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martedì 17 novembre 2020

Principi di psicologia spiegati da "Il Piccolo Principe"




La psicologia affascina molti, allora perché non provare a spiegarla con parole semplici e usando testi accessibili a tutti? E’ vero, il libro “il Piccolo Principe” è ormai inflazionato e non è affatto un manuale di psicologia!

Allora cosa c’entra il Piccolo Principe? Voglio sfruttare alcune sue frasi per spiegarti concetti chiave della psicologia. Lo so, è un modo molto alternativo di agire ma, come saprai, a noi di Psicoadvisor.com piace rendere le cose facili e questo libro fa al caso nostro.

Molti lo hanno letto, qualcuno lo ha apprezzato e altri si interrogano ancora sul suo significato metaforico… ma quanti si sono soffermati sul significato psicologicodi alcuni passi? In questo articolo vorrò darti qualche spunto di riflessione e magari, intanto, spiegarti qualche concetto basilare di psicologia. Premetto, però, che ilsignificato psicologico che ricavo da ogni frase è prettamente personale, inoltre, se non ti interessa “Il Piccolo Principe” salta gli aforismi e vai dritta/o ai significati.

Aforismi scelti da “Il Piccolo Principe”

Sfrutterò cinque aforismi dal libro “Il Piccolo Principe” per spiegare alcuni concetti di base della Psicologia moderna. Le farsi in esame sono quelle che seguono, il significato di ognuna sarà riportato in basso.

#1. “È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri, se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio.”

#2. “Tutti i grandi sono stati piccoli, ma pochi di essi se ne ricordano.”

#3. E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.

#4. Amare non è guardarsi a vicenda, ma guardare nella stessa direzione!

#5. Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza.

Iniziamo a vedere il significato di ogni singola frase in chiave psicologica.

Significato e concetti chiave della Psicologia scientifica

Capire se stessi è il primo passo per imparare a vivere meglio e, lettura dopo lettura, Psicoadvisor.com vuole dare il suo “piccolo” contributo. Certo, per capire se stessi, la cosa più saggia da fare è quella di farsi seguire da uno psicologo/psicoterapeuta/psicanalista ma, intanto, ecco alcuni spunti utili che spero possano servirti. Si tratta di semplici concetti di base della psicologia che se interiorizzati bene, possono aiutarti a vivere meglio.

#1. La Metacognizione e gli errori attribuzionali

La metacognizione è quella “capacità di ordine superiore” che ci consente di osserva le nostre abilità e di valutarne il livello.

E’ effettivamente difficile valutare se stessi in modo razionale e spesso finiamo per svalutarci (bassa autostima, sindrome dell’impostore, dipendenza affettiva, scarsa autonomia, depressione) o sovrastimarci (narcisismo, effetto Dunnin-Kruger ma anche semplice arroganza…). Questa frase ci invita a sviluppare una migliore capacità metacognitiva, attuabile grazie alla possibilità di distanziarci da noi stessi, auto-osservarci e riflettere sui propri stati mentali.

E’ anche vero che spesso tendiamo lo sguardo all’esterno giudicando il comportamento degli altri senza valutare le circostanze che lo hanno indotto a comportarsi in un certo modo.

Quando dobbiamo valutare noi stessi (e un nostro comportamento), invece, tendiamo sempre a fare “attribuzioni esterne”. Cosa significa? Ecco un esempio: “mi sono comportato in un certo modo perché quella situazione mi ha indotto a compiere quella determinata azione”, in pratica valuto me stesso spiegando il mio comportamento in base alle circostanze esterne.

Al contrario, quando dobbiamo osservare il comportamento di un altro, tendiamo a giudicare “com’è”senza osservare i “fattori situazionali” e senza neanche provare a calarci nei panni dell’altro. Questo è un “bias di attribuzione”, cioè uno dei tanti errori che commettiamo nel fare inferenze su noi stessi e sull’altro. In pratica siamo portati a pensare bene di noi stessi anche quando le nostre azioni “non sono nobili” e pensare male degli altri anche quando le azioni altrui sono pari alle nostre.

#2. Ricordi e ricostruzioni

Nessuno di noi ricorda le prime tappe del proprio sviluppo. Certo, a grandi linee ricordiamo che siamo stati bambini più o meno felici o più o meno tormentati… a grandi linee sappiamo quando abbiamo imparato a parlare o scrivere… a grandi linee sappiamo molte cose ma queste non sempre coincidono con la realtà.

I ricordi sono “ricostruzioni” di un vissuto e non riflettono sempre, in modo coerente, l’impatto reale che ha avuto un’esperienza su di sé. Per esempio, molti di noi credono di aver avuto un’infanzia serena perché non accettano eventuali carenze di amore o non vogliono mettere in dubbio la figura genitoriale, così si ritrovano con problemi affettivi/emotivi che non sanno da dove provengono. Ancora, è difficile che qualcuno di noi possa soffermarsi a riflettere da dove è partito e dove è arrivato.

