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venerdì 17 marzo 2023
Kekko dei Modà: “La depressione mi ha paralizzato, pensavo gli psicofarmaci si dessero solo ai pazzi”
I Modà portano al Festival di Sanremo 2023 il brano Lasciami, che racconta il rapporto di Kekko Silvestre con la depressione che lo ha immobilizzato a letto, come ha spiegato a Fanpage.it: “Non riuscivo a piegare le ginocchia, mi sono spaventato. Ho dovuto vincere lo stigma degli psicofarmaci perché pensavo si dessero solo ai pazzi”.
A cura di Francesco Raiola
A un primo ascolto, "Lasciami", la canzone che i Modà porteranno al Festival di Sanremo può sembrare la solita canzone d'amore, due persone arrivate alla fine di un percorso con una delle due che lancia un grido disperato. Ma questa è solo la lettura superficiale di un brano che, invece, racconta il rapporto di Francesco Silvestre, detto Kekko, con la depressione che lo ha colto qualche anno fa e che lo ha immobilizzato a letto. Anni di successi, passaggi radio, dischi di platino e diamante, stadi pieni, ma anche di paure e attacchi di panico e un mondo che a causa di queste paure si faceva sempre più piccolo, fino a ridursi al letto su cui il cantante è stato sdraiato per una decina di giorni, immobile, senza riuscire a muovere gli arti. A quel punto la diagnosi di depressione ha dato un nome a quella situazione, permettendo al cantante di affrontarla, farla diventare una canzone e portarla sul palco più importante d'Italia.
Come te lo stai immaginando questo ritorno al Festival?
Intanto non partiamo da favoriti e questa è una cosa che mi fa molto piacere perché me la fa vivere in maniera più leggera. Arriviamo a Sanremo a 10 anni di distanza dall'ultima volta e con una testa diversa: quando sei lì da giovane pensavi più alla gara, oggi il Festival è cambiato tanto, non è importante solo la classifica, ma il posizionamento ed è quello che ci manca.
In che senso?
È molto tempo che la nostra esposizione mediatica si è ridotta molto a livello radiofonico e televisivo, e chi non segue tanto i social fa più fatica a stare dietro ai progetti dei Modà. Ci sono tante mamme, per esempio, che mi fermano chiedendomi perché non canto più. Credo che Sanremo in questo momento sia un modo per dire a tutti: guardate che ci siamo ancora, per questo ci torniamo con la testa più leggera e consapevoli che stiamo cantando una canzone dei Modà, non stiamo stravolgendo nulla.
Come hai vissuto il cambiamento di cui mi parlavi?
Il cambiamento l'ho vissuto come l'avrebbe vissuto chiunque: ti ritrovi da un giorno all'altro a non essere più su nessuna radio e un po' ti dispiace perché sai perfettamente che non è per la qualità delle canzoni, ma per scelte editoriali e questa cosa ti mortifica. Sfido qualunque artista a uscire con tre dischi senza avere neanche un passaggio radiofonico. Non è facile, eppure noi siamo riusciti a fare il nostro platino, il tour nei palazzetti, quindi dall'altra parte questa cosa mi ha dato grande soddisfazione.
In che modo Sanremo può invertire questa tendenza?
Può cambiare perché riusciremmo ad arrivare alle persone che non usano i social. Ai nostri concerti ci sono i ragazzini, ma anche le nonne, i nonni, i papà e le mamme e quindi magari quella fascia d'età l'abbiamo un po' persa perché è quella che ascolta un po' più la radio, sono meno su internet e penso che il Festival possa aiutarci in questo, ricordando a queste persone che ci siamo ancora, a seguirci di più e a recuperare quello che hanno perso.
Come mai a un certo punto non vi hanno passato più in radio?
