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venerdì 2 ottobre 2020

Storie di 5 sportivi che hanno sconfitto la depressione



Ci sono mali oscuri che arrivano dal nulla e senza bussare entrano nelle nostre vite, rischiando di portarci a picco. Rialzarsi è durissima e quando pensi di avercela fatta, a volte capita di dover combattere un secondo e un terzo round prima di venirne fuori. Questi mali sono molto democratici e attaccano chiunque senza distinzione di sesso o classe sociale.

Tornare alla vita di prima si può e gli esempi di Gigi Buffon, Federica Pellegrini, Andre Agassi, Kevin Love e Mark Cavendish ne sono una prova. Per la nostra rubrica “zero eccessi” ecco le storie di questi 5 famosissimi campioni che ce l’hanno fatta. Sono imprese più importanti di quelle sportive, perché dimostrano quanto i valori tipici dello sport – la resilienza, la costanza, l’impegno e il perseguimento di obiettivi – trascendano il perimetro ristretto di uno stadio o un palazzetto.

BUFFON E LA SUA PARATA PIÙ IMPORTANTE
Siamo agli inizi degli anni 2000 e Gigi, che è ormai da anni il miglior portiere italiano e per tutti l’erede di Zoff, ha tutto. Soldi, fama, sex appeal… Ma, come ha raccontato senza nascondersi sui social:

“Una mattina ti alzerai dal letto e le tue gambe inizieranno a tremare fortissimo. Sarai così debole che non riuscirai a guidare la macchina. All’inizio penserai che si tratti semplicemente di stanchezza o di un virus. Ma poi la cosa peggiorerà. Avrai solo voglia di dormire. All’allenamento ogni parata sembrerà un’impresa. Per sette mesi non riuscirai a goderti la vita”.

Poi quella mostra di Chagall che come una folgorazione gli dà la spinta per ripartire, per riprendere in mano la vita privata prima e quella sportiva poi. Da lì in avanti, grazie anche al medico della Juve, ai compagni di squadra, agli amici e parenti che diventeranno suoi confidenti e sostenitori, Gigi migliora sempre più fino ad uscirne. Il resto è storia, come il Mondiale 2006 e gli scudetti vinti in bianconero.

PELLEGRINI BATTE L’ANSIA E TORNA IN VASCA
Nel 2008 a soli 20 anni Federica è già la regina del nuoto italiano e non solo. Ha vinto tutto, Europei, Mondiali ed è stata oro alle Olimpiadi di Pechino. Ma quando nell’autunno di quell’anno (dopo una gara in cui non riusciva a respirare, temendo addirittura di affogare) le viene diagnosticato un broncospasmo causato dall’allergia alle muffe presenti in piscina, la sua vita sportiva cambia.

Se grazie ai farmaci risolve il problema fisiologico, “dal punto di vista psicologico la situazione è peggiorata. Dopo quella gara, l’ansia è diventata il mio guaio più grave: temevo di rivivere le sensazioni provate in quella terribile performance, anche se razionalmente sapevo che non sarebbe potuto riaccadere. Continuavo a rimuginare e dire non ce la faccio, non ce la faccio, e mi si chiudeva la gola. Quando l’ansia toccava l’apice, non riuscivo nemmeno a entrare in acqua: arrivavo ai blocchi di partenza e correvo via”.

Il mental coach, l’analisi in studio e le simulazioni di gara l’hanno aiutata a convivere con questo blocco mentale. E nonostante la paura, Federica è tornata a gareggiare e vincere, riconfermando l’oro ai Mondiali di Roma, agli Europei di Budapest e di nuovo ai Mondiali di Shanghai.

AGASSI SUPERA LA DIPENDENZA DALLE DROGHE
Andre, uomo simbolo del tennis anni 90 è l’esempio di chi ha provato il viaggio dal paradiso all’inferno, andata e ritorno. Come racconta nella sua biografia cult “Open” tutto inizia nel momento della separazione dalla moglie Brook Shields, star di Hollywood:

“Il mondo mi chiedeva chi fossi davvero, nel momento in cui non lo sapevo neppure io. E questo mi ha portato a chiudermi in me stesso. Ma tutto è arrivato a una conclusione in Germania nel 1997. Avevo 27 anni. Ero 140 al mondo. Ero stato numero uno. E perdo ancora al primo turno dopo aver accettato una wild card. In qualche modo c’era ancora gente che veniva a vedermi, ma avevo dimenticato come si colpiva una pallina da tennis. Ero nella mia stanza in hotel dopo la sconfitta e guardavo fuori dalla finestra. Guardavo il traffico, non ho mai odiato il tennis così tanto come in quel momento. È stato questo che mi ha portato a creare una fondazione, perché tra essere numero 1 al mondo e 140 non c’è differenza: dipende solo da come scegli di vivere“.

La “rockstar del tennis” poteva appendere la racchetta al chiodo, ma farlo avrebbe voluto dire darla vinta ai demoni che lo bloccavano. Ha scelto di vivere, come dice lui, è tornato in campo e lo ha fatto da campione vero trionfando di nuovo agli US Open del 1999 e agli Australian Open del 2000, 2001 e 2003.

