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giovedì 19 novembre 2020

Depressione: tipologie e caratteristiche



Sentiamo spesso parlare di depressione, o spesso diciamo che qualcuno è depresso…o, altrettanto spesso, lo diciamo di noi stessi.

Sentiamo spesso parlare di depressione, o diciamo che qualcuno è depresso senza sapere esattamente cosa sia e cosa significhi. L’obiettivo di quest’articolo è che il lettore comprenda che esistono diverse tipologie di depressione, e qui faremo riferiemento ad alcune. Diciamo "alcune" perché sono comunque classificazioni generiche, e alla fine ogni persona sa cosa sta affrontando, dunque ogni caso è a sé.

Se pensi di trovarti in ​​una di queste situazioni, quello che devi fare è cercare l'aiuto di un professionista che potrà realizzare una diagnosi precoce.


Disturbo depressivo maggiore


Il più comune è il disturbo depressivo maggiore. In questo caso si presentano i sintomi più gravi: apatia e mancanza di mobilità che possono causare ciò che è noto come malinconia. Può succedere che la persona arrivi a non voler mangiare o bere. Questa immobilità totale è nota anche come stupore depressivo.

Possono esserci anche pensieri negativi secondo i quali nulla andrà bene, la persona è convinta del fatto che non potrà essere curata o che perderà tutto. Questi non diventano i deliri tipici di un disturbo psicotico, ma sono idee ricorrenti che paralizzano la persona.


Distimia

Nella distimia si sta già verificando un processo che è diventato cronico, sebbene la sua intensità sia inferiore rispetto al caso precedente. Ci sono ansia, alti e bassi emotivi, perdita di senso dell'umorismo, bassa autostima e anche idee che è difficile affrontare e mettere da parte. Possono essere necessari mesi o anni prima che la persona ne diventi cosciente.

Disturbo ansioso depressivo misto

Un altro disturbo abbastanza comune è il disturbo ansioso depressivo misto, in cui fondamentalmente c'è una miscela dei due problemi: ansia e depressione. Solitamente è dovuto a specifiche situazioni di tensione familiari o lavorative.

Depressione atipica

Nella depressione atipica troviamo alcuni sintomi opposti a quelli più comuni, per esempio aumento dell'appetito e delle ore di sonno. In parte è simile al caso precedente, perché di solito ha una causa specifica.

Astenia

Nei cambi di stagione, soprattutto in primavera, compare l’astenia. È legata ai cambiamenti delle ore di sole. Potremmo dire che è simile alla depressione post-vacazionale. I cambiamenti nel ritmo del corpo producono un eccessivo affaticamento e una sensazione di lieve depressione. Di solito non richiede alcun trattamento.

Ciclotimia

Nella ciclotimia vediamo stati d'animo alterati, cambiamenti senza ragioni apparenti e quindi senza cause. È la manifestazione di un problema interno. Attenzione a non confonderlo con il disturbo bipolare, che è qualcosa di molto più grave, dove non ci sono solo sbalzi d'umore, ma anche manie, iperattività, irritazione e pensieri irrazionali.

Depressione post-parto


Si presenta dopo la nascita del bambino, generalmente a un mese dalla nascita. Colpisce tra il 15 e il 25% delle donne. A volte si risolve spontaneamente, in altri casi può evolvere in modo molto grave. Si tratta di un disturbo depressivo provocato da cause biologiche e socioculturali che può avere un impatto negativo sull'allattamento e sul legame tra la madre e il bambino.


In ogni caso, come abbiamo detto, se pensi di avere uno di questi disturbi, è giunto il momento di rivolgerti a un professionista che possa valutare cosa succede, come trattarlo e come risolverlo.

Articolo di Jaume Guinot pubblicato su MundoPsicologos.com


Dal Sito: guidapsicologi.it 

lunedì 13 luglio 2020

I tentacoli della solitudine




Tra i giochi che preferivo fare da bambina il più divertente era sicuramente l’attenta osservazione delle persone. I loro movimenti, le espressioni, il loro modo di entrare in relazione con l’altro. Ascoltavo accuratamente le parole che sceglievano per raccontare ciò che accadeva intorno a loro, e come cambiavano in base al contesto in cui si trovavano.