Illustrazione: troydeshano.com

Non tutti hanno gli stessi mezzi cognitivi, non tutti hanno le stesse risorse di partenza. Chi fa una reale analisi delle risorse che aveva a disposizione durante l’infanzia?Eppure questa analisi dovrebbe essere propedeutica all’autovalutazione ed essenziale per la costruzione dell’autostima.

Solo ricordando ciò che sei stato e da dove vieni, sarai in grado di capire realmente te stesso. 

#3. Investimenti emotivi

Il significato riportato da molti blog e riviste, riferito a questa frase del libro Il Piccolo Principe è questo: “è grazie al tempo che dedichiamo ai nostri cari che i nostri cari possono comprendere quanto siano realmente importanti per noi. Il tempo è così prezioso che tutti ne vorrebbero di più e di cui sarebbe davvero impossibile calcolare il reale valore.

Da un punto di vista psicologico la frase non parla affatto di tempo ma di risorse emotive e aspettative.

Proiezioni, attribuzioni e investimenti emotivi possono condizionare fortemente la nostra esistenza e il valore che diamo alle cose, che sia la carriera dei sogni, il partner o un legame. Significa che più investi in una relazione e più quella relazione sarà importante per te… ma significa anche che la rotta può essere invertita! Se ti concentri su un determinato fattore, quel singolo fattore avrà un impatto enorme sulla tua vita e sul tuo umore.

Non mettere tutte le uova nello stesso paniere cognitivo“, questa frase di vocazione psicologica è stata poi ripresa anche in economia per consigliare ai capitalisti di diversificare gli investimenti. Da un punto di vista psicologico questa frase vuol dire molto. Se concentri tutte le tue forze su un singolo significato, dovrai assumerti il rischio che quella “singola cosa” avrà un forte impatto sul tuo umore ed è bene diversificare. La frase in sé faceva riferimenti agli “schemi di sé” e alla propria “identità” ma calza anche in questo contesto!

Puoi investire nel tuo rapporto di coppia ma non dovrà essere la ragione della tua esistenza, puoi investire nel tuo lavoro e curarlo, ma non potrà essere il tuo lavoro a definire la tua intera esistenza… Insomma, non bisogna mai perdere di vista se stessi, anche quando si è proiettati a una bellissima rosa che sa farci sognare!

#4. I sistemi motivazionali, l’accudimento e l’attaccamento

Noi occidentali concepiamo e viviamo l’amore romantico in un modo meraviglioso ma non privo di rischi. Il rischio, qui, è fare confusione tra amore e accudimento. Sfruttando la teoria dei “Sistemi motivazionali” scopriamo che “attaccamento e accudimento” sono due sistemi motivazionali che ci guidano per sviluppare il primo rapporto con il nostro caregiver (in genere la madre). Da adulti, nelle relazioni di coppia che instauriamo, non sono gli stessi sistemi motivazionali a dover guidare la coppia. Nella coppia matura e sana, i due singoli non hanno bisogno di guardarsi l’uno con l’altro e di prendersi incessantemente cura l’uno dell’altra (accudimento/attaccamento) ma possono vivere l’incredibile favola romantica della condivisione degli intenti.

Nelle relazioni sane, di certo ci sarà accudimento e attaccamento ma questi sistemi motivazionali saranno solo marginali. Nella coppia saranno attivi sistemi più evoluti dove la reciprocità e la condivisione di intenti e di esperienze potrà coadiuvare un’unione fantastica, che non ha niente a che vedere con la dipendenza affettiva o il doversi completare mediante l’altro.

#5. Regolazione emotiva

Molte persone mettono in atto dei meccanismi di difesa per fuggire via dalla sofferenza. La sofferenza fa parte della vita, il dolore va vissuto e non schivato perché il dolore può essere occasione di crescita. Con la giusta strategia di coping, il dolore può davvero far crescere.

C’è chi evita intere primavere per paura di qualche acquazzone invernale, ne sa qualcosa il partner evitante e chi preferisce legarsi a un cucciolo (che mai potrà abbandonarlo) piuttosto che instaurare un legame profondo con un essere umano (autonomo e che viene percepito come una minaccia).  Il dolore può sopraffare, certo, ma se non perdiamo di vista noi stessi e impariamo a regolare le nostre emozioni, anche il dolore potrà essere tollerabile.

