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martedì 22 gennaio 2019

Disturbo di panico e agorafobia


Il disturbo di panico è un disturbo d’ansia caratterizzato dalla regolare e frequente manifestazione di attacchi di panico.

L’attacco di panico è un episodio di ansia acuta, nel quale si verifica un repentino e incontrollato aumento della paura in risposta a qualcosa che viene percepito come un pericolo: tale paura insorge in modo improvviso e intenso, ma ha generalmente una durata molto breve. L’attacco di panico è spesso associato a altri disturbi d’ansia e da solo non viene considerato un disturbo, in quanto si tratta di un episodio circoscritto e transitorio, che chiunque potrebbe sperimentare almeno una volta nella vita. Si parla di Disturbo di Panico se gli attacchi di panico vengono sperimentati con una certa frequenza e in modo sistematico.

La diffusione del disturbo di panico

Negli Stati Uniti, il 2-3% della popolazione tra adulti e adolescenti soffre di disturbo di panico nell’arco di 12 mesi, mentre nei paesi asiatici, africani e latinoamericani le percentuali sono più basse (tra lo 0,1 e lo 0,8%). Per quanto riguarda il singolo episodio di attacco di panico, è stato stimato che il 30% della popolazione ne ha sofferto almeno una volta nella vita. Tale disturbo interessa maggiormente le donne, sono infatti il doppio rispetto agli uomini a soffrirne (Fonte: DSM-5).

I sintomi dell’attacco di panico

Un attacco di panico può manifestarsi a partire da uno stato di agitazione o da una situazione di tranquillità, rendendo l’imprevedibilità una caratteristica molto temuta da chi soffre di questo disturbo.

L’intensa agitazione è correlata da sintomi fisici (almeno quattro), che possono essere:

Palpitazioni, percezione di un aumento del battito cardiaco e tachicardia;

Sudorazione eccessiva;

Tremori di lieve o forte intensità;

Mancanza d’aria o sensazione di soffocare;

Dolore o fastidio al petto;

Nausea o disturbi addominali;

Sensazione di vertigine, instabilità, percezione di svenimento (di “avere la testa leggera”), confusione mentale;

Brividi o vampate di calore;

Sensazioni di formicolio o intorpidimento;

Sensazione di irrealtà (pensare che ciò che si vede o sente non sia reale) e di essere staccati da sé stessi.

Vi sono due pensieri ricorrenti che di solito accompagnano l’attacco di panico:

Paura di perdere il controllo o di “impazzire”;

Paura di stare per morire.

Affinché il disturbo di panicovenga riconosciuto tale, è necessario che l’attacco di panicosia accompagnato, per almeno un mese, da una costante preoccupazione della persona di avere un altro attacco e da significative modifiche del comportamento. La persona che soffre di attacchi di panico può arrivare infatti a limitare la vita quotidiana, evitando situazioni o luoghi percepiti come pericolosi e mettendo in atto strategie, spesso poco utili e controproducenti, per proteggersi da un eventuale attacco.

Va sottolineato che tale alterazione comportamentale non deve essere il risultato di effetti farmacologici, ma deve essere messa in atto dal soggetto allo scopo di scongiurare l’insorgenza di un attacco. Allo stesso modo, gli attacchi di panico non devono essere riconducibili a un’altra condizione medica o altri disturbi psicologici.

Come si manifesta l’attacco di panico

Il momento di inizio di un attacco di panico coincide con l’improvviso e crescente aumento della paura, che si amplifica fino a raggiungere il picco massimo in circa 10 minuti, indipendentemente dall’ansia esperita in precedenza. Si possono distinguere due tipi differenti di attacchi di panico: attesi/situazionali o inaspettati. In un attacco di panico atteso/situazionale la persona che ne è coinvolta riesce ad identificare l’elemento che lo ha scatenato, la fonte della paura, mentre nell’attacco di panico inaspettato l’individuo prova una forte paura senza riuscire a trovare una possibile spiegazione.

È tipico che la persona che sperimenta attacchi di panicosviluppi preoccupazioni in merito (1) alla possibilità che gli attacchi si verifichino di nuovo e (2) alle conseguenze degli attacchi stessi: paura di avere un infarto durante l’attacco, di impazzire, di avere danni alla salute. In particolare la percezione del battito cardiaco amplificato e accelerato è spesso molto preoccupante: i sintomi possono ricordare quelli dell’infarto, mentre la tachicardia nell’attacco di panico è innocua e tende a scomparire nel giro di qualche minuto. La persona che non è consapevole dei meccanismi psicofisiologici alla base dell’ansia nel momento in cui avverte la minima agitazione teme di avere un nuovo attacco di panico, e questo la porta a agitarsi ancora di più. È comune infatti che molti attacchi si siano manifestati proprio perché la persona che ne ha sofferto teme fortemente che l’episodio si ripresentasse: questa paura agita il soggetto tanto da scatenargli realmente un nuovo attacco, creando un vero e proprio circolo vizioso del panico.

