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giovedì 22 febbraio 2018

Entrate e uscite dalla depressione: gli schemi maladattivi sottostanti



La depressione non è una malattia a sè stante ma un insieme di sintomi che possono scaturire da una diversa organizzazione della personalità.

La depressione non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade. Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Ti svegli e già la vita non ha senso. Alzarsi costa fatica. Un senso di stanchezza, fatica, sfiducia nel futuro. Il mondo è enorme, incombente e tu non hai le forze per affrontarlo. Vorresti restare a letto. A volte lo fai, al diavolo tutto, lasciatemi stare, io non ce la faccio. E tanti altri sintomi correlati: dormire poco o dormire troppo. Un senso di irrequietezza, agitazione, a volte brutti pensieri: vorrei farla finita.
Questa è, in estrema sintesi, la depressione, il male oscuro, il male del secolo, una roba pesante ad avercela.

Il mondo degli psichiatri e degli psicoterapeuti ci ragiona su tanto, ci sono molti modi di affrontarla psicoterapeuticamente e farmacologicamente, è ragionevole essere ottimisti: la depressione si cura. Magari ritorna, ma le ricadute si possono prevenire o possono essere affrontare prontamente e il loro impatto alla fine è limitato.

Il clinico sveglio però sa una cosa: la depressione non è una malattia a sé stante. Sì, ci sono persone che hanno un’alterazione biologica del tono dell’umore, che tende verso il basso. Loro sì, hanno la depressione. Ma non vi fate ingannare. Quando leggete sui giornali che tizio ha fatto questo e quest’altro perché aveva la depressione non è vero. E soprattutto, se vi diagnosticano la depressione… un attimo! La depressione, dicevo, non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade.
Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Come funziona il meccanismo?

Andiamo direttamente con un esempio.
Desidero essere apprezzato. Dentro di me penso di valere poco. Prevedo che gli altri mi giudicheranno. Questo mi dà ansia nell’attesa del giudizio, vergogna se mi espongo all’occhio critico, tristezza dopo che rimango a fare i conti con il mio scarso valore. Rinuncio a espormi, perdo occasioni di fare progressi, si restringe la vita sociale. La vita perde sapore, significato. Mi deprimo. Un quadro del genere, per esempio lo trovate nel disturbo evitante di personalità.

Desidero essere amato. Penso di meritarlo poco e di non essere in grado di sostenere da solo la mia debolezza. Prevedo che l’altro sarà indisponibile o mi abbandonerà. Quando sento l’abbandono mi sento solo, sperduto, l’idea di non essere amabile è confermata. Mi butto giù. Perdo iniziativa, mi paralizzo. Mi deprimo.
Un quadro del genere lo trovate per esempio nel disturbo dipendente di personalità.

Desidero sicurezza. Penso di essere vulnerabile, fragile, feribile. Prevedo che gli altri saranno ostili, minacciosi, umilianti, mi inganneranno, mi schiacceranno. Se vedo segni di aggressione, e li vedo facilmente anche se non ci sono, perché sono sempre in 
guardia, mi metto in difesa. A volte attacco, ma soprattutto mi chiudo, mi ritiro, mi isolo. Prendo le distanze dal mondo, vivo nel bunker, allarmato isolato. Mi deprimo.
Un quadro del genere è tipico delle personalità paranoidi.

Potrei continuare. È chiara l’idea? Per curare la depressione, nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscere e trattare il disturbo di personalità sottostante. In questo modo la cura va alla radice e si prevengono le ricadute. E si previene il rischio di interruzione precoce del trattamento.
Se si cura solo la costellazione di sintomi, sempre che ci si riesca, è facile che il problema appaia ancora. E noi clinici attenti vogliamo mirare all’esito migliore possibile.

Dal Sito: www.stateofmind.it

venerdì 27 ottobre 2017

Depressione: per uscirne bisogna chiedere aiuto


Ho imparato che condividere con gli altri la tristezza, il bisogno, il dolore significa che alcuni si allontaneranno, ma che un infinito numero di persone si manifesteranno a te. Simona Vinci, autrice di "Parla, mia paura", racconta come è riuscita a sconfiggere depressione e attacchi di panico

Siamo sedute nella sala d’attesa di un reparto di un grande ospedale pubblico dell’Emilia Romagna, la mia Regione. Talmente grande, questo edificio, che nonostante le piantine a caratteri cubitali posizionate in ogni dove su grandi tabelloni plastificati, nonostante le frecce colorate con i numeri e le lettere che indicano i vari reparti e ambulatori e le direzioni per ascensori e bagni e corridoi, ci si perde lo stesso. E il senso dell’orientamento se ne va a farsi un giro fuori dalla tua testa e dal tuo corpo, come succede a volte dentro gli aeroporti giganteschi delle metropoli, quando magari sei all’altro capo del mondo, da sola, e non sei sicura che saprai spiegarti nella lingua giusta. Hai paura a chiedere indicazioni, il tempo stringe, vorresti uscire a fumare, ma non si può più e giunti a questo punto, se tu cercassi disperatamente un’uscita rischieresti di non riuscire a raggiungere mai più il terminal giusto e di perdere l’aereo.
Scrivere mi ha salvato

