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giovedì 22 febbraio 2018

Entrate e uscite dalla depressione: gli schemi maladattivi sottostanti



La depressione non è una malattia a sè stante ma un insieme di sintomi che possono scaturire da una diversa organizzazione della personalità.

La depressione non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade. Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Ti svegli e già la vita non ha senso. Alzarsi costa fatica. Un senso di stanchezza, fatica, sfiducia nel futuro. Il mondo è enorme, incombente e tu non hai le forze per affrontarlo. Vorresti restare a letto. A volte lo fai, al diavolo tutto, lasciatemi stare, io non ce la faccio. E tanti altri sintomi correlati: dormire poco o dormire troppo. Un senso di irrequietezza, agitazione, a volte brutti pensieri: vorrei farla finita.
Questa è, in estrema sintesi, la depressione, il male oscuro, il male del secolo, una roba pesante ad avercela.

Il mondo degli psichiatri e degli psicoterapeuti ci ragiona su tanto, ci sono molti modi di affrontarla psicoterapeuticamente e farmacologicamente, è ragionevole essere ottimisti: la depressione si cura. Magari ritorna, ma le ricadute si possono prevenire o possono essere affrontare prontamente e il loro impatto alla fine è limitato.

Il clinico sveglio però sa una cosa: la depressione non è una malattia a sé stante. Sì, ci sono persone che hanno un’alterazione biologica del tono dell’umore, che tende verso il basso. Loro sì, hanno la depressione. Ma non vi fate ingannare. Quando leggete sui giornali che tizio ha fatto questo e quest’altro perché aveva la depressione non è vero. E soprattutto, se vi diagnosticano la depressione… un attimo! La depressione, dicevo, non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade.
Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Come funziona il meccanismo?

Andiamo direttamente con un esempio.
Desidero essere apprezzato. Dentro di me penso di valere poco. Prevedo che gli altri mi giudicheranno. Questo mi dà ansia nell’attesa del giudizio, vergogna se mi espongo all’occhio critico, tristezza dopo che rimango a fare i conti con il mio scarso valore. Rinuncio a espormi, perdo occasioni di fare progressi, si restringe la vita sociale. La vita perde sapore, significato. Mi deprimo. Un quadro del genere, per esempio lo trovate nel disturbo evitante di personalità.

Desidero essere amato. Penso di meritarlo poco e di non essere in grado di sostenere da solo la mia debolezza. Prevedo che l’altro sarà indisponibile o mi abbandonerà. Quando sento l’abbandono mi sento solo, sperduto, l’idea di non essere amabile è confermata. Mi butto giù. Perdo iniziativa, mi paralizzo. Mi deprimo.
Un quadro del genere lo trovate per esempio nel disturbo dipendente di personalità.

Desidero sicurezza. Penso di essere vulnerabile, fragile, feribile. Prevedo che gli altri saranno ostili, minacciosi, umilianti, mi inganneranno, mi schiacceranno. Se vedo segni di aggressione, e li vedo facilmente anche se non ci sono, perché sono sempre in 
guardia, mi metto in difesa. A volte attacco, ma soprattutto mi chiudo, mi ritiro, mi isolo. Prendo le distanze dal mondo, vivo nel bunker, allarmato isolato. Mi deprimo.
Un quadro del genere è tipico delle personalità paranoidi.

Potrei continuare. È chiara l’idea? Per curare la depressione, nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscere e trattare il disturbo di personalità sottostante. In questo modo la cura va alla radice e si prevengono le ricadute. E si previene il rischio di interruzione precoce del trattamento.
Se si cura solo la costellazione di sintomi, sempre che ci si riesca, è facile che il problema appaia ancora. E noi clinici attenti vogliamo mirare all’esito migliore possibile.

Dal Sito: www.stateofmind.it

venerdì 26 gennaio 2018

La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente




Con la terapia EMDR il soggetto accede a informazioni correttive e le collega alla memoria traumatica, attraverso piccole indicazioni da parte del terapeuta

La terapia EMDR è utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico. Essa sfrutta i movimenti oculari alternati per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Terapia EMDR: un’introduzione

EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una tecnica psicoterapeutica ideata da Francine Shapiro nel 1989. Questa metodologia, utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico, sfrutta i movimenti oculari alternati, o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Disturbo da stress post-traumatico e terapia EMDR

Il diturbo da stress post-traumatico (DSPT) si sviluppa in seguito all’esposizione del soggetto ad un evento traumatico nel quale la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Come riportato dal DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’evento traumatico viene rivissuto ripetutamente in diversi modi, ed il soggetto mette in atto un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. Si verificano inoltre alterazioni negative dell’umore o delle cognizioni, ed un’attenuazione della reattività generale, oltre che sintomi di aumentato arousal.

Shalev (2001) ha proposto che la complessità del disturbo possa essere meglio compresa come compresenza di diversi meccanismi, quali l’alterazione di processi neurobiologici, l’acquisizione di risposte condizionate di paura a stimoli correlati al trauma, e schemi cognitivi e di apprendimento sociale alterati.

La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Ciò include il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, in quanto tutti gli aspetti di memoria, pensiero, sensazioni fisiche ed emotive dell’evento traumatico non riescono ad essere integrati con altre esperienze. La patologia in questi casi emerge a causa dell’immagazzinamento disfunzionale delle informazioni correlate all’evento traumatico, con il conseguente disturbo dell’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione. Questo provoca il ‘congelamento’ dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto; l’informazione congelata e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi psicologici.

I movimenti oculari saccadici e ritmici tipici della terapia EMDR, concomitanti con l’individuazione dell’immagine traumatica, delle convinzioni negative ad essa legate e del disagio emotivo, facilitano la rielaborazione dell’informazione, fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. In questo modo l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo non negativo.

Le tecniche EMDR, come la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, seguono le teorie del processamento dell’informazione e si rivolgono alle memorie disturbanti individuali ed ai significati personali dell’evento traumatico e delle sue conseguenze, attivando la rete dei ricordi di paura attraverso la presentazione di informazioni che attivano elementi delle strutture della paura ed introducono informazioni correttive incompatibili con questi elementi.

L’esposizione immaginativa tipica della terapia cognitivo-comportamentale però guida l’individuo a rivivere ripetutamente l’esperienza traumatica il più vividamente possibile, senza prendere in causa altre memorie o associazioni; questo approccio è basato sulla teoria secondo cui l’ansia è causata dalla paura condizionata ed è rinforzata dall’evitamento.

Al contrario la terapia EMDR procede tramite catene di associazioni, collegate con stati che condividono gli elementi sensoriali, cognitivi o emotivi del trauma. Il metodo adottato non è di tipo direttivo; l’individuo è incoraggiato a ‘lasciare accadere qualsiasi cosa avvenga limitandosi a notarla‘ mentre le memorie liberamente associate entrano nella mente tramite l’esposizione immaginativa, in forma di brevi flash.

In accordo con le teorie del condizionamento classico, promuovere l’attenzione a informazioni correlate alla paura facilita l’attivazione, l’abituazione e la modificazione della struttura di paura.