Per quanto riguarda la frequenza degli attacchi di panico, possono presentarsi in serie molto diverse tra di loro: possono verificarsi attacchi a cadenza settimanale per alcuni mesi, oppure episodi giornalieri con pause di qualche mese che poi si ripresentano. Tra i sintomi elencati in precedenza, una stessa persona può manifestarne diversi nei vari attacchi: l’irregolarità e l’imprevedibilità del Disturbo di Panico infatti lo rende particolarmente temuto.

I comportamenti correlati al disturbo di panico

La conseguenza comportamentale di chi soffre di disturbo di panicoconsiste in una serie di evitamenti: solitamente si evitano i luoghi dove si ha avuto un attacco, le zone affollate dalle quali non si può uscire in fretta, gli spazi chiusi o sconosciuti, i mezzi pubblici, si evita di compiere sforzi fisici che potrebbero aumentare il battito cardiaco. Si attuano inoltre comportamenti volti a prevenire l’attacco di panico, chiamati “comportamenti protettivi”, quali ed esempio: portare con sé farmaci, muoversi solo in vicinanza di strutture mediche, stare sempre in compagnia di persone di fiducia che possano fornire aiuto all’occorrenza, tenere d’occhio le possibili vie di fuga e le uscite di sicurezza.

La diagnosi di disturbo di panico

Per una corretta diagnosi, il Disturbo di Panico non va confuso con altri disturbi dello spettro ansioso: se si sperimentano sintomi tipici dell’attacco di panico senza tuttavia avere un attacco vero e proprio, l’individuo è verosimilmente nella condizione di soffrire di un disturbo d’ansia con altra specificazione, ma non di un Disturbo di Panico.

Se la causa degli attacchi di panico è attribuibile ad una particolare condizione medica (ipertiroidismo, disfunzioni vestibolari, disturbi cardiopolmonari, ecc.) non è corretto parlare di Disturbo di Panico: gli attacchi insorgono come riflesso di un’altra patologia ed è necessario fare appropriati accertamenti.

Allo stesso modo gli effetti o l’intossicazione da sostanze stimolanti che attivano il sistema nervoso centrale come cocaina, anfetamine, caffeina e cannabis o astinenza da sostanze, come alcool e barbiturici, possono generare condizioni di forte agitazione ed essere responsabili di attacchi di panico; anche in questo caso la causa sono gli effetti delle sostanze stesse e non si tratta di un disturbo psicologico.

È da considerare con attenzione invece la condizione nella quale si verificano attacchi di panicoanche molto tempo dopo l’uso delle sostanze, quando gli effetti e le condizioni di intossicazione sono ormai estinte. In questo caso gli attacchi possono essere comparsi inizialmente in seguito agli effetti degli stupefacenti e poi essersi mantenuti nella persona grazie al circolo vizioso di agitazione, dando origine al Disturbo di Panico.

L’età media di insorgenza del disturbo si colloca tra i 20 e i 24 anni nella popolazione degli Stati Uniti. Più raramente è possibile osservare casi di attacchi di panico nell’infanzia o esordi attorno ai 45 anni. Se il disturbo non viene trattato si può protrarre per diversi anni, spesso con una diversi sintomi che cambiano nei differenti attacchi singoli. Una complicazione del disturbo tipica consiste nell’uso di sostanze con la funzione di autocura, allo scopo di tranquillizzarsi proteggendosi da ulteriori attacchi.

Le cause del disturbo di panico

Non si conosce tuttora un’unica causa responsabile del disturbo di panico, tuttavia sono stati identificati numerosi fattori di rischio, ad esempio il temperamento della persona, in particolare la sua tendenza ad avere un atteggiamento orientato al pessimismo e ad esperire emozioni negative. Anche la sensibilità all’ansia fornisce una buona predisposizione al verificarsi di attacchi di panico, rendendo l’individuo maggiormente predisposto al Disturbo di Panico. Storie di vita particolari e traumatiche, come essere stati vittime di abusi nell’infanzia, sono un potente fattore di rischio per gli attacchi di panico in età adulta, oppure eventi molto stressanti e destabilizzanti avvenuti poco prima del primo attacco (morte di familiari, problemi lavorativi e relazionali, incidenti). Infine l’iperventilazione (respirare intensamente, fornendo all’organismo più ossigeno del necessario), messa in atto solitamente dopo un intenso sforzo fisico o quando si trova in uno stato di agitazione, può facilitare di molto la comparsa dell’attacco di panico, così come fumare.

