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mercoledì 9 ottobre 2019

Disturbo di depersonalizzazione: chi sono davvero?


“I miei pensieri non sembrano miei”, “Chi sono?”, “Quando mi guardo allo specchio, non mi riconosco”. Questo genere di pensieri si verificano con molta frequenza nelle persone affette dal disturbo di depersonalizzazione o che stanno attraversando dei momenti di grande ansia.

La ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo è una costante. Tutti ci saremo chiesti qualche volta chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando. È una cosa normale. Tuttavia, nel disturbo di depersonalizzazione si verifica con molta più frequenza e intensità.




Cos’è la depersonalizzazione?

Il disturbo di depersonalizzazione è caratterizzato da episodi persistenti o ricorrenti di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe. Ma cos’è la depersonalizzazione? Gli episodi di depersonalizzazione sono dei momenti in cui compare una sensazione di irrealtà, stranezza o un distacco da se stessi e dal mondo esterno in generale.

La persona affetta da depersonalizzazione può sentirsi indipendente da tutto il suo essere e da ciò che la caratterizza (per esempio, “non sono nessuno”, “non ho niente di me”). La persona può anche sentirsi soggettivamente separata da alcuni aspetti dell’Io. Questi possono includere i sentimenti (per esempio la bassa emotività: “so di avere dei sentimenti, ma non riesco a provarli”).

Sentirsi separati dall’Io include anche avvertire una separazione rispetto ai propri pensieri (per esempio, “mi sento la testa annebbiata”), a parti del corpo, a tutto il corpo o a delle sensazioni (per esempio il tatto, la propriocezione, la fame, la sete, la libido). È inoltre frequente che diminuisca il senso della realtà.

Imparare a vivere nel presente

Per esempio, la persona sperimenta una sensazione robotica, come di un automa, che ha scarso controllo dell’uso della parola e dei propri movimenti. L’esperienza della depersonalizzazione a volte può concretizzarsi in un Io scisso, con una parte da osservatore e l’altra da partecipante. Quando si verifica nella sua forma più estrema, è noto come “esperienza extracorporea“(dall’inglese out of body experience).

Il sintomo comune della depersonalizzazione è composto da diversi fattori. Questi fattori includono esperienze corporee anomale (per esempio l’irrealtà dell’Io e le alterazioni della percezione), intorpidimento fisico, emotivo e distorsioni del tempo con anomalie della memoria soggettiva.




Cos’è la derealizzazione?

Gli episodi di derealizzazione sono caratterizzati da una sensazione di irrealtà, distaccamento o mancata familiarità con il mondo. La persona può sentirsi come in un sogno o in una bolla, come se vi fosse un velo o una parete di vetro fra lei e il mondo che la circonda.

L’ambiente può essere visto come artefatto, privo di colore o vita. La derealizzazione di solito è accompagnata da distorsioni visive soggettive. Queste possono essere la sfocatura, l’acutezza visiva incrementata, il campo visivo ampliato o ridotto, la bidimensionalità o la piattezza, l’esagerazione della tridimensionalità. Possono verificarsi anche delle alterazioni in quanto a distanza o dimensioni degli oggetti (per esempio, macropsia o micropsia).

La macropsia consiste nel vedere gli oggetti più grandi rispetto alle dimensioni reali. La micropsia è il contrario, in altre parole vediamo gli oggetti più piccoli di quanto sono in realtà.

La derealizzazione può tradursi anche in distorsioni uditive, silenziando o accentuando le voci o i suoni. Per effettuare la diagnosi di questo disturbo, è richiesta la presenza di un malessere clinicamente significativo o di un deterioramento da un punto di vista sociale, lavorativo o altri settori importanti.

Occorre chiarire che, affinché si possa formulare una diagnosi di derealizzazione, le alterazioni citate non possono essere frutto dell’assunzione di medicinali e farmaci o di una malattia (come l’epilessia). Queste alterazioni non devono essere neanche un sintomi di schizofrenia, attacchi di panico, depressione maggiore, disturbo acuto da stress o disturbo da stress post-traumatico.

