venerdì 26 gennaio 2018

Cos’è la Mindfulness



Il termine Mindfulness è la traduzione in inglese della parola “Sati” in lingua Pali, che significa “attenzione consapevole” o “attenzione nuda”.

L’idiogramma cinese per “mindfulness” è “nian” (念) che è la combinazione di due caratteri diversi, ognuno dei quali ha il suo significato. La parte superiore dell’idiogramma significa “adesso”, mentre la parte inferiore significa “cuore” o “mente”. Letteralmente l’idiogramma completo indica l’atto di vivere il momento presente con il cuore.

Secondo la definizione di Jon Kabat-Zinn, Mindfulness significa “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante” (1994, p. 63).

Si tratta cioè di dirigere volontariamente la propria attenzione a quello che accade nel proprio corpo e intorno a sé, momento per momento, ascoltando più accuratamente la propria esperienza, e osservandola per quello che è, senza valutarla o criticarla.

La pratica di questo particolare “atteggiamento della mente”, che possiamo definire anche “consapevolezza”, deriva dal buddismo theravada, una delle due maggiori correnti del pensiero buddista, diffusa da 2500 anni in Asia meridionale e sudorientale, in particolare in Birmania, Cambogia, Laos, Sri Lanka e Tailandia, sia nell’ambiente monastico che laico.

L’utilizzo, da parte della medicina occidentale, di Mindfulness per la promozione della salute è invece un’acquisizione relativamente recente, iniziata negli anni ’70 negli Stati Uniti (vedi i protocolli Mindfulness based stress reduction).

Benchè l’origine della pratica mindfulness derivi dal pensiero buddista, non è necessario abbracciare la religione buddista per praticare lo sviluppo della consapevolezza. Essa è infatti una forma di meditazione non concettuale universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze, né da alcuna ideologia.

Ma in cosa consiste praticamente Mindfulness?

Mindfulness è, nella pratica, una forma di meditazione, pertanto richiede tempo, energia, determinazione, fermezza e disciplina. Dal  punto di vista dei processi mentali essa si sostanzia nel prestare, nel momento presente, attenzione  a quattro elementi: il proprio corpo, le proprie percezioni sensoriali (fisiologiche, fisiche e psicologiche appartenenti agli ampi domini del piacevole, spiacevole, misto e neutro), le formazioni  mentali (ad es. la rabbia, il dolore o la compassione) e gli oggetti della mente (ogni formazione mentale ha un oggetto, si è arrabbiati con qualcuno e per qualcosa ecc…). L’osservazione di questi elementi della propria esperienza soggettiva avviene in uno stato di autentica calma non reattiva, nel quale si accetta ciò che viene osservato per quello che è, consentendo ai cambiamenti di avvenire naturalmente, senza ostacolarli né promuoverli ed evitando la solita resistenza o il solito giudizio che causano ulteriore sofferenza.

La meditazione del respiro

Il modo più efficace per cominciare a prestare questo tipo di attenzione è quello di osservare il proprio respiro, concentrandosi su di esso e rimanendo in osservazione di quello che accade mentre lo facciamo.  Indipendentemente dalle regioni corporee in cui si contestualizza il respiro, il compito mentale richiesto dalla mindfulness è quello di cercare e mantenere l’intensa consapevolezza delle sensazioni che accompagnano il respiro in quel particolare punto del corpo (narici, petto o pancia), momento dopo momento.

Quando, inevitabilmente, la mente tenderà ad allontanarsi dal qui e ora per focalizzarsi su pensieri lontani, nello spazio e nel tempo, mindfulness prevede che quei pensieri non vengano giudicati né inseguiti, ma che l’attenzione venga gentilmente riportata sul respiro.

In questo modo, si allena la mente ad essere più stabile e meno reattiva, e nello stesso tempo si impara ad accettare e coltivare ogni istante così come viene, accrescendo la propria capacità naturale di concentrazione.

L’esplorazione del corpo (body scan) 

Un altro modo per praticare mindfulness consiste nell’eseguire una rotazione sistematica della attenzione di consapevolezza nelle varie parti del corpo, con l’obiettivo di  “sentire” autenticamente ogni parte del corpo e soffermarsi su ciascuna di esse. La tecnica prende spunto da un’antichissima pratica yogica: lo yoga nidra. È un metodo che, se applicato in modo costante e sistematico, induce un completo rilassamento fisico, mentale ed emozionale.

Mindfulness può essere praticata da seduti (sitting meditation) oppure camminando (walking meditation). Come afferma Kabat-Zinn, la posizione che si assume per meditare “è un atteggiamento esterno che ci aiuta a coltivare un atteggiamento interno di dignità, pazienza e autoaccettazione” (1991, p. 62).

La meditazione da seduti consiste nell’assumere una posizione seduta dignitosa, su una sedia o un panchetto da meditazione o per terra aiutati da un cuscino.

La meditazione camminata (adatta alle persone particolarmente agitate, come preparazione a quella seduta) consiste nel coltivare l’osservazione interna e la consapevolezza delle sensazioni, mentre si cammina, concentrandosi su ciascun passo.

Un’ulteriore modalità con cui può essere praticata mindfulness è l’hatha yoga, una serie di esercizi fisici della tradizione yogica più attenta all’aspetto corporeo, a cui si accompagnano l’attenzione sul respiro e l’atteggiamento generale di accettazione di ciò che siamo, così come siamo, qui e ora. Gli esercizi di hatha yoga insegnano a raggiungere l’armonia e l’integrazione tra mente e corpo, così come tra se stessi e l’ambiente.

La pratica non strutturata

Lo scopo finale della pratica mindfulness è quello di generalizzare ed estendere questa particolare modalità di “porre attenzione” a tutte le situazioni e i contesti della vita quotidiana. Si potrà pertanto coltivare la consapevolezza quando si guarda, si ascolta, si pensa, si parla, si cucina, si mangia o si lavora, nei momenti facili e in quelli difficili. Si tratta, dunque, di una progressiva e stabile trasformazione del nostro modo di essere, dell’acquisizione di una nuova abitudine mentale. Anche mentre camminiamo possiamo praticare la consapevolezza, prestando attenzione e gioendo di ogni passo, piuttosto che avere la mente rivolta verso la meta da raggiungere. Fermarsi e connettersi con il momento presente è possibile quando si scrive una e-mail, si naviga sul web, si lavano i piatti o si stende il bucato. Anche in questo istante leggendo questa pagina.

A cosa e a chi serve Mindfulness? 

Mindfulness serve a chiunque desideri, in salute o in malattia, trascendere le proprie limitazioni e raggiungere un livello più alto di benessere psicofisico.

La pratica costante della mindfulness si è infatti dimostrata efficace nella riduzione dello stresse delle patologie ad esso correlate, nel sollievo di sintomi fisici connessi a malattie organiche e, in generale, nella promozione di profondi e positivi cambiamenti dell’atteggiamento, del comportamento e della percezione di sè stessi, degli altri e del mondo.