Costrutti psicopatologici del disturbo di panico e agorafobia

È comune che il Disturbo di Panico sia fortemente legato ad un’altra condizione psicopatologica: l’agorafobia. Questa è definita come una grande sensazione di disagio e timore di trovarsi in ampi spazi aperti o in ambienti non familiari, dai quali sarebbe difficile allontanarsi, uscire o trovare una via di fuga.

Chi soffre di agorafobia spesso si trova costretto tra le mura di casa, in quanto evita qualsiasi mezzo pubblico, gli spazi aperti (parcheggi, mercati, piazze, ecc.), gli spazi chiusi (teatri, cinema, ecc.), evita di stare in fila o in spazi affollati e di essere fuori casa da solo, con notevoli conseguenze a livello sociale e relazionale. Quando la persona che soffre di agorafobia si trova in una di queste situazioni (o in molte altre situazioni simili) avverte frequentemente i sintomi fisici e psicologici tipici dell’attacco di panico.

Nel Disturbo di Panico si può riscontrare l’adozione di stili di pensiero scarsamente utili, come il rimuginio, ovvero il continuo pensare e ripensare agli eventi negativi che potrebbero capitare, con l’obiettivo di prevederli, prevenirli e prepararsi a affrontarli. Sebbene risulti spesso incontrollabile e correlato a un aumento del disagio, il rimuginio viene visto dalla persona ansiosa come una valida arma contro i suoi sintomi. Dato che idee e preoccupazioni pervasive emergono nella mente in continuazione, rimuginando l’individuo ha l’impressione di potersi preparare ad affrontare la situazione e di sentirsi quindi maggiormente sicuro.

 

Terapia del disturbo di panico

La terapia per il disturbo di panico e agorafobia può essere di tipo farmacologico, psicoterapeutico o un’integrazione tra i due. La terapia farmacologica utilizza generalmente farmaci quali benzodiazepine e antidepressivi di nuova generazione. Questi farmaci sono in grado di controllare e ridurre lo stato di agitazione e ansia, tuttavia il loro effetto è correlato all’assunzione, quindi i sintomi tendono a ripresentarsi quando viene interrotta la terapia. La psicoterapia cognitivo-comportamentale lavora per aiutare la persona a analizzare i suoi processi cognitivi e a modificarli, offrendole strumenti per affrontare diversamente la sintomatologia ansiosa. I farmaci possono essere utili qualora l’individuo avverta stati di ansia talmente forti da non riuscire a lavorare in psicoterapia: in questo caso i farmaci vengono prescritti nella fase iniziale, per essere successivamente interrotti quando gli interventi cognitivi e comportamentali risultano sufficienti a arginare l’attivazione ansiosa. È piuttosto comune che la persona abbia timore di prendere i farmaci per paura di svilupparne una dipendenza, o che i loro effetti possano causare danni: tuttavia, se si seguono le indicazioni professionali del medico non ci sono rischi di questo genere.

La psicoterapia cognitiva nel disturbo di panico

La terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo di Panico e Agorafobia è stata riconosciuta come efficace e inserita nelle linee guida NICE (Fonte: National Institute for Health and Clinical Excelence, NICE, 2011) con i training di rilassamento. Gli interventi di self-help e i gruppi psicoeducativi sono condotti ugualmente secondo un orientamento di terapia cognitiva.

La terapia cognitiva-comportamentale opera analizzando i processi che si verificano durante l’esperienza del paziente: viene riconosciuto che la persona percepisce alcuni stimoli (spazi affollati, luoghi chiusi, mezzi pubblici, ecc.) o sensazioni interne (tachicardia, svenimento, ecc.) come pericolose e reagisce ad essi aumentando la sua agitazione, l’ansia. Quando il paziente si trova in uno stato ansiogeno, i sintomi sono amplificati e avvertiti ancora più pericolosi, fino a generare un attacco di panico, mantenendo il circolo vizioso nel quale si è trovato sino a questo momento. Per gestire e controllare tale meccanismo la terapia cognitivo comportamentale prevede:

Formulazione di un contratto terapeutico: definire gli obiettivi terapeutici condivisi da paziente e terapeuta

Psicoeducazione al disturbo: fornire al paziente informazioni su come funziona il disturbo di panico, su come insorge, si manifesta e si mantiene il panico

Ricostruzione della manifestazione iniziale e attuale del disturbo, attraverso l’individuazione di eventi specifici

Insegnamento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia

Individuazione delle interpretazioni erronee (ad esempio pensieri catastrofici) che portano all’attacco di panico e messa in discussione di tali interpretazioni

Esposizione graduale alle sensazioni e agli stimoli temuti ed evitati

Prevenzione delle ricadute.

