“La paura della paura, le ossessioni perché se la porta si chiude
resto intrappolato, il terrore di uscire a cena, la paura di un
concerto, i percorsi alternativi che studi per non prendere la
metropolitana per andare al lavoro, cercare le uscite di sicurezza…”
La nostra sezione Benessere si è spesso occupata di attacchi di panico
trattandosi di una disturbo massivamente diffuso nella società
contemporanea che interessa molti lettori. Riceviamo spesso commenti e
richieste di informazioni più approfondite sull’argomento. La vigilia di
Natale, però, ho ricevuto una mail di una nostra lettrice che racconta in maniera davvero struggente
cosa significhi convivere con questo tipo di disturbo, quello che può
arrivare a “prendersi” e l’inferno che ne deriva. La parte più
importante del suo scritto, però, è nel finale in cui viene dimostrato
come sia possibile uscire da questo tunnel superando i retaggi legati a
vergogna e alle cure farmacologiche che spesso, a causa
di pressapochismo informativo e profonda ignoranza, vengono
stupidamente demonizzate. Abbiamo quindi deciso di pubblicare questa testimonianza, su richiesta di chi l’ha scritta e rigorosamente in forma anonima, per dimostrare che il dolore privato spesso è un dolore comune a molti dal cui giogo è possibile liberarsi.

“Ho letto i vostri articoli sugli attacchi di panico (in particolare questo: Attacchi di panico come aiutare, 5 cose che dovete ricordarvi di dire a chi amate e che ne soffre)
e ho provato un senso di sollievo. Sono una donna separata di 42 anni
che soffre di questo male da 12 anni. Il senso di legittimazione che mi
ha dato leggere tutti quei commenti di persone sconosciute che parlavano
precisamente di quello che io provo ogni giorno, chiusa nella vergogna e
nella solitudine di comunicarlo, mi ha fatto riflettere. Io non ho mai
accettato di soffrire di una cosa tanto difficile da spiegare, in parte
mi aspettavo che dicendolo a qualcuno non avrebbe capito. Per una volta
nella vita, anche se in forma anonima, vorrei invece liberarmi e
condividere con il mondo intero, protetta dall’anonimato, quello che una
persona che soffre di attacchi di panico prova. Magari qualcuno troverà
conforto nel riconoscersi, si sentirà meno solo e più “normale”. Altri,
forse, che hanno persone che amano a fianco che ne soffrono potranno
sforzarsi di capire quello che a loro pare indecifrabile.
La prima cosa che odio del panico è che è invisibile: un occhio
pesto, un’allergia, persino un singhiozzo li puoi vedere ma il panico ti
si agita dentro e ti fa scoppiare le bombe nel corpo senza dare alcun
segnale esterno. Questo ti fa pensare che sei pazzo, perché è tutto
nella tua testa, perché fuori non c’è niente, perché gli altri sono
tranquilli. Questo fa anche credere agli stupidi, agli ignoranti, agli
insensibili che tu finga. Come se ti piacesse il ruolo della malata.
Il panico ti lega a lui, ti sposa, ti entra sottopelle e non
sparisce all’esaurirsi di un attacco. Nel frattempo resta l’ansia,
iniziano i meccanismi perversi: la paura della paura, le ossessioni
perché se la porta si chiude resto intrappolato, il terrore di uscire a
cena, la paura di un concerto, i percorsi alternativi che studi per non
prendere la metropolitana per andare al lavoro. La macchina che di colpo
hai paura di guidare e il senso di umiliazione profonda che deriva
dalla coscienza di essere diventato dipendente dagli altri. Da solo è
impensabile, fa troppa paura. Se succede mentre guido? Se sbando e vado
fuoristrada? Se succede in autostrada? I posti a teatro sempre vicini
all’uscita di sicurezza, le scuse che ci si inventa per evitare un
aperitivo, il terrore dei luoghi affollati e che manchi l’aria, la paura
che venga un infarto mentre cammino. E’ come se si potesse avere una
sorta di visione della morte senza morire davvero. L’ansia ti cambia, ti
umilia, ti mette all’angolo, si mangia la tua personalità, si divora la
tua vita. Tu non decidi più nulla, semplicemente vivi in punta di piedi
per non svegliarla. E’ l’esperienza assoluta: nascere e morire insieme.