Durante la terapia EMDR, i terapeuti spesso accedono solo a brevi dettagli della memoria traumatica, ed incoraggiano la distorsione o il distanziamento dell’immagine che, in accordo con le teorie tradizionali, dovrebbe esitare in un evitamento cognitivo. La terapia EMDR incoraggia tuttavia gli effetti distanzianti che sono considerati efficaci nel processamento della memoria piuttosto che nell’evitamento cognitivo. E’ forse per questo che i pazienti sottoposti a questo tipo di terapia cosiderano l’EMDR come meno confrontante e la tollerano meglio.

L’EMDR comprende il complesso delle risposte emotive che seguono un evento stressante analizzando stati affettivi, sensazioni fisiche, pensieri, emozioni e credenze contemporaneamente.

Il cambiamento cognitivo che la terapia EMDR evoca mostra che il soggetto può avere accesso a informazioni correttive e collegarle alla memoria traumatica e ad altre reti di memorie associate. Tutto ciò avviene con piccole, se non nulle, indicazioni da parte del terapeuta. L’integrazione del materiale positivo e negativo che avviene spontaneamente durante il processo di desensibilizzazione dell’EMDR somiglia all’assimilazione in strutture cognitive (in linea con la teoria del processamento adattivo dell’informazione), così come accade per le visioni del mondo, i valori, le credenze e l’autostima.

Il movimento oculare nella terapia EMDR

La componente del movimento oculare ha provocato molti dibattiti in quanto sembra essere la componente che differenzia la terapia EMDR dalla terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e dai trattamenti basati sull’esposizione. Tuttavia, è stato suggerito che i movimenti oculari non siano necessari, portando a ricerche per verificare se altre stimolazioni bilaterali (uditive o tattili) o nessun movimento oculare producessero risultati equiparabili. Sulla base dei modelli di estinzione della paura, i movimenti oculari causerebbero distrazione ed una riduzione dell’abituazione.

Lee e Cuijpers (2013) hanno condotto una meta-analisi per determinare l’efficacia dei movimenti oculari quando vengono processate memorie emotive. I loro risultati supportano l’inclusione del movimento oculare sia per il trattamento in ambito clinico che nell’ambiente di laboratorio, dimostrando l’importanza della fedeltà al trattamento quando si utilizza l’EMDR. I vantaggi avvallati del compito aggiuntivo dei movimenti oculari nell’EMDR sono il distanziamento e la riduzione della vividezza e dell’emotività della memoria.

Sulla base della teoria per la quale i sintomi del disturbo da stress post-traumatico risultano da un fallimento del processamento di memorie episodiche, è stato suggerito che i movimenti oculari bilaterali possano facilitare l’interazione interemisferica, producendo un miglioramento nel processamento della memoria. La ricerca indica che il processamento della memoria episodica è bilaterale, mentre quello della memoria semantica viene condotto nell’emisfero cerebrale sinistro. Il movimento oculare orizzontale può rinforzare un aumento dell’attivazione di entrambi gli emisferi, migliorando in questo modo la comunicazione tra di essi e promuovendo il processamento dell’evento traumatico tramite la stimolazione della capacità di richiamo degli elementi che lo caratterizzano dalle memorie episodiche e semantiche.

Un altro modello teorico proposto è basato sulla teoria del movimento oculare rapido (REM) durante il sonno. La ricerca suggerisce che l’integrazione tra memorie episodiche e semantiche avvenga durate il sonno. La ricerca, facendo utilizzo di tecniche di neuroimaging, ha dimostrato l’esistenza di regioni cerebrali specifiche affette dalla ristimolazione di memorie traumatiche nel DSPT; queste sono le stesse regioni attivate nella fase REM del sonno. I movimenti oculari bilaterali ripetuti attivano il tronco cerebrale in uno stato di sonno REM, supportando così l’integrazione della memoria e la riduzione dei sintomi del DSPT.

La stessa stimolazione ripetitiva bilaterale che riorienta l’attenzione da un lato all’altro è alla base, secondo alcuni autori, dell’attivarzione di un meccanismo neurologico simile al sonno REM tramite una risposta di orientamento; l’attivazione di questi mecanismi sposta il cervello in una modalità di processamento della memoria simile al sonno REM, permettendo l’integrazione delle memorie traumatiche. E’ stato anche proposto che i movimenti oculari inneschino la risposta di orientamento attivando un riflesso investigatorio che si presenta primariamente come una risposta di allarme ed in secondo luogo come una pausa riflessiva, che produce una riduzione dell’arousal se non c’è una reale minaccia. Questa risposta riflessa produce un aumento dell’allerta, la quale favorisce i comportamenti esploratori quando i processi cognitivi diventano meno flessibili ed efficienti, permettendo alla memoria traumatica di essere integrata.

Secondo alcuni autori inoltre i movimenti oculari creerebbero una risposta di rilassamento, facilitando il riprocessamento della memoria tramite la riduzione del distress.

Memoria, memoria di lavoro e terapia EMDR

Seguendo la teoria della memoria di lavoro, è stato ipotizzato che gli effetti positivi della terapia EMDR possano risultare dal fatto che i movimenti oculari creano un doppio compito di attenzione. In linea con il modello di memoria di lavoro proposto da Baddeley, quest’ultima possiede una capacità limitata. Quando l’attenzione deve essere suddivisa tra più stimoli, come avviene nel caso del doppio compito di attenzione, la qualità dell’immagine traumatica si deteriora, con il risultato che essa viene portata al di fuori della memoria di lavoro ed integrata nella memoria a lungo termine (semantica), dove la vividezza e l’emotività sono ridotte. Il doppio compito di tenere l’emozione in mente mentre ci si focalizza sui movimenti oculari bilaterali può quindi interrompere l’immagazzinamento delle memorie traumatiche, ridurre la qualità episodica della memoria e quindi ridurre i sintomi del DSPT.

Un’esplorazione più specifica di Gunter e Bodner (2008) ha rilevato che le memorie tenute nel taccuino visuospaziale (un sottosistema della memoria di lavoro) si riducono in vividezza quando i movimenti oculari esauriscono le risorse di processamento. La ricerca ha mostrato che una riduzione della vividezza della memoria, dovuta ai movimenti oculari, può portare ad un conseguente decremento dell’emotività che circonda la memoria e ad una corrispondente riduzione dei dintomi del DSPT.

Lansing et al. (2005) hanno condotto studi di neuroimaging su agenti di polizia che avevano sviluppato il DSPT in seguito al coinvolgimento in sparatorie, sottoposti a sessioni di terapia EMDR. I risultati della SPECT (tomografia computerizzata a emissione di singoli fotoni) hanno rilevato una riduzione dell’attivazione nel lobo parietale sinistro, area associativa, e nel pulvinar destro, nucleo talamico associativo che aiuta a regolare i circuiti corticali; queste deattivazioni possono essere implicate nell’attenuazione della rete neurale delle memorie traumatiche. L’analisi dei dati ha mostrato inoltre una maggiore attivazione in aree prefrontali sinistre che sono solitamente ipoattivate nei soggetti con DSPT, ed un’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, associata con un miglioramento dei sintomi, in particolare di tipo depressivo.