Infine esistono interventi di psicoterapia cognitiva comportamentale di gruppo, che permette il confronto con persone che si trovano nella medesima situazione e condividono lo stesso disturbo, favorendo il superamento di difficoltà e incrementando le possibilità di successo dell’intervento.


Dal Sito: studicognitivi.it 


mercoledì 21 febbraio 2018

Fobia sociale, come capire che non è solo timidezza e come uscirne


Un disturbo diffuso tra la popolazione, la fobia sociale è l'ansia di agire davanti agli altri per paura di ricevere giudizi negativi e di venir mal giudicati. La dr.ssa Martina Valizzone ci aiuta a conoscerla per affrontarla, poichè l'ansia sociale, se non trattata, può diventare la causa di altri disturbi come la depressione.

Quando si parla di timidezza e quando questa condizione può trasformarsi in “fobia sociale”? Lo abbiamo chiesto alla dr.ssa Martina Valizzone, specialista in psicologia.

Quando si parla di fobia sociale

La fobia sociale è un disturbo d’ansia che consiste nel credere di essere osservati e giudicati negativamente in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un’attività in pubblico.

Chi soffre di ansia sociale tende a manifestare eccessiva timidezza o riservatezza in pubblico, cui si accompagna un atteggiamento e una postura corporea solitamente rigida e difensiva. Si tratta di un disturbo piuttosto diffuso tra la popolazione.

Secondo recenti studi, ne soffre dal 3 al 13% degli italiani con una prevalenza maggiore nel sesso femminile. La fobia sociale nella quinta edizione del DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) ha cambiato dicitura in Disturbo d’Ansia Sociale, i cui sintomi principali sono:

Paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio altrui.

Il soggette teme di essere deriso, rifiutato o criticato dagli altri nello svolgimento di azioni o compiti di vario genere.

Le situazioni sociali provocano nel soggetto ansia o paura intensa.

Le situazioni sociali sono evitate oppure sopportate con estrema ansia o paura.

La paura o l’ansia risultano sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta in essere dalla situazione sociale temuta.

All’interno di questa categoria diagnostica è possibile distinguere tra la fobia sociale specifica, quindi circoscritta a un particolare ambito sociale, oppure generalizzata che invece riguarda la maggior parte delle situazioni sociali.

Per ricevere una diagnosi di disturbo d’ansia sociale, i sintomi devono essere presenti da almeno 6 mesi e provocare disagio clinicamente significativo nelle varie aree di vita del soggetto quindi l’ambito familiare, personale e sociale (scolastico o lavorativo che sia).

Quali sono i modi migliori per affrontare questo tipo di fobia

Per affrontare questo disturbo, come per altri disturbi d’ansia, il trattamento più indicato ed efficace è la psicoterapia a indirizzo cognitivo-comportamentale.

La terapia cognitivo comportamentale va ad agire sui pensieri e le credenze disfunzionali che il soggetto associa allo stimolo fobico e contemporaneamente,
attraverso strategie di tipo comportamentale, aiuta il soggetto a gestire le proprie reazioni d’ansia e angoscia. Il terapeuta, nel corso della terapia, guiderà il paziente all’esposizione graduale e sistematica delle situazioni sociali che provocano ansia.

Il presupposto su cui si fondano questo tipo di interventi è che un’esposizione frequente e prolungata allo stimolo, opportunamente predisposta da paziente e terapeuta, permetterà poi al paziente di affrontare le situazioni temute in modo progressivamente più agevole, privandole della reazione emotiva negativa.

Fattore che permetterà a sua volta al soggetto di riprendere a vivere con maggiore serenità le situazioni sociali, grazie anche alla riduzione della vulnerabilità al giudizio negativo degli altri e alla vergogna. Si sono rivelati interventi efficaci anche il training autogeno e l’apprendimento delle tecniche di rilassamento muscolare profondo, utili ad associare allo stimolo fobico una reazione fisica contraddistinta da calma e rilassatezza.

Per ridurre l’entità dei sintomi associati alla fobia sociale, è spesso consigliata una terapia farmacologica a base di farmaci antidepressivi o ansiolitici. Più recentemente, nel trattamento farmacologico della fobia sociale sono stati inclusi anche gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e gli inibitori della monoamino ossidasi.

Malgrado la loro efficacia nella remissione dei sintomi ansiosi, gli effetti benefici dei farmaci cessano immediatamente dopo la loro sospensione e, se non accompagnati da un terapia psicoterapica, presentano elevati tassi di ricaduta.

Quali sono i fattori scatenanti?

Secondo recenti studi non è possibile ricondurre a un’unica causa i sintomi della fobia sociale. Sarebbe più opportuno parlare di un insieme di fattori di tipo genetico, psicologico e ambientale che concorrono all’instaurarsi di un simile disturbo.