E poi la nascondi, te ne vergogni. Diventi bravissimo a mentire, a
inventare le scuse migliori e più credibili per abbandonare una cena,
una riunione, una festa. Non ti muovi senza un piano di emergenza per la
fuga. Ho sbagliato, mi sono nascosta e mi sono vergognata a lungo. Mi
sono colpevolizzata perché nonostante gli sforzi non passava, mi
impegnavo ma non passava. L’anno scorso un’amica carissima, che ha
capito senza che io le dicessi nulla, mi ha letteralmente trascinata da
uno psichiatra. Già dalla prima seduta ho capito quanto tempo avessi
perso: lui traduceva i miei sintomi e miei disagi come fossero la cosa
più normale e più diffusa del mondo. Mi ha anche detto sorridendo che si
tratta di una delle patologie più diffuse in assoluto e che quindi di
cure ce ne sono davvero parecchie. Lo psichiatra mi ha detto che prima
si cura l’urgenza, ovvero si fa rientrare l’attacco farmacologicamente e
poi, quando sono serena, si lavora anche a livello terapico. Così
abbiamo fatto. Mese dopo mese ho iniziato a smettere di soffrire, gli
attacchi sono spariti anche se l’ansia generalizzata è rimasta. In 12
anni non avevo mai avuto una tregua di 10 mesi, ora facciamo anche
terapia. Ho paura a dirlo, perché mi sembra troppo bello per poterci
credere davvero, ma inizio a credere, per come stanno andando le cose,
che curarsi e uscirne sia possibile. L’unica cosa che non è possibile è
dimenticarli: non si torna mai più gli stessi dopo averne sofferto.
Grazie se pubblicherete questa lettera che spero di cuore possa servire ai tanti che conoscono questo dramma.”
Valeria Panzeri
Urban Post
L'attacco di panico è una forte crisi di ansia che si manifesta con
tachicardia, senso di oppressione al petto, vertigini e mancanza di
respiro. Si tratta tuttavia, di una condizione curabile in vari modi.
Tra
le cure possibili per questa forma di ansia ci sono i vari trattamenti
psicoterapeutici, rimedi naturali, farmaci, ma soprattutto lo sport.
Recenti studi infatti hanno provato che l'assenza totale di esercizio fisico è strettamente correlata all'insorgenza degli attacchi di panico.
Questo avviene perchè nell'organismo c'è energia inutilizzata, energia che deve essere liberata in qualche modo in quanto il corpo è fatto per muoversi.
Lo sport inoltre abbassa i livelli di cortisolo,
l'ormone dello stress e contribuisce quindi a ridurre gli attacchi.
Inoltre lo sport abbassando i livelli di cortisolo riduce i problemi di
concentrazione e di stanchezza.
E' come se l'organismo quindi
avesse una buona dose di energia che cerca una via di fuga, ecco quindi
che compaiono ansia, stress e, nei soggetti predisposti, attacchi di panico.
Quindi come prima cosa bisogna prevenire l'inattività muovendosi, anche semplicemente camminando e dedicandosi allo svolgimento di uno sport.
Lo sport aiuta l'organismo a rilasciare endorfine,
gli ormoni del buonumore, ed a favorire un buon sonno, tutti fattori
che riducono la probabilità di incorrere in un attacco di panico.
Ma quali sport è meglio praticare per prevenire o ridurre gli attacchi di panico?
Non è necessario dedicarsi a sport che prevedono un alto impatto, anzi, per cominciare basta semplicemente fare un po' di stretching alzandosi di tanto in tanto e allungando i muscoli.
Camminare,
inizialmente per pochi metri, può darvi il là per iniziare a muovervi
come anche andare in bicicletta, ma sempre cominciando in modo soft.
Basta scegliere un'attività che piace, anche andare a ballare va benissimo, praticare basket o yoga. Lo yoga è ideale per combattere gli attacchi di panico proprio perchè aiuta a controllare la respirazione e a rilassarsi.
Il nuoto
può essere un buon metodo per combattere gli attacchi, anche se più
intenso rispetto alla camminata o allo yoga, può comunque essere
eseguito in modo lento trovando un proprio ritmo.
Lo jogging
è insieme allo yoga uno dei metodi anti panico per eccellenza. Già il
solo fatto di praticarlo all'aperto, alla luce, è un toccasana per chi
soffre di disturbi d'ansia.
Per iniziare si può cominciare con un'attività da praticare nel tempo libero, magari nel fine settimana, un'escursione, una gita in bicicletta, una piccola corsetta in
mezzo alla natura e poi con l'allenamento e l'abitudine queste attività
possono anche essere estese ai giorni infrasettimanali, magari dopo il
lavoro o la mattina appena svegli.
Giusy Capozzi
Combattere gli attacchi di panico, prima che
diventino un problema, avvalendosi di una psicologa. Milano, una città
prolifica per le professionalità esistenti.
Troppe preoccupazioni, stress eccessivo, poco
tempo a disposizione e incapacità di gestione delle emozioni, possono
creare nei soggetti più sensibili stati di ansia che, se non arginati,
possono portare agli attacchi di panico e, quindi, a vere e proprie
patologie.