Effetti neurobiologici della terapia EMDR

Una ricerca condotta da Pagani et al. (2012) ha permesso di monitorare l’attività cerebrale tramite EEG durante le sedute di terapia EMDR in pazienti con DSPT, paragonati a soggetti di controllo. A seguito di una terapia che ha riscontrato successo, il principale risultato neurobiologico dello studio è stato lo spostamento dell’attivazione corticale massima, sia durante l’ascolto del racconto autobiografico del trauma che durante la stimolazione oculare bilaterale, dalle regioni prefrontali e limbiche alle corteccie fusiforme e visiva, durante il corso della terapia. La comparazione con i soggetti di controllo ha mostrato come il rivivere l’evento traumatico causasse nei pazienti un’attivazione limbica bilaterale significativamente maggiore durante il racconto, ed una maggiore attivazione limbica orientata verso sinistra durante la stimolazione oculare bilaterale. Questo dato potrebbe essere correlato al tentativo guidato di codificare materiale emotivo non elaborato durante la stimolazione oculare, attivando preferenzialmente la corteccia prefrontale rostrale sinistra. L’attivazione della corteccia prefrontale rostrale durante la stimolazione oculare è risultata essere maggiore anche considerando i pazienti nella prima fase della terapia, in confronto con gli stessi soggetti valutati a fine terapia.

L’attivazione prefrontale è associata con la valutazione di materiale generato da sé stessi, essendo la corteccia cingolata anteriore il punto di integrazione di informazioni emotive coinvolte nella regolazione degli affetti, oltre che il substrato dell’esperienza conscia emotiva che monitora le informazioni con conseguenze sul piano affettivo. La corteccia prefrontale rostrale, in quanto parte del sistema limbico, è coinvolta in processi che riguardano il valore emotivo delle informazioni in arrivo, ed è criticamente implicata in funzioni alterate nella risposta psichica al trauma. Per di più, il recupero della memoria episodica attiva la corteccia prefrontale, ed è stata descritta una stretta relazione tra la memoria autobiografica/episodica, il sé ed il coinvolgimento della corteccia prefrontale. E’ stata dimostrata anche un’attivazione di tale regione durante la soppressione di memorie indesiderate, e durante il richiamo del trauma prima della terapia EMDR.

Un rilevante effetto neurobiologico della terapia EMDR nei pazienti è rappresentato dall’aumento significativo, in seguito al trattamento, del segnale elettroencefalografico nel giro fusiforme, così come nella corteccia visiva destra, confrontato con il segnale registrato ad inizio terapia. Questi cambiamenti suggeriscono un migliore processamento cognitivo e sensoriale (visivo) dell’evento traumatico durante il ricordo autobiografico, in seguito al successo della terapia EMDR, con un’attivazione preferenziale che si muove dalla corteccia emotiva fronto-limbica verso la corteccia associativa temporo-occipitale. Una volta che il mantenimento della memoria dell’evento traumatico può spostarsi da uno stato implicito subcorticale ad uno esplicito, differenti regioni corticali partecipano al processamento dell’esperienza. D’altra parte il giro fusiforme è implicato nella rappresentazione esplicita di facce, parole e pensieri astratti, e la sua prevalente attivazione dopo la terapia EMDR potrebbe essere associata con l’elaborazione, ad un livello cognitivo più alto, di immagini correlate all’evento. Il giro fusiforme ha mostrato una maggiore attivazione anche durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia, rispetto all’inizio della stessa.

Nei pazienti è stata trovata una chiara lateralizzazione verso l’emisfero sinistro durante la stimolazione oculare, e verso l’emisfero destro durante la lettura del racconto autobiografico. In accordo con la teoria dell’asimmetria emozionale l’emisfero destro è dominante sul sinistro per l’espressione e la percezione emotive. Oltretutto, entrambi gli emisferi funzionano come una sorta di unità funzionale e l’attivazione aumentata in uno di essi determina un’inibizione di quello controlaterale. L’attivazione prominente trovata durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia nelle aree di associazione nell’emisfero sinistro potrebbe quindi corrispondere ad un processamento cognitivo delle memorie traumatiche che sta raggiungendo lo stato esplicito dopo la terapia EMDR portata a termine con successo, associata ad un significativo contenimento delle esperienze emotive negative.

L’emisfero sinistro gioca anche un importante ruolo nell’esplicazione delle emozioni, ed è stata inoltre dimostrata l’attivazione del giro fusiforme durante compiti che implicano la memoria episodica ed il recupero della memoria associata al controllo attentivo.

Terapia EMDR con ansia e depressione

Una recente meta-analisi (Chen et al., 2014) si è occupata di indagare gli effetti della tecnica EMDR in 26 di studi, effettuati tra Gennaio 1993 e Dicembre 2013, che hanno utilizzato l’EMDR per il trattamento del disturbo da stress post traumatico, in comparazione ad altri tipi di terapie. La meta-analisi ha rilevato un effetto moderato della terapia EMDR per il disturbo da stress post-traumatico, la depressione (spesso in comorbidità con tale disturbo) e l’ansia (sperimentata dai pazienti con DSPT quando devono affrontare lo stress), ed un effetto ampio dell’EMDR sulla percezione soggettiva di distress. Questi risultati suggeriscono che l’EMDR può migliorare la consapevolezza nei pazienti, cambiare le loro credenze e i loro comportamenti, ridurre l’ansia e la depressione, e condurre a emozioni positive.

I pazienti con disturbo da stress post-traumatico non possono gestire appropriatamente le loro esperienze negative e le loro memorie. La terapia EMDR permette ai pazienti di creare connessioni adattive per integrare le esperienze negative con emozioni ed i pensieri positivi, migliorando i sintomi del disturbo.

Un’analisi dei sottogruppi in questo studio ha permesso di individuare come un trattamento della durata di 60 minuti a sessione sia maggiormente efficace rispetto a trattamenti di più breve durata, riducendo significativamente sia l’ansia che la depressione. I pazienti hanno inoltre mostrato una maggiore riduzione dei sintomi quando il trattamento era effettuato da parte di terapeuti con esperienza nella terapia di gruppo del disturbo da stress post-traumatico, comparati a coloro che sono stati trattati da terapeuti senza una tale esperienza.

Le ricerche sinora condotte hanno permesso di individuare varie modificazioni delle strutture neurali che si verificano in seguito alla terapia EMDR, e ciò ha permesso di sviluppare diverse teorie sul suo funzionamento, le quali forniscono un supporto ancora maggiore all’utilizzo di tali tecniche, la cui validità è stata più volte valutata e provata in studi di efficacia terapeutica. Ciò nonostante, i processi chiave che sottostanno ai meccanismi dell’EMDR sono complessi, in linea con la struttura del trattamento, che coinvolge componenti di mindfulness, ristrutturazione cognitiva, esposizione alla memoria, e senso di padronanza personale. Saranno necessarie dunque ulteriori ricerche, che permettano di chiarire sempre meglio i meccanismi di funzionamento, nelle diverse circostanze e considerando l’applicazione a diversi tipi di disturbo, di questa tecnica terapeutica all’avanguardia.

Dal sito: www.stateofmind.it

sabato 2 settembre 2017

Umorismo e psicoterapia: la funzione e i benefici dell’umorismo


L' umorismo in psicoterapia può essere utile per facilitare l'alleanza terapeutica e aiutare il paziente a cogliere il lato positivo nelle cose negative.
L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003). Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Cos’è l’ umorismo e qual è la sua funzione?