Tali cambiamenti sono ravvisabili in:

  • una maggiore capacità di padroneggiare le situazioni difficili della vita,
  • un maggiore potere di gestione dei conflitti e dei problemi ordinari e straordinari,
  • un incremento dell’accettazione e della pazienza nei confronti del proprio stato di malattia o delle proprie infermità psicologiche e fisiche,
  • una nuova capacità della mente di sostituire le emozioni distruttive, che portano ansia e depressione, con modi di essere più costruttivi, che promuovono l’equanimità, l’amore e la saggezza.

L’importanza del gruppo

E’ auspicabile, per coloro che meditano, poterlo fare anche all’interno di un gruppo o “sangha”. Sangha è una parola in sanscrito che significa “comunità spirituale” e rappresenta uno dei tre pilastri dell’insegnamento e della filosofia buddista.

Il sangha è costituito da persone che non solo meditano insieme durante gli incontri pianificati, ma si impegnano anche nella pratica non strutturata, coltivando la consapevolezza nella vita quotidiana, praticando la resistenza alla fretta, ai modi disfunzionali e non sani di vivere, vivendo profondamente ogni istante.

Il gruppo è importante per diverse ragioni: serve a mantenere l’ autodisciplina, facilita l’apprendimento,  incoraggia ad andare avanti nelle situazioni difficili o nei momenti di demotivazione, è fonte di ispirazione e speranza di miglioramento, e può sanare sentimenti di isolamento e separazione, alla base di molta della sofferenza nella nostra società.

Dal Sito: www.istitutobeck.com

La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente




Con la terapia EMDR il soggetto accede a informazioni correttive e le collega alla memoria traumatica, attraverso piccole indicazioni da parte del terapeuta

La terapia EMDR è utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico. Essa sfrutta i movimenti oculari alternati per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Terapia EMDR: un’introduzione

EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una tecnica psicoterapeutica ideata da Francine Shapiro nel 1989. Questa metodologia, utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico, sfrutta i movimenti oculari alternati, o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Disturbo da stress post-traumatico e terapia EMDR

Il diturbo da stress post-traumatico (DSPT) si sviluppa in seguito all’esposizione del soggetto ad un evento traumatico nel quale la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Come riportato dal DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’evento traumatico viene rivissuto ripetutamente in diversi modi, ed il soggetto mette in atto un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. Si verificano inoltre alterazioni negative dell’umore o delle cognizioni, ed un’attenuazione della reattività generale, oltre che sintomi di aumentato arousal.

Shalev (2001) ha proposto che la complessità del disturbo possa essere meglio compresa come compresenza di diversi meccanismi, quali l’alterazione di processi neurobiologici, l’acquisizione di risposte condizionate di paura a stimoli correlati al trauma, e schemi cognitivi e di apprendimento sociale alterati.

La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Ciò include il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, in quanto tutti gli aspetti di memoria, pensiero, sensazioni fisiche ed emotive dell’evento traumatico non riescono ad essere integrati con altre esperienze. La patologia in questi casi emerge a causa dell’immagazzinamento disfunzionale delle informazioni correlate all’evento traumatico, con il conseguente disturbo dell’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione. Questo provoca il ‘congelamento’ dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto; l’informazione congelata e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi psicologici.

I movimenti oculari saccadici e ritmici tipici della terapia EMDR, concomitanti con l’individuazione dell’immagine traumatica, delle convinzioni negative ad essa legate e del disagio emotivo, facilitano la rielaborazione dell’informazione, fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. In questo modo l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo non negativo.

Le tecniche EMDR, come la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, seguono le teorie del processamento dell’informazione e si rivolgono alle memorie disturbanti individuali ed ai significati personali dell’evento traumatico e delle sue conseguenze, attivando la rete dei ricordi di paura attraverso la presentazione di informazioni che attivano elementi delle strutture della paura ed introducono informazioni correttive incompatibili con questi elementi.

L’esposizione immaginativa tipica della terapia cognitivo-comportamentale però guida l’individuo a rivivere ripetutamente l’esperienza traumatica il più vividamente possibile, senza prendere in causa altre memorie o associazioni; questo approccio è basato sulla teoria secondo cui l’ansia è causata dalla paura condizionata ed è rinforzata dall’evitamento.

Al contrario la terapia EMDR procede tramite catene di associazioni, collegate con stati che condividono gli elementi sensoriali, cognitivi o emotivi del trauma. Il metodo adottato non è di tipo direttivo; l’individuo è incoraggiato a ‘lasciare accadere qualsiasi cosa avvenga limitandosi a notarla‘ mentre le memorie liberamente associate entrano nella mente tramite l’esposizione immaginativa, in forma di brevi flash.

In accordo con le teorie del condizionamento classico, promuovere l’attenzione a informazioni correlate alla paura facilita l’attivazione, l’abituazione e la modificazione della struttura di paura.

Durante la terapia EMDR, i terapeuti spesso accedono solo a brevi dettagli della memoria traumatica, ed incoraggiano la distorsione o il distanziamento dell’immagine che, in accordo con le teorie tradizionali, dovrebbe esitare in un evitamento cognitivo. La terapia EMDR incoraggia tuttavia gli effetti distanzianti che sono considerati efficaci nel processamento della memoria piuttosto che nell’evitamento cognitivo. E’ forse per questo che i pazienti sottoposti a questo tipo di terapia cosiderano l’EMDR come meno confrontante e la tollerano meglio.

L’EMDR comprende il complesso delle risposte emotive che seguono un evento stressante analizzando stati affettivi, sensazioni fisiche, pensieri, emozioni e credenze contemporaneamente.

Il cambiamento cognitivo che la terapia EMDR evoca mostra che il soggetto può avere accesso a informazioni correttive e collegarle alla memoria traumatica e ad altre reti di memorie associate. Tutto ciò avviene con piccole, se non nulle, indicazioni da parte del terapeuta. L’integrazione del materiale positivo e negativo che avviene spontaneamente durante il processo di desensibilizzazione dell’EMDR somiglia all’assimilazione in strutture cognitive (in linea con la teoria del processamento adattivo dell’informazione), così come accade per le visioni del mondo, i valori, le credenze e l’autostima.

Il movimento oculare nella terapia EMDR

La componente del movimento oculare ha provocato molti dibattiti in quanto sembra essere la componente che differenzia la terapia EMDR dalla terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e dai trattamenti basati sull’esposizione. Tuttavia, è stato suggerito che i movimenti oculari non siano necessari, portando a ricerche per verificare se altre stimolazioni bilaterali (uditive o tattili) o nessun movimento oculare producessero risultati equiparabili. Sulla base dei modelli di estinzione della paura, i movimenti oculari causerebbero distrazione ed una riduzione dell’abituazione.

Lee e Cuijpers (2013) hanno condotto una meta-analisi per determinare l’efficacia dei movimenti oculari quando vengono processate memorie emotive. I loro risultati supportano l’inclusione del movimento oculare sia per il trattamento in ambito clinico che nell’ambiente di laboratorio, dimostrando l’importanza della fedeltà al trattamento quando si utilizza l’EMDR. I vantaggi avvallati del compito aggiuntivo dei movimenti oculari nell’EMDR sono il distanziamento e la riduzione della vividezza e dell’emotività della memoria.