Una volta terminata l’osservazione mi sforzavo di capire a quale animale potessero assomigliare. In alcune persone riuscivo a riconoscere chiaramente un solo animale. In altri ne riconoscevo molti diversi, a seconda delle situazioni sperimentate dalla persona. Da allora ho sempre creduto che esistessero degli animali che ci rappresentassero simbolicamente, e che osservando con attenzione i loro comportamenti potessimo comprendere simbolicamente alcuni aspetti dell’animo umano.

Che il polpo fosse uno dei miei animali me ne accorsi a circa tredici anni, quando ne incontrai uno in mare: tendendo un braccio indagatore, curioso delle mie braccia, sembrava volesse prendermi la mano per fare un giro. I pescatori mi dissero che questi animali sono in grado di riconoscere le persone, e che reagiscono in modo diverso davanti a individui diversi, accogliendo alcuni e spruzzando d’inchiostro altri.

L’interazione con questa creatura è molto particolare: non sembra essere né amica né nemica, è piuttosto una coesistenza. Si ha un senso reciproco di coinvolgimentoTi osserva con attenzione, in genere mantenendo una certa distanza, ma non molta. Se ci si mette davanti alla loro tana e si protende una mano, spesso allunga un braccio. Prima per esplorarti, e poi per cercare di trascinarti nel loro nascondiglio.

È come se il polpo fosse socievole, ma non sociale. È incuriosito dall’altro e dall’interazione con lui, talvolta non ha paura di avvicinarsi alla mano tesa di un essere umano, ma conduce un’esistenza solitaria, nella sua tana.

Ho riconosciuto questo modo di interagire in molti altri esseri umani: in genere nella loro infanzia sono stati bambini abituati a crescere in solitudine, rimanendo però incuriositi e aperti all’altro.

Spesso additati come troppo strani, troppo impacciati, “troppo” qualcosa, questi bambini imparano ad apprezzare la solitudinericonoscendo allo stesso tempo l’importanza dell’interazione con l’altro, che cercano con interesse ma con una punta di spavento. Perché il sentirsi come un “polpo fuor d’acqua” nel mondo che ti circonda spaventa, molto.

E proprio come i polpi non hanno un colore o una consistenza stabilema li cambiano a piacimento per adattarsi all’ambiente, questi bambini imparano molto bene ad adattarsi all’ambiente circostante, per evitare di essere feriti o essere additati come “troppo” strani, “troppo” silenziosi, “troppo” sensibili, “troppo” irascibili, “troppo”.

Nel corso della vita cambiano tanti passatempi, tante passioni, tante maschere, tante direzioni di vita, dimostrando una straordinaria capacità di appassionarsi, di incuriosirsi, di interessarsi al mondo circostante. Non a caso, i polpi costituiscono anche un simbolo perfetto della rigenerazione: sono capaci di liberarsi di uno dei loro tentacoli, per poi rigenerarli, in caso di pericolo.

Chi impara ad adattarsi a un mondo che incrimina di essere “troppo”, impara anche a fare a meno di parti di sé: abitudini che si credevano consolidate e piacevoli, persone delle quali si credeva impossibile fare a meno, posti che venivano chiamati “casa”. E non importa più quanto queste parti possano apparire importanti, non importa più quanto l’abbandono possa far male, a volte per sopravvivere bisogna lasciare andare.

E l’esperienza insegna che, prima o poi, qualcosa di nuovo verrà. E che come al solito ci si abituerà.
Crescendo imparano a sperimentare i propri limiti:

  • quanto possono permettersi di fidarsi dell’altro senza esserne ferito?
  • Quanto essere autenticamente loro stessi senza essere nuovamente additati come “troppo” qualcosa?
  • Quanto possono resistere con l’altro prima di voler tornare nell’amata solitudine?

E anche il polpo sfida e sperimenta continuamente i limiti. Il suo corpo, una massa di tessuti molli senza ossa, non ha una forma fissa. Riescono a passare attraverso fessure larghe anche pochi centimetri, la dimensione del loro becco, che è l’unica parte realmente dura del loro corpo.