Etimologicamente, la parola “umorismo” deriva dal latino ‘humorert-em’ o ‘umorert-rem’ (umidità, liquido), che si avvicina anche al greco ‘yg-ròs’ (bagnato, umido). L’origine del termine sembrerebbe dunque rimandare alla medicina ippocratica che riteneva la personalità e la salute legata ai fluidi corporei, detti “umori”. L’umorismo, peculiarità dell’essere umano, rappresenta la capacità intelligente e sottile di individuare e ritrarre gli aspetti comici della realtà.

L’aspetto della condivisione è fondamentale quando si parla di comicità, infatti si tende a ridere perlopiù insieme agli altri – amici, parenti, familiari, o colleghi che siano – di eventi e situazioni che spesso non hanno una connotazione umoristica in sé, ma la assumono per le circostanze stesse di condivisione in cui si verificano. Dunque tali eventi e situazioni diventano divertenti per i membri del gruppo in questione, diminuendo le distanze.

Ma cosa è considerato divertente e qual è la funzione dell’umorismo? A partire dall’inizio del scorso secolo, questi interrogativi hanno iniziato a suscitare interesse all’interno della comunità scientifica. Le teorie esplicative al riguardo sono state numerose. Tra le principali è possibile citare la teoria del Sollievo, che attribuisce all’umorismo una funzione liberatoria. Questa teoria, descritta per la prima volta da Freud, afferma che l’umorismo funziona quando uno scherzo o un’osservazione spiritosa serve ad allentare le nostre tensioni sessuali e aggressive represse. L’umorismo fornisce uno sbocco socialmente accettabile per quelle fondamentali pulsioni biologiche che sono presenti in tutti noi.

Un’altra teoria degna di nota è quella della Superiorità, essa sostiene che le situazioni e le osservazioni diventano umoristiche per noi perché finiamo col sentirci migliori quando qualche umiliazione o sfortuna capita ad altri. Questo è il motivo per cui ci sembra divertente vedere una persona che si da arie, scivolare e cadere. Noi non siamo coinvolti in modo negativo perché siamo in una posizione di superiorità. Naturalmente non sarebbe divertente se a cadere fosse un fragile signore anziano.

La teoria dell’Assurdo afferma invece che l’umorismo si verifica quando ci sono conseguenze impreviste in circostanze che sono familiari. Una persona può all’improvviso apparire o comportarsi in un modo inaspettato o diverso dalla norma. Per esempio, se un’automobile va in pezzi all’improvviso la cosa risulta buffa ai bimbi piccoli perché in contrasto con le loro aspettative (Franzini, 2011)

Altri modelli teorici hanno identificato l’umorismo come una strategia di coping o un meccanismo di difesa, intesi come la propensione a mantenere una prospettiva umoristica in circostanze avverse (Lefcourt e Martin, 1986); un’abilità cognitiva, volta a generare, comprendere, riprodurre e ricordare una situazione umoristica (Feingold e Mazzella, 1993); un pattern comportamentale abituale, quale tendenza a ridere frequentemente, a raccontare barzellette, a divertire gli altri e a ridere per gli scherzi altrui (Martin e Lefcourt, 1984); un atteggiamento positivo o divertito nei riguardi dell’umorismo o del mondo (Svebak, 1996); una risposta estetica, quale apprezzamento dell’umorismo e di particolari tipi di materiale umoristico (Ruch e Hehl, 1998); un tratto temperamentale connesso alle emozioni di cui l’allegria abituale costituisce una dimostrazione (Ruch e Kohler, 1998).

Spesso identificato come un costrutto benevolo legato a emozioni e vissuti piacevoli, nell’umorismo è in realtà possibile riscontrare anche una nota di sarcasmo e di ridicolo che attribuiscono a esso un’accezione negativa.
Gli stili umoristici e lo strumento di valutazione dell’umorismo

A tal proposito Martin et al. (2003) distinguono quattro stili umoristici: affiliativo, autorinforzativo, autodenigratorio e aggressivo.
Lo stile affiliativo viene utilizzato per migliorare e facilitare le relazioni con gli altri attraverso l’utilizzo di commenti divertenti, battute spiritose, barzellette e scherzi. Questa dimensione si identifica nel ridere con e non nel ridere di qualcuno.
L’umorismo autorinforzativo è legato alla tendenza ad avere un atteggiamento benevolo verso la vita, mettendo il soggetto nella condizione di riuscire a ridere di se stesso e delle circostanze, cogliendo gli aspetti divertenti della realtà e mantenendo una prospettiva umoristica di fronte a eventi avversi.
Lo stile umoristico autodenigratorio si riferisce all’utilizzo di un umorismopotenzialmente dannoso verso se stessi al fine di ottenere l’approvazione altrui attraverso commenti volti a mettersi in ridicolo per compiacere l’altro.
L’umorismo aggressivo può risultare particolarmente dannoso per le relazioni interpersonali, in quanto legato alla derisione e alla manipolazione dell’altro. L’intento di fondo è quello di danneggiare e sminuire l’altro.

Questi quattro stili umoristici possono essere facilmente valutati mediante lo HumorStyles Questionnaire (HSQ) messo a punto da Martin e colleghi (2003), realizzato sulla base di studi teorici e clinici volti ad indagare la relazione tra l’ umorismo e il benessere. Lo HSQ è stato tradotto e validato in contesti socio-culturali diversi, confermando complessivamente le buone qualità psicometriche e i fattori originari (Chen e Martin, 2007).
L’ umorismo in psicoterapia

I benefici dell’ umorismo sulla salute fisica e mentale sono stati ampiamente confermati, tuttavia vi è una carenza di interesse per lo studio dell’ umorismo in psicoterapia il cui utilizzo è, a tutt’oggi, un argomento controverso. Si ipotizza che lo studio in tale ambito sia rimasto inesplorato perchè i terapeuti sono poco inclini a inserire volontariamente lo humour durante i loro colloqui presupponendo che la psicoterapia sia “questione seria” e non possa includere contenuti frivoli, almeno in modo volontario.

Di contro, recenti ricerche hanno dimostrato l’efficacia dell’ umorismo in psicoterapia e la sua utilità quale elemento facilitatore nella costruzione dell’alleanza terapeutica e in alcune aree specifiche come la valutazione di personalità. Inoltre, diversi studi hanno rilevato come l’ umorismo possa essere inserito nel trattamento di un ampio numero di disturbi, quali, ad esempio, l’ansia, le fobie specifiche, il disturbo ossessivo-compulsivo e la depressione.

L’ umorismo in psicoterapia è un fenomeno complesso in quanto coinvolge diversi aspetti: una risposta cognitiva, data dalla comprensione e dall’apprezzamento dell’intento umoristico, una reazione psicologica (la risata) e una risposta emotiva data dal vissuto di divertimento e allegria (Sultanoff, 2003).
Affinchè l’utilizzo dello humour abbia esiti positivi, i terapeuti dovrebbero essere consapevoli delle diverse funzioni che svolge e individuare il momento più opportuno per ricorrervi.