Sulla base della teoria per la quale i sintomi del disturbo da stress post-traumatico risultano da un fallimento del processamento di memorie episodiche, è stato suggerito che i movimenti oculari bilaterali possano facilitare l’interazione interemisferica, producendo un miglioramento nel processamento della memoria. La ricerca indica che il processamento della memoria episodica è bilaterale, mentre quello della memoria semantica viene condotto nell’emisfero cerebrale sinistro. Il movimento oculare orizzontale può rinforzare un aumento dell’attivazione di entrambi gli emisferi, migliorando in questo modo la comunicazione tra di essi e promuovendo il processamento dell’evento traumatico tramite la stimolazione della capacità di richiamo degli elementi che lo caratterizzano dalle memorie episodiche e semantiche.

Un altro modello teorico proposto è basato sulla teoria del movimento oculare rapido (REM) durante il sonno. La ricerca suggerisce che l’integrazione tra memorie episodiche e semantiche avvenga durate il sonno. La ricerca, facendo utilizzo di tecniche di neuroimaging, ha dimostrato l’esistenza di regioni cerebrali specifiche affette dalla ristimolazione di memorie traumatiche nel DSPT; queste sono le stesse regioni attivate nella fase REM del sonno. I movimenti oculari bilaterali ripetuti attivano il tronco cerebrale in uno stato di sonno REM, supportando così l’integrazione della memoria e la riduzione dei sintomi del DSPT.

La stessa stimolazione ripetitiva bilaterale che riorienta l’attenzione da un lato all’altro è alla base, secondo alcuni autori, dell’attivarzione di un meccanismo neurologico simile al sonno REM tramite una risposta di orientamento; l’attivazione di questi mecanismi sposta il cervello in una modalità di processamento della memoria simile al sonno REM, permettendo l’integrazione delle memorie traumatiche. E’ stato anche proposto che i movimenti oculari inneschino la risposta di orientamento attivando un riflesso investigatorio che si presenta primariamente come una risposta di allarme ed in secondo luogo come una pausa riflessiva, che produce una riduzione dell’arousal se non c’è una reale minaccia. Questa risposta riflessa produce un aumento dell’allerta, la quale favorisce i comportamenti esploratori quando i processi cognitivi diventano meno flessibili ed efficienti, permettendo alla memoria traumatica di essere integrata.

Secondo alcuni autori inoltre i movimenti oculari creerebbero una risposta di rilassamento, facilitando il riprocessamento della memoria tramite la riduzione del distress.

Memoria, memoria di lavoro e terapia EMDR

Seguendo la teoria della memoria di lavoro, è stato ipotizzato che gli effetti positivi della terapia EMDR possano risultare dal fatto che i movimenti oculari creano un doppio compito di attenzione. In linea con il modello di memoria di lavoro proposto da Baddeley, quest’ultima possiede una capacità limitata. Quando l’attenzione deve essere suddivisa tra più stimoli, come avviene nel caso del doppio compito di attenzione, la qualità dell’immagine traumatica si deteriora, con il risultato che essa viene portata al di fuori della memoria di lavoro ed integrata nella memoria a lungo termine (semantica), dove la vividezza e l’emotività sono ridotte. Il doppio compito di tenere l’emozione in mente mentre ci si focalizza sui movimenti oculari bilaterali può quindi interrompere l’immagazzinamento delle memorie traumatiche, ridurre la qualità episodica della memoria e quindi ridurre i sintomi del DSPT.

Un’esplorazione più specifica di Gunter e Bodner (2008) ha rilevato che le memorie tenute nel taccuino visuospaziale (un sottosistema della memoria di lavoro) si riducono in vividezza quando i movimenti oculari esauriscono le risorse di processamento. La ricerca ha mostrato che una riduzione della vividezza della memoria, dovuta ai movimenti oculari, può portare ad un conseguente decremento dell’emotività che circonda la memoria e ad una corrispondente riduzione dei dintomi del DSPT.

Lansing et al. (2005) hanno condotto studi di neuroimaging su agenti di polizia che avevano sviluppato il DSPT in seguito al coinvolgimento in sparatorie, sottoposti a sessioni di terapia EMDR. I risultati della SPECT (tomografia computerizzata a emissione di singoli fotoni) hanno rilevato una riduzione dell’attivazione nel lobo parietale sinistro, area associativa, e nel pulvinar destro, nucleo talamico associativo che aiuta a regolare i circuiti corticali; queste deattivazioni possono essere implicate nell’attenuazione della rete neurale delle memorie traumatiche. L’analisi dei dati ha mostrato inoltre una maggiore attivazione in aree prefrontali sinistre che sono solitamente ipoattivate nei soggetti con DSPT, ed un’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, associata con un miglioramento dei sintomi, in particolare di tipo depressivo.

Effetti neurobiologici della terapia EMDR

Una ricerca condotta da Pagani et al. (2012) ha permesso di monitorare l’attività cerebrale tramite EEG durante le sedute di terapia EMDR in pazienti con DSPT, paragonati a soggetti di controllo. A seguito di una terapia che ha riscontrato successo, il principale risultato neurobiologico dello studio è stato lo spostamento dell’attivazione corticale massima, sia durante l’ascolto del racconto autobiografico del trauma che durante la stimolazione oculare bilaterale, dalle regioni prefrontali e limbiche alle corteccie fusiforme e visiva, durante il corso della terapia. La comparazione con i soggetti di controllo ha mostrato come il rivivere l’evento traumatico causasse nei pazienti un’attivazione limbica bilaterale significativamente maggiore durante il racconto, ed una maggiore attivazione limbica orientata verso sinistra durante la stimolazione oculare bilaterale. Questo dato potrebbe essere correlato al tentativo guidato di codificare materiale emotivo non elaborato durante la stimolazione oculare, attivando preferenzialmente la corteccia prefrontale rostrale sinistra. L’attivazione della corteccia prefrontale rostrale durante la stimolazione oculare è risultata essere maggiore anche considerando i pazienti nella prima fase della terapia, in confronto con gli stessi soggetti valutati a fine terapia.

L’attivazione prefrontale è associata con la valutazione di materiale generato da sé stessi, essendo la corteccia cingolata anteriore il punto di integrazione di informazioni emotive coinvolte nella regolazione degli affetti, oltre che il substrato dell’esperienza conscia emotiva che monitora le informazioni con conseguenze sul piano affettivo. La corteccia prefrontale rostrale, in quanto parte del sistema limbico, è coinvolta in processi che riguardano il valore emotivo delle informazioni in arrivo, ed è criticamente implicata in funzioni alterate nella risposta psichica al trauma. Per di più, il recupero della memoria episodica attiva la corteccia prefrontale, ed è stata descritta una stretta relazione tra la memoria autobiografica/episodica, il sé ed il coinvolgimento della corteccia prefrontale. E’ stata dimostrata anche un’attivazione di tale regione durante la soppressione di memorie indesiderate, e durante il richiamo del trauma prima della terapia EMDR.