E proprio come il polpo riesce a passare attraverso fessure che abbiano almeno la piccola dimensione del proprio becco, si impara che è possibile lasciarsi alle spalle qualcosa solo quando è chiara, che si può essere sicuri di aver preso una decisione giusta solo quando tutto ha un senso, quando intorno alle proprie scelte si può ricamare un discorso logico che non faccia una piega, che fili perfettamente. Perché, come diceva Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, e solo le terre che possono essere capite, comprese, mentalizzate e spiegate perfettamente sono tane sicure.

Il corpo senza limiti e la notevole forza fisica (un polpo gigante del Pacifico può sollevare 14 kg con una sola ventosa) rende questo animale molto difficile da tenere in cattività. Quando sono in cattività i polpi sembrano essere consapevoli della loro condizione. A volte vi si adattano, ma possono anche opporre resistenza utilizzando gli oggetti che li circondano, piegandoli ai propri fini cercando di scappare via.

Ed è proprio la cattività che anche questi bambini imparano a non sopportare, perché quando sperimenti la grande libertà che può donarti la solitudine, diventa difficile barattarla per qualcos’altro. Anche se si guadagna uno scambio umano piacevole: un legame rimane sempre una corda.

All’inizio della sua storia evolutiva, il polpo ha rinunciato alla conchiglia protettiva tipica dei molluschi per abbracciare una vita di possibilità senza limiti. Ma così facendo si è reso più vulnerabile agli attacchi di predatori provvisti di denti e ossa.

Anche gli esseri umani sono privi di una conchiglia emotiva che possa proteggere dalle parole, dalle intenzioni e dagli agìti degli altri quando feriscono, quando non li si comprende o quando si vorrebbe che gli altri cambiassero. Che tutto fosse diverso.

Diventa molto difficile uscire dalla propria confortevole e confortante solitudine se anticipiamo di non riuscire a proteggerci come vorremmo. Diventa difficile aprirsi all’altro se ci si aspetta di poterlo ferire a causa dell’essere “troppo”. Diventa difficile volersi rivolgere all’altro, ma non sapere come farlo. Eppure, la curiosità e il bisogno dell’interazione con l’altro ci spinge, ancora e ancora, a cercare qualcuno al di fuori di noi. Qualcuno che ci faccia sentire amati, compresi, considerati, accolti, anche quando crediamo di essere “troppo”.

Forse, da un convenzionale punto di vista, la vita di un polpo è già di per sé tragica, fatta di socialità senza società, di messaggi inascoltati e di un mondo vitale poco longevo. Un alieno.
Ma se il polpo fosse più simile a noi, forse lo lasceremmo in pace?


Dal Sito: psicoadvisor.com 

mercoledì 9 ottobre 2019

Ansia in aumento: perché?


Aumentano gli italiani con l'ansia, disturbo che colpisce a tutte le età (e non solo le donne). Le cause possibili e come curarla

Siamo tutti ansiosi? Stando ai dati si direbbe di sì, ma le ricerche indicano soprattutto che l'ansia è in aumento e non risparmia nessuna fascia d’età. Secondo Psicoadvisor, che ha preso in considerazione le indicazioni di alcuni motori di ricerca, la parola “ansia” è una delle più ricercate sul web (27.200 volte al mese in Italia) e dal 2014 ha superato la “depressione”, che invece in passato risultava oggetto di maggiori indagini su internet. Ad oggi questo stato di malessere sembra essere il più diffuso, declinato in vari ambiti: secondo Google Trends le domande più frequenti sul web riguardano “ansia da lavoro”, “ansia sociale”, curare l’ansia”, “ansia sintomi, “ansia da prestazione” e “attacchi d’ansia”.

“Fino a qualche tempo fa si usavano espressioni come "sono esaurita" o "sono depressa". Oggi si parla di ansia, e con questo termine si vuole indicare uno stato d’animo che non si riesce a classificare. In pratica c’è una generale difficoltà a decifrare le proprie emozioni e questo vale per ogni fase della vita” spiega Barbara Volpi, psicologa e psicoterapeuta, collaboratrice dell’Università La Sapienza di Roma.