lunedì 19 ottobre 2020

PANDEMONIO


Alessia Spina soffre di attacchi di panico da molto tempo.
Quattro anni fa ha deciso di incontrare persone che soffrono come lei,
a volte amici, a volte perfetti sconosciuti.
Ha ascoltato le loro storie, imparato dalle loro storie e infine, raccolto parole e immagini:
PANDEMONIO è il risultato, un libro fotografico sugli attacchi di panico.
Pan: dio greco metà uomo metà caprone, spaventa i viandanti con ululati terribili.
È da qui che nasce l'accezione di "panico":
un terrore improvviso, una paura incontrollata che assale.
Un dio che assomiglia a un demone,
un dio che si moltiplica e diventa “tutti i demoni”: PANDEMONIO.
Un ATTACCO DI PANICO è un PANDEMONIO.
Un mostro che spinge giù, in profondità, che costringe a guardare sotto, dentro.
E nel frattempo viene a galla una nuova forza;
la forza di essere fragili, la forza più autentica.
Pur se nel mentre sembra di morire, di attacchi di panico NON SI MUORE.
Un evento positivo mascherato da evento negativo.
Una ribellione del corpo a situazioni di comodo ormai scomode.
Una richiesta di aiuto dell’IO.
Un segno che è necessario cambiare qualcosa.
Vincere l’inganno del dio Pan che, mentre spaventa i viandanti, spaventa anche se stesso,
non è impossibile.
Nessun mostro è invincibile.
Il libro è un lavoro sulla vulnerabilità, che si è abituati a nascondere sotto il tappeto come
fosse sporco di cui vergognarsi.
Eppure non esiste altra cosa al mondo che possa rendere più umani della vulnerabilità
stessa.
Un meccanismo innescato da una società che esige compulsivamente e ininterrottamente
forza, potere, risolutezza, impassibilità, freddezza, velocità.
Un congegno che induce al panico ogni qual volta si tende a perdere il controllo.
Quello stesso panico che può salvare e resuscitare sensibilità e natura umana.


Se aprite il link qui di seguito potete supportare il progetto, aiutarla a raggiungere la pubblicazione e ricevere una copia del libro a casa 






mercoledì 1 luglio 2020

Paola Perego: «Racconto i miei 30 anni di attacchi di panico per aiutare chi ne soffre»





Lei lo chiama il Mostro. Paola Perego cominciò a soffrire di attacchi di panico a 16 anni, quando ancora non si conoscevano e il massimo che un medico diceva era «ha l’esaurimento nervoso». L’hanno tormentata per 30 anni fino a quando, soprattutto grazie alla psicoterapia cognitivo comportamentale, ha smesso di «avere paura della paura». 
Martedì 30 giugno alle 18.30 presenterà sul canale Instagram del Circolo dei Lettori il suo libro Dietro le quinte delle mie paure, la storia della sua vita intrecciata agli attacchi di panico. Al termine del romanzo ci sono anche le testimonianze di Fedez, Elena Sofia Ricci, Michelle Hunziker, Federica Pellegrini.

Ha sconfitto il mostro? 
«Ci ho messo 30 anni, ma da una decina si. La psicoterapia è stata fondamentale, alla terza ho vinto la battaglia. Il mostro era parte di me, lo è per tutti. Con la terapia svisceri i tuoi difetti, emozioni, bisogni e, quando li conosci davvero, non fa più paura. La causa è sempre molto meno spaventosa degli attacchi di panico che genera. Per anni, per vivere, ho dovuto prendere dei farmaci». 

«Io potevo non guidare, non uscire, non mangiare, non vedere i miei amici. Ma mai stare senza lavorare. Perché ne avevo bisogno per vivere e perché mio padre mi ha trasmesso un senso del dovere fortissimo». 

Perché la decisione di scrivere un libro? 
«Era da un po’ che mi frullava in testa. È molto difficile parlarne anche se, come nel mio caso, non ne soffri più. Un pomeriggio, raccontai la mia storia a Verissimo. Qualche giorno dopo andai a fare spese con mia figlia e venni avvicinata da una ragazza che mi abbracciò e mi raccontò di soffrire di crisi di panico. Disse che, dopo avermi vista in tv, dopo una settimana che non metteva il naso fuori casa per la paura, si era infilata il suo vestito più bello ed era finalmente uscita. Piangemmo insieme. Ho scritto per testimoniare: se ce l’ho fatta io, ce la potete fare tutti. Mi ha aiutata la mia amica Serena».


E il libro è dedicato ai suoi figli.
«Ho passato una vita a nascondermi, a non far sapere loro come stavo. Ero la mamma che non li accompagnava da nessuna parte, che non riusciva a stare da sola con loro. Ho voluto dirgli tutto mettendolo nero su bianco. Spiegare perché sono stata così». 


Anche suo figlio ne ha sofferto. Gli è stata d’aiuto?
«Ero agitatissima. Nel libro c’è un suo disegno che descrive un attacco. È stato bravissimo, voleva venirne fuori presto. Gli dicevo: ti vengo a prendere? E lui tornava in macchina da solo. È stato molto forte. Ha fatto terapia e in un anno ne è uscito». 


Come le è stato vicino suo marito Lucio Presta? 
«Mi ha compresa. Non bisogna mai dire: non è niente, oppure basta la forza di volontà. Non mi ha mai giudicata, fatta sentire inferiore, debole. Mi stava vicino e mi distraeva. Lucio è un uomo molto solido: qualunque cosa possa accadere, lui chiama un elicottero e ti mette in salvo».


