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giovedì 22 giugno 2017
Paura degli psicofarmaci? Un tema controverso
La parola psicofarmaci genera di solito diffidenza e timore. In molti quando la si pronuncia storcono il naso e si spaventano rifiutando con forza.
L’immaginario che ruota attorno al mondo degli psicofarmaci è spesso costellato da false credenze, ma certamente anche verità indiscutibili. È necessario fare chiarezza tra queste verità e menzogne per non perdere di vista l’obiettivo finale, che in questo caso è e riguarda sempre ed esclusivamente il benessere della persona e il miglioramento della qualità della vita.
Nell’ambito della cura della mente ci sono diverse aree che solitamente entrano in gioco a seconda della gravità della situazione, della diagnosi, della storia della persona e della sua resilienza (capacità individuale della mente di reagire a situazioni complesse e critiche). Ci sono progetti di intervento che possono essere gestiti e risolti con un percorso di psicoterapia o una consulenza psicologica; altri quadri patologici invece non possono non includere cure psichiatriche ad hoc per tempi anche molto lunghi.
Nei casi più complessi (ma anche in situazioni meno gravi che si prestano), il più delle volte si ritiene necessario combinare cure psichiatriche, che sono farmacologiche, al sostegno psicoterapeutico. Non è inusuale quindi che psichiatra e psicoterapeuta collaborino assieme per consentire alla persona di giovare di un progetto completo che possa risolvere al meglio la sua situazione.
Gli psicofarmaci sono spesso accostati all’idea di pazzia e in genere per questo si rifiuta la loro assunzione. Si temono inoltre gli effetti collaterali (soprattutto la dipendenza da essi) che però il più delle volte sono amplificati da giudizi frettolosi, questioni politiche e culture avverse.
Come in tutte le cose, è necessario prima contestualizzare il problema.
A cosa serve lo psicofarmaco?
Lo psicofarmaco è uno strumento a disposizione del medico e del terapeuta che agisce per tamponare o arginare dei sintomi. Questo significa che agisce su quegli aspetti della malattia mentale o del semplice disagio mentale che sono manifesti e spesso invalidanti per la vita della persona.
Andiamo da situazioni gravi che rendono impossibile la non assunzione del farmaco: stati depressivi invalidanti per i quali prima è necessario correggere gli effetti originati dalla condizione depressiva e poi sarà possibile agire su un intervento dialogico, che rafforzerà le strutture interiori per uscire dal problema.
Così come situazioni assolutamente lievi: ad esempio dei semplici stati di ansia che impediscono il sonno, dove si può prevedere un aiuto che ristabilisca il risposo, fondamentale per il corretto funzionamento della mente.
Quando si supera il limite della sua utilità?
Un farmaco non è una panacea dei mali, tanto meno di quelli che affliggono la mente.
Se allo psicofarmaco viene data una centralità e importanza nell’intervento maggiore delle sue reali funzioni, il rischio che subentrino dei problemi nell’uso e quindi nell’abuso, diventa molto alto.
Tralasciando i casi di malattia mentale grave, quale la schizofrenia o la depressione bipolare per i quali vi è un discorso a parte, se al farmaco viene data la responsabilità della risoluzione del disagio che sta alle origini del malfunzionamento mentale, o problematica anche lieve che sia, allora si rischia non solo di non risolvere il problema, ma di sostituirne spesso uno con un altro.
Dunque alla base dell’uso improprio dello psicofarmaco di solito c’è un suo porlo come unica cura o perno centrale del problema presentato.
In questi casi (ad esempio dei quadri di ansia o depressione lieve) la prescrizione dovrebbe essere fatta per dare sollievo dai sintomi presentati, ma da sola non può certamente essere utile a risolvere il problema, che solitamente sta a monte e su cui è necessario lavorare.
Quando il farmaco diventa il solo mezzo utilizzato per tenersi in equilibrio, come si diceva, spesso si sostituisce un problema con un altro. Si allevia il sintomo, non si risolve il disagio sottostante e spesso si crea una dipendenza, poiché eliminando la “stampella” fornita dal farmaco, non si è più in grado di camminare.
Ad aggravare la situazione vi è poi la facilità con la quale spesso si prescrivono questi farmaci in alcuni contesti e l’autoprescrizione, ovvero la somministrazione auto indotta da parte della persona, senza il necessario controllo del medico psichiatra.
Gli psicofarmaci sono certamente dei farmaci complessi, dagli effetti collaterali spesso fastidiosi, ma tali effetti aumentano proprio quando vi è un atteggiamento di superficialità nella loro assunzione, quale appunto una somministrazione fai da te o un uso prolungato senza che di fatto si agisca realmente sulla fonte del disagio, ma solo sulla sua superficie.
Quindi come sempre, se si usa responsabilmente il farmaco, si somministra con un progetto che è volto a dare sostegno a breve durata e non a tempo indeterminato – con un progetto specifico e, nei casi che maggiormente si prestano, coadiuvato da un percorso psicoterapeutico parallelo utile a risolvere la fonte del problema – questo potrà rivelarsi un alleato valido in molte situazioni di disagio e non una indelebile etichetta di follia sull’individuo che ne fa uso.
Dott.ssa Sara Bakacs
Dal Sito: psicologo-romaeur.it
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