Louis Franzini (2001) ha individuato diverse funzioni che può assolvere l’ umorismo in psicoterapia, suggerendo inoltre di inserire lo humour fra le componenti informali del curriculum di ogni psicologo e psicoterapeuta.

In fase di assessment è opportuno che i terapeuti prestino attenzione a ciò che le persone trovano divertente: riuscendo a cogliere quale tipo di umorismo il paziente apprezza sarà possibile farsi un’idea della persona che si ha davanti ed evitare di incorrere in battute infelici. Inoltre, richiamare l’attenzione sull’atteggiamento umoristico (ad esempio, chiedendo perchè ride quando si parla di certi argomenti) rappresenta un metodo per aiutare il paziente ad aumentare la consapevolezza di sè .

L’ umorismo in psicoterapia può essere uno strumento di grande aiuto anche nella costruzione dell’alleanza terapeutica, esso ha un compito importante nella costituzione di una buona empatia, vista la sua funzione di facilitatore sociale che porta ad una maggiore soddisfazione del rapporto, a una maggiore vicinanza e a una risoluzione efficace dei conflitti (Cann et al., 2008). Va sottolineato che la direzione della relazione fra umorismoe alleanza terapeutica è bidirezionale: una maggiore empatia porta ad una maggiore alleanza terapeutica ed un’accresciuta alleanza terapeutica favorisce l’utilizzo dell’umorismo. Inoltre, l’umorismo può essere una strategia utile per favorire una comprensione empatica da parte del terapeuta nei riguardi del paziente (Meyer, 2007).

In fase di intervento l’ umorismo in psicoterapia può facilitare l’apprendimento di prospettive alternative e la riduzione dello stress. L’ umorismo è infatti un’efficace strategia di coping che aiuta a diminuire l’impatto emotivo causato dall’aver vissuto eventi stressanti. Il terapeuta può incoraggiare il paziente a modificare il proprio punto di vista portandolo a “vedere il lato divertente” delle cose, in modo da aiutarlo a regolare le emozioni negative trasformandole in positive.

Va ricordato che l’ umorismo di per sè non è terapeutico: è necessario che venga usato in modo terapeutico. I risultati migliori si ottengono quando i clinici trasmettono empatia e quando gli interventi umoristici vengono impiegati in maniera genuina, comunicando attenzione e sincerità per le preoccupazioni del paziente. D’ altra parte, l’umorismo può non sortire effetti terapeutici, ma arrivare a essere addirittura pericoloso, se non impiegato con criterio.

Uno dei rischi più frequenti nell’utilizzo dell’ umorismo in psicoterapia è che i pazienti non si sentano presi sul serio. Un altro rischio si verifica quando il terapeuta tocca temi importanti in modo divertente, conducendo il paziente all’errata interpretazione che certi argomenti non debbano essere discussi seriamente. Inoltre, secondo Robert Pierce (1994), il terapeuta può mettere in atto tre tipi di umorismo negativo, il cui utilizzo andrebbe, ovviamente, evitato.
1. Commenti umoristici non pertinenti per lo scopo terapeutico. In questo caso il terapeuta cambia totalmente argomento e ne introduce uno non attinente.
2. Uso dell’umorismo in modo difensivo. Viene utilizzato per spostare l’attenzione da temi particolarmente toccanti o personali, sia per se stesso che per il paziente, che il terapeuta non è in grado di affrontare, su altri che ritiene più sicuri.
3. Umorismo utilizzato dal terapeuta per attaccare il paziente. Rientrano in questa categoria i commenti usati per sminuire, prendersi gioco e ridere del paziente. Questo tipo di umorismo può essere vincolato da sentimenti di frustrazione e rabbia, sia consapevole sia inconsapevole.

In conclusione è possibile affermare che l’ umorismo rappresenta un valido aiuto per il terapeuta, uno strumento che, se usato con consapevolezza, consente al clinico di intensificare gli effetti positivi della terapia. Potrebbe essere utile a tal proposito, stimolare nei terapeuti un’attenta riflessione sul tema e esortarli a impiegare l’umorismo all’interno della relazione terapeutica.


Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/umorismo-in-psicoterapia/


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giovedì 27 luglio 2017

Imparare a dire No: l’importanza di affermare se stessi e le proprie esigenze


Dire di no permette di mettere in luce i propri bisogni e tutelare i propri valori personali, facendo capire all'altro che abbiamo esigenze da rispettare

POTER DIRE UN NO, CORRISPONDE A CAPIRE CHE GLI ALTRI POSSONO RICONOSCERCI PER QUELLO CHE SIAMO ANCHE SE NON SI È D’ACCORDO CON LORO. DIRE NO, METTE IN LUCE I NOSTRI BISOGNI, E FA CAPIRE ALL’ALTRO CHE SIAMO PERSONE DIVERSE CON PROPRIE ESIGENZE DA CONSIDERARE E RISPETTARE.


Quanti di vuoi faticano a dire NO?.

Come è possibile che una parola mosillaba possa creare così tanti problemi nel pronunciarla?

Eppure, dire un no crea molti problemi, soprattutto perché mette in gioco una serie di emozioni negative, difficili da tollerare.

Rispondere con un sì a tutto, anche quando si pensa l’esatto contrario di quello che si sta affermando, cela chiaramente la necessità di voler essere compiacenti nei confronti dell’altro, perché si teme possa accadere qualcosa di catastrofico, difficile da gestire.

Nel dettaglio, si dice si perché, tendenzialmente, si ha paura di non piacere all’altro e di conseguenza l’altro potrebbe avere un pessimo giudizio della nostra persona, oppure per paura del conflitto e delle conseguenze che potrebbe portare in futuro, o, ancora, paura di poter perdere un’occasione importante e che non possa ripresentarsi mai più.
Poter dire un no, corrisponde, invece, a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Le ricerche dimostrano che è più facile rispondere con un sì a una richiesta perché dire no mette a disagio e fa emergere emozioni negative, come la colpa, la vergogna, la paura. Ciò è particolarmente vero quando le persone si trovano a prendere una decisione vis a vis.

Nel remoto caso in cui si dovesse rispondere con un no, pare si diventi più propensi a dire sì alle richieste successive. Il senso di colpa che deriva dall’aver detto il nodetermina il bisogno di rimediare al danno arrecato per recuperare al presunto torto compiuto senza creare ulteriori disagi. La gente è addirittura d’accordo ad acconsentire a richieste immorali piuttosto che rischiare l’ imbarazzo di dire un no.
Da un punto di vista neuroscientifico pare che i nostri cervelli abbiano una maggiore reazione al negativo che al positivo, tant’è che le informazioni negative producono una attivazione cerebrale più ampia e un’attività elettrica più rapida della corteccia, rispetto alla risposta positiva.

Sembra che i ricordi negativi siano più forti di quelli positivi, perché un ricordo di qualcosa di negativo ci dà memoria di quanto è stato e permette di evitare quella cosa in futuro, quindi ha una funzione adattiva e di apprendimento.

