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sabato 16 marzo 2019

A volte diciamo di essere stanchi, ma in realtà siamo tristi

A volte ci sentiamo fuori tono, intrappolati in una quotidianità di grigi e bianchi, vuota e senza senso. Quando ci chiedono cosa ci succede, diciamo di essere stanchi, solo questo e niente di più. Tuttavia, questa spossatezza senza forma né ragione nasconde la tristezza, “quell’amica negativa” che si insedia senza permesso nella mente e nel cuore per infettarci con l’apatia e la solitudine.

Ammettiamolo, ci siamo ritrovati tutti in una situazione del genere. Quando alla fatica si aggiunge quell’emozione appiccicosa, languida e profonda come la tristezza, tante volte ci viene spontaneo consultare “il Dottor Google” in cerca di una possibile diagnosi. In quel momento ci appaiono davanti termini come “depressione”, “anemia”, “ipotiroidismo”, etc.

“Buongiorno tristezza. Sei scritta nelle linee del soffitto, sei scritta dentro gli occhi che amo.

Tu non sei tutto quello che porta la miseria perché le labbra dei più poveri ti annunciano con un sorriso…”

Quando la tristezza mette le tende dentro di noi, all’inizio la concepiamo come una cosa sbagliata, una patologia di cui dobbiamo disfarci subito, come chi si deve togliere la polvere o la sporcizia dai vestiti. Ci consuma e vogliamo difenderci da essa senza fermarci a capire la sua anatomia, ad approfondire i suoi meandri melanconici per comprenderla in modo più profondo.

A volte dimentichiamo che la tristezza non è un  disturbo, che tristezza e depressione non sono sinonimi.Purché quest’emozione non si prolunghi nel tempo e non interferisca in modo continuativo con il nostro stile di vita, è un’opportunità, per quanto possa sembrare paradossale, per avanzare e crescere.

Essere stanchi: la stanchezza può nascondere qualcos’altro

A volte passiamo periodi così in cui andiamo a dormire stanchi e ci svegliamo nello stesso modo. Possiamo andare dal medico, tuttavia, i risultati delle analisi ci diranno che non c’è nessun problema ormonale, nessuna anemia, né un’altra patologia di origine organica.

Molto probabilmente il medico ci spiegherà che a volte questa stanchezza è dovuta ai cambi di stagione, ad una lieve distimia tipica dell’autunno o della primavera. Un lieve effetto che potrà essere risolto con una cura farmacologica limitata nel tempo.

Eppure, ci sono alcuni stati emozionali che non hanno affatto bisogno dell’aiuto dei farmaci per essere risolti. Tuttavia, quando avvertiamo il loro impatto psicosomatico sul nostro corpo è logico spaventarci e, di conseguenza, commettiamo l’errore di curare tale sintomo senza concentrarci sul fulcro del problema: la tristezza.

Perché crediamo di essere stanchi quando siamo tristi?

I meccanismi cerebrali che reggono i nostri stati emotivi sono diversi tra loro.  Mentre l’allegria o le effusioni innescano connessioni e iperattività nelle nostre cellule e nelle regioni cerebrali, la tristezza è molto più austera e preferisce economizzare i mezzi.  Tuttavia, lo fa per un motivo ben preciso. Vediamolo nel dettaglio.

La tristezza genera nel nostro organismo una notevole riduzione dell’energia. Sentiamo il bisogno di evitare le relazioni interpersonali, ci fanno sentire a disagio, perfino il suono può darci fastidio, anche i rumori del nostro ambiente circostante ci disturbano e preferiamo l’angolo della solitudine.

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È interessante sapere che la struttura che assume il controllo nel nostro cervello è l’amigdala,  ma solo una parte di essa, in particolare, la parte destra.

Questa piccola area cerebrale causa questa sensazione di disagio, di pigrizia, di stanchezza fisica… Tale abbassamento di energia ha in sé un fine preciso: favorire l’introspezione.