• Attacchi di panico – numeri e soluzioni
Recentemente, poiché il tenore di vita di ognuno di noi diventa sempre
più stressante e con ritmi sempre più densi, i casi di attacchi di
panico sono esponenzialmente aumentati. L’Italia non è esente da questo
fenomeno negativo e, soprattutto, nelle città più urbanizzate si sono
registrate molte richieste ai aiuto agli esperti: uno psicologo ha in
media 5 pazienti che soffrono di attacchi di panico. La figura
maggiormente scelta dagli italiani per la risoluzione di questi problemi
è quella della psicologa; Milano sembra essere, insieme a Roma, la
città in cui vi sono più studi specializzati che offrono soluzioni
personalizzate.
• Cosa sono gli attacchi di panico e quali sono le cause?
Gli attacchi di panico sono episodi improvvisi che si sviluppano senza
motivo apparente. Provocano reazioni psicologiche ma, soprattutto,
fisiche che possono generalmente spaventare il soggetto che può pensare
non solo di aver perso il controllo, ma anche di avere un infarto in
corso o di essere, addirittura, prossimo alla morte. È opportuno
distinguere gli episodi isolati di attacchi di panico da un disturbo
cronico e, quindi, in grado di invalidare la quotidianità del soggetto.
Le cause non si conoscono con certezza e variano da persona a persona.
Tuttavia tre sono i fattori che, tendenzialmente, possono incidere: la
genetica, il malfunzionamento di specifiche aree del cervello e lo
stress eccessivo.
• Quali sono i sintomi degli attacchi di panico?
Solitamente i sintomi, come le cause, variano da soggetto a soggetto:
talvolta un solo soggetto può avere un solo sintomo, oppure a fasi
alterne anche più di uno.
I principali sintomi, sostanzialmente, sono: sudorazione eccessiva e
improvvisa, battito cardiaco accelerato, tremore, iperventilazione,
respiro corto, brividi, nausea, dolore cardiaco e crampi addominali.
È molto difficile comprendere la portata e la gravità di ciascuna
manifestazione, durante un attacco di panico. Ma, nel caso in cui
doveste riconoscere uno di questi campanelli di allarme, vi consigliamo
di rivolgervi a uno specialista poiché trascurare una patologia di
questa portata, può indurre chiunque a degenerare sino ad avere bisogno
non solo di efficaci – ma blande - tecniche di rilassamento, ma anche un
trattamento psicoterapeutico e farmacologico indispensabile.
Link: http://www.elenacarbone.it/
Comunicati-Stampa.Net
Il centesimo attacco di panico
è come il primo. E cioè non importa quante volte abbiamo sperimentato i
sintomi odiosi - dolore al petto, pelle arrossata, batticuore e respiro
difficoltoso: non appena si palesano, immediatamente temiamo di dover
correre al pronto soccorso per un infarto o una crisi respiratoria.
Insomma, sembra quasi impossibile fare tesoro dell'esperienza sugli
attacchi di ansia.
E invece, quando tutto è finito e torniamo
razionali, scopriamo ancora una volta che non siamo morti né abbiamo
avuto bisogno del medico. Il passo successivo è cominciare a mettere in
pratica delle mosse che ci aiuteranno a superare il prossimo attacco
senza soccombere al terrore.
Ecco i passi da mettere in pratica. Non serviranno a fermare l'ansia, ma a gestirla nel modo migliore.
1. Accetta l'attacco di panico
E' impossibile fermare l'ansia con la forza di volontà. Quello che
invece possiamo imparare è riconoscere i segnali dell'ansia. Dite a voi
stessi: "Sto avendo un attacco".
2. Prendi nota
Una volta compreso che state avendo un attacco di ansia, prendete carta e
penna e scrivete quello che state provando a livello fisico ed emotivo.
Cercate di evitare pensieri catastrofici come "morirò", "sono solo e
nessuno può aiutarmi", "potrei svenire". Annotare le sensazioni aiuta
proprio a prevenire questi pensieri.
3. Respira
Il respiro corto è tipico dell'attacco di ansia. Cercate allora di
respirare con la pancia. Allenatevi quando state bene così poi riuscirà
più semplice.
4. Rilassati
Durante un attacco di ansia alcune parti del corpo si contraggono (mani, piedi, collo). Cercate di rilassare quelle parti.
5. Parla a te stesso
Una volta accettato il fatto che avete un attacco di panico, parlate a
voce alta con voi stessi e dite: "Ho un attacco di panico". Oppure: "Non
sverrò perché la mia pressione si sta alzando e mi terrà in piedi". O
altre frasi che abbiano un potere rilassante.
6. Ritorna al presente
E' molto difficile tornare nei luoghi dove si è sperimentato un attacco di panico, ma cercate di farlo. Un po' alla volta.