Ulteriori caratteristiche delle persone affette da disturbo di depersonalizzazione

Le persone con disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione possono avere delle difficoltà a descrivere i loro sintomi e possono arrivare a pensare di essere pazze o che lo stanno diventando. Un’altra esperienza frequente è il timore di avere un danno cerebrale irreversibile.

Un sintomo comune è l’alterazione soggettiva del senso del tempo (per esempio, troppo veloce o troppo lento), così come una difficoltà soggettiva a ricordare vividamente i ricordi passati e a esserne padroni.

Sono frequenti anche i sintomi corporei più tenui, come saturazione, formicolio o sensazione di svenimento. La persona può mostrare una preoccupazione ossessiva nel tentativo di capire se esistono davvero o di controllarne le percezioni per determinare se siano o meno reali.

Non è raro riscontrare diversi gradi di ansia o depressione in chi è affetto da disturbo di depersonalizzazione. Un dato curioso è che queste persone tendono a reagire fisiologicamente in modo più intenso agli stimoli emotivi. Questi cambiamenti fisiologici si verificano in seguito all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, del lobulo parietale inferiore e dei circuiti della corteccia prefrontale limbica.




Diagnosi del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione?

Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V), la persona affetta da disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione deve rispettare i seguenti criteri diagnostici:

A. Presenza di esperienze persistenti o ricorrenti di depersonalizzazione, derealizzazione o entrambe:

Depersonalizzazione: Esperienze di irrealtà, distaccamento o essere un osservatore esterno rispetto ai propri pensieri, sentimenti, sensazioni, al proprio corpo o alle proprie azioni.

Derealizzazione: Esperienze di irrealtà o distaccamento rispetto all’ambiente (per esempio, le persone o gli oggetti vengono visti come irreali, come in un sogno: vaghi, privi di vita o visivamente distorti).

B. Durante le esperienze di depersonalizzazione o derealizzazione, le prove di realtà si mantengono intatte.

C. I sintomi provocano un malessere clinicamente significativo o un deterioramento da un punto di vista sociale, lavorativo o in altri settori importanti.

D. L’alterazione non può essere attribuita agli effetti fisiologici di una sostanza (per esempio farmaci e medicinali) o a un’altra patologia (per esempio l’epilessia).

E. L’alterazione non è dovuta a un altro disturbo mentale, como la schizofrenia, attacchi di panico, depressione maggiore, disturbo acuto da stress, disturbo da stress post-traumatico o un altro disturbo dissociativo.

Sviluppo e decorso del disturbo di depersonalizzazione

In media, il disturbo di depersonalizzazione comincia a manifestarsi intorno ai 16 anni, anche se può cominciare agli inizi o a metà dell’infanzia. Di fatto, la maggior parte delle persone ricorda di aver avuto sintomi già in questa fase.

Più del 20% dei casi compare dopo i 20 anni e solo il 5% dopo i 25. La comparsa nel quarto decennio di vita o più tardi è molto insolita. L’inizio può essere estremamente repentino oppure graduale. La durata degli episodi di depersonalizzazione/derealizzazione può variare ampiamente, da breve (ore o giorni) a prolungata (settimane, mesi o anni).

Data la rarità dell’inizio del disturbo dopo i 40 anni di età, in questi casi possono esservi delle patologie soggiacenti, come lesioni cerebrali, crisi epilettiche o apnea notturna.

Il decorso della malattia è spesso cronico. Mentre in alcune persone l’intensità dei sintomi può aumentare o diminuire considerevolmente, altre riferiscono un livello costante nell’intensità che, nei casi estremi, può essere ricorrente per anni o decenni. D’altra parte, l’aumento dell’intensità della sintomatologia può essere causato da stress, peggioramento dell’umore o ansia, nuove circostanze stimolanti o fattori fisici, come la luce o la mancanza di sonno.

Occorre dire che non tutte le persone che presentano alcuni di questi sintomi sviluppano tale disturbo. Se i sintomi citati sono presenti la maggior parte del tempo e interferiscono seriamente nella vostra vita quotidiana, può essere necessario che vi rivolgiate a uno psicologo affinché valuti il vostro problema.

mercoledì 22 aprile 2015

Disturbo Evitante di Personalità: sintomi, cura e terapia da seguire.