La tristezza riduce anche la nostra capacità di prestare attenzione a tutti gli stimoli esterni che ci circondano. Questo succede perché il cervello cerca di segnalarci che è giunto il momento di fermarci e pensare, di riflettere su certi aspetti della nostra vita.

Le cose che dobbiamo imparare sugli stati occasionali associati alla tristezza

Non dobbiamo ignorare la tristezza occasionale, quella che ci accompagna per alcuni giorni e che ci fa essere stanchi, spossati e sconnessi con la nostra realtà. Curarne i sintomi, risolvere la nostra stanchezza assumendo delle vitamine o guarire il nostro mal di testa con gli analgesici non serve a niente se non arriviamo all’autentica radice del problema.

“Non mi piace chiamare tristezza quel sentimento dolce e sconosciuto che mi fa ossessionare”

-Françoise Sagan-

Se non lo facciamo, se non ci fermiamo a capire che cosa ci stia causando un certo malessere, da dove derivi la nostra preoccupazione, è possibile che questo sentimento di tristezza peggiori. Può risultarci utile riflettere su una serie di aspetti che riguardano quest’emozione, i quali sicuramente potranno chiarire alcuni piccoli dettagli.

Le tre “virtù” sulla tristezza che dobbiamo conoscere

La tristezza è un avvertimento. L’abbiamo spiegato in precedenza, la perdita di energia, la sensazione di essere stanchi e privi di energia mentale per affrontare il nostro quotidiano sono solo i sintomi di un problema che dobbiamo risolvere.

La tristezza come risultato del distacco. A volte, il cervello stesso ci dà dei segnali su qualcosa che la nostra mente cosciente non riesce ad assumere: “è il momento di chiudere questa relazione”, “quell’obiettivo che hai in mente non si realizzerà”, “non sei felice con questo lavoro, stai sbagliando, ti stanno sfruttando: forse devi andartene”…

La tristezza come istinto di conversazione. Questo dato è strano e dobbiamo ricordarlo: a volte la tristezza ci invita a “fermarci”, a sconnetterci momentaneamente dalla nostra realtà. È molto frequente, per esempio, essere vittime di una delusione, in questo caso la cosa più sana da fare è fermarci a riflettere da soli  per alcuni giorni, in modo tale da poter salvaguardare la nostra autostima, la nostra integrità…

In conclusione, come abbiamo potuto notare, ci sono alcuni periodi della nostra vita durante i quali la stanchezza è di natura emotiva e non fisica. Non la dovremmo considerare un disturbo da curare, bensì una voce interna a cui prestare attenzione, un’emozione preziosa ed utile che costituisce un elemento essenziale per la crescita dell’essere umano.

via La Mente Meravigliosa

Dal Sito: aprilamente.info

giovedì 22 febbraio 2018

Agorafobia: avere paura della paura




Sull’agorafobia è stato scritto e detto molto. Molto spesso questo disturbo viene erroneamente inteso come “paura degli spazi aperti o degli spazi in cui si riuniscono molte persone”. Non è del tutto corretto, perché l’agorafobia è paura della paura, piuttosto che paura degli spazi aperti. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM-5, l’agorafobia è caratterizzata da due principali criteri diagnostici:

1. Intensa paura di due o più delle seguenti situazioni:
Usare mezzi di trasporto pubblico.
Trovarsi in spazi aperti (parchi, ponti, strade).
Trovarsi in luoghi chiusi (teatri, cinema o centri commerciali).
Fare la coda o essere in mezzo alla folla.

2. L’intensa paura di trovarsi in tali situazioni (nella maggior parte dei casi) ruota attorno agli attacchi di panico e al non poter scappare o ricevere aiuto. È per questo che l’agorafobia è la paura della paura. Le situazioni agorafobiche, come fare la coda o essere al cinema, non sono un problema di per sé; la persona teme di sperimentare la paura intensa che provoca un attacco di panico o una crisi di ansia. Un attacco di ansia che pensa possa presentarsi in queste situazioni.