Credo che sia stata una scelta editoriale, sai, noi arrivavamo da un'etichetta fatta da tre radio, che avevano interessi editoriali da quel punto di vista. Quando il contratto è scaduto siamo andati da altre parti e non lo abbiamo rinnovato, questi passaggi radio sono scemati e pian piano siamo stati penalizzati. Certo, è una cosa che ti lascia l'amaro in bocca, ma allo stesso tempo sei consapevole di aver fatto una sorta di percorso inverso, perché è vero che non ce l'hai più quella visibilità, ma sai anche che quello che ti è stato dato è stato veramente tanto. Noi non arrivavamo da un percorso per cui sei in una casa discografica, una multinazionale che ti manda in radio, e poi quando cambia etichetta il rapporto con le radio rimane lo stesso, ma arrivavamo proprio da una casa discografica fatta alle radio, e quindi quando è finita questa relazione ci è rimasto l'amaro in bocca. Come ti dicevo, però, dall'altra parte sei consapevole del fatto che ti ha dato talmente tanto che tutto quello che è arrivato anche dopo, come il disco di platino o i palazzetti pieni, è merito anche del lavoro che è stato fatto da quelle persone. Quindi se da una parte ti arrabbi, dall'altra parte non puoi che ringraziare. Poi è chiaro che dispiace, perché dopo tanti anni di gavetta essere considerati zero è brutto.
A Sanremo torni con Lasciami, una canzone che parla della tua depressione, un grido di dolore in cui ti sei messo in gioco. Quando hai pensato fosse arrivato il tempo di scriverla questa canzone?
Quando ho smesso di vergognarmene, di vergognarmi di parlarne, probabilmente era a maggio, dopo la tournée. Non ne avevo mai parlato con le tv, le radio, i giornalisti, perché non mi è mai piaciuto parlare dei miei problemi, c'è tanta gente con problemi più grandi dei miei. Eppure mi rendevo sempre più conto che questa malattia, perché di malattia si tratta, è diffusissima e se ne parla ancora troppo poco, è vero che è il male del secolo. Quindi mi sono aperto ai concerti e dopo che l'ho fatto con i miei fan, parlando con loro, mi sono reso conto di quanto bisogno c'era di parlarne in maniera più diffusa. È stato a quel punto che ho iniziato a scrivere "Lasciami", che è una canzone sincera, in cui facevo i conti con me stesso. Ho cominciato a parlare alla depressione come se fosse una donna e come tutte le donne porta aspetti positivi nella tua vita ma può anche farti incazzare di brutto. Però poi alla fine, quando impari a conviverci con questa persona, hai bisogno di tutte e due le cose. E io infatti dico "Lasciami, ma fallo in silenzio, fai in modo che non me ne accorga" perché mi sta insegnando talmente tante cose.
Tipo?
A guardare la vita con dei punti di vista diversi e guardare tanti bicchieri mezzi pieni rispetto a quelli mezzi vuoti, quasi con la paura che se ne vada. Perché la depressione non è un'entità esterna che ti arriva addosso come un virus, ma è dentro di te, solo che io l'ho sempre evitata, repressa, per questo poi a me ha preso le gambe e preso il fisico, i muscoli.
Ne hai preso coscienza quando ti ha colpito fisicamente, ma ripensandoci in che modo la sentivi precedentemente?
C'erano avvisaglie che reprimevo, avevo attacchi di panico ma dicevo: "Vabbè, vai avanti, fregatene". Sai, cominci a pensare che se una cosa ti dà fastidio basta non farla e alla fine pensi di aver bisogno solo dell'amico e del ristorante, entri in una sorta di comfort zone che non fa bene, perché là dentro non si guarisce, si rimane in trincea finché ce n'è bisogno, eppure c'è bisogno di affrontarla questa vita. La depressione arriva dalla paura e devi affrontarla, perché stando sul divano non guarisci, affrontandola, invece, ti rendi conto che oltre alle paure ci sono le cose belle, che sogni, che per quanto ti posano far paura sai che affrontandole puoi arrivare a un risultato.
Cosa ti è successo fisicamente?