Dal Sito: torino.corriere.it

mercoledì 13 maggio 2020

Paola Perego e le crisi di panico: «Il primo attacco l’ho avuto a 16 anni»



I medicinali pronti nella borsetta, attenta a non farsi vedere, né dagli amici, né dai colleghi di lavoro. La conduttrice tv racconta la fatica di convivere con le esplosioni di panico. E il momento in cui ha cominciato ad avere «meno paura della paura»
《Non sono mai stata più forte del Mostro, nessuno è più forte degli attacchi di panico. Però ho provato a conviverci, a volte vincendo, a volte perdendo». Paola Perego lo chiama il Mostro, un nemico invisibile che ti azzanna la gola, ti toglie l’aria, ti lascia senza fiato come un pesce che boccheggia con l’occhio vitreo fuori dall’acqua. Chi non ne ha mai avuto uno fatica a capire; chi lo ha provato se ne vergogna. La conduttrice ha deciso di raccontare in un libro come gli attacchi di panico le hanno cambiato la vita (Dietro le quinte delle mie paure, Piemme Edizioni). Un racconto intimo e personale. Dove ripercorre le tappe della sua vita, gli inizi da modella e l’ascesa come conduttrice, gli alti e bassi, le sue relazioni, il matrimonio prima con Andrea Carnevale («un ragazzo buono che nella vita aveva già avuto abbastanza problemi per sforzarsi di capirne altri») e poi con Lucio Presta («ero un cumulo di pezzi da rimettere insieme, Lucio vedeva tutta questa verità e continuava a volermi, non mi giudicava, semplicemente mi abbracciava più forte»).

Quando arrivò il primo attacco di panico? 
«Avevo 16 anni, ero in macchina con il mio ragazzo: l’aria smise di entrarmi nei polmoni, iniziai a sudare, non capivo dove mi stesse portando, sapevo solo che mi stava soffocando. Ma non potevo parlare. “Non voglio morire!” stavo gridando con gli occhi, ma dalla bocca nemmeno un suono. Non sentivo più le gambe, probabilmente si erano addormentate per lo shock e nella bocca la lingua sembrava un enorme pallone: stavo soffocando. Avevo paura di morire, anzi no: ero assolutamente certa di essere sul punto di morire».

Un blackout del cervello, ma all’epoca, negli anni 80, non c’erano la sensibilità e l’attenzione di adesso per i problemi di natura psicologica... 
«Questa ragazza non ha niente: i medici ti dicevano così. Nel migliore dei casi eri debole, nel peggiore eri pazza. L’attacco di panico non era conosciuto come oggi, non era così immediato diagnosticarlo, non se ne parlava, non si affrontava come un male reale. Ricordo la sensazione di solitudine assoluta: nessuno poteva entrare in quella bolla di dolore, nessuno poteva sentire quello che sentivo io»

Da allora ha iniziato a convivere con la paura e le benzodiazepine...
«Tavor, Lexotan, Xanax, li ho girati tutti, sempre sotto prescrizione medica. Avevo sempre i medicinali in borsa ma ero attentissima che nessuno mi vedesse prenderli, né gli amici né sul lavoro. Questa paura costante di morire mi avrebbe accompagnato per sempre: la mia vita era cambiata».

Quanto l’ha penalizzata sul lavoro e nella vita? 
«Non sapevo cosa fossero la sicurezza, la spavalderia e la consapevolezza di sé che vedevo in tante altre ragazze nel nostro ambiente, perché era come se vivessi perennemente nell’incubo che il Mostro potesse portarmi via. Era una minaccia che non mi abbandonava mai e che stava cambiando il mio carattere, trasformandomi in una persona che aveva perso del tutto la spontaneità e il sorriso».

Viveva con il freno a mano perennemente tirato?
«L’austera Paola Perego. L’algida conduttrice. La Perego fredda e controllata. I giornali parlavano di me, bollandomi con aggettivi degni di un ufficiale della Gestapo. Certamente mi faceva male. Sapevo di non essere quella persona, sapevo di avere dentro di me un universo di sentimenti, un fiume di emozioni arginato da troppi anni di malattia, ma quello che riusciva a emergere dallo schermo evidentemente era una donna all’apparenza fredda e un po’ troppo sulle sue».


Nel corso della vita ha rivelato a pochissime persone di essere affetta da attacchi di panico. Era la paura di non essere capita? 
«Non è un argomento di cui sia facile parlare, proprio perché mette allo scoperto la nostra parte più intima, più vulnerabile e anche, in qualche modo, più misteriosa. È come trovarsi imprigionati in cima a una torre, al buio, sapendo che fuori ci sono delle persone che potrebbero aiutarti, ma tu non hai voce per gridare, non hai parole e non hai nemmeno una corda da tirare giù perché possano arrampicarsi per venirti a prendere. E la cosa più terribile è che questa sensazione non ti dà tregua e ti toglie tutto, perché in quella torre sei atrocemente sola».


Se lo è chiesto: perché a lei?
«Dopo tanti percorsi di analisi ho capito che c’è una predisposizione a reagire in un determinato modo davanti agli eventi della vita. Senz’altro ora so che la mia mania del controllo ha influito sugli attacchi di panico; la convinzione di poter risolvere i problemi di tutti, di dover trovare una soluzione a ogni cosa, questa smania di mettere tutto al proprio posto, anziché darmi coraggio ha contribuito a gettarmi in un limbo di ansia e paura».