Ansia indotta dalla competitività

Secondo l’Istat (dati 2018) l’ansia interessa il 7% della popolazione, anche associata a depressione, e riguarda 3,7 milioni di italiani. La regione più interessata è la Basilicata, seguita da Campania e Molise, Abruzzo, Calabria, Sicilia, Sardegna, Puglia, Piemonte, Marche e Lazio. I meno ansiosi si troverebbero invece in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta. Ma è il sommerso a preoccupare: in molti si vergognano a confessare di provare questo malessere. Eppure secondo Eurodap, si tratta di un problema che riguarda il 79% degli europei, compresi giovanissimi e anziani.

“Credo che sia il risultato di una società altamente competitiva, in cui diventa a volte difficile integrare il mondo virtuale con quello reale: siamo tutti impegnati a produrre, a competere con l’altro, a essere influenti sui social e a cercare il consenso, ma senza una base di valori che ci supporti nei momenti difficili e che rappresentano gli elementi per orientarci. L’ansia, infatti, non è altro che il senso di panico che si crea quando si perde la bussola”.

Ogni età ha la sua ansia

L’ansia non risparmia alcuna età e si declina in modi differenti.

“Gli adolescenti sono i più a rischio, perché vivono lo stato ansiogeno per eccellenza, quello del volere tutto e subito. Spesso, però, lo nascondono. È tipico di questa età distaccarsi dai genitori e contrapporsi a loro” spiega l’esperta, autrice anche del libro Genitori digitali (Il Mulino). “È importante aver costruito le basi per una comunicazione con i ragazzi, perché spesso l’ansia non si manifesta solo come agitazione e iperattività, ma anche come chiusura: gli adolescenti cercano di celarla e vivono un tormento interiore che può sfociare nella frequentazione di amicizie "sbagliate", nelle droghe o in disturbi psicosomatici come l’anoressia, il tentativo di cancellare l’ansia cancellando il proprio corpo, controllandolo in modo ossessivo” spiega Barbara Volpi.

Nel caso degli adulti i motivi di ansia possono essere legati agli snodi della vita: la formazione della coppia, quando ci si sposa o si va a vivere insieme, oppure la nascita del primo figlio: "Sono i momenti di grande trasformazione, nei quali occorre adeguarsi ai cambiamenti. Anche le separazioni o i problemi di lavoro possono essere fonte di malessere” dice la psicoterapeuta. Questo malessere si può manifestare, oltre che con attacchi di panico e agitazione, anche con l'ipocrondia, la paura di ammalarsi".

E quando si è anziani? In questa fascia d'età in genere cresce la consapevolezza di sé, si diventa più stabili e meno ansiosi. "Ma quell’agitazione che si provava per i propri stati d’animo, può diventare preoccupazione per gli altri, per i propri cari, i figli o i nipoti. In alcuni casi, invece, può sorgere l’ansia per la paura della morte. E può anche presentarsi una forma di regressioneinfantile, come succede agli adolescenti, che si esprime nel voler negare ciò che è fonte di agitazione, per esempio le malattie” spiega Volpi.

soffrono di ansia?

Neppure i bambini sono esenti da stati di ansia: “A volte i bambini a scuola dicono di essere agitati o stressati: è la prova dell’effetto della società in cui viviamo, in cui siamo sempre sottoposti a pressioni. I bambini possono provare emozioni a cui non sanno che nome dare: il primo giorno di scuola, una festa a cui sono stati invitati o la vigilia di una gara sportiva. E possono manifestare questo stato con sintomi fisici: mal di testa, mal di pancia o sensazione di tristezza. Sono tutte richieste di aiuto ai genitori, che possono rassicurarli semplicemente ascoltandoli, parlando con loro e aiutandoli a classificare il motivo per cui si sentono agitati. Anche la lettura delle fiabe alla sera, oltre che essere un momento di vicinanza, aiuta ad avere consapevolezza delle proprie paure, attribuendole a un personaggio esterno” consiglia l’esperta.

Come si “cura” l’ansia?