Tra i fattori genetici, la familiarità rappresenta un importante fattore di rischio. Soggetti che hanno altri casi di fobia sociale in famiglia, hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo d’ansia sociale, rispetto alla popolazione generale.

Per quanto riguarda i fattori di natura psicologica un altro fattore di rischio è la presenza di determinate caratteristiche di personalità che possono facilitare l’instaurarsi di una simile patologia, tra queste citiamo: un’estrema sensibilità alle critiche, bassa autostima, vergogna, sentimenti di inferiorità e la paura di essere rifiutati.

In ultimo tra i fattori di rischio ambientali, rivestono un ruolo predominante le esperienze traumatiche (quali umiliazioni, persecuzioni o scherno) vissute dal soggetto durante l’infanzia o l’epoca adolescenziale, che in quanto tali hanno contribuito a rinforzare la percezione del mondo esterno come pericoloso, dal quale è meglio difendersi.

Dr.ssa Martina Valizzone

Dal Sito: www.tantasalute.it

venerdì 14 luglio 2017

Terapia cognitivo-comportamentale: imparare ad essere terapeuti di se stessi


Cristina è una giovane paziente, racconta della sua terapia per attacchi di panico e di come, dopo anni di cbt, è riuscita diventare terapeuta di se stessa.

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Me l’ha spiegato, ma le cose non erano troppo chiare: la storia delle distorsioni cognitive; le credenze di base; i pensieri che creano le emozioni… mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’. Bene pensai, almeno risparmio qualcosa!

Come dicevo sono passati due anni dall’inizio. Non vi dico nel dettaglio per quali motivi mi ritrovai in quello studio, a parte che c’entravano anche gli attacchi di panico, tanto ormai sono piuttosto comuni e non me ne vergogno.

Ma oggi ho iniziato a correre. A fare running, o jogging che fa più figo! Era facile a dirsi, complesso nell’attuarlo. Le scuse più assurde, una pigrizia certa, una resistenza infallibile. Inizialmente avevo optato per la palestra. Un mese per andare solo a chiedere informazioni. Un giorno mi decido, dopo una lunga ristrutturazione cognitiva (un pensiero ci fa soffrire? Bene, si cercano altri pensieri che possono almeno farci stare meno male!), e vado in due palestre. Una meno simpatica rappresentata da una Barbie bionda in carne (poca) ed ossa; l’altra invece gentile e alla mano quasi fossi iscritta lì da sempre (a pensarci bene forse fin troppo gentile). Solo varcare quelle soglie ha scatenato in me una reazione fisica spropositata. Palpitazioni, tremori alle gambe, chiusura dello stomaco. Ero critica verso quel mondo e le persone coinvolte, ne ero consapevole, per fortuna ho una buona auto-riflessività (me lo diceva sempre la terapeuta).

Osservo di nuovo i pensieri, faccio un respiro profondo, mi aggancio al momento presente in perfetto stile mindfulness e mi concentro sulle informazioni che mi danno… functional ore 18, interval training ore 19.30, zumba ore 10, spinning ore 12, crossfit ore 20… mi perdo nuovamente in piena modalità mindflight (la mente che se ne va).
Torno a casa e il solo pensiero della lezione di prova mi fa cadere nuovamente nell’angoscia totale. Che faccio allora?

Ovvio, rimando alla settimana successiva, d’altronde ‘io troppi impegni questa settimana‘. Sarà un problema di procrastinazione? Difficile a dirsi. Ma comunque… arriva il famoso lunedì in cui, si sa, si mettono in atto i buoni propositi. Mi sveglio già agitata al pensiero della palestra. Da buona ‘allieva’ cognitivo-comportamentale mi dico: ‘che cosa mi sta passando per la mente?‘ (quante volte me l’ha chiesto la dottoressa!). La risposta è semplice: ‘Odio la palestra; mi sentirò a disagio appena arrivata all’ingresso perché sentirò tutti gli occhi puntati; tutti si saluteranno come se fossero una grande famiglia; non so se dovrò portare un lucchetto per lo spogliatoio; non saprò utilizzare le attrezzature; e in qualunque corso non sarò mai coordinata con il resto del gruppo e poi… tutto puzzerà! Sudore ovunque e in qualunque momento!’.

Bene RP (registrazione dei pensieri) fatta. Pensieri catastrofici infiniti, etichettamenti, palle di vetro a gogò (queste sono le famose distorsioni cognitive). Rifletto ancora. Mi viene in mente l’attivazione comportamentale che la terapeuta mi fece eseguire in un brutto momento per me: ‘Iniziamo con le cose che amavi‘ mi disse e stilammo una lista di attività. Questo tipo di tecnica serve per far riattivare una persona dopo un periodo di totale nulla; mi vergogno a dirlo, ma a volte non riuscivo nemmeno a farmi una doccia per quanto ero giù. Si stila la lista delle attività come dicevo, e si parte da quella più piacevole e per la quale ci sentiamo più capaci, fino ad andare avanti con l’elenco… ma comunque a me ora serviva solo riprendere un’attività fisica. Quindi ritorno con la mente sulle attività fatte in passato.