Un rilevante effetto neurobiologico della terapia EMDR nei pazienti è rappresentato dall’aumento significativo, in seguito al trattamento, del segnale elettroencefalografico nel giro fusiforme, così come nella corteccia visiva destra, confrontato con il segnale registrato ad inizio terapia. Questi cambiamenti suggeriscono un migliore processamento cognitivo e sensoriale (visivo) dell’evento traumatico durante il ricordo autobiografico, in seguito al successo della terapia EMDR, con un’attivazione preferenziale che si muove dalla corteccia emotiva fronto-limbica verso la corteccia associativa temporo-occipitale. Una volta che il mantenimento della memoria dell’evento traumatico può spostarsi da uno stato implicito subcorticale ad uno esplicito, differenti regioni corticali partecipano al processamento dell’esperienza. D’altra parte il giro fusiforme è implicato nella rappresentazione esplicita di facce, parole e pensieri astratti, e la sua prevalente attivazione dopo la terapia EMDR potrebbe essere associata con l’elaborazione, ad un livello cognitivo più alto, di immagini correlate all’evento. Il giro fusiforme ha mostrato una maggiore attivazione anche durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia, rispetto all’inizio della stessa.

Nei pazienti è stata trovata una chiara lateralizzazione verso l’emisfero sinistro durante la stimolazione oculare, e verso l’emisfero destro durante la lettura del racconto autobiografico. In accordo con la teoria dell’asimmetria emozionale l’emisfero destro è dominante sul sinistro per l’espressione e la percezione emotive. Oltretutto, entrambi gli emisferi funzionano come una sorta di unità funzionale e l’attivazione aumentata in uno di essi determina un’inibizione di quello controlaterale. L’attivazione prominente trovata durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia nelle aree di associazione nell’emisfero sinistro potrebbe quindi corrispondere ad un processamento cognitivo delle memorie traumatiche che sta raggiungendo lo stato esplicito dopo la terapia EMDR portata a termine con successo, associata ad un significativo contenimento delle esperienze emotive negative.

L’emisfero sinistro gioca anche un importante ruolo nell’esplicazione delle emozioni, ed è stata inoltre dimostrata l’attivazione del giro fusiforme durante compiti che implicano la memoria episodica ed il recupero della memoria associata al controllo attentivo.

Terapia EMDR con ansia e depressione

Una recente meta-analisi (Chen et al., 2014) si è occupata di indagare gli effetti della tecnica EMDR in 26 di studi, effettuati tra Gennaio 1993 e Dicembre 2013, che hanno utilizzato l’EMDR per il trattamento del disturbo da stress post traumatico, in comparazione ad altri tipi di terapie. La meta-analisi ha rilevato un effetto moderato della terapia EMDR per il disturbo da stress post-traumatico, la depressione (spesso in comorbidità con tale disturbo) e l’ansia (sperimentata dai pazienti con DSPT quando devono affrontare lo stress), ed un effetto ampio dell’EMDR sulla percezione soggettiva di distress. Questi risultati suggeriscono che l’EMDR può migliorare la consapevolezza nei pazienti, cambiare le loro credenze e i loro comportamenti, ridurre l’ansia e la depressione, e condurre a emozioni positive.

I pazienti con disturbo da stress post-traumatico non possono gestire appropriatamente le loro esperienze negative e le loro memorie. La terapia EMDR permette ai pazienti di creare connessioni adattive per integrare le esperienze negative con emozioni ed i pensieri positivi, migliorando i sintomi del disturbo.

Un’analisi dei sottogruppi in questo studio ha permesso di individuare come un trattamento della durata di 60 minuti a sessione sia maggiormente efficace rispetto a trattamenti di più breve durata, riducendo significativamente sia l’ansia che la depressione. I pazienti hanno inoltre mostrato una maggiore riduzione dei sintomi quando il trattamento era effettuato da parte di terapeuti con esperienza nella terapia di gruppo del disturbo da stress post-traumatico, comparati a coloro che sono stati trattati da terapeuti senza una tale esperienza.

Le ricerche sinora condotte hanno permesso di individuare varie modificazioni delle strutture neurali che si verificano in seguito alla terapia EMDR, e ciò ha permesso di sviluppare diverse teorie sul suo funzionamento, le quali forniscono un supporto ancora maggiore all’utilizzo di tali tecniche, la cui validità è stata più volte valutata e provata in studi di efficacia terapeutica. Ciò nonostante, i processi chiave che sottostanno ai meccanismi dell’EMDR sono complessi, in linea con la struttura del trattamento, che coinvolge componenti di mindfulness, ristrutturazione cognitiva, esposizione alla memoria, e senso di padronanza personale. Saranno necessarie dunque ulteriori ricerche, che permettano di chiarire sempre meglio i meccanismi di funzionamento, nelle diverse circostanze e considerando l’applicazione a diversi tipi di disturbo, di questa tecnica terapeutica all’avanguardia.

Dal sito: www.stateofmind.it

I GRUPPI DI AUTO MUTUO AIUTO: COSA SONO E PER COSA SONO INDICATI.





I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto sono un’ottima metodologia di trattamento utile per affrontare particolari situazioni di disagio.

I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto si svolgono secondo il seguente principio: “Tu solo ce la puoi fare, ma non ce la puoi fare da solo”. L’Auto Mutuo Aiuto, infatti, si basa sull’idea della mutualità, dello scambio reciproco di aiuto, dell’impegnarsi per se stessi e per l’altro, di un sostegno reciproco attivato fra persone che vivono una stessa situazione di vita.

I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto incarnano l’ideologia dell’empowerment individuale e sociale, ovvero quel processo attraverso il quale gli individui diventano attivi protagonisti della propria vita, esercitando su di essa il giusto controllo. Il processo di empowerment racchiude al suo interno fattori psicologici molto importanti che spaziano dall’incremento del senso di self-efficacy sino all’assunzione di responsabilità a favore del proprio processo di cambiamento. Risultati ultimi sono proprio: la valorizzazione di se stessi in quanto soggetti attivi; ed il riconoscimento dell’altro in quanto interlocutore degno di competenze e fiducia.

Ma quale definizione per i Gruppi di Auto Mutuo Aiuto?

In letteratura la definizione maggiormente conosciuta ed accettata è quella di Kats e Bendersecondo i quali i gruppi di auto mutuo aiuto sono “Strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto ed al raggiungimento di particolari scopi. Essi sono di solito costituiti da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare bisogni comuni, per superare un comune handicap o un problema di vita, oppure per impegnarsi a produrre desiderati cambiamenti personali e sociali. I gruppi di self-help enfatizzano le interazioni sociali faccia a faccia e il senso di responsabilità personale dei membri. Essi spesso assicurano assistenza materiale e sostegno emotivo; tuttavia, altrettanto spesso appaiono orientati verso una qualche “causa”, proponendo una “ideologia” o dei valori sulla base dei quali i membri possano acquisire o potenziare il proprio senso di identità personale” .

Quali le caratteristiche fondamentali dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto?

I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto sono caratterizzati dall’interazione faccia a faccia; e quindi dall’importanza del contatto diretto e della partecipazione personale, costante e condivisa tra i partecipanti. Questi ultimi, difatti, condividono particolari esperienze e con la propria partecipazione personale si impegnano per determinati scopi.

Quale è la funzione principale dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto?

