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sabato 2 maggio 2020

Come vivere bene questo tempo sospeso



Il Covid 19 è uno tsunami che porta via con sé molte certezze e abitudini: ci costringe a restare in un isolamento forzato nel quale ognuno deve "affrontare" se stesso e le sue paure più profonde. Rimanere in attesa di un futuro ancora indecifrabile ci agita e così il distanziamento sociale e gli abbracci negati possono riportare a galla timori ancestrali quello dell’abbandono: è facile sentirsi come bambini smarriti nella tempesta. Abbiamo paura, è inevitabile, e negarlo per esorcizzare il problema non serve, mentre riconoscere e dare dignità ai propri timori è il primo passo per affrontare questo momento difficile in modo costruttivo. Ma non basta: per riuscirci, occorre fare come in nostri antenati, cercando saggezza e conforto negli antichi racconti…

Nutrirsi di racconti senza tempo

Le favole, i miti e le leggende sono un ottimo mezzo per accarezzare e consolare la nostra fragilità: suggeriscono dove guardare per trovare i punti di forza che ci siamo dimenticati di possedere, ovvero all’interno. Il racconto seguente, che troviamo in forme differenti in molte culture arcaiche (qui abbiamo scelto la “versione” greca), ci ricorda quale cammino occorre intraprendere per entrare in possesso di quelle risorse…

Si narra che in un tempo molto lontano gli uomini fossero in tutto simili agli Dei. A causa di ciò, le divinità originarie cominciarono a preoccuparsi, al punto da spingere Zeus, il capo supremo, a prendere la decisione di togliere loro la scintilla divina e nasconderla dove non l’avrebbero mai trovata… Sorse un grande dilemma: quale luogo ha la caratteristica di essere così difficile da raggiungere da risultare un ottimo nascondiglio? Le altre divinità, a questo punto, vennero riunite a consiglio per valutare il problema e, dopo aver ragionato bene sulla questione, dissero: “Seppelliremo la divinità dell’uomo in fondo alla terra”. Zeus prontamente obbiettò: “No, non basta, perché l’uomo scaverà e la troverà”.

Allora gli Dei risposero: “Bene, allora affonderemo la sua forza nell’oceano più profondo”. Ma Zeus si oppose ancora: “No, perché prima o poi l’uomo esplorerà le profondità di ogni oceano e la riporterà in superficie”. Allora gli dei conclusero: “Non sappiamo dove nasconderla, perché sembra che non ci sia alcun posto sulla terra o nel mare dove l’uomo non potrebbe eventualmente raggiungerla”. Così a Zeus venne un’idea e la espose replicando: “Ecco cosa faremo con la divinità dell’uomo. La nasconderemo nelle profondità del suo stesso essere, perché non penserà mai di cercarla proprio lì”. E da allora, conclude la leggenda, l’uomo è andato su e giù per la terra, arrampicandosi, tuffandosi, esplorando e scavando, per cercare qualcosa che invece aveva sempre racchiusa in Sé.

Cercare dentro per trovare fuori

Il significato del racconto è intuibile: ogni cosa che l’uomo cerca nel mondo (amore, accettazione, sicurezza, felicità…) è riconducibilealla sua realtà divina ed eterna, ovvero alla sua interiorità: solo guardando in tale direzione sarà possibile avere tutto il resto in conseguenza. Si dovrebbe dunque vivere l’attuale tempo sospeso non come perduto, sprecato ma come una pausa fra le note di cui è abitualmente composta la nostra vita, come occasione per scoprire o riscoprire il nostro grande potere interiore, scintilla di ogni stato di autentico benessere. Nella confusione del tempo sospeso, fermati ad ascoltare la pausa, il silenzio, il vuoto e guarda bene dentro di te: dapprima vedrai ombre confuse (timori, ansie, tristezza), che rappresentano le resistenze, le doglie del parto del nuovo essere che stai diventando. Continuando a volgere lo sguardo dentro, in profondità , sentirai in breve tempo sorgere proprio da lì l’amor di te, la gioia, l’autostima e tutto ciò che sei abituati a cercare fuori, nel mondo, invano.