All’ansia si può porre rimedio: “Occorre avere più consapevolezza di noi stessi e dell’altro, fare una riflessione interna che fermi per qualche istante la frenesia quotidiana, creando momenti di stacco per capire dove stiamo andando e cosa stiamo vivendo. Non a caso ultimamente si assiste a un proliferare di corsi di mindfullness e meditazione, perché più si ha consapevolezza di sé, meno ansia si prova. Occorre, insomma, capire qual è il motivo per cui ci sentiamo in ansia, dargli un nome e in questo modo si impara a gestire lo stato di malessere che altrimenti si prova” spiega la psicoterapeuta. “Nel caso dei bambini il consiglio è quello di alimentare la stessa consapevolezza con il dialogo e il legame tra generazioni, nonni compresi: a loro dico sempre di parlare coi nipoti o di cucinare, perché è un modo per passare forme di cultura e creare dialogo, tramite un incontro di sguardi e una condivisione di esperienze reali”.

Dal Sito: donnamoderna.com

sabato 15 giugno 2019

Sei un tipo ansioso? Probabilmente sei anche più intelligente



Chi ha un quoziente intellettivo più alto tende a rielaborare pensieri del passato al fine di «prevedere» quello che potrebbe accadere. Ma l'ansia spesso comporta prestazioni meno brillanti

Esiste una connessione fra ansia e ansia e livello di intelligenza. Probabilmente il legame risiede nella capacità di riuscire a intuire le possibili conseguenze negative delle situazioni e delle proprie azioni. Chi è più intelligente si preoccupa maggiormente del futuro, anche perché tende anche a rielaborare pensieri e accadimenti passati, come se volesse trarne un insegnamento per fare previsioni più affidabili rispetto a quanto potrà accadere. Tuttavia, secondo quanto indicano Alisa Williams della School Psychology dell’University of Maryland e Pauline Prince dell’Anne Arundel County Public Schools di Annapolis, in un articolo pubblicato sulla rivista Applied Neuropsychology Child , alla fine l’ansia forse aiuta sì a prevedere il futuro, ma incide negativamente sui compiti da eseguire, così che alla fine la sua azione non è del tutto positiva.

Le ricerche

La connessione tra ansia e intelligenza è stata indagata da ricerche condotte in diverse parti del mondo. Molto originale quella realizzata da due psicologi, Tsachi Ein-Dor e Orgad Tal, della School of Psychology dell’Interdisciplinary Center Herzliya in Israele: a un gruppo di studenti, selezionati perché avevano livelli di quoziente intellettivo differente gli uni dagli altri, è stato chiesto di valutare alcune opere d’arte presentate sul monitor di un computer all’interno di una stanza in cui erano stati lasciati soli. Ma si trattava di un falso compito. In realtà, dopo aver visionato le prime opere, sullo schermo è comparso un allarme che segnalava la presenza nel computer dell’università di un virus che avrebbe presto fatto danni irreparabili. I ragazzi sono stati osservati mentre uscivano dalla stanza alla ricerca di qualcuno che potesse dare loro un supporto informatico, ma lungo il percorso sono stati fermati da alcuni «ostacoli», in realtà complici dei ricercatori, come un compagno che chiedeva di riempire dei moduli, o un altro che faceva cadere pacchi di fogli nel corridoio, intralciando il loro cammino. A quel punto i comportamenti si sono differenziati: gli studenti con quozienti intellettivi meno elevati si sono lasciati distrarre, mentre quelli più intelligenti hanno risposto con un’ansia crescente e la determinazione a raggiungere al più presto il supporto informatico. Erano più ansiosi perché nella loro mente intravedevano le possibili conseguenze negative causate dal computer infettato.