E il benessere provato stava lì, lo sentivo, era la corsa. In quel momento ho cancellato del tutto l’idea della palestra. Ho ripreso la divisa, le scarpe adatte, legato i capelli. E ho respirato di nuovo. Leggevo i pensieri che anche qui remavano contro, ma li lasciavo andare, ripetendomi che superato l’inizio tutto sarebbe stato più semplice.

Letteralmente dovevo compiere il primo passo. E così ho fatto. Chiusa la porta di casa ho iniziato a correre. Pochi passi e sono tornata a dieci anni fa quando facevo atletica leggera a livello agonistico. Mezzofondo per chi è curioso. Ho sentito il corpo riattivarsi. E’ stato bello respirare all’aria aperta. La puzza a dir la verità l’ho ritrovata, concime dei campi, ma alla natura si perdona quasi tutto. Corro nella mia solitudine ricercata con la consapevolezza di ciò che ho intorno, delle sensazioni corporee. E’ la prima volta che corro dopo la pratica della Mindfulness.

Ho applicato i principi ed è stata un’esperienza nuova che comunque racchiudeva in sé vecchi ricordi. Stupendo. Ma il caso a quanto pare mi mette spesso alla prova. In lontananza vedo un cane. Solo, come sono sola io. Flashback: rivedo me inseguita da due cani all’età di 15 anni. Sento la paura salire. Non so che fare. Respiro di nuovo profondamente. Attimi per riattivare la ristrutturazione cognitiva: ‘E’ piccolo… sembra buono… forse non ti noterà… sei adulta ora… ecc.. ecc.’, tutto in cinque secondi credo. Esposizione. Flooding.

Ora è necessaria una spiegazione: l’esposizione, come dice la parola stessa, significa esporsi a qualcosa che abbiamo evitato per timori vari; quando si parla di flooding si fa riferimento ad un’esposizione un po’ particolare del tipo: ‘Temi le altezze? Soffri di vertigini? Benissimo! Perfetto! Ti buttiamo con il paracadute dall’aeroplano!‘. Significa quindi essere immersi totalmente nella nostra paura senza gradualità. Questo mi è successo. Passo vicino al cane.

Distratto annusa le piante. Tiro un sospiro di sollievo. Cavolo, lo sento correre verso di me. Panico. Di nuovo respirazione e ristrutturazione ‘Non viene proprio verso di te… pure se fosse cosa può farti… ecc… ecc.‘. Mi viene vicino e mi supera un po’. Corre avanti a me. Poi si ferma e mi riviene vicino e di nuovo accanto. Non mi sta seguendo. Mi sta accompagnando. Tiene il mio passo. Mi commuove la cosa. Se non mi fossi esposta prima, non avrei goduto di tutto questo. Dopo qualche centinaio di metri c’è il padrone che lo chiama, o meglio la chiama, ‘Bianca, vieni qui‘. Niente, continua a starmi accanto fino a casa. Sorrido pensando che ora mi dispiace separarmene, mentre prima sembrava la cosa più temibile al mondo.

Arrivata mi sento bene, sono felice. Certo poi non aspettiamoci che il mondo intorno a noi riconosca il nostro sentirci dei supereroi. Mia madre mi guarda e dice ‘Al ritorno hai preso l’autobus?‘ e mia sorella, dopo che le stavo dicendo che quando corro mi si gonfiano le mani, mi guarda e fa ‘Bé ti diventa pure viola la faccia!‘. Potevo irritarmi con queste invalidazioni ma, memore dei mille discorsi sull’assertività (che ci ho messo un po’ a capire), le guardo e dico: ‘Per favore mi dite che sono stata brava? Non è mica stato facile per me!‘. Si guardano, richiesta strana, sorridono: ‘Sì, sei stata brava!‘. Ora ho capito cosa volesse dire la mia dottoressa due anni fa. Sono diventata terapeuta di me stessa.

di Eleonora Natalini

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/02/terapia-cognitiva-racconto/

giovedì 22 giugno 2017

Il disturbo da attacchi di panico: strategie per guarire


La Terapia Cognitivo Comportamentale è l’intervento che ha fornito la maggiore dimostrazione di efficacia nel trattamento dei disturbi d’ansia e, in particolar modo, del disturbo da attacchi di panico.
L’efficacia clinica della Terapia Cognitivo Comportamentale è confermata dalle alte percentuali di risoluzione (superiori anche alla farmacoterapia) e rappresenta un fattore protettivo per le ricadute a lungo termine.