7. Cerca aiuto
Molto spesso l'attacco di ansia è soltanto psicologico e non vi sono
problemi di salute sottostanti. Consultate un cardiologo per essere
rassicurati - soprattutto se temete l'infarto e poi consultate uno
psicoterapeuta che vi aiuterà a superare il problema con l'ansia.
L' Huffington Post.it
Nella dipendenza affettiva, ciò che viene sperimentato come amore diventa una droga
Cos'ė l'amore?
L’amore rappresenta il bisogno e la capacità di trascendere noi
stessi e, insieme ad un altro, creare una realtà nuova. A volte, però,
questo delicato equilibrio si altera creando una frattura tra il dare e
il ricevere, tra il proprio confine e lo spazio condiviso. Se ciò
accade, l'amore può trasformarsi da un'occasione di crescita e
arricchimento ad una gabbia di dolore.
Questo è quello che succede quando si entra in una dipendenza affettiva.
Ė però d’obbligo una premessa quando si parla di dipendenza
affettiva: ognuno di noi è dipendente in qualche misura dagli altri,
ognuno di noi ha bisogno di approvazione, di empatia, di conferme e
ammirazione da parte degli altri per sostenerci e per regolare la nostra
autostima.
Dunque, la dipendenza affettiva è una forma di amore negativo
caratterizzata da assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva
nelle sue manifestazioni di coppia, in cui un individuo, “donatore
d'amore a senso unico”, vede nel legame con l'altra persona, l'unico
scopo della propria esistenza e il riempimento dei propri vuoti
affettivi, creando malessere psicologico e/o fisico, piuttosto che
benessere e serenità, come dovrebbe essere.
L'amore nasce dall'incontro di due unità, non di due metà. Solo se si
percepisce nella sua completezza è possibile donarsi senza annullarsi,
senza perdersi nell'altro. Chi è affetto da dipendenza affettiva, non
essendo autonomo, non riesce a vivere l'amore nella sua profondità e
intimità.
La paura dell'abbandono, della separazione, della solitudine generano
un costante stato di tensione e i propri bisogni e desideri individuali
vengono negati e annullati sfociando in una relazione simbiotica. La
dipendenza affettiva, diversamente da quanto a volte si manifesta
all'evidenza, non è un fenomeno che riguarda una sola persona, ma è una
dinamica a due.
A volte il partner del “dipendente affettivo” è un soggetto
problematico, che maschera la propria dipendenza affettiva con una
dipendenza da droga, alcol o gioco d'azzardo. In questo caso i problemi
del compagno diventano la giustificazione per dedicarsi interamente
all'altro bisognoso, non prendendosi il rischio di condurre un'esistenza
per sé. Altre volte la persona amata è rifiutante, sfuggente o
irraggiungibile, per esempio sposata o non interessata alla relazione.
In entrambi i casi quello che seduce è la lotta: la dipendenza si
alimenta del desiderio di essere amati proprio da chi non ci ricambia in
modo soddisfacente, e cresce in proporzione al rifiuto.
La persona che ha una dipendenza affettiva di solito soffoca ogni
desiderio e interesse individuale per occuparsi dell'altro, ma
inevitabilmente viene delusa e il suo amore prende anche la forma del
risentimento. Allo stesso tempo non riesce ad interrompere la relazione,
amando troppo e non rendendosi conto che questo comportamento distrugge
l'amore che richiede invece autonomia e reciprocità.
L'amore diventa quindi come una droga.
I sintomi più rilevanti per riconoscere questo problema possono
essere: gelosia, vergogna, senso di inferiorità e rabbia nei confronti
del partner, annullamento di sé, abbassamento dell’autostima e paura di
solitudine, terrore dei cambiamenti, paura della lontananza e dell'
abbandono, come della separazione.
In realtà, i sintomi possono essere ben più complessi e comprendono
anche l’idealizzazione del partner, sottomissione caratteriale, tendenza
ad assumersi colpe, bisogno di controllo nei confronti della persona
amata, ansia ed attacchi di panico, pensiero ossessivo della perdita
della dolce metà.
Cosa si può fare se si pensa di soffrire di dipendenza affettiva o se pensiamo che qualche nostro caro ne soffra?
Il primo passo verso il superamento del problema è riconoscere di
avere un problema. Poi, si deve chiedere aiuto. Ė essenziale porre la
propria salute e il proprio benessere come priorità su tutto il resto.
La guarigione dalla dipendenza affettiva non prevede sempre
l’allontanamento dalla persona che crea dipendenza, ma l’acquisizione
dell’autonomia affettiva che manca, in modo tale che si creino dei
rapporti realmente desiderati, sani, produttivi e non portati avanti
soltanto per il pensiero di non poter esistere senza di essi.