Dal Sito: riza.it 

venerdì 17 aprile 2020

Ci Voleva L’isolamento Per Farci Innamorare Nuovamente Della Vita






Questo tempo sospeso, surreale, strano e disperato è giunto per farci innamorare nuovamente della vita. Perché da tempo ormai non la corteggiavamo più, la davamo per scontata, la ignoravamo, non riuscivamo più a vedere e a percepire il suo fascino e la sua meraviglia.

E allora lei ha deciso di attirare la nostra attenzione. E ci è riuscita perfettamente.

Ci voleva l’isolamento per farci riscoprire il valore inimitabile delle lettere scritte a mano e spedite. Buste intrise di parole, di sentimenti, di disegni, di piccoli doni e di grandi intenzioni sono in viaggio oggi più che mai. Le nostre cassette della posta si sono trasformate in scrigni che attendono grandi tesori, i postini sono diventati messaggeri preziosi, custodi di emozioni, messi tra i più attesi. Abbiamo compreso grazie a quest’esperienza che le lettere scritte a mano non possono essere sostituite da nessun altro mezzo di comunicazione. Perché sono vive, calde, sagge e riescono a toccare la nostra anima.

Ci voleva l’isolamento per farci vivere ogni incontro con una persona un evento degno di festa. Mai come ora assaporiamo ogni parola, ogni gesto, ogni sorriso che ci viene donato come un grande atto di fratellanza. Riusciamo a percepire vicinanza, solidarietà, comprensione. La distanza ci fa sentire più vicini. Poiché nel non vederci coltiviamo il nostro affetto, il legame si tinge di immaginazione, di ricordo, di pensiero rivolto a qualcuno. Tutto assume un valore nuovo. Più vero, più grande, più riconosciuto.

Ci voleva l’isolamento per obbligarci a fermarci e gustarci così lo spettacolo della natura che fiorisce. Solo stando fermi, senza distrazioni e fretta, riusciamo a cogliere i più piccoli dettagli della primavera che sta sbocciando. Un seme che germoglia e cresce ogni giorno di più, un’ape al lavoro, il tragitto di una farfalla, le foglie che spuntano a sorpresa. Abbiamo il tempo di fermarci e, semplicemente, osservare. E questo miracoloso spettacolo parla alla nostra anima di saggezza. E questa saggezza ci nutre come null’altro.

Ci voleva l’isolamento per costringerci a cucinare con le nostre mani ogni giorno, riuscendo così a prenderci cura del nostro cibo in prima persona, mettendo in atto creatività, divertimento e diversità. Siamo noi i responsabili di ciò che mangiamo. Abbiamo la libertà di decidere come, cosa e quanto mangiare. Senza nessuna scusa. Di tempo, di impegni, di fretta. Non ce le possiamo proprio più raccontare ora.

Ci voleva l’isolamento per farci vivere senza maschere. E’ un’occasione unica infatti per spogliarci da tutte le parti che solitamente recitiamo e per scoprire chi siamo senza il confronto con l’altro e la sua approvazione. Siamo soli con noi stessi, possiamo conoscerci meglio, rilassarci nella nostra spontaneità. E questo far cadere le maschere sociali ci permette di conservare tanta energia vitale, spesa di solito per indossarle quotidianamente.

Ci voleva l’isolamento per farci divenire educatori principi dei nostri figli. Stando tutto il giorno con noi li possiamo conoscere meglio, li sperimentiamo in un tempo dilatato, in una lentezza che non fa parte della quotidianità abituale. Oltre ad essere genitori siamo diventati maestri, allenatori, figure di sostegno e artisti per sostituire o sostenere scuole, sport, attività ludiche e ricreative. Siamo stati chiamati a far emergere la nostra creatività, l’ascolto, la pazienza. Nella grande fatica di questo impegno quotidiano ci siamo riappropriati del nostro potente ruolo educativo e, una volta cessato l’isolamento, questa grande esperienza ci ritornerà utile per essere più presenti di prima.