KEVIN LOVE E I SUOI CANESTRI CONTRO GLI ATTACCHI DI PANICO
Nato e cresciuto da una famiglia agiata e famosa (il padre giocatore NBA prima di lui, lo zio storico cantante dei Beach Boys) Kevin sembra avere un futuro spianato davanti a sé, avviato com’è ad una carriera da prima pagina: dai successi al college con UCLA all’NBA, dai T’Wolves ai Cavs, coi quali vince un titolo a fianco di Lebron James fino alle convocazioni da protagonista nella nazionale a stelle e strisce. Un giocatore poco appariscente, ma molto duttile come ala grande e centro, in virtù di un’abnegazione e un’intelligenza tattica da fuoriclasse. Ma nonostante la sua vita da atleta senza eccessi, anche Kevin ha la sua storia triste da raccontare. Tutto inizia nell’autunno del 2018 quando, prima contro Atlanta e poi contro OKC, è vittima di attacchi di panico che lo costringono a lasciare il parquet durante la partita. La sua confessione è durissima:

“È difficile da descrivere, ma quella sera contro Atlanta credevo che il cervello stesse cercando di uscirmi dalla testa. Ricordo di aver perso il controllo quando dalla panchina ci hanno comunicato un adeguamento difensivo: ho cercato di pensare e di eseguirlo, ma si è spento tutto. Il panico è arrivato da non so dove. Non avevo mai vissuto una situazione del genere. Da quel momento, il mio atteggiamento sulla salute mentale è cambiato completamente. Era come se il mio corpo mi stesse dicendo ‘stai per morire’. Sono finito sul pavimento della sala pesi, disteso schiena per terra, cercando di incamerare aria”.

L’aiuto decisivo arriva dal collega DeMar DeRozan che prima di Kevin aveva affrontato e vinto questo male.
“Le sue parole mi hanno aiutato a capire l’importanza della salute mentale, che è una cosa invisibile, ma che ad un certo punto diventa determinante. E come ha detto Demar: non sai mai cosa sta sentendo la persona che hai di fronte. Se state leggendo queste parole, e state vivendo un periodo difficile, ricordatevi che non c’è nulla di male né di strano a condividere ciò che avete dentro. Anzi, forse è la cosa più importante: per me è stato sicuramente così”.

Kevin veste ancora la maglia dei suoi amati Cavs e non li ha abbandonati,
nemmeno ora che sono passati in pochi anni dall’essere una delle squadre più forti in NBA a quella col peggior record a est del 2020. Kevin ha comunque chiuso la sua stagione con quasi 18 punti e 10 assist di media.

CAVENDISH HA SCONFITTO IL “BUIO” IN CUI ERA ENTRATO
Per tutti gli appassionati delle due ruote lui è “Cannonball”, uno dei migliori velocisti degli ultimi 20 anni.Le sua volate sono diventate un simbolo per tutti i tifosi britannici e non. Quattro volte campione del Mondo fra il 2008 e il 2006 e quasi 150 successi in carriera, eppure Mark ha passato quasi due anni a combattere contro la depressione.

“Ho sofferto molto, ero al buio. Ne sono uscito con un aiuto, ma senza farmaci. Sono riuscito ad uscire da questo periodo molto doloroso. Ora riesco a vedere gli aspetti positivi della vita”, racconta Cavendish, colpito in passato anche dal virus di Epstein-Barr che lo ha costretto a lunghi periodi di stop. Anche se il Cavendish dei vecchi tempi non lo vedremo più, spodestato da ciclisti più giovani e affamati, vederlo ancora in sella (ora corre per il team Bahrain-McLaren) ci insegna cometornare a fare ciò che si ama senza l’ossessione del successo, può essere la medicina migliore.


Dal Sito: sportnews.snai.it

venerdì 7 luglio 2017

La mia vita con la depressione Così ho sconfitto il "cane nero"


È una malattia come le altre, ma più terribile e forse più assurda. Alla fine si guarisce, ma ci vuole pazienza


Roberto Gervaso        
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«La depressione è una vera e propria malattia, una malattia terribile, la più terribile. È il “male oscuro”, come il mio vecchio, indimenticabile amico Giuseppe Berto definì la depressione, di cui per dieci anni soffrì come un condannato a morte cui veniva sadicamente rinviata l'esecuzione»




Anche Roberto Gervaso, giornalista e scrittore, ne ha sofferto a lungo: una malattia che ha segnato la sua esistenza, e che si intreccia con le sue esperienze professionali: perché fu il suo amico Indro Montanelli a «farlo guarire» la prima volta, grazie al lavoro al «Corriere». Gervaso racconta la sua battaglia (vinta) contro la depressione nel suo nuovo libro, «Ho ucciso il cane nero» (Mondadori, in libreria da domani), di cui anticipiamo il capitolo «Gli artigli della depressione».