Come scrive Robin Norwood, in "Donne che amano troppo": "Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo".
ernestina fiore
Targatocn.it
Roma, 23 ott. -(AdnKronos) - Da ciò che si mangia al trucco, dagli
elementi d'arredo allo sfondo del pc, dalle sfumature del mare ai verdi
del bosco, dai riflessi del cristallo al muro di casa, dagli abiti al
sole che ogni giorno porta luce nelle nostre vite. "Tutto intorno a noi è
colore e influenza i nostri stati emotivi. Senza colore (buio) - spiega
Sara Cicolani, esperta di cromoterapia emozionale - è stato accertato
che il nostro umore peggiora notevolmente. Ci sono numerosi studi che
dimostrano la connessione tra stati depressivi e chi lavora senza luce o
tra chi indossa occhiali scuri da sole per troppe ore al giorno. Dato
che il colore influenza notevolmente i nostri stati emotivi - spiega
Cicolani -basterebbe veramente poco per essere sempre con una giusta
dose di buon umore nonostante le mille peripezie che la vita quotidiana
ci impone".

Possiamo infatti sfruttare i vari effetti che, a nostra insaputa, il
colore ha sui nostri stati d'animo. "Ci sono dei colori che ci aiutano
moltissimo a cambiare in poco il nostro umore e sono i cosiddetti colori
caldi: giallo, oro, arancio". Ma in realtà ogni moderno malessere
sembra avere un colore 'curativo'.
"Altri colori - spiega Cicolani - ci aiutano a metterci in contatto con
le nostre discordanze emozionali quotidiane così tipiche di questo
periodo storico tra cui la paura di non essere amati, la fame d'amore
(rosa/cristallo); gli sbalzi d'umore (oro); il senso d'inadeguatezza
(porpora); il sentirsi scarichi e senza energie (verde luminoso);
l'ansia (turchese); avere mille paure (celeste acqua); essere facilmente
manipolabili (viola scuro), essere freddi, distaccati e intolleranti
(mix di viola scuro, rosso, rosa, verde); l'inclinazione a rimandare in
continuazione (rosso ambrato); il senso di frustrazione (arancio
chiaro); gli attacchi di panico (viola scuro, celeste acqua, oro,
cristallo)".
Se invece vogliamo eliminare tutti i troppi pensieri che ci rovinano le
giornate "basterà usare le tonalità del blu 'annacquato', blu chiaro,
celeste acqua, turchese, azzurro.... Insomma blu non troppo scuro perché
altrimenti ci deprimiamo".
E ancora, grigio per disintossicarsi dal mondo; arancio chiaro se ci si
sente frustrati; verde mare contro le reazioni violente e negative;
rosso ambrato per combattere l'indecisione; blu contro il mal di testa.
Se poi volessimo creare all'interno della nostra casa una stanza della
meditazione"tutte le tonalità del viola e l'oro aiutano le attività
meditative - spiega Cicolani - e il riconnetterci con il nostro lato
spirituale". Tutti i toni del viola "dal viola scuro al porpora per la
meditazione trascendentale, mentre l'oro se ci interessa una meditazione
meno introspettiva e più proiettata verso l'esterno".
Focus.it
Una delle cose fastidiose dell'ansia è avere a che fare con pensieri
che s'infuocano e si trasformano in costanti preoccupazioni. A volte
sono giustificabili ("avrò lasciato il forno acceso?"), ma spesso sono
totalmente infondati ("Il mio capo mi odia?"). Il cervello, però, non
conosce la differenza.
Abbiamo chiesto ai redattori di HuffPost e ai membri della nostra Facebook community
che soffrono d'ansia di condividere in forma anonima alcuni dei
pensieri che li opprimono e gli frullano per la testa durante il giorno.
Scopri qui sotto solo alcune delle cose che spingono gli ansiosi a
essere paranoici, ti potrebbe aiutare a pensarci su due volte prima di
giudicare una persona che non può proprio far a meno di preoccuparsi.
1. Dire qualcosa che potrebbe offendere qualcuno
"Forse l'ho detto nel modo sbagliato. Provare così tanto a non offendere
quella persona lo ha fatto risultare forse ancora più offensivo?
2. Rimanere bloccati sui mezzi pubblici
Quando un treno della metropolitana si blocca o si ferma e non ne
conosco il motivo vado fuori di testa e penso di prendere un taxi, anche
se so che mi costerà troppo e prenderò tempo lo stesso. Vorrei sempre
avere il controllo di tutto quello che mi circonda".
3. Arrivare in ritardo
"A che ora devo lasciare il lavoro per arrivare in orario? Ci sarà traffico? Troverò il parcheggio?"