Aveva una vita limitata, non riusciva a fare le cose più semplici, come guidare, uscire da sola, farsi la doccia quando in casa non c’era nessuno. Dopo 30 anni, da poco, è guarita. Quando è successo? 
«Non so identificare il momento preciso in cui ho rivisto la luce dopo quasi trent’anni di buio. Ricordo solo di aver ricominciato a sentire l’aria fresca sul viso, di aver ripreso a vedere i colori delle foglie, del cielo di Roma. Piano piano ho cominciato ad aver meno paura della paura».


Nel libro ammette tutte le sue fragilità. Cosa l’ha spinta a raccontarsi?
«Da una parte spero che questo libro possa aiutare chi soffre di questa malattia infida, perché già parlarne aiuta. Dall’altra ho sempre vissuto nell’immagine che gli altri avevano di me, ero quello che gli altri volevano che fossi. Ma arriva un punto nella vita in cui devi essere te stessa. Se sai chi sei, ti accetti. Senza paura. E non ti importa niente di quello che dicono gli altri».



Dal Sito: corriere.it

giovedì 12 dicembre 2019

La depressione maschile è ancora un tabù


Soffre di depressione un uomo su 20, ma per gli esperti le vittime del male oscuro sono molte di più. Perché vivono la malattia con senso di colpa, la negano, la curano con l’alcol. Come racconta il conduttore Daniele Bossari nel suo libro-verità

«È stato un lento scivolare tra le pieghe dell’anima. Talmente lento che non me ne sono accorto. La luce è scomparsa un fotone per volta: così i miei occhi si sono abituati all’oscurità». Comincia così La faccia nascosta della luce (Mondadori), il libro-confessione in cui Daniele Bossari, 45 anni, conduttore in radio e in tv, racconta «i lunghi anni in cui sono stato vittima della depressione, in cui non avevo certezze, a parte una: che là fuori non fosse rimasto più niente, per me. La depressione aveva cancellato ogni mia aspirazione, ogni slancio vitale».

«Non riuscivo a trattenermi dal medicarmi con un altro bicchiere. Un sorso di whiskey, un sorso di oblio». Nei romanzi e nelle poesie ha nomi evocativi come “il male oscuro” o il “cane nero”. Nella realtà la depressioneè una malattia come le altre, forse più terribile di altre, e più assurda: la vita che abbiamo amato a un certo punto diventa ostile. Daniele Bossari la descrive come «un punteruolo che ti trafigge e ti fa a brandelli: io, letteralmente, non vedevo più i colori». Non è consolante che siano in tanti a soffrirne: secondo i dati Istat, in Italia il 9,1% delle donne e il 4,8% degli uomini, anche se questi ultimi sono probabilmente molti di più, ma non lo dichiarano. «L’uomo tende a ritardare la sua richiesta d’aiuto, o a non presentarla affatto, la vive come una colpa, con vergogna» chiarisce Emanuela Cafiso, psichiatra e psicoterapeuta. Rispetto a quella femminile, poi, la depressione maschile ha caratteristiche precise: «Se per le donne i sintomi più frequenti riguardano il campo dell’affettività, negli uomini prevalgono un vissuto di fallimento e di incapacità, anche lavorativa» continua Cafiso. «Spesso, poi, il maschio cerca di trovare risposte concrete al problema e ricorre a una sorta di autoterapia, assumendo alcol o sostanze che lo aiutino a stare meglio». Bossari ci ha provato col whiskey: «Pensavo “domani smetto”. Ma poi non smettevo» è la sua confessione dolorosa. «Mi ripromettevo di farlo solo quando il senso di colpa mi divorava, ma il ribrezzo che provavo per me stesso era tale che non riuscivo a trattenermi dal medicarmi con un altro bicchiere. Un sorso di whiskey, un sorso di oblio».

«Non diventi depresso da un giorno con l’altro, ci finisci dentro lentamente. E quando ti accorgi di essere in trappola sei già sopraffatto». Esistono 2 tipi di depressione: «Quella reattiva, che segue a un trauma o un lutto, è abbastanza fisiologica e frequente» dice Cafiso. «È “normale” sentirsi depressi dopo un evento doloroso, ed è più facile uscirne, con il trascorrere del tempo e un graduale ritorno alla vita di prima». L’altra forma, la più subdola e faticosa da sconfiggere, viene definita “endogena”. All’origine non c’è uno specifico evento scatenante; si tratta di un processo graduale, di cui non è facile individuare l’inizio. «È l’acqua che ti sommerge e il tuo progressivo abbandonarti a essa, per non sentire più nulla» confessa Daniele Bossari. «Nel mio caso, dopo una vita sotto i riflettori, tra tanti momenti di esaltazione e qualche sporadica sconfitta, un giorno un critico importante ha scritto un articolo negativo su di me. Ho cominciato così a scivolare verso il baratro. A posteriori penso che se quell’episodio non fosse accaduto, ce ne sarebbe stato un altro: forse esistono individui più vulnerabili, più esposti di altri, e io sono tra questi. Il fatto è che non diventi depresso da un giorno con l’altro, ci finisci dentro lentamente. E quando ti accorgi di essere in trappola sei già sopraffatto».