La funzione principale dei Gruppi di Auto Mutuo Aiuto è quella di  fornire aiuto e sostegno ai vari membri del gruppo in relazione al fronteggiamento delle loro situazioni problematiche ed al miglioramento delle loro competenze. La fonte di aiuto principale risiede, quindi, negli sforzi e nelle abilità dei vari membri posti in relazione paritaria. I membri vivono al contempo una duplice condizione: ricevono e offrono aiuto valorizzando quel tipo particolare di conoscenza che scaturisce dall’aver vissuto in prima persona la condizione problematica su stessi. Offrendo il loro aiuto agli altri si accresce la propria competenza interpersonale ed il senso della propria autoefficacia, ci si sente meno dipendenti e meno soli. Ricevendo aiuto dagli altri membri si è stimolati ad accrescere le proprie capacità di problem solving e di coping, in quanto si ha la possibilità di osservare le proprie situazioni problematiche da punti di vista differenti.

Perché i Gruppi di Auto Mutuo Aiuto sono efficaci?

I gruppi di Auto Mutuo Aiuto sono efficaci in quanto permettono al singolo membro di informarsisu ciò che più gli interessa in merito alla propria situazione problematica; consentono al singolo partecipante di apprendere un’alternativa modalità di fronteggiamento da altre persone, che fungono da modello in quanto  hanno vissuto esperienze simili; infine per l’ “aiutare gli altri”, quindi fornire agli altri sostegno emotivo ed attraverso il proprio comportamento pro sociale giungere ad una identità positiva e migliorare la propria autostima.

Per cosa sono indicati i Gruppi di Auto Mutuo Aiuto?

Gli ambiti di applicazione sono molteplici: dall’ansia alla depressione, dagli attacchi di panico alle patologie psichiatriche, dalle patologie fisiche alle situazioni di handicap ed ai gruppi per familiari di persone che vivono un disagio, dal vivere situazioni di vita particolari come per esempio il divorzio e la separazione, al mobbing ed all’elaborazione del lutto.

I Gruppi di Auto Mutuo Aiuto, pur non essendo dei gruppi psicoterapeutici, rappresentano una valida metodologia di aiuto e supporto. Per le forme di disagio particolarmente gravi è indicato il seguire un gruppo di auto mutuo aiuto ma contemporaneamente intraprendere un percorso psicoterapeutico. Nel territorio ne sono presenti molteplici, sia condotti da operatori Esperti della Salute Mentale sia da Facilitatori pari inter pares.

Dal Sito: www.psicologicamenteok.com


Se vuoi conoscere i gruppi 
Auto-Mutuo-Aiuto Insieme Onlus 
clicca qui

YOGA DELLA RISATA E METAMEDICINA



Lo Yoga della Risata abbatte gli effetti negativi dello stress sul corpo, che è la causa principale di molte malattie. Rafforza il sistema immunitario, abbassa la pressione sanguigna, regola il livello di zuccheri nel sangue e tiene il cuore in salute. È un potente antidoto contro la depressione, al giorno d’oggi la malattia numero uno.

La Metamedicina, o Psicosomatica, considera ogni sintomo del nostro corpo come un messaggio dell’anima che va ascoltato e interpretato per risalire alla causa che lo genera… L’interconnessione tra un disturbo e la sua causa d’origine psichica si riallaccia alla visione olistica del corpo umano, all’interno della consapevolezza che mente e corpo sono strettamente legati in virtù dell’unità psicofisica. Uno degli indirizzi più promettenti della ricerca in psicosomatica negli ultimi trent’anni (grazie anche allo sviluppo e alla nascita di nuove tecniche e tecnologie biomediche) è la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), che ha l’obiettivo di chiarire le relazioni tra funzionamento psicologico, secrezione di neurotrasmettitori a livello cerebrale, ormoni da parte del sistema endocrino e funzionamento del sistema immunitario.

E’ proprio qui che lo Yoga della Risata trova il suo collocamento.

L’esercizio della risata, oltre che cambiare istantaneamente l’umore e farci sentire leggeri e gioiosi, mette in atto tutta una serie di risposte endocrine: sentimenti ed emozioni sono la traduzione dell’azione di alcuni neurotrasmettitori, che a loro volta sono strettamente collegati al sistema ormonale.

Ridere aumenta la produzione del cosiddetto Joy Cocktail, ovvero una serie di neurotrasmettitori ed ormoni che portano un profondo senso di benessere e felicità!

Vediamoli…

  • Endorfine, sono sostanze chimiche prodotte dalla ghiandola pituitaria (ipofisi) e dall’ipotalamo dotate di elevati poteri analgesici ed eccitanti. Le endorfine sono i nostri antidolorifici naturali e sono coinvolte in numerosi processi tra i quali: la regolazione della temperatura corporea, la regolazione dell’umore, la produzione ormonale, la regolazione dell’appetito, la regolazione del sonno, la percezione dolorifica (le endorfine aumentano la tolleranza agli stimoli dolorifici), le reazioni ad eventi stressanti sia di tipo fisico che psichico ecc.
  • Ossitocina, l’ormone dell’amore, responsabile dell’istinto materno nella femmina dell’uomo e di tutti i mammiferi. Questo neurotrasmettitore, rilasciato dall’ipofisi posteriore, è anche  responsabile della fedeltà e dell’attaccamento al compagno e riveste  un ruolo importante nella nascita del sentimento dell’amicizia.
  • Serotonina, l’ormone della felicità, ha anche l’effetto di diminuire l’aggressività.
  • Feniletilamina (PEA) -> dopamina e noradrenalina. La PEA è una sostanza chimica stimolante, la vera responsabile dello stato euforico e della trepidazione caratteristici degli innamorati, stimola la libido ed è alla base dell’atteggiamento positivo che la maggior parte di noi sperimenta all’inizio di un rapporto amoroso. La feniletilamina, stimola il rilascio di dopamina, l’ormone del piacere; è strettamente legata ad una rete di neuroni che genera sensazioni piacevoli di benessere in seguito a comportamenti che soddisfano alcuni stimoli primari come la fame, la sete, il desiderio sessuale. Ha anche molte funzioni nel cervello, gioca un ruolo importante in comportamento, cognizione, movimento volontario, motivazione, sonno, umore, attenzione, memoria di lavoro e di apprendimento. Agisce sul sistema nervoso simpatico causando l’accelerazione del battito cardiaco e l’innalzamento della pressione sanguigna. Allo stato di benessere determinato dalla dopamina si aggiungono una trepidazione ed un’agitazione generale determinate dalla noradrenalina, molecola diffusa nel sistema nervoso, soprattutto nell’ipotalamo e nel sistema limbico. Questa molecola provoca eccitazione, euforia ed entusiasmo.

Insomma abbiamo capito che ridere fa bene ed è scientificamente provato!!! E quando il nostro corpo sta bene e il nostro animo è gioioso, difficilmente si ammala!

La felicità non è assolutamente un’emozione, ma è uno stato d’animo, un modo di essere che non dipende da quello che, bello o brutto, ci capita fuori, ma dipende esclusivamente da come noi siamo e quando impariamo ad essere felici, allenando il nostro corpo alla gioia, difficilmente perderemo questo modo di essere!