4. Temere che qualcosa possa andare storto
"Vivo nella paura costante di cosa potrebbe accadere a me e mio marito.
Ho paura di finire in mezzo alla strada e non ho amici o parenti ai
quali potermi appoggiare".
5. Dimenticare di fare qualcosa di importante
"Ogni santo giorno quando esco di casa controllo di aver chiuso a chiave
almeno 3 volte e mi assicuro che il frigo sia ben chiuso."
6. Non poter essere sicuro di quello che sta accadendo o di quello che accadrà
"Ogni giorno, ogni minuto ho l'ansia di cosa stia accadendo. Qualcosa
che è accaduto di recente o qualcosa che potrebbe accadere nei prossimi
istanti".
7. Chiedersi se il tuo ragazzo è arrabbiato con te
"Perchè ci mette così tanto tempo a rispondere al mio messaggio? Sarà forse arrabbiato con me? Forse lo sto annoiando".
8. Fare un errore a lavoro e pensare che i colleghi ti giudichino
"Ho fatto un errore nell'ultima mail di gruppo. Ho subito rettificato. Adesso penseranno che sono incompetente".
9. Sembrare stupido in un contesto sociale
"Staranno ridendo di me? Spero di non aver sbagliato. Spero di non aver
detto qualcosa di sbagliato. Forse non era divertente? Forse non dovevo
ridere? Posso andare via adesso?".
10. Essere ansioso di essere ansioso
"Molte delle mie ansie derivano dal fatto che sono ansioso. Perchè sono
ansioso? Non ho ragione di essere ansioso. Sono felice e ho una bella
vita. Perchè non posso liberarmi dall'ansia? Tutti dicono che mi l'ansia
mi stressa inutilmente e ne sono consapevole. Ma forse metto ansia alla
gente?".
Tutto questo ti suona familiare? Ecco cosa puoi fare:
Realizza che è il tuo cervello a fare questo. Secondo lo psicologo Rick Hanson autore di "Hardwiring Happiness: The New Brain Science of Contentment" il nostro cervello possiede una propensione negativao
una tendenza a far emergere il peggior risultato possibile. Questo è
particolarmente frequente per chi soffre d'ansia. Se il tuo cervello sta
entrando in una spirale di cattivi pensieri non piangerti addosso e non
colpevolizzarti.
Accetta i tuoi pensieri. Non spazzare via i tuoi pensieri dalla tua mente, piuttosto affrontali a testa alta. "La più grande preoccupazione quando inizia a salire l'ansia è quella di creare un circolo virtuoso"
dice lo psichiatra Mickey Trockel, assistente di clinica e professore
di psichiatria e scienze comportamentali della Stanford University, ad
HuffPost. "Quando qualcosa sta provocando in noi quelle emozioni,
cerchiamo di evitare l'ansia è proprio lo star bene che rinforza la
nostra ansia".
Fatti delle domande. Guarda i tuoi
pensieri dalla giusta prospettiva ponendoti delle domande che ti
aiutano a riformulare la tua paura. Questo metodo ti consente di
distaccarti da te stesso e di parlare. "Valutare i pro e i contro di quel pensiero",
spiega Peter Norton, un professore di psicologia dell'università di
Houston. "Valutare per bene vi aiuterà ad avere una visione più
razionale della situazione".
Impegnati in attività rilassanti.
Non importa se si tratta di una piccola meditazione o una passeggiata,
entrambe hanno dei benefici sulla salute mentale. Fai qualcosa che ti
faccia stare sereno e distragga la tua mente dai cattivi pensieri.Questo post/articolo è comparso per la prima volta su HuffPost Us ed è stato poi tradotto dall'inglese da Valentina Trifiletti
L' Huffington Post.it
L’era della nomofobia: senza smartphone scatta il panico
Siamo drogati di polvere di bit. Nell'era della nomofobia, senza smartphone scatta il panico.
Nell’era più tecnologica di sempre – quella postmoderna – le conseguenze
legate all’iperconnessione degli individui sono sempre più gravi e
lapalissiani, a causa di una società caratterizzata da
sistemi di comunicazione interdigitali senza precedenti. Dunque, non
stupirà che in uno studio del 2008 condotto su un campione di 2.163
persone e commissionato dal britannico Post Office Ltd all’ente di
ricerca YouGov, sia stato coniato il termine inglese nomophobia. Il neologismo, sorto dall’abbreviazione “no-mobile-phone”, designa il terrore di rimanere sconnessi dalla rete
mobile. La ricerca ha rilevato che, in Gran Bretagna, il 53% dei possessori di smartphone manifesta stati d’ansia
quando non può usarlo (ad es. a causa della batteria scarica o del
credito in rosso oppure in assenza della copertura di rete). Nello
specifico, il 58% degli uomini e il 48% delle donne soffrono di questa
nuova forma di psicopatologia. Gli effetti generati da tale fobia sono
molto gravi, simili ad attacchi di panico: angoscia, respiro difficoltoso, vertigini, nausea, sudorazione, tremori, tachicardia e così via.