Ci voleva l’isolamento per sperimentare la mancanza. Di cose, persone, luoghi, sensazioni. Eravamo giunti a dare tutto per scontato, a non celebrare, a desiderare sempre altro. Questo tempo sospeso ci porta naturalmente ad abbandonare ciò che è superfluo ed a focalizzarci sull’essenziale. Che è ciò che in questo momento ci manca di più. La mancanza ci rende nitide le nostre priorità.

Ci voleva l’isolamento per farci comprendere che alcune persone o situazioni di prima non ci mancano per nulla. L’allontanamento ci ha chiarito le idee su una miriade di risvolti della nostra vita. E siamo ben consapevoli di non voler ritornare a vivere certi aspetti che facevano parte della nostra quotidianità. E’ come se avessimo finalmente aperto gli occhi, come se ci fossimo svegliati da un incantesimo che non ci permetteva di fare chiarezza.

Ci voleva l’isolamento per far scattare la molla della nostra creatività. Per far sentire la nostra vicinanza ad amici o a parenti abbiamo creato bellissime sorprese e inaspettati doni. E’ come se la nostra fantasia si fosse risvegliata e messa in moto per far fronte a tutte le privazioni che caratterizzano questo periodo. Ci siamo divertiti a trovare soluzioni creative, a considerare i problemi un’opportunità per la nostra inventiva. Abbiamo ripreso in mano vecchie passioni dimenticate, ci stiamo dedicando a nuove attività, ci stiamo finalmente ascoltando. E ascoltandoci capiamo cosa ci nutre davvero.

Ci voleva l’isolamento per renderci evidenti le distrazioni, i rumori, le scuseche costruivamo noi stessi e che non riuscivamo a vedere.

Ci voleva l’isolamento per farci vedere la nostra vita da un altro punto di vista. Come quando si sale su una collina per vederne il panorama. E si ha una visione più ampia. Fermandoci abbiamo la possibilità di percepire le mancanze, i pesi, le insoddisfazioni, le gratificazioni, i fastidi, i desideri.

Ci voleva l’isolamento per farci nuovamente innamorare della vita.

E quando saremo pronti a corteggiarla come si deve sarà lei stessa ad accoglierci a braccia aperte. Con la promessa solenne, però, di impegnarci a conquistarla ogni giorno della nostra vita.

Elena Bernabè

Dal Sito: eticamente.net 

lunedì 6 aprile 2020

Come gestire l’ansia da Covid «L’isolamento ci fa resilienti»


I consigli dell’esperto, Antonio Vita (docente di psichiatria a Brescia: «Bisogna imparare ad accettare i momenti difficili. L’isolamento ci consente di cercare e ritrovare il nostro l’equilibrio»
Il Covid-19 testa la sanità e l’economia del Paese, ma anche la stabilità emotiva degli italiani. Come reagisce il Dipartimento di salute mentale e dipendenze dell’Asst Spedali Civili di Brescia, tra le più colpite della Lombardia, all’emergenza sanitaria in atto? Risponde il direttore Antonio Vita, docente di psichiatria alla facoltà di Medicina della città. «Sono preservate tutte le attività a favore di pazienti con disturbi psichici o dipendenze, attivi i servizi di ricovero, diagnosi e cura e anche le attività territoriali (Cps) per quelle situazioni che necessitano continuità e monitoraggio della terapia farmacologica. Situazioni come questa determinano l’aumento di preoccupazioni per tutti. Gli effetti sulla psiche dell’emergenza spesso si riscontrano sul medio-lungo periodo. Nell’immediato si registra un aumento di ansia e preoccupazione, ma in seguito si potrebbero verificare sintomi depressivi o disturbo da stress post traumatico. L’attenzione rimane alta e cerchiamo di essere di aiuto: compito dei nostri operatori, oltre a quello di curare, è anche informare e tranquillizzare i pazienti che per effetto dei loro disturbi vivono in modo accentuato paure e ansie».