Quando mi sono ritrovato fermo a letto, con le gambe che non mi si piegavano, mi chiedevo cosa stesse succedendo e Laura, mia moglie, mi diceva che poteva essere l'influenza, poi dopo 10 giorni abbiamo deciso di chiamare un medico. Non so come spiegarla questa cosa: tentavo di piegare le ginocchia, ma avevo una sensibilità che mi impediva di farlo e poi non mi reggevano, mi sentivo stanco al punto che non riuscivo a caminare e a quel punto mi sono spaventato. Abbiamo chiamato un neurologo, ero disperato, piangevo a letto, finché mi ha detto che c'erano una notizia buona e una cattiva: la buona è che non era niente di neurologico, la cattiva che quello che avevo era depressione. A quel punto ho cominciato a curarmi e sono contento di averlo fatto.
Qual è stata la cosa più difficile da accettare?
Senza dubbio i farmaci, perché pensavo che gli psicofarmaci si dessero ai pazzi, ma ovviamente non è così. Così piano piano questa cosa l'ho accettata e devo ringraziare chi mi è stato vicino, perché non è stato facile, i primi mesi neanche volevo raccontarlo, non dicevo niente a nessuno, mentre adesso lo racconto tranquillamente e non avrei problemi a prendere farmaci per tutta la vita perché meglio curarsi e passare il resto della vita che ti manca con questo spirito piuttosto che stare a letto e non muoversi.
E questa bomba che è Sanremo in che modo l'affronterai?
Non ne ho idea, ma l'affronterò, perché se sto a casa non lo saprò mai. Ovviamente mi fa paura, ma sono contento che mi faccia paura perché così tento di affrontare una cosa che mi fa paura. Ma dall'altra parte mi incuriosisce, ho voglia di mettermi in gioco, coi ragazzi, abbiamo voglia di riprovare quelle emozioni che solo il Festival sa dare. Non so se sono pronto ma ho voglia di provarci.
Hai parlato del pregiudizio verso la musica "nazional-popolare", quanto soffri il giudizio degli altri e come lo affronti?
Più che del giudizio mi fa male il pregiudizio, perché il giudizio costruttivo va bene, ma il pregiudizio – tipo che facciamo schifo a prescindere -, quello ti dispiace: penso a mia figlia che legge certe cose e chiede perché le scrivono. Io ci ho fatto il callo, non ci rimango più male come una volta, però ti tocca sempre, ma nonostante ciò devi sempre ascoltare quella parte di te che se ne fotte perché alla fine il giudizio di uno che parla in quel modo non vale nulla, è solo un modo di volerti ferire, attaccarti e sta a te vedere quanta importanza dargli. Quando parlo di musica nazional popolare o di musica vecchia – qualcuno dice che non andiamo alla radio perché siamo vecchi – dico che va bene, però se andare in radio significa non riempire neanche mezzo club o un teatro preferisco essere nazional popolare e vecchio ma riempire i palazzetti, anche perché io vivo di questa cosa qui: non sono figo, ma piaccio (ride, ndr).
music.fanpage.it
venerdì 2 ottobre 2020
Giovanni Allevi: "Così combatto la mia ansia con la musica"
Fame d’aria: una sensazione che chi soffre di disturbi di ansia e di panico conosce bene. In Italia, stando ai dati Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) ne soffre circa il 79% della popolazione. Tra questi, l’enfant terrible della musica classica contemporanea, Giovanni Allevi. Compositore, direttore d’orchestra e pianista, si è esibito nei teatri più prestigiosi del mondo, dalla Carnegie Hall all’Auditorium della Città Proibita di Pechino. Jeans, T-shirt, scarpe da ginnastica, tra i templi di Paestum, dove ha incontrato i giovani giurati del Giffoni Film Festival, dice: «Mai rinunciare alle proprie passioni. È l’unica via per la felicità».
Non ha mai fatto mistero di essere un ansioso. Come è riuscito a contenere l’ansia?