Nello
specifico, i nomofobici cercano di evitare l’ansia ricorrendo ad una
serie di comportamenti preventivi (ad es. portando sempre con sé un
caricabatterie e tenendo perennemente il credito telefonico in attivo).
Così, emerge che 6 ragazzi su 10 tra i 18 e i 29 anni non vanno a letto
senza la compagnia confortante dello smartphone, una coperta di Linus gravemente dannosa per il riposo. Dal canto suo, la ricercatrice Francisca Lopez Torrecillas
– professoressa presso l’Università di Granada – ha svolto uno studio
su giovani tra i 18 e i 25 anni ed ha riscontrato che si tratta della
fascia d’età più dipendente dallo smartphone. Per la dottoressa, le
cause più evidenti sarebbero bassa autostima e problemi nelle relazioni
sociali. Secondo David Greenfield, professore di
psichiatria all’Univeristà del Connecticut, la dipendenza da smartphone
può influire sulla produzione della dopamina (il neurotrasmettirore del
piacere e della ricompensa). Di conseguenza, ad esempio, all’apparire di
una notifica di WhatsApp o Facebook il livello di dopamina tende a
salire, nella speranza che si stia per vivere qualcosa di eccitante.

Per quanto concerne le ricerche italiane, due studiosi dell’Università di Genova – Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente
– hanno proposto che la nomofobia venga inserita nel “Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM), punto di
riferimento mondiale per psicologi e psichiatri. Bragazzi e Del Puente
definiscono questa fobia come “guscio protettivo o scudo” e “come mezzo per evitare la comunicazione sociale”. Secondo i ricercatori, inoltre, “come in ogni forma di dipendenza, il primo sintomo è anche in questo caso la negazione” e ciò rende più difficile l’accettazione e la cura del disturbo.
Ma
la nomofobia non è l’unico concetto prezioso per analizzare le
problematiche collegate alla società iperconnessa contemporanea. Negli
ultimi anni, si fa un gran parlare anche di phubbing (termine nato dalla crasi di phone e snubbing, ossia snobbare, ignorare): l’atteggiamento
sgarbato che induce a controllare continuamente lo smartphone alla
ricerca di novità, isolandosi e trascurando la propria compagnia in
carne ed ossa. Come si intuisce, si tratta di un neologismo
profondamente connesso a quello di nomofobia e rappresenta uno degli
effetti più dilaganti nella nostra vita quotidiana. Per combattere
questo fenomeno è nato addirittura il sito www.stopphubbing.com, al fine di boicottare una tendenza emblematicamente riscontrabile nei ristoranti ed ai bar nelle uscite fra amici.
Inside Marketing.it
Essere svegli, eppure non riuscire a muoversi, come se si fosse
paralizzati. E vedere i "fantasmi", ovvero assistere in piena coscienza
alla proiezione allucinata della propria immagine corporea: la paralisi
del sonno, o ipnagogica, è un disturbo legato a un prolungamento
eccessivo, o a un inizio anticipato, della fase REM, quella normalmente
popolata dai sogni. Che però possono trasformarsi in incubi se ci si
sveglia quando tale fase non è ancora terminata: può sembrare infatti
che le immagini prodotte dalla mente prendano quasi una forma reale,
tant'è che in molte culture tali allucinazioni sono da sempre state
attribuite a forze soprannaturali.
Sono tre i tipi fondamentali
di allucinazioni durante la paralisi del sonno: la presenza di un
intruso, una pressione sul petto a volte accompagnata da esperienze di
aggressioni fisiche e/o sessuale, ed esperienze di levitazione e di
uscita dal proprio corpo.
Secondo un recente studio britannico pubblicato sul "Journal Of Sleep Research"
su 862 intervistati, quasi il 30% dei pazienti ha dichiarato di aver
sperimentato almeno un episodio di paralisi del sonno nel corso della
vita, solo l'8% ha invece riferito di episodi più frequenti.