Il cambiamento

Fino agli ultimi Dpcm Conte, la maggior parte della popolazione ha fuggito l’idea di attuare cambiamenti nelle proprie abitudini di vita, attuando comportamenti spesso privi di buon senso, pericolosi per sé e per gli altri: una fuga dalla realtà. «Spesso si tende a non voler ammettere che qualcosa che può mettere a repentaglio le proprie certezze stia accadendo, con comportamenti di negazione, facendo cose che già si sconsigliavano o si iniziava a limitare e proibire. Ora, si è passati a una vera limitazione delle possibilità di contatto sociale ed è una situazione nuova, ma anche uno strumento necessario per superare, e farlo nel minor tempo possibile, la fase di difficoltà collettiva, accettandola e facendola propria. Tutte le situazioni che richiedono un adattamento delle proprie abitudini rappresentano una situazione di stress. L’aumento dell’ansia può verificarsi, ma tale situazione offre inaspettatamente anche opportunità. L’isolamento rappresenta un cambiamento, che permette di cercare un equilibrio in noi stessi, tra la parte allarmistica e quella ottimistica, accettando la situazione e contribuendo a risolverla. Il confinamento ci propone una nuova condizione, lontana dai ritmi frenetici, che limitano le occasioni di scambio con i famigliari. Può essere occasione per raccontarsi. Il tempo dilatato offre occasione per giocare con i figli e riordinare le proprie cose. Cerchiamo di creare memorie positive con l’utilizzo favorevole del tempo in termini di relazione e conoscenza reciproca, rendiamo lo spazio che possiamo vivere ricco e vitale. È un’occasione per riordinare il proprio percorso individuale e famigliare, attivando risorse personali che favoriscono la resilienza, cioè la capacità di recupero di fronte a situazioni nuove, difficili e incerte. Bisogna rimanere attivi anche all’interno di uno spazio limitato: con l’attività fisica, preservando ritmi e abitudini, arricchendo lo spazio/tempo con creatività. Ci aiutano i tanti mezzi di comunicazione che abbattono muri fisici e semplificano la relazione con l’esterno, utilizzati anche dai nostri servizi per raggiungere i pazienti».

La risposta

Il territorio ha risposto con forza all’emergenza sanitaria, attuando iniziative anche dal punto di vista del supporto psicologico. «Come azienda sanitaria sentiamo molto la vicinanza di soggetti che ci aiutano. All’interno dell’ospedale è stato avviato uno sportello di consulenza psicologica, da parte dell’unità di psicologia clinica, a favore di tutti gli operatori sanitari sottoposti ad uno sforzo così elevato. Nel complesso, si sta facendo un lavoro di squadra positivo e si ha la speranza che possa aiutare a superare questa emergenza».Nella storia, a livello psicopatologico, che reazione è stata riscontrata nel singolo e nella popolazione in seguito ad eventi straordinari che hanno stravolto la normalità della vita di tutti i giorni? «Generalmente una parte della popolazione può andare incontro al Disturbo post traumatico, come nel caso dell’11 settembre negli Usa, o del terremoto che colpì L’Aquila nel 2009. Dove vi sono fenomeni che hanno durata e impatto generale sulla popolazione si riscontra un aumento della sintomatologia di tipo ansioso e depressivo, causati da fattori come l’insicurezza sociale, la caduta delle certezze e della stabilità anche economica».