«L’ansia è insopportabile, e in alcuni periodi sfocia nel panico. Credo sia dovuta al fatto che io e il mondo contemporaneo proprio non ci troviamo. Non riesco a condividere questo senso di competizione, il culto dell’apparire, l’idea che bisogna mostrare il successo, l’idolatria per i numeri. Il risultato è un senso di inadeguatezza e la fame d’aria. Io credo che noi esseri umani siamo infiniti, creature della natura il cui unico dovere è dare tutti noi stessi».
La musica può rappresentare una terapia?
«Sono convinto del potere liberatorio della musica, della sua capacità di far rivivere parti nascoste di noi, di risvegliare emozioni. La fragilità è il nocciolo profondo dell’essere umano ed è un’assurdità far finta che non sia così».
Quando è nata la passione per la musica?
«Ero il secondogenito e passavo molto tempo da solo. A casa c’era un pianoforte chiuso a chiave, che poteva suonare solo mia sorella e mio padre, musicista severo nei modi, mi aveva vietato di toccarlo. Tutto è iniziato da un divieto e il pianoforte si è trasformato in una ossessione finché un giorno ho trovato la chiave e ho
iniziato a suonarlo di nascosto. Ancora oggi, davanti ai tasti, provo la stessa emozione di paura e desiderio».
Dopo La musica in testa e altri quattro libri aspettiamo Revoluzione. Di cosa parlerà?
«La mia editor storica, mi ha confidato che Revoluzione è un libro sfaccettato, che si offre a diversi livelli di lettura. Potrei dire che è un testo di filosofia, dove il mio pensiero si esprime attraverso un linguaggio analitico rigoroso, oppure si abbandona all’immaginazione. Ma è anche una favola dai risvolti umani, o un’indagine sull’aspetto borderline della personalità di chi vive l’insofferenza per lo status quo, proiettato nella
ricerca spasmodica del nuovo».
Che cosa rappresenta per lei la scrittura?
«Nel corso degli anni si sono ingigantite le aspettative sulla mia figura artistica. Scrivere mi permette di non impazzire e di dare ai miei pensieri uno sfogo, una collocazione. Invece, davanti alla musica non ho alcun controllo: è pura ispirazione».
Il Covid ha stravolto le nostre vite. Come ha trascorso il lockdown?
«Dopo lo sconforto del vedere annullati i concerti e le tournée, ho deciso di avventurarmi in qualcosa che pensavo fosse lontano dalle mie corde: un ciclo di dirette web
tra pianoforte e filosofia, vincendo la timidezza. Il risultato è stato inaspettato. Gli incontri sono stati seguitissimi, pur affrontando aspetti tecnici della musica, o sfociando nell’astrofisica».
Secondo lei, come potrà rialzarsi il mondo dell’arte?
«Il mondo dell’arte, della cultura, della letteratura torneranno ad
essere presi in considerazione dalla gente. Se il mondo culturale non si chiuderà, ma saprà interpretare le tensioni, vivrà una stagione straordinaria di rinascita».
A cosa sta lavorando?
«Ho ripreso i concerti in Italia. Già dai primi appuntamenti mi sento pervaso da un senso di riconoscenza nei confronti del pubblico. Ho temuto che tutto sarebbe finito per me e ora vedere tutta questa gente mi commuove. Non poterla abbracciare mi stringe il cuore. Forse perché non ho mai interrotto il contatto con il pubblico. Grazie alle dirette web si stanno moltiplicando gli appuntamenti ai festival letterari e ai concerti. Ho deciso di affrontarli dando tutto me stesso».
Un posto in cui si sente a casa?
«Nella metro di Milano c’è una panchina che ho eletto a mio studio. Spesso ci vado, per sentirmi vicino al mondo, per sognare che tutte quelle persone, che entrano ed escono trafelate dai vagoni, ascoltino le mie note. Lo faccio per salvare la mia musica dal rischio di isolarsi. Quando le forme ideali ed astratte incontrano la vita reale, il risultato è sublime»
Non ha mai fatto mistero di essere un ansioso. Come è riuscito a contenere l’ansia?