In uno studio pubblicato sulla rivista Personality e Social Psychology Bulletin, la dottoressa Bohns e il suo team avevano chiesto a un gruppo di studenti universitari di rovinare un libro della biblioteca scarabocchiandolo. La metà di loro ha accettato di deturpare il libro. Secondo la Bohns questo comportamento è determinato dal sentirsi appartenenti a un gruppo sociale. Quindi, dire no farebbe sentire in pericolo di espulsione dallo stesso e di conseguenza metterebbe a repentaglio le relazioni sociali.
Spesse volte, sentirsi dire un no lascia basiti, perché nell’immaginario collettivo questa parola assume connotazione negativa di rifiuto ogni qualvolta è usata. Ma le conseguenze del dire un no spesso sono sovrastimate da noi stessi, poiché non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Naturalmente , non tutti hanno problemi a dire no. Sembra che alcuni abbiano più difficoltà di altri, dipende dal carattere che si ha. La Bohns dice di non aver trovato differenze di genere nella sua ricerca, al contrario di alcuni esperti che sostengono che le donne possono avere più difficoltà a dire di no rispetto agli uomini , in quanto spesso sono condizionate a mantenere i rapporti e a preoccuparsi troppo dei bisogni degli altri al punto da fugare i propri.

Tutte queste persone col tempo, e a proprie spese, imparano ad apprezzare l’importanza di dire no, perché apprendono che così facendo proteggono la propria individualità e i propri bisogni, altrimenti tendono a soddisfare solo gli interessi degli altri e non i propri.
Insomma, dire no significa non rispondere e non adeguarsi alle pressioni cognitive e sociali dettate da terzi e questo serve a tutelare i propri valori.

Ma, allora, qual è il modo migliore per rifiutare una richiesta? Di seguito alcuni suggerimenti.

1. Essere semplici e diretti nel dare una risposta:

Ti ringrazio, ma non posso.

Grazie, ma non riesco.

2. Motivare la risposta riferendosi a circostanze esterne:

No, grazie. Ho preso un altro impegno.

Mi spiace, ma avevo promesso a mio figlio di passare del tempo con lui.

3. Essere convincente, ma educato:

Preferisco rifiutare, mi spiace;

No, grazie.

In sostanza, bisogna:

1. Allenarsi nel provare a dire di no per non rimanere senza parole nel caso si presentasse questa evenienza.

2. Costruire delle frasi pronte del tipo: “Ci penserò” da utilizzare all’occorrenza.

3. Rimandare una risposta aumenta la possibilità di dire no.

4. Addolcire il tono della voce per far si che il no detto non offenda troppo le persone.

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2014/05/imparare-adiredino-importanza-diaffermare-sestessi-ele-proprie-esigenze/

giovedì 22 giugno 2017

Sorridere induce il rilascio di ormoni del buon umore e promuove le relazioni sociali


Un nuovo studio ha rivelato come il rilascio di endorfine provocato dalla risata sociale giochi un ruolo importante nel promuovere relazioni interpersonali   Irene Camilla Sicari

Anche nei momenti più difficili, la risata ha il potere di tenere vicine le persone. Un nuovo studio ha rivelato l’influenza che il sorriso ha sul cervello, aiutando a spiegare come anche una risata banale giochi un ruolo così importante nelle relazioni sociali.

Un gruppo di ricercatori dalla Finlandia e dal Regno Unito hanno scoperto che la risata sociale è un trigger per il rilascio di endorfine– spesso chiamate “ormoni del buon umore” – nelle regioni cerebrali responsabili di arousal e delle emozioni. Le endorfine sono peptidi che interagiscono con i recettori oppioidi nel cervello per aiutare ad alleviare il dolore e generare sensazioni di piacere.

Inoltre, lo studio ha rivelato che la maggior parte dei recettori oppioidi presenti nelle regioni cerebrali associati alle emozioni, sono quelli maggiormente coinvolti nella risata sociale.

I nostri risultati evidenziano che il rilascio di endorfina indotto da risate sociali potrebbe avere un ruolo importante nella formazione, nel rafforzamento e nel mantenimento dei legami sociali tra gli esseri umani – afferma il co-autore dello studio, Prof. Lauri Nummenmaa, del Centro PET di Turku dell’Università di Turku in Finlandia.

I ricercatori hanno recentemente riportato i loro risultati nel The Journal of Neuroscience.
La risata sociale ha incrementato il rilascio di endorfine

l Prof. Nummenmaa e colleghi hanno selezionato 12 uomini sani per il loro studio. Ai partecipanti è stato iniettato un composto radioattivo che aderiva ai recettori oppioidi nel cervello. Utilizzando la tomografia ad emissione di positroni (PET), i ricercatori sono stati quindi in grado di monitorare il rilascio di endorfine e di altri peptidi che si legano ai recettori degli oppioidi.

I partecipanti sono stati sottoposti a scansioni PET due volte. La prima scansione è stata condotta dopo che ciascun partecipante aveva trascorso 30 minuti da solo in una stanza; la seconda scansione dopo aver trascorso 30 minuti a guardare videoclip dei loro amici intimi.

I ricercatori hanno scoperto che la condizione di risata sociale ha portato ad un significativo aumento del rilascio di endorfina nel talamo, nel nucleo caudato e nelle regioni dell’insula anteriore, regioni cerebrali che svolgono un ruolo importante nell’arousal e nella sensibilizzazione emotiva.

Inoltre, il gruppo di ricercatori ha scoperto che i partecipanti con un maggior numero di recettori oppioidi nella corteccia del cingolo e in quella orbitofrontale del cervello, mostrano una più alta probabilità di ridere in risposta ai video clip degli amici.

La corteccia cingolare è coinvolta nella trasformazione e formazione di emozioni, mentre la corteccia orbitofrontale è coinvolta in un certo numero di processi legati all’emozione.
Le endorfine potrebbero promuovere sentimenti gruppali

I ricercatori affermano che i loro risultati indicano che il rilascio di endorfine scatenato dalla risata potrebbe svolgere un ruolo nel legame sociale.

Gli effetti piacevoli e calmanti del rilascio endorfinico potrebbero offrire senso di sicurezza e promuovere sentimenti gruppali – afferma il prof. Nummenmaa – Il rapporto tra la densità dei recettori oppioidi e il tasso di risate suggerisce anche che il sistema oppioidale possa essere alla base delle differenze individuali nella socialità.

Il co-autore dello studio Prof. Robin Dunbar, dell’Università di Oxford del Regno Unito, aggiunge che i risultati evidenziano l’importanza della comunicazione diretta a voce nel legame sociale.

Altri primati mantengono i contatti sociali attraverso la cura reciproca, che induce anche liberazione di endorfina, ma questo richiede tempi prolungati. Poiché la risata sociale porta a una risposta chimica simile nel cervello, ciò consente una significativa espansione delle reti sociali umane: la risata è altamente contagiosa e la risposta dell’endorfina può quindi facilmente diffondersi attraverso grandi gruppi che si trovano a ridere insieme.

Sicuramente ulteriori ricerche sugli effetti della risata sociale saranno necessarie per confermare questi risultati, ma lo studio suggerisce un buon consiglio: trascorrete un week-end di risate con gli amici!

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/risata-sociale/

giovedì 15 giugno 2017

Riconoscere le emozioni: il primo passo per regolarle.



Un aiuto per comprendere quali emozioni si stanno provando in un dato momento arriva dal correlato fisiologico che ciascuna emozione porta con sé.