Dal Sito: brescia.corriere.it 

giovedì 2 aprile 2020

Coronavirus, l'esperta: "L'isolamento sociale pesa, ma è l'occasione per dare spazio alla famiglia"



Ansia, paura, depressione e insonnia sono fra gli effetti delle restrizioni. Ma una situazione di svantaggio come questa può regalarci tempo da dedicare al nucleo familiare.
DA QUANDO è iniziata l’emergenza coronavirrus,stiamo sperimentando una serie di reazioni-ansia, stati depressivi, attacchi di panico, alterazioni nei ritmi sonno-veglia e nell’alimentazione-, spia di un forte disagio. Risposte comprensibili, visto che stiamo affrontando un forte stressdovuto alla necessità di combattere un nemico non prevedibile.Tuttavia, questi stati si sono amplificati a dismisuraquando è partita la richiesta del Governo di restare in isolamento, di mantenere le distanze dagli altri, di non abbracciarsi, baciarsi, toccarsi, darsi la mano. All’ improvviso ci siamo visti tagliati fuori dalla nostra vita sociale,non solo quella che fa capo ad  amici e parenti ma anche quella che comprende gli estranei.Gli altrinon li possiamo più vedere. E ci stiamo rendendo contoche non è vero che “L’Inferno sono gli Altri” come sosteneva Jean Paul Sartre. E’ vero piuttosto che l’ “ Inferno” è quando gli Altri non ci sono. 

La distanza dagli altri

Ma come mai il distanziamento socialefa aumentare cositanto lereazioni di disagio? Una interpretazione plausibile è  quella che  fa ricorsoal modo in cui  si è dipanata la nostra evoluzione biologica, eal modo in cui,di conseguenza, sono organizzati il nostro cervello e la nostra mente.Ai primordi della nostra specie, nell’ambiente pieno di pericoli in cui vivevano i primi uomini, la sopravvivenza era assicurata dalla possibilità di mantenere la vicinanzacon altri essere umani.

Il bisogno di compagnia

Di conseguenza, la selezione naturale ha fatto sì che la nostra programmazione genetica preveda che noi siamo fortemente inclini a cercare gli altri e che la socialità produca, in automatico, un forte senso di benessereattraverso un meccanismo che ha a che fare con il funzionamento del nostro cervelloLa presenza degli altriproduceinfatti, un innalzamento del livello di oppioidi endogeni, interni al nostro cervello.Questi oppioidi sono analoghi alle droghe della famiglia degli oppiacei e  provocano, come quelle, molto piacere. Gli “altri”, in altri termini,  sono gli stimoli che producono queste droghe all’interno dell’organismo.  
 

Il corpo reagisce

Quando si sta da soli si ha un abbassamento del livello deglioppioidi. Quindi,quanto più siamo costretti  a non vedere le altre persone, tanto più le desideriamo, etanto più proviamo frustrazione, agitazione,  depressione.Abbiamo, in pratica, delle reazioni simili a quelle dei tossicodipendenti che si ritrovinoin crisi di astinenza! 

La paura di restare soli

A questa necessità/bisogno di socialità si accompagna, in maniera speculare,la paura di stare da soli. Da soli si correva il rischio di non sopravvivere. Non a caso questapaura è a base innata esi manifesta già alla nascita. I neonati piangono disperati se lasciati da soli;producono in questo modo l’accostamento della madre, la quale, già ai primordi della nostra specie,proteggendoli assicurava lasopravvivenza. E questa paura si manifesta anche negli adulti perché è strettamente correlata, secondo percorsi ancestrali, alla possibilità di non morire.

L'ormone del benessere

 A base genetica può essere considerataanche la ricerca delcontatto che viene indirizzata essenzialmente a chi possa prendersi cura di noi (i genitori, il partner), così che i legami affettivi si pongono come cruciali per la nostra salute, ma anche a chiunque venga percepito come in grado di proteggere, tant’è che trova una sua espressione simbolica nella stretta di mano e nell’abbraccio che destiniamo alle persone che incontriamo. Il contatto produce rilassamento, fa sentiresicuri, fa stare bene.Ma, in questo caso, a quali meccanismi sono da ricondurre questi effetti benefici? Il contatto produce il rilascio di ossitocina,  un neurormone che ha il potere di indurrecalma e che riesce a ridurrel’attività dei neuroni dell’amigdala, quella parte del cervello che si attiva quando si percepisce un pericoloe che è responsabile delle immediate risposte di paura che vengono messe in attoQuando si percepisce un evento pericoloso, invia in automatico segnali di emergenza e fa rilasciare gli ormoninecessari per la difesa, quelli che vengono detti gli ormoni dello stress. 
 