Ma l'ansia gioca brutti scherzi

In un’altra ricerca, realizzata dagli stessi psicologi i ragazzi più intelligenti sono risultati anche quelli che più precocemente si allarmavano per la presenza nelle loro stanze di odori potenzialmente pericolosi, come quello di fumo. Risultati convergenti vengono da una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Personality and Individual Differences . Oltre cento studenti canadesi sono stati sottoposti a indagini psicologiche che esploravano il loro livello di ansia, messo poi a confronto con i risultati dei test di quoziente intellettivo. Anche in questo caso, la correlazione è stata netta, soprattutto per quanto riguarda un certo tipo di intelligenza, quella linguistico-verbale, ossia l’abilità di comprendere le parole e di esprimersi verbalmente o di giocare con le parole. Sono proprio tali abilità che portano queste persone a immaginare ed esplorare spontaneamente le possibili conseguenze di situazioni e comportamenti, arrivando a realizzare una condizione di «ruminazione» mentale che è una delle caratteristiche dell’ansia. Ed è proprio grazie a tali ruminazioni che si riesce a stare lontano dai pericoli, ma pagando il prezzo di vedere rischi laddove non ci sono. Secondo quanto riportato da Alisa Williams e Pauline Prince nel loro articolo, gli individui ansiosi, pur essendo spesso più intelligenti, finiscono poi per avere in pratica prestazioni meno brillanti di quanto potrebbero realizzare. «Quando sono sotto pressione nello svolgere un compito, la loro intelligenza fluida risulta ridotta» dicono le due psicologhe, «probabilmente perché la memoria di lavoro è monopolizzata dai pensieri ansiosi, come le preoccupazioni e la ruminazione, elementi caratteristici dell’ansia, che comportano un eccessivo soffermarsi su immagini e pensieri negativi, collegati al timore di fallire. Così queste persone non riescono del tutto a mettere la loro intelligenza e i loro pensieri al servizio del compito che dovrebbero svolgere». 


Dal sito: 

corriere.it 

sabato 1 settembre 2018

Agorafobia, la paura degli spazi aperti (ma non solo): cos’è e come affrontarla





Agorafobia: scopriamo insieme tutto sulla paura degli spazi aperti. Che in realtà nasconde timori molto più profondi e radicati. Cause, sintomi e terapie.
L’agorafobia è considerata comunemente come la paura degli spazi aperti. Chi ne soffre, però, sa che la situazione non è così “semplice”. Si tratta infatti di una fobia complessa, con profonde motivazioni psicologiche.
Scopriamo insieme di cosa si tratta, come si manifesta e come possiamo affrontarla.

Agorafobia: cos’è

Il termine agorafobia deriva dal greco ἀγορά (agorà), che vuol dire piazza, e –fobia, paura. Ecco perché spesso colleghiamo questo disturbo al timore ossessivo per gli spazi aperti, come succede durante l’attraversamento di una piazza.
In realtà si tratta di una patologia più complessa. L’agorafobia è infatti strettamente correlata agli attacchi di panico. Chi ne è vittima può avvertire quindi la paura di trovarsi in situazioni di panico da cui non è possibile fuggire o in cui chiedere aiuto.
È la paura di provare panico e non poter scappare via o di non poter ricevere aiuto. Può manifestarsi quindi uscendo di casa da soli, quando si è in mezzo a una folla o in fila, viaggiando in automobile o con i mezzi pubblici.
L’agorafobia è quindi strettamente correlata alla solitudine e alle situazioni di costrizione, dove il movimento è limitato, e non solo quindi agli spazi aperti.
Solo raramente il disturbo si presenta in assenza di attacchi di panico. In questo caso, è scatenato da altri timori irrazionali. Per esempio, la paura di essere vittima di un attacco terroristico, oppure essere contagiati da una grave malattia infettiva. Più semplicemente, l’agorafobia può essere provocata dalla paura di compiere azioni che ci metterebbero in ridicolo di fronte agli altri.

Le cause dei disturbi di panico

Come accennato, l’agorafobia è una complicazione del disturbo di panico, che ne sarebbe quindi causa: l’agorafobico evita ogni situazione in cui sa che potrebbe scatenarsi il panico.
È complesso individuare una causa singola per cui si manifestano i disturbi di panico. Questi sono ricondotti quindi a fattori sia biologici che psicologici.
Alcuni esperti sostengono che il disturbo di panico sia correlato alla reazione chiamata “combatti o fuggi”. È una reazione di difesa automatica che l’organismo mette in atto di fronte a stress o pericolo. In chi soffre di disturbi di panico, la reazione “combatti o fuggi” si attiverebbe anche in assenza di una ragione oggettiva di pericolo.
Altre teorie tirano invece in ballo degli squilibri nei livelli dei neurotrasmettitori o il malfunzionamento di alcune parti del cervello, responsabili della sensazione di paura. Anche una alterata cognizione dello spazio, la capacità di individuare la propria posizione relativa nello spazio, è citata come causa per questo tipo di disturbi.
Per l’agorafobia, incidono anche altri fattori:
  • Traumi infantili
  • Eventi stressanti (lutto, divorzio, disoccupazione)
  • Malattie di tipo psicologico: depressione, anoressia, bulimia
  • Abuso di alcol e droghe
  • Relazioni poco soddisfacenti