Ma oggi, qui, non succede niente di tutto questo, siamo in due e lei, in questo posto, si orienta abbastanza bene perché ci è già stata tante volte. Non siamo amiche intime o, almeno, non lo siamo ancora nel momento in cui io sposto la sedia azzurra per mettermi davanti a lei, all’altezza del suo sguardo, e raccogliere la paura che proviamo entrambe, per motivi simili e diversi, e provare a scioglierla dentro le parole che ci diciamo. Si dice a volte che le parole non servano, che siano i gesti, e quelli soli, a fare la differenza. Io non ci ho mai creduto. Sarà perché scrivo, e le parole sono il pane e l’acqua della mia vita da sempre. Sarà perché ho visto e sentito fiorire e nascere sentimenti sul concime delle parole. Sarà perché le parole mi hanno salvato la vita, sempre. Nei momenti più difficili, quelli in cui mi è capitato, come spesso capita, a tutte e tutti, di trovarsi in quello che appare come un vicolo cieco: prima o dopo, una parola è riuscita a intrufolarsi e a raggiungermi.

Ho cercato lo sguardo di un altro

Qualcuno ha paura di amare, qualcuno di perdere le persone che ama, di essere abbandonato, ferito, di non essere all’altezza di ciò che gli viene richiesto, paura di non essere abbastanza intelligente, abbastanza bravo, paura di non farcela a corrispondere alle aspettative degli altri, del mondo.

Quanta gente schiacciata, distrutta e ammutolita dalle paure.

Lo sono stata anche io, ho sofferto di depressione e attacchi di panico. Mi sono dibattuta in una ragnatela appiccicosa e tagliente senza trovare la forza di chiedere aiuto. Avevo tachicardia, lampi visivi, senso di soffocamento e paura di impazzire, come se il corpo stesse per esplodere. Mi accadeva di giorno (e questo mi impediva di vivere una vita normale) ma anche di notte, quando ero a letto, all’improvviso.

Volevo farcela da sola, liberarmi da sola, o sola o niente. Guai, mi dicevo, a chiedere aiuto! Guai, a mostrare la tua ferita o gli altri se ne approfitteranno. E poi, che umiliazione, mostrarsi deboli, bisognosi, piagnucolosi e malfermi come bambini che chiamano la mamma per un graffio. Eppure, un giorno è successo, un giorno che non ce la facevo più ho alzato lo sguardo a cercare gli occhi di qualcuno. Un giorno non ho potuto far altro che quello: alzare lo sguardo, incontrare un paio di occhi e chiedere: mi aiuti? Da quel momento, molto è cambiato. Sono cambiata io.
Ho imparato a mostrare le mie ferite

Piano piano ho imparato che potevo rischiare di mostrare la mia vulnerabilità, che non tutti, questo è ovvio, l’avrebbero compresa, che non tutti mi sarebbero stati accanto, non tutti sarebbero diventati amici o alleati, ma non tutti non vuole dire appunto nessuno, vuol dire, qualcuno sì, qualcuno no.

A dire il vero, molti, sì. Ho imparato che condividere con gli altri anche la tristezza, anche il bisogno, anche il dolore significa che alcuni si allontaneranno, impauriti o annoiati, ma che un infinito numero di persone delle quali non avresti sospettato l’esistenza e la disponibilità, si manifesteranno a te.

Non c’è bisogno di pretendere. Bisogna solo trovare la forza di aprire una finestra, un cancello, una porta e uscire. Bisogna prendere una sedia azzurra e sedersi di fronte a quella che diventerà un’amica per ascoltare il suo dolore e farla partecipe del tuo. Quello che accadrà sarà diverso, per ognuna e per ognuno, ma, quasi sicuramente, almeno una risata dopo le lacrime arriverà, e quella risata se è vero che non cancellerà l’amarezza, le sconfitte, la rabbia e la paura, le accoglierà però in uno spazio differente. Una sala d’aspetto asettica di un grande ospedale pubblico potrà trasformarsi in un intimo salottino con la luce soffusa, i fiori sul tavolo, uno spazio amichevole abitato dalle parole e accudito dalla reciproca attenzione.

di Simona Vinci, scrittrice

Dal Sito: www.donnamoderna.com