Tachicardia, brividi, nausea e sudorazione, misti a paura di impazzire e perfino di morire: sono solo alcuni dei sintomi più frequenti degli attacchi di panico, che nascono in situazioni in cui ci si sente bloccati o non all’altezza.
E che ci ricordano che possiamo essere fallibili
Era mercoledì e Sharon camminava tra i banchi del supermercato pensando a cosa avrebbe potuto cucinare per la cena di Shabbat. Era stanca e preoccupata. Voleva fare bella figura con sua suocera, ma non le veniva in mente nulla che fosse all’altezza.Tra il lavoro e i suoi tre figli, il tempo per mettersi ai fornelli era veramente scarso.
Manuel, il più piccolo era con lei e le sorrideva dal carrello cercando di attirare la sua attenzione. Ma quel sorriso e quei richiami non riuscivano a infonderle gioia, bensì le ricordavano che se lasciati inascoltati ancora a lungo si sarebbero tramutati ben presto in urla. L’avrebbero sentita tutti, compresa quell’insopportabile pettegola della cugina del marito che aveva incontrato poco prima. Si sentiva un fallimento. Sua suocera, di figli ne aveva avuti 5 e non mancava mai di ricordarle quanto, senza aiuto, fosse riuscita a cimentarsi in pranzetti succulenti per il marito e per tutta la famiglia. Possibile che lei, Sharon, fosse così incapace? Possibile non essere in grado di gestire ciò che per gli altri sembrava essere tanto banale? A un tratto le mani si fecero fredde e sudate, il cuore le scoppiava in gola, aveva la nausea. Voleva solo scappare via, ma sapeva di dover finire. Era certa, stava diventando pazza, quella sensazione di estraneità e quei pensieri terrorizzanti non l’avrebbero più lasciata e avrebbe finito per rovinare la vita a suo marito e ai suoi figli.
Nathan sta aspettando come ogni mattina la metropolitana, sono ormai tre anni che tutte le mattine la sveglia suona alle 6:30 e gli ricorda che un altro giorno è arrivato e un’altra giornata di sacrifici sta per cominciare. Non era sempre stato così. Tempo fa aveva un lavoro appagante, guadagnava bene, aveva un bell’ufficio con un parcheggio dedicato alla sua Alfa. Come gli piaceva la sua macchina. Il suo piccolo mondo che lo accoglieva con la musica preferita o con un silenzio meraviglioso a seconda delle situazioni. Quegli anni erano lontani così come la metropolitana che tardava ad arrivare.
“Resisti, Nathan, resisti”, si ripeteva. Per continuare a concedere alla famiglia il tenore di vita che richiedeva aveva cominciato a fare due lavori raggiungibili facilmente solo con i mezzi e quella maledetta metropolitana piena di persone, rumori e odori non sempre gradevoli, gli ricordava tutti i giorni il sacrificio che gli era richiesto, ma che nessuno sembrava riconoscere. A un tratto, di nuovo quel dolore acuto al petto, la mancanza di aria, insopportabile. Una volta era anche svenuto e lo avevano portato in ospedale. Attacchi di panico avevano detto. Che vergogna, svenire come una dama dell’Ottocento. Questa volta non sarebbe successo. E se fosse stato un infarto? No, non poteva chiedere aiuto. Avrebbe comunque resistito a tutti i costi.
Come riconoscerlo
Gli attacchi di panico sono episodi improvvisi e destabilizzanti dal forte impatto fisico ed emotivo. Nella manifestazione classica hanno una durata di una ventina di minuti e sono caratterizzati da sintomi fisici tra cui tachicardia, dolore al petto, tremori, sudorazione, brividi, nausea e dolori addominali e da sintomi più cognitivi: sensazione di irrealtà, di distaccamento da sé, paura di impazzire, di morire o di perdere il controllo.
Ovviamente non tutti i sintomi sono presenti contemporaneamente e ogni attacco di panico può avere delle manifestazioni peculiari. Possono inoltre presentarsi singolarmente oppure con maggior frequenza, arrecando notevole sofferenza e impattando negativamente sulla qualità della vita di chi ne soffre.
Se Nathan e Sharon si conoscessero, è possibile che considererebbero sciocco il motivo per cui l’altro si trovi ad affrontare il panico. A Sharon potrebbe addirittura piacere la praticità della metropolitana, potrebbe essere confortata dal vedere tanta gente che, come lei, fatica e si arrangia come può. Al contempo Nathan potrebbe suggerire a Sharon di prendere un aiuto in più in famiglia e di parlare con la suocera per organizzare dei turni per gli inviti dello Shabbat. Ciascuno penserebbe che l’altro stia esagerando nel lasciarsi abbattere.
L’attacco di panico spesso sopraggiunge quando ci si costringe a vivere in una “situazione bloccata”, in cui ogni tentativo di uscire dall’impasse viene vissuto come impraticabile e impossibile. Sharon non riesce a tollerare di non essere la moglie, la madre e la nuora perfetta e Nathan sente di non poter tollerare la frustrazione della famiglia. Entrambi vivrebbero l’ammissione del limite come una sconfitta intollerabile.
Ecco perché potrebbe essere utile figurarsi l’attacco di panico come un grido di aiuto. Come un tentativo estremo di ascoltare una parte di noi stessi, forse apparentemente meno nobile e certamente meno “performativa”, meno efficiente. Ha a che fare con l’accettazione del limite, con il dover fare i conti con la fallibilità.
Dagli attacchi di panico si può guarire con la psicoterapia e, a volte, con l’ausilio dello psichiatra, che prescriva farmaci adatti a rendere più tollerabile la sofferenza.
Semplificando molto, potremmo dire che un disturbo da attacchi di panico, per poter trovare risoluzione, richieda un sacrificio importante: immolare il proprio ideale di perfezione, che ha una costruzione lontana e radicata poiché spesso condivisa a livello familiare e quindi, ancor più difficile da scalfire.
Al di là dell’ideale però, si può trovare il reale e l’“uomo” dietro e al di là della maschera. Superare il limite imposto, per trovare lo slancio creativo per andare verso qualcosa di diverso. Che ci rispecchi maggiormente per quelli che siamo e più affine a chi sentiamo di essere.
Insomma. Se aveste una bacchetta magica, dovreste trovare la forza di non sperare che vi passino gli attacchi di panico, bensì scegliere di avere il coraggio di costruirvi una vita che vi rispecchi maggiormente.
Psicologo, psicoterapeuta, psichiatra: quali le differenze?
Lo psicologo: in ambito clinico può occuparsi di diagnosi e di sostegno ma non di terapia. Ha seguito generalmente un corso di studi di 5 anni.
Lo psicoterapeuta: generalmente ha studiato 9/10 anni specializzandosi così in un particolare tipo di terapia psicologica (tra gli orientamenti più famosi troviamo quello cognitivo-comportamentale, quello psicoanalitico, quello sistemico-relazionale) ma non si occupa di terapia farmacologica.
Lo psichiatra: ha studiato generalmente 10 anni, prescrive farmaci e se è specializzato anche in psicoterapia (altri 4 anni) si occupa anche di psicoterapia.
di Claudia Hassan
Dal Sito: www.mosaico-cem.it
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