In questo articolo, spiegheremo brevemente il funzionamento emotivo dell’agorafobia, le cause, che cosa lo mantiene e anche una serie di idee pratiche che aiutano a non limitarsi.

“La paura è naturale per il saggio, e saperla vincere vuol dire essere coraggiosi.”

Agorafobia: non solo paura di stare negli spazi aperti

Quando una persona soffre di agorafobia, in realtà non ha paura di trovarsi in uno spazio aperto o molto affollato. Piuttosto ciò che teme è avere un attacco di ansia o di panico in quel luogo. Pertanto, evita di uscire da casa e limita i luoghi in cui si reca.

In altre parole, l’agorafobia è definita come paura della paura ed è per questo motivo che la persona elabora una specie di “mappa” dei luoghi in cui si sente sicura o insicura. Si reca solo in quei posti in cui non ha timore che si verifichi l’attacco di panico, e se deve spostarsi più lontano, cerca di facersi accompagnare da una persona di fiducia.

Allo stesso modo, una persona con agorafobia può diventare del tutto incapace di allontanarsi dai luoghi definiti come “sicuri” se non è accompagnata da una persona di fiducia. Per questo motivo, la paura della paura è quasi sempre accompagnata da sintomi depressivi che derivano dall’immagine negativa di sé che ha il soggetto in questione e dalla sensazione di incapacità che sperimenta quando deve affrontare le attività quotidiane.
Da dove deriva questa paura della paura?

Nella stragrande maggioranza dei casi, la persona con agorafobia ha già sperimentato un episodio di intensa ansia o un attacco di panico. Visto che questa esperienza fa scattare la sua paura più profonda e più primitiva (attivazione intensa dell’amigdala cerebrale), la persona crede che sta per morire, che perderà i sensi, alcuni credono anche che stanno “diventando pazzi” o che perderanno il controllo degli sfinteri.

Comincia, dunque, a temere tale paura (la crisi o l’attacco di panico) e prende delle precauzioni per ridurre i livelli di esposizione. Queste precauzioni sono comportamenti di evitamento che non fanno altro che limitare l’indipendenza pratica ed emotiva (peggiorano l’immagine di sé e fanno sentire ancora più incapaci) e aumentare la paura.

Anche se l’agorafobia è presente durante la maggior parte della giornata, la persona a casa sua si sente protetta, meno vulnerabile, sebbene anche lì abbia sofferto di attacchi di panico. Le persone con agorafobia (senza rendersene conto) si ingannano e sviluppano una serie di comportamenti di sicurezza, in molti casi superstiziosi ed evitanti, che trasmettano loro la sensazione di avere tutto sotto controllo.

Se le situazioni di “pericolo” vengono evitate e non si hanno crisi di ansia o attacchi di panico, perché la paura non va via?

Perché con questa mappa di situazioni sicure non si arriva mai a sperimentare la sensazione che “non succede niente” e che “nulla di ciò che si prova è pericoloso”. La falsa sicurezza del soggetto affetto da agorafobia incuba e aumenta la sua paura. Senza rendersene conto, costruisce una realtà che finisce per soffocare la sua libertà e indipendenza, per paura di tornare a provare paura.

Questo significa che l’agorafobia viene mantenuta da un elemento diverso da quello che l’ha creata. La maggior parte dei casi di agorafobia si sviluppa a partire dalla precedente esperienza di un attacco di panico (in una qualsiasi delle sue varianti) e viene mantenuta dal comportamento evitante.

“Chi teme la sofferenza, soffre già di paura”

-Proverbio cinese-

Come superare la paura della paura?

L’unico modo per superare l’agorafobia è affrontarla. È necessario disporre di un’esperienza percettivo-correttiva che rompa le associazioni tra situazioni-luoghi-paura e per questo è necessario andare in terapia.