Dott.ssa Emy D’Erasmo

Dal Sito: ilmagicomondodiemy.it

Ansia sociale





L’ansia sociale o fobia sociale è un disturbo psicologico caratterizzato da un’intensa e persistente paura di affrontare le situazioni in cui si è esposti alla presenza e al giudizio altrui, per il timore di mostrarsi imbarazzato, di apparire incapace e ridicolo e di agire in modo inopportuno e umiliante. L’immediata conseguenza ad una esposizione è uno stato d’ansia che in alcuni casi può raggiungere l’intensità di un attacco di panico (APA, 2000)
Chi soffre di ansia sociale teme di essere osservato e divenire oggetto di scherno da parte degli altri o che le proprie prestazioni lo possano esporre a valutazioni negative, mentre la sua capacità di critica sulla reale possibilità che ciò avvenga è alterata. Di conseguenza, il soggetto, credendo di essere valutato negativamente e sentendosi quindi rifiutato, perde la stima di sé.
Si possono distinguere forme di ansia sociale in cui le paure riguardano una o alcune situazioni specifiche e forme nelle quali la varietà delle situazioni temute può essere molto ampia e comprendere la maggior parte degli ambiti interpersonali e sociali.
L’ ansia sociale specifica si riferisce a una o due situazioni isolate, in cui generalmente è prevista una performance o attività mentre si è osservati da altri.
L’esempio più frequente riguarda la paura intensa di parlare o di esibirsi davanti un gruppo di persone, che si verifica già parecchio tempo prima dell’inizio della performance, non si riduce progressivamente mentre essa procede e spesso la compromette irrimediabilmente.
Nel caso della ansia sociale generalizzata si può avere timore di incontrare persone conoscenti o estranee in qualsiasi contesto, formale o informale, soprattutto se si tratta di persone che hanno una posizione di autorità o persone del sesso opposto, ed in alcuni casi perfino amici o familiari.
Una forma frequente nella pratica clinica è l’ ansia sociale nei confronti dell’altro sesso. In questi pazienti le reazioni ansiose si presentano in tutte quelle situazioni in cui si interagisce con il sesso opposto, soprattutto in quei casi in cui c’è un interesse di tipo sentimentale o sessuale, e solitamente si associa una compromissione rilevante sul piano delle relazioni sentimentali e della vita sessuale. In particolare, negli uomini l’ansia di prestazione può determinare impotenza con conseguente evitamento dei rapporti sessuali.

I sintomi della fobia sociale


  • LIVELLO FISIOLOGICO

Le principali manifestazioni neurovegetative nell’ ansia sociale sono: sudorazione, balbettio, palpitazioni, tremori, rossore, vampate di calore, tensione muscolare, sensazioni di nausea, vertigini.


  • LIVELLO COGNITIVO

Il soggetto con ansia sociale è caratterizzato dall’essere molto critico verso se stesso e da uno schema centrale sul Sé come incompetente, maldestro, debole, ridicolo, noioso, non brillante, mentre l’Altro è visto come abile, superiore, competente, ma anche rifiutante, criticante, che disapprova e deride. Alla convinzione di non essere in grado di sostenere una situazione interpersonale, che qualsiasi cosa si faccia o si dica sia sbagliata, si aggiungono la sensazione marcata di essere osservati e di essere al centro dell’attenzione altrui, la cosiddetta “public self-consciousness” e la convinzione che gli altri, invece, non provino ansia sociale.


  • LIVELLO COMPORTAMENTALE

I soggetti con ansia sociale, pur di sottrarsi all’esposizione di esperienze dolorose o potenzialmente tali, adottano condotte di rinvio (es. rimandare un esame, un appuntamento importante), di evitamento (es. non scrivere davanti ad altri, non mangiare in compagnia), di rinuncia (es. rifiutare un incarico, non tenere un discorso dinanzi una platea) e di ritiro sociale (es. non partecipare a feste o eventi mondani con molte persone).


  • LIVELLO EMOTIVO

Il soggetto con ansia sociale vive con un senso generale di agitazione e preoccupazione l’avvicinarsi di una situazione temuta; con ansia accentuata, imbarazzo, vergogna durante la situazione; con tristezza e un senso di sconfitta al termine della situazione.

Quanto è diffusa l’ansia sociale
Tra il 3 e il 13% della popolazione soffre di ansia sociale. Spesso le persone con ansia socialevengono semplicemente descritte come timide o riservate. Sono invece l’inibizione sociale o l’angoscia personale a limitare la vita privata e professionale di queste persone, contro la loro volontà. L’ansia sociale, per questo motivo, è uno dei disturbi più incompresi e meno diagnosticati. Le persone che ne soffrono sono sempre di più, specialmente nella società occidentale dove le pretese di essere competenti, affabili, responsabili, dinamici, corretti, ironici sono sempre più alte. La pubblicità, i film, i media in genere, ci impongono modelli irrealistici, aumentando in noi paura e insicurezza di non essere all’altezza.

Quali sono le conseguenze dell’ansia sociale
A lungo termine l’ansia sociale può portare a condurre una vita isolata e solitaria, in cui si frequenta una cerchia molto ristretta di persone. Può inoltre creare seri problemi nella sfera professionale. Ad esempio alcune persone rifiutano promozioni sul lavoro perché richiedono un contatto sociale minimo o non accettano di fare corsi di aggiornamento per paura di dovere partecipare a discussioni in classe. E’ stato inoltre dimostrato che le persone che soffrono di ansia sociale, a volte, possano abusare di alcolici e farmaci ansiolitici nel tentativo di alleviare il proprio malessere.
Nelle forme più gravi l’ ansia sociale può provocare attacchi di panico e essere associata a periodi di depressione.

Il trattamento dell’ansia sociale
La Terapia Cognitivo Comportamentale è particolarmente efficace nel curare il disturbo d’ansia sociale. Il trattamento aiuterà le persone che soffrono di ansia sociale a concentrarsi sul proprio modo di pensare. Saranno così in grado di individuare con precisione le situazioni temute e di modificare i loro pensieri disfunzionali riguardo ad esse. Nella parte comportamentale della terapia, attraverso le tecniche di rilassamento, l’apprendimento delle abilità sociali e la tecnica dell’esposizione graduale alla situazione temuta (regolata sulle possibilità di ogni persona), i pazienti saranno aiutati a fronteggiare il proprio comportamento evitante, di protezione e di concentrazione su se stessi. Il terapeuta insegnerà al paziente a giudicare se stesso in modo meno rigido, ad accettare i propri limiti, reali o no che siano, ad ammettere la possibilità di non essere sempre giudicato positivamente da tutti, rinunciando alle proprie pretese di perfezionismo e al desiderio di un amore generalizzato nei suoi confronti.

Anche il trattamento farmacologico risulta efficace nella cura dell’ansia sociale, anche se quando viene interrotto il problema tende a ripresentarsi.