Timore delle critiche, paura della disapprovazione e dell’esclusione e, soprattutto, la radicata convinzione di valere poco. Se tutto questo suona familiare è probabile che ci si trovi di fronte ad un disturbo evitante di personalità (DEP), che spinge chi ne soffre a rinunciare ad una vita sociale per paura di risultare inadeguato.

 

Cos’è il disturbo evitante di personalità

Il disturbo evitante di personalità è un disturbo della personalità che si manifesta solitamente all’inizio dell’età adulta. Coloro che ne soffrono vorrebbero instaurare buoni rapporti con altre persone, avere un gruppo di amici con cui uscire la sera e un partner con il quale condividere i propri interessi, ma la paura di non risultare adeguati è tanto forte e la prospettiva di un rifiuto talmente dolorosa che preferiscono isolarsi ed evitare il confronto con gli altri, soprattutto se il rapporto implicherebbe un certo coinvolgimento emotivo. Se da un lato così facendo il soggetto si sente al sicuro, dall’altro questa condizione di solitudine è vissuta con tristezza, mitigata magari da attività e hobby che non prevedano un contatto con altre persone, come ad esempio la musica, la lettura e le collezioni di vario tipo.

Sintomi del disturbo evitante di personalità

Una spiccata timidezza, un atteggiamento particolarmente riservato o la tendenza ad essere apprensivi non sono ovviamente indice di uno stato patologico. I sintomi del disturbo evitante di personalità tracciano un quadro più complesso, che prende in considerazione molti elementi. Alcuni dei sintomi principali sono un forte senso di inadeguatezza, un’estrema timidezza, la tendenza all’isolamento sociale, l’ipersensibilità alle critiche e una bassa autostima.
Chi soffre di questo disturbo tende quindi a non instaurare nuove relazioni sociali all’infuori di quelle consuete con i familiari e gli amici più stretti, pensando di non essere attraente e di non avere argomenti interessanti da condividere con altre persone; spesso rinuncia anche alla possibilità di fare carriera per evitare il confronto con gli altri. Lo stile di vita di chi soffre di disturbo evitante di personalità tende ad essere monotono e solitario, condizione che è vissuta con tristezza o fastidio: quando però il soggetto cerca di cambiare questa situazione si scontra con la sua paura di un giudizio negativo e del rifiuto.

Le cause del disturbo evitante di personalità

Le cause di questo disturbo non sono definite in maniera chiara e univoca, spesso si tratta della combinazione di più fattori sociali e biologici. Spesso chi è affetto da disturbo evitante di personalità ha avuto genitori rigidi ed esigenti oppure esageratamente protettivi, storie di abuso fisico oppure esperienze negative con i coetanei durante l’infanzia.

Disturbo evitante di personalità, come guarire

Superare il disturbo evitante di personalità è possibile. Ci sono infatti diversi tipi di trattamento, sia farmacologico che psicoterapeutico, spesso associati a strategie comportamentali.

La terapia per il disturbo evitante di personalità

Nella cura del disturbo evitante di personalità ha un posto molto importante la psicoterapia, effettuata sia a livello individuale che di gruppo con lo scopo di aiutare il paziente a controllare l’imbarazzo all’interno delle situazioni sociali e ad affrontare quindi con meno timore le relazioni con altre persone. In particolar modo, la terapia di gruppo per il disturbo evitante di personalità può aiutare chi soffre di questo disturbo a riconoscere in modo corretto l’atteggiamento degli altri nei propri confronti e a capire che la critica non è  l’unica reazione possibile da parte del prossimo; aiuta inoltre a superare l’ansia di rapportarsi con gruppi di persone. Queste sedute possono essere associate a strategie comportamentali e a training assertivi per migliorare le abilità sociali e l’autostima dei pazienti.

La cura farmacologica per il disturbo evitante di personalità

Tra i rimedi per il disturbo evitante di personalità ci sono anche i farmaci, che possono venire utilizzati in alcune fasi per tenere sotto controllo sintomi come, ad esempio, ansia e depressione. Tra i farmaci per il disturbo evitante di personalità i più comunemente usati sono quindi gli ansiolitici, che permettono al paziente di affrontare le situazioni che è solito evitare, gli antidepressivi e i betabloccanti, che riescono ad agire su alcune manifestazioni dell’ansia come rossore, sudorazione e tremore.



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