Si può dire che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno, ma in che modo? In questo ci vengono in aiuto le emozioni.
Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Il mondo interno è formato da quello che più caratterizza la persona e ne fanno parte: il carattere e le strutture di personalità, le credenze e il sistema di valori propri di ciascuno. Il mondo interno è quella cosa per cui a fine giornata una persona può dire “oggi è stata una bella giornata” o il contrario. Per ogni persona una giornata può essere bella o brutta semplicemente per il significato che essa stessa dà a quella giornata: una giornata molto faticosa può essere ritenuta molto soddisfacente da alcuni e terribile da altri.
Dare significato al mondo: il ruolo delle emozioni

Si può dire quindi che le persone danno un significato al mondo basandosi sul proprio mondo interno. Ma in che modo diamo un significato? In questo ci vengono in aiuto le emozioni. Seconda alcune teorie, infatti, le emozioni sono degli stati mentali in grado di direzionare una persona nel proprio mondo, per fare questo le emozioni aiutano gli esseri umani cosa si frappone tre sé e il proprio scopo: se lo scopo è avere una giornata rilassante, avere un lavoro molto faticoso non ci permette di raggiungere lo scopo, per questo possiamo sentire o un fallimento oppure un’ingiustizia. Se lo scopo è quello di ottenere una promozione lavorativa, ma non siamo certi di riuscire a consegnare tutto il nostro lavoro a fine giornata, lo scopo non è ancora fallito, ma è minacciato.

Ma cosa succede esattamente quando definiamo una giornata “brutta”? Cos’è che ci fa dare questa definizione di una giornata? Come abbiamo appena visto i nostri pensieri, basati sul sistema di valori centrali, ci danno un’indicazione di come stanno andando le cose per noi, ma sono le emozioni che ci danno un indice percepibile di come abbiamo vissuto la nostra giornata, o di come la stiamo vivendo. Quando alla sera parlando con un amico sosteniamo di aver avuto una brutta giornata, l’indicazione di quanto è stata brutta difficilmente ci viene data in modo del tutto razionale. Spesso è quello che sentiamo a darci delle indicazioni più chiare: se sentiamo di stare un po’ male, probabilmente la giornata è stata un po’ brutta, se sentiamo di essere sconvolti dalle nostre emozioni negative probabilmente la giornata si è allontanata moltissimo dai nostri scopi, facendola diventare una giornata pessima.

Riconoscere le emozioni e i pensieri che le generano

A molti verrebbe da chiedersi il motivo per cui la giornata è andata così male: se è facilmente individuabile il motivo, è altrettanto semplice trovare una soluzione o una modalità alternativa a quella già provata. Il problema sorge quando ci si sente giù di morale, o in generale male senza avere un’idea precisa del perché. È proprio in queste situazioni che riconoscere le emozioni che stiamo provando e riconoscere i nostri pensieri diventa molto importante. Se è vero infatti che è possibile riconoscere le emozioni provate partendo dall’informazione che arriva dai pensieri, che tuttavia talvolta sono veloci e confusi nella testa delle persone, è altrettanto possibile arrivare a dare un significato al malessere che pervade la persona anche prendendo come informazione iniziale l’emozione che si sta provando. Le emozioni sono sicuramente più immediate rispetto al contenuto cognitivo, che in situazioni particolarmente attivanti e stressanti, tende a fluire velocemente saltando da un contenuto all’altro senza seguire un vero e proprio processo logico.

Ma cosa succede quando ci si dice che si sta semplicemente male? In questo caso a volte diventa molto difficile ricondurre il malessere soggettivo, il nostro mondo interno, con gli eventi che succedono nel mondo. Capire cosa si sta provando in una determinata situazione è molto importante per comprendere a che punto siamo rispetto ai nostri scopi: sono minacciati? Siamo in una situazione di ingiustizia? O piuttosto ci troviamo di fronte ad una perdita o ad un fallimento? Capire se si è in ansia, arrabbiati oppure tristi ci aiuta a capire cosa possiamo fare per regolare lo stato mentale spiacevole che stiamo provando.

Emozioni e correlati fisiologici

Un valido aiuto per comprendere quale emozione si sta provando in un dato momento arriva dal correlato fisiologico che ciascuna emozione porta con sé. Quando ci attiviamo in seguito ad una emozione sentiamo, di solito, qualcosa nel corpo.

Alcuni ricercatori finlandesi ci vengono in aiuto per riconosce quale emozione si sta provando, partendo dal tipo di attivazione corporea percepita. È stata infatti tracciata una mappa corporea di alcune emozioni.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of The National Academy of Sciences nel 2013 da un team di ricercatori dell’università di Aalto.

Alla ricerca hanno partecipato 700 persone provenienti da Svezia, Finlandia e Taiwan; in questo modo è possibile dimostrare che il codice delle sensazioni corporee legate alle emozioni è universale e non legato a fattori culturali. I ricercatori hanno indotto diversi stati emotivi attraverso la visione di film o la lettura di storie, successivamente hanno fornito ai partecipanti alcune foto del corpo umano ed è stato loro chiesto di colorare, con colori diversi colori, le parti del corpo che sentivano attivarsi o disattivarsi in risposta all’emozione suscitata.

È emerso ad esempio che quando le persone provavano l’emozione rabbia le parti del corpo ad attivarsi maggiormente sono i pugni e la parte alta del tronco insieme alla testa; in caso di paura si percepisce maggiormente una sensazione fisica attivante in mezzo al petto, mentre nel caso in cui si provi ansia oltre all’attivazione nel petto i partecipanti percepivano anche una sensazione di torpore negli arti; in caso di tristezza o depressione il torpore sembra essere percepito in modo molto maggiore rispetto a quando sono provate altri tipi di emozioni; la vergogna sembra attivare il corpo principalmente all’altezza delle guance; mentre l’emozione che sembra attivare il nostro corpo in modo più omogeneo è la felicità, che insieme allo stato d’animo definito dai ricercatori come amore produce un’attivazione intensa ed omogenea.


I ricercatori hanno spiegato che nel condurre lo studio non hanno fatto riferimento a nessuna sensazione specifica, come potrebbero essere per esempio la sudorazione o la sensazione di calore, ma anzi hanno incoraggiato i soggetti a riportare sensazioni nette, come ad esempio la percezione di un’aumentata attivazione o disattivazione di differenti sistemi fisiologici.

Questo studio può essere di grande aiuto nella clinica, soprattutto a tutti quei pazienti che trovano difficoltà nel riconosce quale emozione sentono. La possibilità di avere strumenti come una mappa corporea delle emozioni potrebbe riuscire a facilitare queste persone, partendo dal proprio corpo, partendo da cosa sentono e dove. Avere dei risultati generalizzabili potrebbe essere utile per capire quindi cosa significa per ciascuno “ho avuto una pessima giornata”, semplicemente focalizzandoci su quale parte del corpo sento attivata, o in quale parte sento torpore.

Dal Sito: www.stateofmind.it

venerdì 28 agosto 2015

Linus e la strategia di evitamento

La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare agli esperti del settore che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.
Aldilà degli inquadramenti diagnostici, l’evitamento è una strategia che a tutti è capitato di mettere in atto, anche quando non è un tratto distintivo della personalità. L’evitamento non ha solo una connotazione negativa, infatti permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.
Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione.