Dal Sito: www.istitutobeck.com

giovedì 25 gennaio 2018

Accettarsi Incondizionatamente: Il Regalo Più Bello Che Possiamo Farci

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. 
Oscar Wilde
Molte persone non riescono ad essere serene e ad accettarsi per quel che sono e come si pongono agli altri: perché accade questo? Questa mancata accettazione pone le sue radici nell’inconscio che farebbe costruire dentro di se una sorta di “elaborazione distorta intrusiva” del tipo: “se io sono perfetto/a, nessuno avrà alcunché da criticare di me: così non sarò rifiutato/a nè criticato/a, e quindi sarò accettato/a”.

Ogni volta che qualcuno ci critica o ci fa sentire inadeguati, perdiamo una piccola dose di quell’amore che avevamo per noi stessi

Impariamo che, se vogliamo essere accettati dagli altri, dobbiamo corrispondere a determinati standard e se non lo facciamo, gli altri ci faranno notare che siamo fuori dalla loro cerchia. A questo punto smettiamo di amarci incondizionatamente e iniziamo a condizionare la relazione con il nostro “io” ai nostri successi e fallimenti.

Nel momento stesso in cui iniziamo a giudicarci applicando le regole degli altri, smettiamo di amarci per quello che siamo

Si tratta di un processo doloroso nel quale siamo passati tutti. Come risultato non sorprende che molte persone, anche adulti di successo, continuino a sperimentare una sensazione di disagio con se stessi attribuendosi costantemente delle colpe. Queste persone hanno perso il contatto con il loro “io” più profondo perché hanno costruito un “io sociale” che lo ha sepolto.

Lo scopo finale è quello di essere accettati

Accettati da chi? Ecco che ritorna il pensiero inconscio: “dagli altri, forse originariamente non deluderò le aspettative dei genitori. Forse non deluderò e sarò degno/a delle persone più belle, più raffinate, più intelligenti di me, più mature, quelle che ci sanno fare molto più di me…”.

I segnali che indicano che non ci accettiamo incondizionatamente

Ci sentiamo spesso inadeguati in situazioni e contesti diversi

Pensiamo di non meritare l’amore degli altri

Ci paragoniamo costantemente agli altri e finiamo sempre per sentirci inferiori

Pensiamo di non essere abbastanza intelligenti/belli/interessanti/socievoli

Non intraprendiamo nuovi progetti per paura di fallire

Ci reprimiamo costantemente, non ci permetti di essere noi stessi

Ci sentiamo a disagio con noi stessi e non ci piace stare da soli con i nostri pensieri

Quando ci assumiamo il 100 per cento della responsabilità e amiamo veramente noi stessi, la gentilezza, la considerazione e la responsabilità verso gli altri vengono facilmente, perché quando amiamo noi stessi viene naturale amare gli altri. Mabel Katz

Per evitare che l’insicurezza ci invalidi l’esistenza è bene elaborare le cause che ci hanno portato ad essere insicuri

E’ fondamentale accettare e comprendere che i difetti non esistono in sè; sono le nostre distorsioni cognitive che ci fanno credere di essere inadeguati.  E’ fondamentale inoltre non guardare a chi dovrebbe giudicarci come quando eravamo bambini: in questo modo eviteremo di mantenere inconsciamente la odiata, ma anche cercata dipendenza dallo sguardo censore degli altri (ma che ormai abbiamo interiorizzato).

Suggerimenti pratici per accettarsi con serenità

Accettarsi incondizionatamente è il primo passo per amarsi incondizionatamente. Non possiamo stare bene con noi stessi se ci critichiamo costantemente, se pensiamo di essere dei falliti o non abbastanza intelligenti e attraenti.

È interessante il fatto che accettare i nostri difetti o imperfezioni non significa non impegnarsi a migliorare. L’accettazione implica, prima di tutto, la piena consapevolezza. Questo vuol dire che siamo consapevoli degli errori che abbiamo fatto ma non continuiamo a punirci per questi, piuttosto cerchiamo di correggerli. Significa che siamo consapevoli dei nostri limiti e cerchiamo di fare un ulteriore passo avanti.

L’accettazione incondizionata implica sperimentare la realtà così com’è, senza alcuna negazione o rifiuto. Con il passare del tempo, se questo atteggiamento è davvero sincero cancellerà le sensazioni negative e spiacevoli che provavamo verso noi stessi e lascerà il posto all’amore.

Il processo di accettazione incondizionata è lungo e doloroso. Ma alla fine del percorso scoprirete che è anche liberatorio. Infatti, troviamo difficile praticare l’accettazione incondizionata perché ci è stato insegnato a criticarci e diventare il nostro giudice più severo. Ci è stato insegnato ad adattarci alla società, ma non a convivere con noi stessi.

Riscopriamo chi siamo

Per accettarci dobbiamo conoscerci. Dedichiamo tutti i giorni qualche minuto a guardare dentro di noi. Chiediamoci cosa ci piace e cosa detestiamo, cosa ci rende felice, cosa non ci piace di noi, chi siamo veramente… possono sembrare domande banali, ma forse ci sorprenderemo scoprendo che non abbiamo risposte per molte di queste perchè da molto tempo abbiamo perso la connessione con il nostro “io interiore”. L’importante, non arrendersi, concedersi piuttosto il tempo necessario.

Accettiamoci senza criticarci

Ogni volta che commettiamo un errore o scopriamo una parte di noi che non ci piace, invece di giudicarci e criticarci accettimolo semplicemente. Prendiamo atto della realtà come fossimo un osservatore imparziale. Chiediamoci cosa possiamo imparare e in che modo questo errore o “difetto” può trasformarci in una persona migliore. Accettiamo di non essere perfetti e che non abbimo bisogno di esserlo per amarci ed essere una persona di valore.

RICORDATE…
Quando si comincia a mettere a frutto le proprie doti, facendo del meglio con il poco che si ha, quel poco si moltiplica e si scopre di avere delle risorse inaspettate.

Ana Maria Sepe

Dal Sito: psicoadvisor.com

Antidepressivi: Cosa C’è Da Sapere Prima Di Sospendere La Terapia




Per chi deve fare i conti con la depressione o l’ansia, gli antidepressivi possono rappresentare una vera ancora di salvezza. Per qualcuno, tuttavia, non rappresentano una soluzione al problema oppure semplicemente si decide di sospenderne l’assunzione per motivi economici o di altro tipo.

In questo caso, prima di farlo, è sempre bene conoscere alcuni aspetti

È importante prendere la decisione in modo molto ragionato e dopo averne parlato con il medico. Tenete conto che questi farmaci agiscono direttamente sul cervello e provocano cambiamenti ed alterazioni che devono essere monitorati. Ecco, quindi, alcuni fattori da considerare prima di sospendere l’assunzione degli antidepressivi.

Occorre collaborare con il medico

Se state considerando l’idea di sospendere gli antidepressivi, è innanzitutto importante parlare in modo schietto con lo psichiatra o il medico delle vostre aspettative, dei vostri timori o dubbi.

È vostro diritto, in quanto pazienti, decidere quali farmaci assumere e quali no; tuttavia, se decidete di sospendere l’assunzione degli antidepressivi, il medico vi dovrà spiegare quali effetti secondari dovete aspettarvi durante il processo di transizione.