Riflettendo su questa malattia, una malattia come le altre, ma più terribile delle altre e forse più assurda, mi guardavo dentro e cercavo di capire com'è fatta la nostra mente, perché ci gioca questi scherzi, perché ci tormenta in questo modo, perché stravolge, drammatizzandola, la nostra esistenza. Cosa avviene in noi, quali germi si annidano nelle nostre sinapsi e ne alterano, paralizzano la funzione. Può essere una patologia dell'anima? Certo! Ma l'anima esiste? Quante volte me lo sono chiesto e mai ne ho avuto una risposta che non mi desse una certezza, ma almeno una speranza; se ci si ammala, perché ci si ammala? E perché ci si ammala senza preavviso, senza avvisaglie? Quale maleficio si compie nel nostro Io più profondo? Perché ci tortura? Cosa abbiamo fatto per meritarci una simile punizione, anche se non abbiamo nulla da farci perdonare? Abbiamo commesso un delitto? Siamo pronti a pagarne il prezzo. Qualunque castigo ci sarà inflitto lo subiremo. Perché solo attraverso le braci ardenti del pentimento, la nostra coscienza si risveglia e si riscatta, ci rimette in pace con noi stessi.

Quale maleficio s'insinua nella depressione? Chi decide che dobbiamo passare sotto le sue forche caudine, inermi e inerti, subendo e soffrendo?

Perché la natura che ho sempre amato e onorato e che considero il più grande dei doni elargiti da Dio all'uomo, mi diventa ostile? Perché gli alberi, di cui avevo gioiosamente accarezzato le foglie, rispettandole anche quando, ingiallite, d'autunno cadono foderando romanticamente i viali, sono diventati fantasmi? Perché il mio cane, anche il mio cane, il mio caro meticcio Cirillo che mi ha sempre tenuto la più tenera e discreta compagnia, si trasforma in una creatura indifferente e, se abbaia, fastidiosa? Perché i libri, che sono la mia vita, perdono ogni interesse? Perché distrattamente, meccanicamente li sfoglio senza leggerli e, se li leggo, lo faccio solo per dovere? Perché un film, i miei film culto, se mi capita di guardarli, non li vedo, perché quando la mente è altrove è difficile richiamarla? Perché tengo alla larga gli amici e, quando mi sono vicini, è come se fossero assenti? Perché la mattina non mi alzerei mai? Perché passerei la giornata a letto? Perché invidio l'ultimo clochard che incontro per strada, alla stazione, sui gradini di una chiesa? Non ha niente, non ha nessuno, vive alla giornata. Sì, ma vive. Io muoio. Quanto vorrei essere al suo posto, sepolto in una scatola che sembra una bara! Affamato, assetato, compatito da tutti. Il destino si è malvagiamente accanito contro di lui, ma gli ha risparmiato i morsi del «cane nero».

Il «cane nero», il «male oscuro», un'ossessione senza fine, che non ti dà tregua, non si placa mai. Una landa che ti si conficca nel costato, un coltello che ti scalca il cuore, un punteruolo che te lo trafigge e lo fa a brandelli. Chi non conosce questo morso feroce ti esorta a farti coraggio, a mettere alla prova, sino a sfidarla, la volontà, costringerla a reagire e a volgere a tuo favore il tuo dramma.

Ma la depressione è la malattia della volontà, è la sua perdita totale, il suo annullamento. Tu ti senti ancora peggio perché ti senti incompreso. Ma come ti può comprendere chi non è mai entrato in questo antro infernale, chi non ha mai varcato la soglia di un tenebroso labirinto senza fili di Arianna, senza bussola, senza niente? Un labirinto dove tu sei solo con te stesso, o quello che di te stesso rimane. E, intorno, minotauri, vampiri, draghi, serpenti, paludi melmose che t'inghiottiscono, baratri in cui precipiti senza rendertene conto. E strade tortuose che ti portano fuori strada e ignori dove ti condurranno. Tu vaghi, smarrito come un demente, agitato come un naufrago che non trova la riva, che non sa dove gettare l'ancora, perché l'ha perduta. Che cerca una zattera, la vede in lontananza, ma non riesce a raggiungerla e poi eccola svanire, sfocandosi e confondendosi con il più torbido orizzonte.

Esasperato e disperato, t'illudi di trovare uno sfogo nel pianto. Versi, singhiozzando, tutte le lacrime che hai nel cuore, ammesso che qualche frustolo ti sia rimasto, e vorresti morire, morire subito, di un colpo, e di colpo farla finita, non pensare più a niente, suggellando un'esistenza che non avresti mai immaginato così sadica, crudele, iniqua.

T'imbottisci di psicofarmaci, che ci vogliono, ma ben dosati: mai abusarne. L'effetto si fa sospirare e una mattina ti svegli con un'ansia che sfiora l'angoscia, ma che non è angoscia.

Piano piano, impercettibilmente, le ante della tua finestra si dischiudono, ma non puoi ancora affacciarti. Solo uno spiraglio, che vagamente fa filtrare un pallido raggio di luce. È l'inizio della rinascita. Ma non illudetevi: ci vuole pazienza.