Eppure,
in alcuni casi, la paralisi del sonno può essere sintomo di un disturbo
più grave, la narcolessia, in cui la capacità del cervello di regolare
il normale ciclo sonno-veglia subisce delle alterazioni. Generalmente la
paralisi ipnagogica è correlata a situazioni cliniche come disturbo da
stress post-traumatico e risulta più frequente tra i pazienti che
soffrono di crisi di panico. Ciò non esclude, tuttavia, che possa
manifestarsi anche in assenza di particolari disturbi. Eventi
stressanti, ansia e scarsa qualità del sonno sono tutti fattori che
possono incidere negativamente. A conferma di ciò il fatto che chi,
come i turnisti, non ha la possibilità di godere di un riposo regolare,
manifesta un rischio più alto di paralisi del sonno. Non bisogna
trascurare poi il ruolo giocato dal Dna nella vulnerabilità alla
paralisi notturna: alcuni studi condotti su gemelli hanno dimostrato che
esiste la variante di un gene coinvolto nella regolazione del ciclo
sonno veglia che può essere associato alla paralisi del sonno.
Gli studi in laboratorio
La
fase REM nel ciclo del sonno è un periodo di intensa attività
cerebrale, normalmente associata ai sogni: in questo periodo i muscoli
sono immobili (a parte gli occhi e le vie respiratorie). Si presume che
questo meccanismo di paralisi si attivi per non permetterci di agire
durante i nostri sogni e di farci involontariamente del male. Tuttavia,
di tanto in tanto, questo meccanismo di sicurezza non funziona, in
questi casi sperimentiamo la paralisi del sonno.
Un team di
ricercatori giapponesi è riuscito a indurre episodi di paralisi del
sonno privando sistematicamente i partecipanti della fase REM. Hanno
scoperto così che, se tale sottrazione viene ripetuta più volte, gli
individui tendono a passare dalla veglia direttamente a una fase detta
SOREM, bypassando le altre fasi del sonno. In seguito a questa fase
Sorem, i partecipanti hanno più probabilità di avere un episodio di
paralisi del sonno.
In sintesi, gli studi recenti confermano che
la paralisi del sonno è strettamente legata alla fase REM ma ad oggi non
ci sono ancora terapie mediche specifiche, anche se in casi gravi
possono essere prescritti degli antidepressivi. La ricerca ha comunque
messo in luce che mantenere un ciclo di sonno regolare può ridurre la
frequenza di tali episodi, insieme a una serie di strategie di
prevenzione come cambiare spesso posizione mentre si dorme, fare
attenzione alla dieta e fare esercizio fisico.
Silvia De Santis
L' Huffington Post
La depressione, gli attacchi di
panico, il crollo, la rinascita. La consapevolezza che dal male oscuro
non guarirai, ma puoi sopravvivere, e forse anche vivere. La storia di Stefano Dionisi, attore di Farinelli, Sostiene Pereira, Bambola, è da brividi.
Si trovava in Spagna, durante le riprese di un film: lo coglie un attacco di panico,
non sa cosa fare, scappa da tutti. Lo ritrovano in un paesino
disabitato dell’Estremadura e, dopo le prime cure, lo rimandano in
Italia. Viene ricoverato in un ospedale psichiatrico a Pisa: inizia una
lenta guarigione, poi le devastanti ricadute, cambia terapia, si
trasferisce a Roma, va in analisi, ricorre a psicofarmaci. Insomma le
prova tutte. Dionisi racconta la sua storia nel libro La barca dei folli (Mondadori).

L'analisi gli fa capire che la nuvola nera in cui è entrato ha origini lontane: l'abbandono del padre
quando era piccolo. La madre gli sta vicino, Dionisi conosce tanti
compagni di malattia, e li descrive nel libro. "Ho sperimentato così
l’importanza della famiglia", dice l'attore, David di Donatello per
Farinelli, "perché se gli manca il sostegno di un padre e di una madre,
delle persone care, un malato psichico non ce la fa a rialzarsi,
si emargina sempre di più, viene impasticcato e lasciato solo, non
guarisce, diventando anche un costo per la società". Denuncia Dionisi:
"Lo Stato dovrebbe aiutare le famiglie che hanno un congiunto con
malattie mentali, perché i farmaci di ultima generazione sono troppo
cari, perché la solitudine aumenta la disperazione, peggiora il quadro
clinico, e può allontanare i familiari da chi ha già gravi problemi
affettivi, che sono quasi sempre l’origine dei disturbi mentali". E la
fede, conta? "Di solito ci si appiglia a Dio quando le terapie sembrano
non funzionare più e si ha bisogno di alimentare la speranza, io ho
chiesto di confessarmi al cappellano dell’ospedale, volevo un rapporto
che mi avvicinasse al Mistero...".
Dionisi parla anche alla Stampa del suo difficile percorso
verso la salute mentale: "Non si guarisce mai ma sto bene. Vivo una
bella storia d' amore, ho recuperato il rapporto con mio figlio. Scrivo
un nuovo libro e sono in tv (nella fiction di Canale 5 L'onore e il Rispetto e in quella di Raiuno Un medico in famiglia, Ndr)".
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