Molte persone decidono di stare ormai bene e di non avere più bisogno di assumere farmaci. È una situazione molto comune quando si raggiunge un certo equilibrio emotivo. Ciò nonostante, spesso questo stato di felicità è in effetti il risultato degli antidepressivi.

È importante che il vostro medico sia informato di quello che provate e come lo provate. In questo modo, potrà capire se è una buona idea abbandonare la terapia.

In alcuni casi può sorgere il dubbio che gli effetti dei farmaci non siano normali o magari è necessario cambiare il trattamento. Si tratta di un processo che di solito richiede tempo e c’è chi si stanca di andare a tentativi sulle dosi da assumere.

Se dopo aver parlato con il medico restate sempre della stessa idea, il secondo passo sarà creare una tabella di marcia per ridurre gradualmente il consumo degli antidepressivi. In questo modo, potrete tenerne sotto controllo gli effetti secondari e non resterete soli durante la transizione.

Se avete deciso di interrompere la cura perché produce effetti non desiderati, lo psichiatra potrebbe consigliarvi una terapia alternativa che venga accettata meglio dal vostro organismo. Spiegate al medico le vostre paure, i vostri dubbi e cosa provate.

Il miglioramento non è immediato

Alcuni pazienti arrivano disperati all’appuntamento con lo psichiatra o lo psicologo perché dopo diversi mesi di cura con gli antidepressivi non hanno notato nessun cambiamento. In altri casi, il cambiamento c’è stato, ma in negativo.

È naturale desiderare che svaniscano la tristezza accumulata, la perdita di interesse per ogni cosa, la forte insicurezza e altre situazioni che hanno reso necessari i farmaci antidepressivi.

Anche il vostro medico vorrebbe avere una bacchetta magica capace di far sparire tutto questo, ma la realtà è molto più complessa. Tenete in considerazione che il problema, anche se seguito dal medico, non può essere risolto in qualche minuto.

Occorre permettere al vostro corpo di adattarsi alla nuova posologia

È comune per il medico vedere pazienti che hanno l’aspettativa di tornare alla normalità in un paio di giorni di trattamento e poi subito sospenderlo.

Il medico, in ogni caso, sa quanto tempo occorre prima di notare il miglioramento e ve lo indicherà.

È di vitale importanza non disperare e non cercare di regolare da soli le dosi. Questo significherebbe mettere a rischio la propria vita e perdere il controllo sugli effetti. Il medico vi chiederà di avere molta pazienza ed è importante seguire il suo consiglio.

È probabile che il vostro umore cambi temporaneamente

Sospendere l’assunzione degli antidepressivi senza autorizzazione del medico spesso significa non aver valutato bene le conseguenze.

A questo proposito, diversi studi indicano che abbandonando improvvisamente gli antidepressivi si corre un rischio maggiore di andare in contro a pensieri suicidi, per quanto la relazione non sia stata verificata in modo chiaro.

Se interrompete la terapia, vi sentirete “strani”

Come abbiamo accennato, gli antidepressivi agiscono direttamente sul cervello con una funzione regolatrice. Quando si sospende la cura, questa funzione viene perduta ed è possibile avvertire uno o più sintomi:

Sensazione di scosse elettriche

Perdita di concentrazione

Improvvisi sbalzi d’umore

Incapacità di portare a termine compiti semplici

Vuoto mentale

Ognuno vive questa esperienza in modo personale. È probabile che nei primi giorni non si avverta nessuna differenza e che, in seguito, non si riesca a pensare in modo chiaro per alcuni giorni. Si tratta di una reazione normale, non c’è da spaventarsi, ma è meglio che il medico verifichi l’entità di questi cambiamenti.

Avete il diritto di decidere se sospendere o continuare con gli antidepressivi

Le persone che soffrono di depressione devono affrontare tanti elementi allo stesso tempo. Da una parte un turbinio di emozioni, dall’altra il parere del medico e le opinioni altrui.

L’insieme di queste pressioni può confondere, dare la sensazione di aver perso il controllo sulla propria vita e il potere di decisione. Per questo motivo, è importante sapere, in ogni momento, che prendere o meno gli antidepressivi è una decisione soltanto vostra.


Dal Sito: www.tecnologia-ambiente.it

L’ansia e i suoi effetti positivi: ecco la nostra migliore nemica-amica per la vita



Una delle componenti che non ci abbandonano mai durante il corso della nostra vita è l’ansia. Difatti, l’ansia comincia ad accompagnarci sin dalle prime disfatteche la vita ci mette di fronte, oltre che dalla più tenera età (le stime, infatti, parlano di un buon 15-20% di neonati i quali, essendo soggetti all’ansia, reagiscono molto più tempestivamente a stimoli nuovi), inducendoci, quindi, a stare in pensiero per qualsiasi cosa o persona che ci sta attorno. Per l’appunto, l’ansia è un fattore estrinseco, che non ci appartiene del tutto ma che acquisiamo dall’esterno. Lo scienziato Rollo May, a tal proposito, su goodreads.com ha dichiarato che l’ansia, nonché preoccupazione, agitazione eccetera, fa proprio parte della nostra vita e non può essere assolutamente evitata, se non con la pigrizia e l’insensibilità. Inoltre, alle sue origini, l’ansia proteggeva gli abitanti delle caverne da animali e vicini violenti.

Una volta superata la tenera età, si presume che i piccoli ansiosi dovrebbero trasformarsi in individui coscienziosi e sicuri di sé: non è affatto così. Invero, l’ansia è un ingrediente che si sviluppa in maniera diversa in ogni persona, tale che in molti considerano stati d’ansia veri e propri come forme di esaltazione per qualcosa. Secondo l’articolo pubblicato sul New York Times dal ricercatore Jerome Kagan, e riportato da Internazionale, l’ansia è uno stato d’animo che si differenzia anche a seconda: del grado d’istruzione, dell’aver frequentato l’asilo nido, dal fatto di avere un impiego stimolante o meno, e così via. Perfino Steven Pinker si è espresso sull’ansia, considerandola un coefficiente con cui misurarsi per tutta la vita e un perenne “problema” al quale trovare una soluzione.

Tuttavia, chi soffre eccessivamente di ansia non deve disperare. Come ogni cosa nella vita, infatti, anche l’ansia ha un lato positivo dalla sua parte. Lo stesso Jerome Kagan ha affermato che, durante la sua carriera, ha sempre preferito avere accanto collaboratori “ansiosi”, perché chi lo è tende a pensare e riflettere su tutto, senza tralasciare nulla. Per l’appunto, attraverso l’ansia si diventa realmente più responsabili e perfezionisti, spingendo a valutare attentamente i propri errori e a farne tesoro per non sbagliare in futuro. Percorre problemi e grattacapi varianticipando di gran lunga quelle che potrebbero essere, eventualmente, le conseguenze più o meno gravi di determinate scelte. Insomma, si dovrebbe cominciare a guardare all’ansia diversamente da ciò che, in realtà, si pensa di lei. È vero, nella stragrande maggioranza dei casi non ci lascia mai in pace, ma se raggiungiamo dei grandi successi lo dobbiamo anche a lei, la nostra migliore nemica-amica per la vita.

Anastasia Gambera

Dal Sito: www.vocidicitta.it