I sintomi

I  sintomi dell’agorafobia possono essere di diversa natura: fisici, cognitivi, comportamentali. Scopriamoli tutti, a cominciare dai primi:
  • Tachicardia
  • Iperventilazione o dispnea
  • Sensazione di caldo e sudorazione abbondante
  • Dolore al petto
  • Difficoltà a deglutire
  • Diarrea
  • Tremore
  • Vertigini
  • Ronzio o fischio nelle orecchie
  • Formicolii
  • Sensazione di mancamento/svenimento
Tra i disturbi cognitivi, invece, individuiamo:
  • Derealizzazione (la realtà sembra irreale)
  • Depersonalizzazione (sensazione di essere fuori dal proprio corpo)
  • Paura di avere un attacco di panico
  • Paura di sentirsi in imbarazzo, apparire ingenui o stupidi
  • Paura di essere in pericolo di vita: timore cioè che un attacco di panico provochi infarto, arresto cardiaco, difficoltà di respirazione
  • Paura di perdere il controllo in pubblico
  • Paura di attirare l’attenzione degli altri
  • Sentirsi incapaci di agire/sopravvivere senza l’aiuto di qualcun altro
Infine, i disturbi comportamentali, che si riducono essenzialmente alla paura di uscire di casa, da soli, e di ritrovarsi in ambienti affollati.

Agorafobia: come superarla

Secondo alcune teorie, provare a combattere l’agorafobia sarebbe controproducente. Se infatti come abbiamo visto il panico è scatenato dalla risposta ancestrale di fronte al pericolo (“combatti o scappa”), combattere contro la fobia finirebbe per alimentarla e rafforzarla. 
Quando ci troviamo di fronte a un “attacco”, possiamo provare ad accoglierlo. Provarlo, sentirlo profondamente, ascoltarlo. Saranno gli stessi sintomi a farci capire cosa fare, cosa cambiare in noi stessi per riportare quella reazione fisiologica nei limiti della normalità.
Sforzarsi, provare a mettere a tacere quella voce interiore che ci porta al panico, o peggio ancora mettersi volontariamente in situazioni che scatenano l’agorafobia per affrontarla, porta solo a dare maggior forza alla paura. Meglio quindi sarebbe accettare di provare questo disagio e avere pazienza, in attesa che i sintomi passino.
Anche l’Istituto Superiore di Sanità offre una serie di strategie da attuare per affrontare il disturbo sul lungo periodo. Sono tre le fasi previste, da attuare progressivamente, valutandone gli eventuali benefici:
  • Prima fase: informarsi sulla malattia e sulle tecniche di auto-aiuto che possono alleviare i sintomi (più avanti ne vedremo alcune)
  • Seconda fase: iscriversi a un programma di auto-aiuto accreditato dalle istituzioni
  • Terza fase: terapia cognitivo-comportamentale

Agorafobia: come affrontarla con le tecniche di auto-aiuto

L’ISS suggerisce una serie di tecniche di auto-aiuto da attuare in presenza di un attacco di panico.
  • Restare fermi: resistere all’impulso di scappare via;
  • Concentrarsi: puntare l’attenzione su oggetti reali e visibili, poco minacciosi. Un esempio: le lancette di un orologio;
  • Attenzione al respiro: inspirare ed espirare lentamente e profondamente, contando fino a tre;
  • Parlare” con la paura: analizzarla e capire cosa la provoca, provando a convincersi che non è reale;
  • Immaginare: concentrarsi su un’immagine, un luogo, una situazione, che faccia sentire calmi e rilassati;
  • Non lottare: come abbiamo visto, combattere i sintomi peggiora le cose. Meglio ricordare a se stessi che un attacco di panico non deriva da un pericolo reale.
Anche lo stile di vita è importante. Per affrontare l’agorafobia, possiamo prenderci cura del nostro corpo: esercizio fisico costante, dieta sana, non assumere droghe o alcol, evitare bevande con caffeina o simili (caffè, tè, coca-cola, etc.).
Dal Sito: 
ambientebio.it