Cos’è che cerchiamo di evitare?
Quando temiamo le conseguenze di una decisione, o se non ci sentiamo sufficientemente competenti, o abbiamo il timore di sbagliare, ecco che la soluzione migliore diventa una non-soluzione. Ad esempio, ci chiediamo: “Che cosa succederebbe se non superassi l’esame all’università? O se non riuscissi a portare a termine quel compito come vuole il mio capo-ufficio? O se uscissi con quella persona e non sapessi cosa dire?” Più lo scenario che ci immaginiamo sarà catastrofico, più tenderemo a evitare le tragiche conseguenze che si disegnano nella nostra mente. Il motto di Linus è infatti un vero e proprio mantra per chi utilizza questa strategia come paradossale soluzione: non esiste problema che non possa essere evitato.
 Gli effetti collaterali sono però dietro l’angolo.  

Più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo andrà a rinforzare l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, nel momento in cui decidiamo di evitare, l’ansia derivante dal rimuginio tenderà a diminuire, regalandoci un immediato senso di sollievo e facendoci credere che la strategia protettiva è stata efficace, perché ci allontana momentaneamente dallo stato emotivo negativo.
Questa vignetta può essere molto utile per aumentare la consapevolezza su questi meccanismi, che spesso diventano automatici, e per aprire il dialogo verso la ricerca di soluzioni alternative più funzionali.

State of Mind 

mercoledì 22 aprile 2015

Disturbo Evitante di Personalità: sintomi, cura e terapia da seguire.

Timore delle critiche, paura della disapprovazione e dell’esclusione e, soprattutto, la radicata convinzione di valere poco. Se tutto questo suona familiare è probabile che ci si trovi di fronte ad un disturbo evitante di personalità (DEP), che spinge chi ne soffre a rinunciare ad una vita sociale per paura di risultare inadeguato.

 

Cos’è il disturbo evitante di personalità

Il disturbo evitante di personalità è un disturbo della personalità che si manifesta solitamente all’inizio dell’età adulta. Coloro che ne soffrono vorrebbero instaurare buoni rapporti con altre persone, avere un gruppo di amici con cui uscire la sera e un partner con il quale condividere i propri interessi, ma la paura di non risultare adeguati è tanto forte e la prospettiva di un rifiuto talmente dolorosa che preferiscono isolarsi ed evitare il confronto con gli altri, soprattutto se il rapporto implicherebbe un certo coinvolgimento emotivo. Se da un lato così facendo il soggetto si sente al sicuro, dall’altro questa condizione di solitudine è vissuta con tristezza, mitigata magari da attività e hobby che non prevedano un contatto con altre persone, come ad esempio la musica, la lettura e le collezioni di vario tipo.

Sintomi del disturbo evitante di personalità

Una spiccata timidezza, un atteggiamento particolarmente riservato o la tendenza ad essere apprensivi non sono ovviamente indice di uno stato patologico. I sintomi del disturbo evitante di personalità tracciano un quadro più complesso, che prende in considerazione molti elementi. Alcuni dei sintomi principali sono un forte senso di inadeguatezza, un’estrema timidezza, la tendenza all’isolamento sociale, l’ipersensibilità alle critiche e una bassa autostima.
Chi soffre di questo disturbo tende quindi a non instaurare nuove relazioni sociali all’infuori di quelle consuete con i familiari e gli amici più stretti, pensando di non essere attraente e di non avere argomenti interessanti da condividere con altre persone; spesso rinuncia anche alla possibilità di fare carriera per evitare il confronto con gli altri. Lo stile di vita di chi soffre di disturbo evitante di personalità tende ad essere monotono e solitario, condizione che è vissuta con tristezza o fastidio: quando però il soggetto cerca di cambiare questa situazione si scontra con la sua paura di un giudizio negativo e del rifiuto.

Le cause del disturbo evitante di personalità

Le cause di questo disturbo non sono definite in maniera chiara e univoca, spesso si tratta della combinazione di più fattori sociali e biologici. Spesso chi è affetto da disturbo evitante di personalità ha avuto genitori rigidi ed esigenti oppure esageratamente protettivi, storie di abuso fisico oppure esperienze negative con i coetanei durante l’infanzia.

Disturbo evitante di personalità, come guarire

Superare il disturbo evitante di personalità è possibile. Ci sono infatti diversi tipi di trattamento, sia farmacologico che psicoterapeutico, spesso associati a strategie comportamentali.

La terapia per il disturbo evitante di personalità

Nella cura del disturbo evitante di personalità ha un posto molto importante la psicoterapia, effettuata sia a livello individuale che di gruppo con lo scopo di aiutare il paziente a controllare l’imbarazzo all’interno delle situazioni sociali e ad affrontare quindi con meno timore le relazioni con altre persone. In particolar modo, la terapia di gruppo per il disturbo evitante di personalità può aiutare chi soffre di questo disturbo a riconoscere in modo corretto l’atteggiamento degli altri nei propri confronti e a capire che la critica non è  l’unica reazione possibile da parte del prossimo; aiuta inoltre a superare l’ansia di rapportarsi con gruppi di persone. Queste sedute possono essere associate a strategie comportamentali e a training assertivi per migliorare le abilità sociali e l’autostima dei pazienti.

La cura farmacologica per il disturbo evitante di personalità

Tra i rimedi per il disturbo evitante di personalità ci sono anche i farmaci, che possono venire utilizzati in alcune fasi per tenere sotto controllo sintomi come, ad esempio, ansia e depressione. Tra i farmaci per il disturbo evitante di personalità i più comunemente usati sono quindi gli ansiolitici, che permettono al paziente di affrontare le situazioni che è solito evitare, gli antidepressivi e i betabloccanti, che riescono ad agire su alcune manifestazioni dell’ansia come rossore, sudorazione e tremore.



State of Mind

mercoledì 11 marzo 2015

Attacco di panico: che cos’è e come funziona?

L’Attacco di Panico è un periodo di paura o disagio intensi in assenza di vero pericolo e accompagnati da almeno sintomi cognitivi o somatici. L’attacco di panico raggiunge rapidamente l’apice e si manifeste con breve durata, solitamente non superiore ai 10 minuti.
Gli attacchi di panico possono essere
(1) inaspettati quando non è possibile associare l’attacco a un fattore specifico preciso,
(2) sensibili alla situazione se sono associati a contesti specifici (es: la guida in autostrada).

I sintomi che possono caratterizzare l’attacco di panico sono: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio), brividi o vampate di calore.

Il circolo del panico si fonda sulla paura della paura, cioè il timore di tutti quei segnali fisici che corrispondono alla paura (es: affanno, tachicardia, brividi, pressione al petto ecc…). La paura è un emozione che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. 

Cosa succede quando uno dei segnali corporei della paura viene esso stesso interpretato come una minaccia (paura della paura)? Il corpo reagisce aumentando i segnali della paura. Si innesca in questo modo un vortice di apprensione e la paura si trasforma in panico.
Il vortice del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi di panico.
Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare un attacco di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia, intesa come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale.
Gabriele Caselli


State of Mind