Spiega Alberto Simone, psicologo e psicoterapeuta, autore di Ogni giorno un miracolo – Imparare l’arte di amare la vita (Tea): «La depressione discende da un mix di cause genetiche, biologiche, psicologiche e sociali: difficile, insomma, definirle con esattezza. Invece, il fatto che gli uomini siano meno inclini a chiedere aiuto ha una ragione antropologica: per il genere maschile esporsi a nemici o potenziali rivali mostrandosi deboli significava rischiare la vita. Ancora oggi, gli uomini faticano a entrare in contatto con i propri problemi emozionali, a riconoscerli e condividerli. Per molti il confronto con l’altro, specie se maschio, su un tema “sensibile” non è previsto». Infatti, dice Bossari: «Per un periodo ho frequentato solo gli amici più stretti, poi ho smesso. Il telefono squillava ma non rispondevo: all’idea di sentire una voce che non fosse quella di mia moglie Filippa o mia figlia Stella provavo ansia».

«Una notte mi sono trovato in bilico su una trave, a una decina di metri d’altezza, il vuoto sotto, con un litro di whiskey in corpo».Il cosiddetto “ritiro sociale”, assieme al chiudersi in se stessi e al cercare il buio è uno dei sintomi della depressione 

«Per me è stato come camminare nel bosco, da solo, un passo dopo l’altro, finché il buio non è calato. E solo allora ho capito di essermi perso» dice Bossari. Ogni attività, anche incontrare un amico, del resto «richiede un investimento energetico: il depresso sente di non potercela fare» spiega Alberto Simone. La depressione è una condizione che può diventare molto grave ma si può uscirne: «Per cominciare, un consiglio è entrare in contatto col corpo e tornare a muoverlo» continua l’esperto. «È un primo passo per rientrare in relazione con ciò che ci circonda anche dal punto di vista sensoriale. Il depresso ha una carica energetica bassissima. E le difese immunitarie deboli. L’attività fisica è l’equivalente del “ricaricarsi” alla presa di corrente».

Una volta riconosciuta la propria condizione, l’ideale sarebbe affiancarla a una psicoterapia: «I farmaci antidepressivi da soli non aiutano a raggiungere indipendenza e autonomia» ricorda Simone. «L’invito per chi soffre è quello di riconoscersi come prima cosa il diritto a provare emozioni negative. Gli uomini tendono a reagire a questo tipo di problemi ignorandoli, negandoli. Ma la depressione non è una colpa, non è una difettosità. Chiamarla col suo nome e chiedere aiuto significa aver già fatto un pezzo di strada».

Anche un libro che racconti una storia onesta e positiva può servire. Quella di Bossari è entrambe le cose: «Una notte mi sono trovato in bilico su una trave, a una decina di metri d’altezza, il vuoto sotto, con un litro di whiskey in corpo e la tentazione di farla finita. Mi piacerebbe dire che non l’ho fatto perché ho pensato a mia moglie e mia figlia, ma non è così. Non sono morto perché ho avuto paura, e come ero salito sono sceso. La paura quel giorno mi ha salvato. La paura: in fondo a un pozzo in cui non vedevo niente, non sentivo niente, non percepivo niente, finalmente un’emozione».


IN LIBRERIA
S’intitola La faccia nascosta della luce (Mondadori) il libro-verità in cui Daniele Bossari, 45 anni, volto noto della tv negli anni ’90, racconta come ha affrontato la lunga depressione. Un racconto lucido e onesto della sua discesa “all’inferno” verso il buio, gli attacchi di panico, l’alcolismo. «Ero in fondo a un pozzo in cui non vedevo niente» confessa. «Oggi mi sento un miracolato».



Così riconosci i sintomi della depressione

In Italia colpisce il 4,8% degli uomini e il 9,1% delle donne ma le statistiche maschili sono sottostimate: i depressi faticano a rivolgersi al medico e mascherano la loro malattia con altri problemi fisici (mal di testa, stanchezza, disturbi del sonno, difficoltà a digerire).

La malattia deteriora la qualità di vita e nella sua forma più grave può portare al suicidio (secondo l’Oms, nel mondo è causa di 850.000 morti l’anno): ecco perché è importante che chi vive accanto a un depresso - marito, fratello, padre - impari a riconoscerne i sintomi.

Tra i comportamenti tipici degli uomini depressi, che devono protrarsi per almeno 2 settimane: assumere più alcol del normale o sostanze illecite; lavorare moltissimo, in modo ossessivo e senza pause; evitare le situazioni familiari e sociali; diventare aggressivi e maltrattanti; mettere in atto comportamenti a rischio come il gioco d’azzardo o il sesso non protetto.