Gli effetti negativi

L’isolamentocomporta, quindi,l’impossibilità di usufruire degli oppioidi endogeni forniti dalla presenza degli altri,un crollo dei livelli di  ossitocina,e,conseguentemente,una scarsa regolazione dell’amigdalaIn altri termini, l’attivazione di questa parte del cervello,a seguito della percezione del pericolo costituito dal coronavirusnon può essere modulata dalla presenza delle altre personeLe risposte di pauraprovocano, pertanto,un aumento esponenziale degli ormoni dello stress ( quali il cortisolo, per esempio), i quali hanno ricadute molto dannose  se la situazione di emergenza si protrae a lungo.Di qui,quei pesanti effetti sull’omeostasi fisiologica,che si manifestano nellereazioni di disagio collegate all’ansia,di cui parlavamo all’inizio, e il rischio, per alcuni di noi, di andare incontro ad unabbassamento delle difese immunitarie. 

La capacità di adattamento

Questi gli effetti negativi e/o rischi del restare a casa, che,  tuttavia, possono essere perlomeno attenuatidalle opportunità offerte da questa condizione anomala.La nostra specie si è evoluta sulla base di una grande capacità di adattamento. Non a caso,dopo un primo momento di sbando, sono state mobilitate tutte le competenze necessarie ad utilizzare le innovazioni tecnologicheche possano renderevicina la distanza,ci si vede e ci si parla comunque, così che gli altri, sia pur non presenti fisicamente, potrebbero comunque produrre quegli oppioidi endogenidi cui abbiamo bisogno per stare bene 

A casa con i propri affetti

Restare a casa permette di recuperare il senso dei rapporti affettivi,con il partner ed essenzialmente con i propri figli, i quali, in questi giorni, stanno ritrovando il piacere del contatto con i  loro padri e madri che, a loro volta,possono riscoprire il piacere dabbracciarsi e diabbracciarli,cosi da produrre  e far produrre quell’ossitocina, che induce sicurezzae calma. Il che non esclude che la coabitazione forzata possa portare ad insanabili conflitti.Coloro che vivono da soli possono vedere e parlare con gli amici e i parenti a distanza così da mantenere i loro legami di affetto.L’ udito e la vista possono sostituire il contatto, al fine di lenire l’ansia e la paura.  
In altri termini, se riusciamoripristinare,nella realtà e/o in maniera virtuale, quelle condizioniche fanno sì che gli altri possano ancora porsicome la nostra droga, restare a casapuò non essere una tragedia.

*Professore Emerito di Psicologia SocialeSapienza Università di Roma,autrice di “Psicologia Sociale-tra basi innate e influenza sociale” e “Il cervello in Amore- Le donne e gli uomini ai tempi delle neuroscienze”, entrambi per il Mulino            

Dal Sito: repubblica.it 

lunedì 18 febbraio 2019

PERCHÉ LA FOBIA SOCIALE È IL MALE DEL NOSTRO TEMPO

La malattia mentale e i disturbi della personalità sono diventati in meno di un secolo la vera emergenza sanitaria del pianeta, soprattutto nei Paesi industrializzati. Secondo un report dell’Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2030 la depressione sarà la malattia più diffusa a livello globale, davanti a cancro e patologie cardiocircolatorie. In Italia, terra diffidente e scettica, l’accettazione della malattia mentale risulta il più duro degli ostacoli, e spesso si tende a sottovalutare i campanelli d’allarme senza consultare uno specialista. Così i genitori possono scambiare la depressione del figlio adolescente per una banale malinconia tipica di un’”età difficile”, o un bipolare può pensare di essere semplicemente “un po’ lunatico” e in preda a sbalzi d’umore. In tanti pensano di essere solo molto timidi, e ignorano di essere vittima di un disturbo noto in psichiatria come fobia sociale. 