Esistono diversi approcci terapeutici volti a superare la paura della paura; tuttavia, l’unico approccio scientificamente dimostrato efficace è la terapia cognitivo-comportamentale. Questo non vuol dire che sia l’unica terapia valida, ma è l’unica che lo ha dimostrato con evidenza empirica (con fatti oggettivi). In ogni caso, per superare la paura della paura, c’è bisogno di consultare uno psicologo che faccia da guida nei passaggo necessari ad affrontare questa paura

Un ottimo esercizio per iniziare a domare il problema è cominciare a studiare il proprio caso ed essere in grado di definire fino a dove si è in grado di arrivare. In altre parole, prima bisogna definire le proprie zone di sicurezza e stabilire quale sia la distanza massima percorribile rispetto a queste zone. In secondo luogo, il soggetto può provare a recarsi in questi luoghi di sicurezza e cercare di allontanarsi ogni giorno un po’ di più. È un ottimo modo per iniziare ad avere esperienze correttive rispetto alla paura.

Infine, ricordate che la paura è irrazionale, quindi richiede esperienze correttive per essere ridotta. Pensare o leggere libri di auto-aiuto difficilmente può aiutare a superare l’agorafobia. Perché la mente deve re-imparare che quello che tanto teme è fastidioso, ma non pericoloso. Coraggio!

Dal Sito: lamenteemeravigliosa




giovedì 25 maggio 2017

L’evitamento ci fa solo sentire peggio.


Tutti abbiamo vissuto situazioni che ci hanno causato un malessere tale da portarci a desiderare solo di scappare via. Vi spiegheremo perché l’evitamento, che può sembrare a priori il miglior meccanismo di difesa, è particolarmente pericoloso per noi, soprattutto a lungo andare.

Non vi parleremo solo dei pregiudizi che derivano da questo modo di affrontare le cose, ma vedremo anche quali comportamenti possono sostituire l’evitamento, il cui unico risultato è allontanare la possibilità di esposizione ad una situazione che viene percepita come sgradevole o anche dolorosa.

Ho imparato che non si può tornare indietro, che l’essenza della vita è andare avanti. La vita, in realtà, è una strada a senso unico.
Agatha Christie

Che cos’è l’evitamento?

Quando ci ritroviamo in situazioni che consideriamo minacciose, adottiamo diverse strategie per affrontarle. Configuriamo e consolidiamo queste strategie nel corso della nostra vita. Se si rivelano utili in determinate condizioni, allora tenderemo ad aumentarne la frequenza d’uso e ad adattarle a nuovi problemi se all’inizio non sembrano le più adeguate. Al contrario, se non si rivelano efficaci, allora le elimineremo dal nostro repertorio.

In base a questo, esistono diverse strategie da adottare. Una di queste è, appunto, l’evitamento e possiamo distinguere quello per anticipazione e la fuga. Nel primo caso, anticipiamo una situazione sgradevole e facciamo tutto il possibile per allontanarcene. Nel secondo caso, ci troviamo già in una situazione sgradevole e impieghiamo tutte le nostre energie per scappare.

Quando è possibile, i comportamenti di evitamento hanno il pregio di ristabilire la tranquillità. In poco tempo hanno questo rinforzo, che spesso è molto potente: il sollievo immediato dai sentimenti sgradevoli. Così, le persone continuano a mettere in pratica questa strategia ogni volta che succede qualcosa che le fa stare male. In questo modo, evitano sempre più situazioni nei diversi ambiti in cui si trovano e le loro vite sono sempre più condizionate dalla paura.

Questo modo di affrontare le situazioni è quello a cui si ricorre per trattare i disturbi emotivi. Se questo comportamento viene modificato, favorirà considerevolmente il recupero del benessere psicologico.
In che modo affrontare le situazioni che sono causa di malessere?

Allora, se ricorrere all’evitamento a lungo andare invece di allontanarci dal malessere in realtà ci fa del male, cosa possiamo fare? Forse dovremmo abbandonarci alla sofferenza? No, perché esistono altri modi di affrontare le situazioni che non costituiscano un limite serio per la vita.