Dal Sito: donnamoderna.com

sabato 31 marzo 2018

Daria Bignardi racconta “il bello” di essere ansiosi


È uno stato d’animo intenso, pericoloso, che rischia di rovinarti la vita. Ma che si può anche trasformare in energia creativa. Ce lo racconta qui una scrittrice famosa che ha riflettuto su quanto la sua inquietudine sia stata il motore del suo successo

Si intitola Storia della mia ansia (Mondadori, 19 euro) il sesto libro di Daria Bignardi. In questo nuovo romanzo la protagonista è Lea, una donna che ogni giorno deve fare i conti con un difficile equilibrio tra lavoro, famiglia, ansia, amore, frustrazione e malattia. Daria Bignardi, è una giornalista, autrice, conduttrice tv e scrittrice. Nel 2009 pubblica il suo primo libro, Non vi lascerò orfani, con cui vince il premio Elsa Morante per la narrativa, il premio Rapallo e il premio del Libraio Città di Padova. Qui ci racconta del suo rapporto con l'ansia e di come ha affrontato le sue paure.

Credo di aver cominciato a soffrirne da molto piccola,

ma solo pochi anni fa ho capito che quel senso di inquietudine che agitava le sue ali gialle dentro al mio petto, era proprio ansia. Come la madre di Lea, la protagonista di Storia della mia ansia, anche mia mamma soffriva di ansia ossessiva e la sua malattia ha condizionato tutta la mia vita. Per moltissimo tempo ho odiato l’ansia, non mia madre che adoravo, tanto da negarla, rimuoverla, vergognarmi di lei. Non capivo che quell’energia che mi guidava o paralizzava, che mi obbligava alle prove più difficili e faticose anche quando non mi riguardavano fino in fondo, che mi spingeva a stringere legami con persone che mi mettevano a disagio, che non mi abbandonava nemmeno mentre dormivo, che mi faceva (e mi fa) svegliare prestissimo con mille pensieri di cose da fare, dire, scrivere, era una forma dell’ansia che avevo odiato in mia madre. Un ricordo dei miei cinque anni l’ho prestato a Lea Vincre, protagonista dell’ultimo libro: sono le otto di sera e di nascosto da mia madre porto indietro di dieci minuti le lancette della sveglia di cucina perché se alle otto in punto mio padre non arriva a cena mia madre mi infila il cappotto sul pigiama e mi porta fuori con lei a cercarlo, al freddo, nella nebbia di Ferrara. È successo davvero e io ero spaventatissima, non tanto dalle cose che faceva la mamma, quando sei piccolo tutto quello che fa lei sembra legittimo e normale, ma dal suo dolore devastante, insopportabile, che arrivava fino a me, anche attraverso le pareti, e che sentivo dentro, in profondità, attorno al diaframma, proprio “dentro al cuore” pensavo io da piccola. Dentro al petto, come ho capito più tardi. È quello il luogo dell’ansia.

Ho sempre cercato di proteggere mia madre dal dolore,

e poi di proteggere tutte le persone che vedevo o sentivo soffrire, tranne me stessa. E probabilmente l’ho sempre fatto male, perché non lo so se l’affetto, la cura, gli slanci, quel che potevo dare e fare io, possono aiutare davvero chi soffre. «Ognuno è responsabile del suo dolore» dice a un certo punto del romanzo Shlomo, il gelido ma affidabile marito di Lea. Forse ha ragione lui. Forse per questo ho sempre cercato di avere vicino persone diverse da me: costanti, autonome, solide, pazienti, non ansiose. Che però a volte non sono sensibili e fanno fatica a capire e ad accettare i tormenti di chi soffre d’ansia.

L’ansia può essere pericolosa perché non fa sentire la fatica,

lascia nudi, scoperti, fragili, vulnerabili, sfiniti. Nei momenti peggiori può condizionare pesantemente la vita, bloccare, consumare: perché ci si fissa sulle cose negative e si perde di vista tutto il resto, salvo disperarsi quando poi magari le cose belle, ignorate o date per scontate, si perdono per davvero. Ma può essere anche una bellissima energia creativa, una marea che ti porta fin dove non avresti mai pensato di arrivare. Credo che tutto quello che ho fatto nella vita, dall’andarmene dalla mia piccola città di provincia, quando avevo vent’anni per cercare lavoro a Londra, a venire a Milano dividendo un’appartamento in periferia con cinque sconosciuti, fino a riuscire a lavorare nei giornali e poi in televisione, l’ho sempre fatto ascoltando e seguendo un bisogno insopprimibile e urgente. Prima di libertà e poi di creare qualcosa da condividere con gli altri per riuscire a placare l’ansia.