I tanti che si affidano all’autodiagnosi per via della paura di farsi visitare da un professionista contribuiscono a generare difficoltà nella raccolta di dati certi sul numero di persone alle prese con la fobia sociale. Secondo gli studi più attendibili, in Italia la percentuale di persone che ne soffre varia tra il 3% e il 13%, una forbice dovuta al sottobosco di patologie non rilevate, casi non analizzati e persone che ignorano il disturbo. Un sociofobico si sente a disagio nel relazionarsi con gli altri, nel parlare faccia a faccia, nel mangiare se osservato, nel fare qualcosa davanti a un pubblico che potrebbe giudicarlo. La patologia e i suoi sintomi sono influenzati dal giudizio che si ha di se stessi, in grado di provocare ansia, attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.

Quando si parla di fobia sociale, il manifestarsi dei sintomi è anticipato da quella che viene chiamata ansia anticipatoria: il sociofobico cade in preda all’ansia o al panico ancora prima di uscire di casa. Se ha un appuntamento di lavoro, ad esempio, l’ansia anticipatoria può presentarsi giorni prima, ingigantendo le paure del sociofobico fino a portarlo in uno stato di blocco. Dopo l’evento traumatico scatta l’evitamento, un meccanismo messo in campo per evitare di doversi ritrovare nuovamente in una condizione di ansia ancicipatoria, che porta chi soffre di fobia sociale a procrastinare all’infinito, cercando un escamotage per scongiurare un’altra situazione percepita come pericolosa o dolorosa. Nei casi più gravi l’evitamento può portare alla chiusura sociale. Evitare di esporsi a determinate situazioni significa fuggire dall’incubo delle reazioni incontrollate, come arrossire, balbettare, tremare o sudare. Nascondendosi dalla società, il sociofobico si allontana da quel processo che lo porta a sentirsi continuamente sotto esame, permettendogli di raggiungere una sensazione di protezione assoluta. Questo però, lo porta a rinunciare ai rapporti sentimentali, lavorativi e di amicizia, sostituiti con un palliativo, spesso trovato nel mondo virtuale.  



L’illusione di creare una second life attraverso Internet e i social network non risolve il problema, ma ne allontana le conseguenze. Dietro uno schermo si annullano quelle condizioni che scatenano l’ansia del sociofobico: viene annullato il contatto visivo, c’è una latenza nel botta e rispostadella conversazione scritta che consente di valutare le parole da usare, e soprattutto le sue reazioni non vengono percepite dall’interlocutore. La barriera dello schermo del cellulare o del computer permette di instaurare rapporti con una sicurezza del tutto inedita rispetto alla vita reale, sviluppando un’immagine di sé stessi non vincolata ai propri limiti e alla realtà. È la simulazione di un’esistenza, la proiezione di quello che si vorrebbe essere e non si è, ma allo stesso tempo le conseguenze emotive sono reali: è possibile provare gioia ed empatia, innamorarsi, confrontarsi in rete con persone afflitte dallo stesso disturbo.

