipocondria è rara nell’infanzia, più frequente nell’adolescenza e nella vecchiaia e la si riscontra in ambedue i sessi, anche se quello femminile sembra esserne maggiormente soggetto. Il decorso tende a prolungarsi, con andamento vario e sembra guarire spontaneamente solo in un decimo dei pazienti.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di dare una spiegazione. Alcuni suggeriscono una predisposizione genetica e l’aver sofferto di malattie gravi durante l’infanzia. Vi sono poi i vantaggi del ruolo di malato, perseguiti però non consapevolmente: aumento dell’attenzione da parte dei familiari ed evitamento delle responsabilità, come ad esempio la mancata frequenza scolastica. Altri studi includono anche gli abusi fisici e sessuali.

Insomma, l’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale, quale può essere un tumore o l’AIDS. I pazienti sono molto attenti ad ogni piccolo cambiamento somatico e tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia. Per tale ragione richiedono così di frequente ripetuti test diagnostici e visite mediche, diventando ospiti abituali di ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’esito favorevole delle indagini non riduce, tuttavia, la preoccupazione e non riesce a rassicurare i pazienti. Gli ipocondriaci, purtroppo, nutrono la ferma convinzione che i medici con cui sono venuti a contatto non siano stati in grado di capire la vera natura del loro problema e quindi di fornirne una soluzione adeguata.

L’ipocondriaco interpreta in modo erroneo segnali fisici innocui, come se fossero l’evidenza di una grave malattia. Si preoccupa sia delle normali funzioni corporee (quali il battito cardiaco, la peristalsi o la sudorazione) che delle alterazioni fisiche di lieve entità (come ad esempio il raffreddore o un colpo di tosse). Sensazioni fisiche vaghe, come il cuore affaticato o le vene dolenti vengono sospettate di essere segni di malattia che devono essere indagati e, preoccupandosi per i quali, chi soffre di ipocondria mette in atto i comportamenti prima descritti.

I segnali fisici mal interpretati e la costante attenzione al proprio corpo non sono però l’unico punto di partenza dell’allarme del soggetto con ipocondria. Possono esserlo anche le notizie di malattia apprese dai mezzi di comunicazione con un certo impatto emotivo, come la notizia di epidemie o anche la semplice divulgazione scientifica. Parimenti il venire a conoscenza di patologie che hanno colpito amici o parenti può innescare la preoccupazione per un organo specifico o per una data malattia.

Che il paziente pensi, partendo da dati corporei futili, di avere una grave malattia, conferma il ruolo dei fattori cognitivi nelle sofferenze dell’anima. Lungi dall’essere inconscia, la convinzione di avere o stare per sviluppare una grave patologia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori è perfettamente consapevole e presente alla mente del paziente con ipocondria. Gli errori mentali più frequenti sono che i cambiamenti del corpo sono sempre segno di grave malattia; che ogni sintomo deve potersi ricondurre ad una causa specifica e perciò riconoscibile; poi che quando c’è qualcosa di poco chiaro, occorre fare subito un controllo medico; e infine che se non ci si preoccupa per la propria salute, ci si può ammalare. Inoltre la convinzione che tenere sempre presente di continuo i pericoli è un modo per prevenirli fa sì che l’ipocondriaco non si possa mai permettere di abbassare la guardia e distrarsi.

Sicuramente i tratta di un disagio della modernità e della tensione contemporanea al benessere assoluto e certo. Tuttavia, il termine era già presente nella Grecia classica, civiltà già segnata dall’ambizione tecnica di controllare la realtà. Tutto sta nel mettersi d’accordo sul significato del termine modernità. L’ipocondria ci dice che la modernità è antica, più di quanto possiamo sospettare.

Scritto da: Giovanni Maria Ruggiero

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/02/ipocondria-paura-societa/