Il modello cognitivo afferma che non è la situazione in sé a spaventare le persone, ma il modo in cui queste interpretano quella determinata situazione.
Non sono, quindi, gli eventi a provocare quello che sentiamo, ma il modo in cui li vediamo e li gestiamo, attraverso i nostri pensieri (Beck, 2013).
Il pensiero influenza continuamente le nostre reazioni corporee, quindi, il pensiero, ad esempio, di poter avere un attacco di panico induce uno stato di ansia che, a sua volta, porterà alla comparsa di ulteriori sintomi fisici e i pensieri negativi innescheranno il circolo vizioso, andando a determinare gli effetti sul nostro corpo.
Per la Terapia Cognitivo Comportamentale il tuo coinvolgimento è attivo e determinante nella nascita e nella persistenza dell’attacco, che è frutto di un processo continuamente rinforzato da molti aspetti, su cui hai più controllo di quanto tu non creda. Dal momento che la tendenza a usare le proprie emozioni come fonte di informazione e valutazione costituisce un meccanismo fondamentale nei disturbi d’ansia, il vero problema è il modo in cui interpreti la tua stessa ansia, cosa ripeti a te stesso quando sei in ansia.
Durante il percorso di psicoterapia capirai che l’ansia aumenta quando ti concentri sulle sensazioni del corpo e sui pensieri catastrofizzanti e il tuo terapeuta ti equipaggerà di strumenti adattati per te per affrontare e gestire la tua ansia.

Ristrutturazione cognitiva degli esiti temuti delle sensazioni fisiche
I pensieri catastrofizzanti fanno sì che le persone con attacchi di panico interpretino erroneamente i sintomi dell’ansia e li vedano come dei reali pericoli.
Presta attenzione a cosa pensi nel momento in cui diventi ansioso e alle sensazioni fisiche che provi, perchè potrebbero essere dovute ad altri fattori (stanchezza, troppa caffeina, stress, aver mangiato troppo, aver dormito poco, ecc.).
Prova a chiederti: "Prima di focalizzare l’attenzione su quella parte del corpo, ero consapevole delle sensazioni fisiche?” "Quando ho focalizzato l’attenzione sulle sensazioni, cosa è accaduto?” "Ho notato sensazioni di cui non ero mai stato consapevole, concentrando l’attenzione su alcune parti del corpo? Ciò potrebbe aver contribuito all’attivazione e al mantenimento del circolo vizioso?”Se in una situazione ansiogena avverti dei sintomi fisici molto forti e pensi "Sto diventando pazzo”, sostituisci questo pensiero con "Sto solo sperimentando sintomi fisici forti, non ho alcuna ragione di ritenere che sto impazzendo”. Oppure, se pensi "Sto per avere un infarto”, sostituiscilo con "È solo il battito del mio cuore, già altre volte è stato accelerato”.
Quando provi delle sensazioni fisiche che interpreti come pericolose devi iniziare a pensare che possono dipendere da:
  • una risposta fisiologica, non pericolosa, all’aumento dell’ansia
  • una reazione normale allo stress
  • la conseguenza di un esercizio fisico
  • la fatica
  • gli effetti collaterali della nicotina, del caffè, dell’alcool o dei farmaci
  • un’accresciuta vigilanza alle sensazioni corporee
  • forti emozioni quali rabbia, sorpresa o eccitazione
  • il verificarsi casuale di processi biologici interni benevoli (ad es. prossimità del ciclo mestruale, mal di pancia, ecc.).
L’esposizione enterocettiva
Durante il percorso di Terapia Cognitivo Comportamentale per il trattamento del disturbo da attacchi di panico, una fase importante è quella che prevede l’esecuzione degli esperimenti comportamentali per l’induzione dei sintomi in seduta.
Questi esperimenti forniscono la prova che le sensazioni fisiche di per sé non conducono automaticamente al panico. ("...anche quando sono ansioso, aumentare il mio battito cardiaco correndo per le scale non aumenta il mio livello d’ansia”..) e permettono di scoprire che il modo in cui vengono interpretati i sintomi determina se l’ansia esita in panico oppure no ( "Quando so che il mio cuore batte forte a causa dell’esercizio fisico, non mi sento ansioso”). Sperimentare che non si producono le conseguenze temute (pazzia, collasso, morte, ecc.) fa diminuire la forza dei pensieri catastrofici.

Oltre agli esperimenti effettuati durante le sedute, una componente importante del trattamento è l’esecuzione degli esercizi a casa, anche nei giorni in cui la persona può sentirsi particolarmente ansiosa o propensa al panico.