È stata l’ansia a costringermi a coltivare la mia vocazione, quella per la scrittura e la lettura

Da bambina leggevo e scrivevo in modo compulsivo. Leggevo sempre: prima le favole, poi i libri per ragazzi, poi tutti i libri che trovavo in casa, dai classici russi e francesi che mia madre aveva studiato all’Università alla Storia d’Italia di Montanelli di mio padre. E quando finivo di leggere due o tre volte tutti i libri che c’erano in casa andavo a comprarli usati in libreria, in edicola, nelle bancarelle o li prendevo in prestito in biblioteca. E appena avevo finito i libri, leggevo i giornali, le riviste, l’etichetta dell’acqua minerale, i bugiardini delle medicine, le regole dell’ascensore, i cartelloni stradali. Non potevo fare a meno di leggere e di scrivere, incessantemente. «Ti cavi gli occhi» diceva mia madre, che pure era una grande lettrice, ma mai quanto me che non stavo mai senza un libro o un giornale davanti agli occhi. Anche quel bisogno credo fosse un effetto dell’ansia, di quel viatico materno che mi ha consegnato all’inquietudine eterna ma anche alla mia vita, al mio destino, al mio bisogno di scrivere, creare, condividere, e che ha fatto di me, nel male e nel bene, ciò che sono.

Dal Sito: donnamoderma.com

lunedì 16 marzo 2015

Storie di Panico: Amico sono qui! di Angelo Barone



Sono sempre stato un ragazzo ansioso, ma solo in età adulta ho avuto modo di capirlo. Non vedevo l’ora di finire di fare una cosa per iniziarne subito un’altra. Avevo sete di mettermi in mostra e di fare sempre di più e sempre meglio. Darsi degli obiettivi e tenersi occupati è la chiave per avere successo, ma delle volte non si riesce ad assaporare fino in fondo quello che si sta facendo e si finisce per mettere in pratica una sorda corsa. Più che correre, forse stavo scappando. Solo che non l’avevo ancora capito, o forse, l’ho fatto quando era tardi.

Tutto è iniziato quasi due anni fa quando stavo per terminare gli ultimi esami universitari e nel frattempo mi mantenevo con un lavoro in un centro scommesse. Non contento di quanto già facessi, svolgevo anche il praticantato sullo studio di un commercialista della mia città. Lavoravo praticamente tutto il giorno e la sera, quando ero ormai sfinito, prendevo i miei amati libri e studiavo fino a quando riuscivo a mantenere gli occhi aperti.

Il lavoro però mi stressava. Senza considerare che lavorando in un luogo così triste e cupo, si finisce irrimediabilmente per assorbire la negatività tipica di quell’ambiente. Avrei dovuto staccare, prendermi del tempo per me. Avevo bisogno di pace e tranquillità.

Non vi ho ancora detto tutto.

Purtroppo mia madre, già malata da diversi anni, non rispondeva più ai farmaci. Leggevo nei suoi occhi lo strazio di chi ormai conosce già il suo destino e non può fare nulla per cambiarlo. In meno di una settimana non era più auto sufficiente. In meno di un mese è volata in un posto bellissimo. 
Ricordo nitidamente cosa provai in quell’istante. Un bruciore così forte da distruggere ogni tipo di reazione.

Disarmante. Invalidante. Queste sono le parole giuste.

Dal quel momento in poi ho fatto il conto con tutto quello da cui stavo scappando. Non riuscivo a scendere dal letto neanche per mangiare. Avevo la sensazione che la mia mente scivolasse via … lontana da me.

Anche solo andare a comprare il pane a pochi metri di distanza da casa era diventato per me impossibile.
L’ansia mi aveva fatto perdere la mia centralità. Si era portata con se la parte migliore di me. Non riuscivo più ad immergermi nella semplicità della vita e la concepivo come un concetto complicato, impegnativo, non alla mia portata.

È difficile trasformare in parole le sensazioni che l’ansia ed il panico ci trasmettono; è come avvertire qualcosa che ci spinge a correre ed a scappare e ci provoca delle sensazioni tanto reali da farci cadere nell’inganno più sincero.

Più ho provato a controllare le mie reazioni più facilmente ne cadevo preda.

Einstein diceva sempre che la logica ci porta da A a B. La fantasia e l’immaginazione dovunque. A me successe una cosa simile. Inventai una nuova realtà che io credevo fosse autentica, di cui avevo sia creato le regole che esserne il primo a farne le spese. In questo “gioco” ero sia il burattino che il burattinaio.

Ho corso e sono scappato così tante volte da perderne il conto, quando un giorno, con il cuore che batteva all’impazzata, la sensazione di non avere neanche più un briciolo di forza, mi sono voltato indietro … ed ho capito che non c’era nessuno ad inseguirmi.

Oggi, con impegno e volontà posso dire di aver superato la fase peggiore e di essere sulla buona strada per uscirne definitivamente.

Ho voluto condividere con Voi tutte le mie conoscenze, le tecniche e le informazioni che ho acquisito scrivendo un libro,  Amico sono qui! con la speranza, che sia di aiuto per tutti quelli che ancora vivono appieno il disturbo.



Concludo ripotandovi quando segue:

Un giorno la paura bussò. Il coraggio si alzò e andò ad aprire e vide… che non c’era nessuno.
(Martin Luther King).
Tutti i limiti sono una nostra ideazione.
La forza è dentro di noi … sappiamo esattamente dove si trova … non dobbiamo cercarla altrove.

Spero di cuore di esservi stato di aiuto.


Angelo Barone

Zero Ansia.it