Folkman e i suoi collaboratori (1986) hanno classificato i diversi modi di affrontare le situazioni:
Confronto: alterare la situazione che genera malessere con azioni dirette e anche aggressive, con atteggiamenti ostili e rischiosi.
Distanza: allontanarsi dalla situazione, ma senza uscirne, in modo da poter arricchire la prospettiva della situazione stessa.
Autocontrollo: la capacità di attuare le strategie di regolazione emotiva che si possiedono.
Ricerca di supporto sociale: fare in modo che gli altri informino, consiglino e capiscano.
Evitamento: come abbiamo visto, si tratta di scappare dalla situazione in concreto.
Pianificazione: analizzare la situazione per cercare le alternative che si possono portare a termine.
Rivalutazione positiva: vedere la situazione come una sfida che aiuta a crescere in quanto persone invece di una minaccia alla stabilità. 

Considera tutte le avversità come esercizi.
Seneca

Da ciò si può dedurre che non solo è sbagliato evitare le situazioni, ma anche le altre strategie non sono le più adeguate. Il confronto ostile e aggressivo ne è un esempio.

Tuttavia, una presa di distanza che ci permetta di autocontrollarci, rivalutare la situazione in maniera positiva, pianificare le nostre azioni, cercare sostegno sociale (senza arrivare a dipendere dagli altri per tutto) può essere di grande aiuto. Chiaramente solo se non dobbiamo agire in modo avventato.

Come potete vedere, si tratta di usare con intelligenza le diverse strategie che abbiamo a disposizione. Evitare determinate situazioni può essere una strategia prudente, ma non possiamo passare la vita a schivare le pozzanghere quando piove spesso. Di fatto, se insistiamo con questa strategia, alla fine ci ritroveremo immobilizzati in un posto, pregando affinché l’acqua non occupi il piccolo spazio in cui ci troviamo, senza aver imparato niente nel percorso.

Al contrario, se decidiamo di adottare altri modi di affrontare le situazioni, quindi se non evitiamo le sfide, svilupperemo un sentimento di auto-efficacia che si manifesterà quando facciamo bene qualcosa. La nostra autostima, pertanto, ne beneficerà.

Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

lunedì 20 febbraio 2017

Non ho più l’età per avere rimpianti.


Alla fine, senza sapere come, arriva quel giorno. Qualcosa dentro di noi si sveglia per dirci che non abbiamo più l’età per avere rimpianti, per gli abbracci a metà, per le mezze intenzioni e per le notti senza luna. Alla fine, arriva quella tappa in cui le paure vengono meno e i limiti non hanno più l’opportunità di creare abissi davanti a noi.Jorge Luis Borges, nell’epilogo di “Tutte le opere”, dice che le persone sono il loro passato, il loro sangue, i libri letti e le altre persone conosciute. Tuttavia, a questa lista bisogna aggiungere tutto ciò che non è stato possibile fare a suo tempo. Le persone sono anche quei vuoti, quei tentativi falliti che hanno implicato un rimpianto molto pesante, più pesante degli errori commessi.

“Il fallimento è l’opportunità per ricominciare con più intelligenza”.
(Henry Ford)

Convincersi che i treni passano sempre per chi sa aspettare è una triste illusione, una frase trita e ritrita riportata spesso sui libri di auto-aiuto. Ci sono fatti che hanno avuto il loro momento, la loro magica occasione, la quale è svanita come fumo da una finestra aperta. Non si ripeteranno più. Tuttavia, ogni mattina si aprono nuove porte che lasciano passare venti più freschi e spazi più nitidi a cui approcciarci con un nuovo atteggiamento.