L’esposizione graduata in vivo per gli evitamenti agorafobici
L’esposizione graduata in vivo per gli evitamenti agorafobici è una fase fondamentale della Terapia Cognitivo Comportamentale per il disturbo di panico. Anche in questo caso il tuo psicoterapeuta saprà prepararti e guidarti in questa fase del trattamento che, solitamente, determina un’intensa paura, anche prima che l’esposizione stessa abbia inizio, per l’aspettativa di star male, per la "paura della paura”.
Durante l’esposizione graduata in vivo lo psicoterapeuta aumenta progressivamente il livello di ansia a cui la persona si esporrà, in modo che possa realizzare di essere in grado di gestire situazioni ansiogene a lungo evitate.
Affrontare la situazione temuta senza fuggire, infatti, fa aumentare la paura che però una volta raggiunto il suo picco massimo, si stabilizzerà per poi ridimensionarsi e sarà di nuovo possibile fronteggiare le situazioni temute senza provare più paura o panico.

Dal Sito: www.istitutobeck.com

martedì 29 ottobre 2013

La Terapia Cognitivo Comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è uno dei più diffusi approcci terapeutici nella cura dei diversi disturbi psicopatologici. Tale forma terapeutica combina due modelli di terapia significativamente efficaci.

La psicoterapia cognitiva ha l’obiettivo di individuare pensieri ricorrenti, schemi rigidi di ragionamento e di interpretazione della realtà, al fine di correggerli, arricchirli, integrarli con altri pensieri più oggettivi e funzionali al benessere della persona. Ciò che caratterizza e distingue la psicoterapia cognitiva è la spiegazione dei disturbi emotivi attraverso l’analisi della relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti. L’assunto fondamentale, è che le rappresentazioni mentali del paziente (credenze, pensieri automatici, schemi) permettono di spiegare il disagio psicologico e il suo perpetrarsi nel tempo. Le reazioni emotive disfunzionali e il disagio sono frutto di distorsioni contenutistiche e formali di tipo cognitivo: la patologia è frutto di pensieri, schemi e processi erronei di pensiero. La non modificazione di tali schemi contribuisce al mantenimento del disturbo.

La psicoterapia comportamentale aiuta a modificare la relazione fra le situazioni che creano difficoltà e le abituali reazioni emotive e comportamentali che la persona ha in tali circostanze, mediante l’apprendimento e la sperimentazione pratica di nuove modalità di reazione.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è:

Centrata sul “qui ed ora”. La terapia è principalmente centrata sul presente e sul futuro, mira ad ottenere dei cambiamenti positivi, ad aiutare la persona a uscire dalle proprie “trappole cognitive”.Il percorso psicoterapico si preoccupa di attivare tutte le risorse del paziente e di scovare insieme allo stesso valide strategie funzionali al proprio benessere. Questo vuol dire che agendo attivamente ed energicamente sui nostri pensieri e sui nostri comportamenti attuali, possiamo liberarci da molti dei problemi che ci affliggono da tempo. A breve termine. La durata della terapia varia di solito dai quattro ai diciotto mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale. Non si esclude, tuttavia, per problemi psicologici più gravi, un periodo di cura più prolungato, in concomitanza con una possibile farmacoterapia di supporto.
Orientata allo scopo. Il terapeuta cognitivo-comportamentale lavora insieme al paziente per stabilire gli obiettivi della terapia, formulando una diagnosi e concordando con lo stesso un piano di trattamento che si adatti alle sue esigenze.
Attiva. Sia il paziente che il terapeuta giocano un ruolo attivo nel percorso terapeutico. Il terapeuta mostra al paziente ciò che caratterizza la sua problematica e le possibili soluzioni ad essa. E’ compito del professionista individuare le tecniche piu’ appropriate che potranno aiutare la persona a raggiungere questi obiettivi, mentre sara’ compito di quest’ultima impegnarsi durante gli incontri e nella vita reale per seguire le indicazioni dell’operatore.
Collaborativa. Terapeuta e paziente lavorano insieme per capire e sviluppare strategie che possano indirizzare quest’ultimo alla risoluzione dei propri problemi. Tale approccio necessita di un’imprescindibile collaborazione tra paziente e terapeuta.

Attualmente la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale copre il campo del trattamento di tutti i disturbi mentali: disturbi dell’area nevrotica (disturbi d’ansia, fobie, ossessioni-compulsioni, depressione), disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia), disfunzioni sessuali, disturbi di personalita’, disturbi da abuso di sostanze, psicosi (disturbo delirante, schizofrenia), problemi psicopatologici dell’eta’ evolutiva, psicopatologia nell’anziano.

Dott. Marco Marco Forti Psicologo
Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale
Sessuologo

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