Per il sociofobico, abituarsi ai crismi della conversazione online è un modo per evitare i rapporti reali, ma finisce per ingigantire le difficoltà da cui vuole scappare. Chiudersi nel proprio guscio, rinunciando al contatto con il mondo, mettendosi al riparo dagli agenti esterni, è la condanna che si autoinfligge il sociofobico, spesso male interpretata da chi non conosce questa patologia. Un errore comune è il parallelismo tra sociofobico e sociopatico, due termini estremamente diversi ma spesso trattati come sinonimi. Un sociopatico nutre disprezzo per gli obblighi sociali, è insensibile ai sentimenti degli altri fino a rasentare la misantropia, incolpa il prossimo dei suoi problemi, vive in conflitto con il mondo esterno ed è refrattario a qualsiasi norma legata alla collettività. Un sociofobico, invece, conosce bene le norme sociali e ne è intimorito; non prova odio per gli altri ma per sé stesso in relazione alla sua incapacità di rapportarsi con loro. Entrambi i disturbi possono spingere all’autoesilio dalla società, ma le cause scatenanti sono diverse. Un sociofobico che scappa dalla società non è l’uomo che Ernst Jünger, nel suo Trattato del ribelle, chiama Der Waldgang, ovvero colui che si ritira nella selva per opporre una resistenza spirituale al cinismo del mondo. Semmai fugge dalle sue paure perché non è in grado di affrontarle, e quindi fugge da sé stesso.

La sociofobia potrebbe riguardare il 10% della popolazione italiana, ma gli studi sul disturbo sono ancora limitati e spesso contraddittori. Uno di questi, pubblicatodall’Università svedese di Uppsala su Jama Psychiatry, ribalta le teorie precedentemente elaborate. Si pensava infatti che la carenza di serotonina fosse una delle cause scatenanti della fobia sociale, innescata da un processo chimico molto simile a quello della depressione. La ricerca ha invece messo in luce come i malati di fobia sociale producano troppa serotonina nell’amigdala, la ghiandola del cervello collegata alle emozioni e alla paura. La scienza è alle prese con un disturbo relativamente giovane e sconosciuto, esploso con l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni e il suo impatto sulla società. 

L’assenza di un protocollo medico ufficiale per la fobia sociale, si traduce in una scarsa uniformità nella diagnosi e nella tolleranza del disturbo. Nella cultura orientale, l’isolamento è accettato in diverse sue forme, tanto che il manuale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (testo di riferimento della comunità psichiatrica mondiale) è stato aggiornato di recente per evidenziare come la fobia sociale venga diagnosticata con minor frequenza nei pazienti dell’Asia orientale. Alla base di questa distinzione c’è un una differenza tra le due culture: nel mondo occidentale l’imbarazzo o la vergogna sono percepiti in modo diverso rispetto a quello orientale, in cui vengono interpretati come segni di rispetto e dignità sociale. Nella cultura tradizionale orientale, isolarsi dal mondo non è considerato un’anomalia, anche se i numeri di questo fenomeno hanno messo le autorità in allarme, soprattutto in Giappone. Per queste ragioni, è sbagliato esportare nel mondo occidentale fenomeni che non ci appartengono: quando si parla di hikikomori, la sua immagine si riduce a una persona che vive davanti al computer, senza mai uscire dalla sua stanza. Una semplificazione evidente anche negli articoli sugli “hikikomoriitaliani”, in cui il fenomeno è descritto come un disturbo generazionale a livello globale. In realtà, il Giappone ha solo anticipato di alcuni anni le problematiche che ora hanno investito anche l’Occidente: una società iper-tecnologica (e in questo il Giappone non è secondo a nessuno), che isola l’individuo e trasforma l’universo virtuale in una gabbia mascherata da valvola di sfogo, creando un esercito di avatar senza nome e senza vita sociale.

Nascondersi dietro uno schermo è il risultato di una società che si autoesclude, di un virus che degenera nella parola social, allontanandosi dal suo significato per diventare anti-social, farmaco e veleno per il sociofobico. Kafka scriveva: “La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso”. Per chi soffre di fobia sociale la paura è un limite. L’unico rimedio è affrontarla con il sostegno di uno specialista, per accettarla e imparare a conviverci senza doverla considerare una debolezza. Forse è la paura, la paura che ci fa tremare e arrossire, l’unica cosa che un giorno ci distinguerà dalle macchine.

DI MATTIA MADONIA

Dal Sito: thevision.com