«L’ansia è insopportabile, e in alcuni periodi sfocia nel panico. Credo sia dovuta al fatto che io e il mondo contemporaneo proprio non ci troviamo. Non riesco a condividere questo senso di competizione, il culto dell’apparire, l’idea che bisogna mostrare il successo, l’idolatria per i numeri. Il risultato è un senso di inadeguatezza e la fame d’aria. Io credo che noi esseri umani siamo infiniti, creature della natura il cui unico dovere è dare tutti noi stessi».
La musica può rappresentare una terapia?
«Sono convinto del potere liberatorio della musica, della sua capacità di far rivivere parti nascoste di noi, di risvegliare emozioni. La fragilità è il nocciolo profondo dell’essere umano ed è un’assurdità far finta che non sia così».
Quando è nata la passione per la musica?
«Ero il secondogenito e passavo molto tempo da solo. A casa c’era un pianoforte chiuso a chiave, che poteva suonare solo mia sorella e mio padre, musicista severo nei modi, mi aveva vietato di toccarlo. Tutto è iniziato da un divieto e il pianoforte si è trasformato in una ossessione finché un giorno ho trovato la chiave e ho
iniziato a suonarlo di nascosto. Ancora oggi, davanti ai tasti, provo la stessa emozione di paura e desiderio».
Dopo La musica in testa e altri quattro libri aspettiamo Revoluzione. Di cosa parlerà?
«La mia editor storica, mi ha confidato che Revoluzione è un libro sfaccettato, che si offre a diversi livelli di lettura. Potrei dire che è un testo di filosofia, dove il mio pensiero si esprime attraverso un linguaggio analitico rigoroso, oppure si abbandona all’immaginazione. Ma è anche una favola dai risvolti umani, o un’indagine sull’aspetto borderline della personalità di chi vive l’insofferenza per lo status quo, proiettato nella
ricerca spasmodica del nuovo».
Che cosa rappresenta per lei la scrittura?
«Nel corso degli anni si sono ingigantite le aspettative sulla mia figura artistica. Scrivere mi permette di non impazzire e di dare ai miei pensieri uno sfogo, una collocazione. Invece, davanti alla musica non ho alcun controllo: è pura ispirazione».
Il Covid ha stravolto le nostre vite. Come ha trascorso il lockdown?
«Dopo lo sconforto del vedere annullati i concerti e le tournée, ho deciso di avventurarmi in qualcosa che pensavo fosse lontano dalle mie corde: un ciclo di dirette web
tra pianoforte e filosofia, vincendo la timidezza. Il risultato è stato inaspettato. Gli incontri sono stati seguitissimi, pur affrontando aspetti tecnici della musica, o sfociando nell’astrofisica».
Secondo lei, come potrà rialzarsi il mondo dell’arte?
«Il mondo dell’arte, della cultura, della letteratura torneranno ad
essere presi in considerazione dalla gente. Se il mondo culturale non si chiuderà, ma saprà interpretare le tensioni, vivrà una stagione straordinaria di rinascita».
A cosa sta lavorando?
«Ho ripreso i concerti in Italia. Già dai primi appuntamenti mi sento pervaso da un senso di riconoscenza nei confronti del pubblico. Ho temuto che tutto sarebbe finito per me e ora vedere tutta questa gente mi commuove. Non poterla abbracciare mi stringe il cuore. Forse perché non ho mai interrotto il contatto con il pubblico. Grazie alle dirette web si stanno moltiplicando gli appuntamenti ai festival letterari e ai concerti. Ho deciso di affrontarli dando tutto me stesso».
Un posto in cui si sente a casa?
«Nella metro di Milano c’è una panchina che ho eletto a mio studio. Spesso ci vado, per sentirmi vicino al mondo, per sognare che tutte quelle persone, che entrano ed escono trafelate dai vagoni, ascoltino le mie note. Lo faccio per salvare la mia musica dal rischio di isolarsi. Quando le forme ideali ed astratte incontrano la vita reale, il risultato è sublime»
Dal Sito: repubblica.it
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