Prima di dire a noi stessi frasi come “alla mia età non può più succedere” o “queste cose non fanno più per me”, dobbiamo essere capaci di staccarci da questa triste malinconia per recuperare la fame, la voglia e il piacere di vivere con le mani piene e il cuore acceso.
Il rimpianto ci spinge ad uscire dalla nostra zona di comfort

Non siamo più fatti per avere rimpianti o per mostrare il meraviglioso mare dentro di noi a persone che non sanno nuotare e che non capiscono il linguaggio delle nostre onde. Arriva un momento in cui odiamo il suono della routine perché, invece di darci sicurezza, ci appare come un triste inverno mai sostituito dalla primavera, tanto meno dalle ispiratrici notti d’estate.

Non importa l’età scritta sulla nostra carta d’identità: è il nostro cuore a racchiudere la vera gioventù, quella che aspira a nuove esperienze e a nuovi sapori. Abbiamo voglia di fare qualcosa, ma come dare forma a questa necessità vitale? Come oltrepassare la frontiera della nostra quotidianità? Può sembrare contraddittorio, ma spesso possiamo rendere il nostro malessere o la nostra inquietudine veri alleati per andare oltre le nostre zone sicure.

Molti di voi penseranno che il termine “zona di comfort” sia una reliquia della psicologia motivazionale degli anni ’80 su cui sono stati scritti tanti libri. Tuttavia, quegli studi, iniziati per verificare il livello di “temperatura ambientale” in cui una persona si sente a suo agio, hanno dimostrato un dato ancora più interessante: gli esseri umani sono programmati per ricercare spazi neutri in cui sentirsi al sicuro.

Ciononostante, tale sicurezza non li porta sempre ad essere più produttivi o più felici: in certe occasioni nascono nuove necessità vitali.

Comprendere che le nostre aree di comfort si sono fatte piccole ci spinge ad oltrepassare la linea della nostra paura in cerca di nuove opportunità. Perché a volte abbracciare le nostre inquietudini e i nostri malesseri è l’unico modo per assicurarci le basi del progresso.
I cerchi della nostra vita e le nuove opportunità

Visualizzate per un attimo il trascorso della vostra vita. È probabile che vi siate immaginati una linea retta: alle vostre spalle rimane il passato con tutto ciò che vi siete lasciati scappare, i tentativi falliti e i cammini mai esplorati. Dall’altra parte, sospeso davanti al vostro naso, proprio di fronte a voi, si apre il vostro futuro, in cui si profilano tutte le opportunità di progresso sopracitate.

Ebbene, in realtà non dovreste pensare così alla vostra vita: l’ideale è visualizzarla per mezzo di cerchi. Peter Stange, celebre scienziato e ingegnere di sistema, definisce il nostro mondo e la nostra esistenza come un bellissimo meccanismo di cerchi connessi tra essi. Quasi come fosse un mandala. Si tratta di cicli che iniziano e finiscono e che si intrecciano gli uni con gli altri in modo assolutamente meraviglioso. Pensare alla vostra vita in questo modo vi invita a riflettere su diverse questioni.

La prima idea che dovete trarre da quest’immagine è che le opportunità perse ieri, gli errori e i tentativi non riusciti del passato fanno parte di un ciclo già terminato. Vedere che in tale ciclo c’è un inizio e una fine vi spinge a cominciarne uno nuovo con più solidità, saggezza e speranza.

In questa attuale tappa, tutto è possibile: è un cerchio aperto in cui siete ricettivi a tutto ciò che vi circonda. Le opportunità sono molteplici e ora sapete che non avrete più rimpianti. Tutto ciò che è stato vissuto in passato non rimane dietro di voi, ma vi avvolge per fungere da punto di riferimento, per ricordarvi quali porte non meritano di essere aperte e quali linee potete oltrepassare in tutta tranquillità.

In fin dei conti, la vita è la costruzione di un bellissimo mandala in cui tutto è in movimento. Ora sarete voi a scegliere i colori, voi a non avere più rimpianti, voi a creare la vostra tanto sognata e agognata felicità.

Dal Sito: lamenteemeravigliosa