Bolg informativo sui disturbi legati all'Ansia e agli Attacchi di panico - Facebook https://it-it.facebook.com/insiemedap/
venerdì 27 ottobre 2017
Tipi di stress: sono 7. Meglio conoscerli per evitarli
E’ la patologia del nostro tempo, ma non ne esiste solo una forma
Irrigidimento muscolare, problemi cardiaci, sbalzi di pressione, aumento di peso, insonnia (e tutto ciò che ne consegue), problemi digestivi. Sono solo alcune delle conseguenze fisiche dello stress. Alle quali vanno aggiunte tutte quelle di natura psicologica ed emotiva. E’ la patologia del nostro tempo, ma non ne esiste solo una forma: sono distinguibili infatti 7 tipi di stress, riporta il Reader’s Digest. 7 tipologie di questo male che si distinguono per contesti e origini, e che vale la pena saper distinguere per imparare a gestirle, curarle e magari evitarle.
Quanti tipi di stress conosci?
Ansia ambientale. Tutte le brutte notizie, che vengano da un telegiornale o dalle chiacchiere con qualcuno, mandano in panico perché le si immagina come proprie, o pronte a colpire chi si ama. Non si tratta di empatia, ma di una forma di stress provocata dal non avere sviluppato delle ‘barriere’ psicologiche o emotive adeguate.
Lavoro. Tra i tipi di stress, forse è quello più diffuso. Lo stress per eccellenza viene dall’ambiente di lavoro. Da chi svolge mestieri pericolosi o logoranti. A chi non si sente apprezzato nella sua posizione. A chi lavora in un contesto che non lo soddisfa.
Stress genitoriale. Essere genitori può provocare stati d’ansia notevoli. Dall’insicurezza e la paura di sbagliare, al timore che i figli prendano strade sbagliate, soffrano, non siano felici. Attenzione, perché questo tipo di stress viene portato in famiglia e si può ripercuotere su tutte le dinamiche relazionali.
Stress metropolitano. Vivere in città, specialmente in quelle grandi e caotiche, può indurre stati stressanti notevoli. Litigi nel traffico, mezzi pubblici logoranti, vicini che schiamazzano, assenza di silenzio. La metropoli offre molto, ma richiede anche tanta ‘pace interiore’ per poterla vivere serenamente.
Traumi infantili. Lo stress cronico, l’incapacità di gestire le proprie emozioni, possono derivare da traumi infantili. E’ solo elaborando (attraverso la psicoterapia) che si può ritrovare l’equilibrio. Inutile combattere lo stress tout court quando la sua ragione di esistere è radicata in profondità, e non basta cambiare lavoro o città per alleviarlo.
Questioni economiche. La preoccupazione per i soldi, l’incertezza del riuscire a sostentarsi. Gli anni della crisi ce lo hanno insegnato, anche a caro prezzo: lo stress e la situazione economica di una persona sono strettamente correlati. E tra i tipi di stress questo è certamente uno dei più pericolosi perché può cronicizzarsi e impedire di vedere vie d’uscita.
Cambiamenti. Succede a molte persone: i cambiamenti spaventano, stressano. Un lavoro nuovo, una relazione che finisce, un trasloco, la morte di qualcuno. A volte non ci si rende conto che ci si trascina uno stato di stress da tempo senza riuscire a collegarlo ad un cambiamento ancora non elaborato.
Dal Sito: www.stile.it
Depressione: per uscirne bisogna chiedere aiuto
Ho imparato che condividere con gli altri la tristezza, il bisogno, il dolore significa che alcuni si allontaneranno, ma che un infinito numero di persone si manifesteranno a te. Simona Vinci, autrice di "Parla, mia paura", racconta come è riuscita a sconfiggere depressione e attacchi di panico
Siamo sedute nella sala d’attesa di un reparto di un grande ospedale pubblico dell’Emilia Romagna, la mia Regione. Talmente grande, questo edificio, che nonostante le piantine a caratteri cubitali posizionate in ogni dove su grandi tabelloni plastificati, nonostante le frecce colorate con i numeri e le lettere che indicano i vari reparti e ambulatori e le direzioni per ascensori e bagni e corridoi, ci si perde lo stesso. E il senso dell’orientamento se ne va a farsi un giro fuori dalla tua testa e dal tuo corpo, come succede a volte dentro gli aeroporti giganteschi delle metropoli, quando magari sei all’altro capo del mondo, da sola, e non sei sicura che saprai spiegarti nella lingua giusta. Hai paura a chiedere indicazioni, il tempo stringe, vorresti uscire a fumare, ma non si può più e giunti a questo punto, se tu cercassi disperatamente un’uscita rischieresti di non riuscire a raggiungere mai più il terminal giusto e di perdere l’aereo.
Scrivere mi ha salvato
Ma oggi, qui, non succede niente di tutto questo, siamo in due e lei, in questo posto, si orienta abbastanza bene perché ci è già stata tante volte. Non siamo amiche intime o, almeno, non lo siamo ancora nel momento in cui io sposto la sedia azzurra per mettermi davanti a lei, all’altezza del suo sguardo, e raccogliere la paura che proviamo entrambe, per motivi simili e diversi, e provare a scioglierla dentro le parole che ci diciamo. Si dice a volte che le parole non servano, che siano i gesti, e quelli soli, a fare la differenza. Io non ci ho mai creduto. Sarà perché scrivo, e le parole sono il pane e l’acqua della mia vita da sempre. Sarà perché ho visto e sentito fiorire e nascere sentimenti sul concime delle parole. Sarà perché le parole mi hanno salvato la vita, sempre. Nei momenti più difficili, quelli in cui mi è capitato, come spesso capita, a tutte e tutti, di trovarsi in quello che appare come un vicolo cieco: prima o dopo, una parola è riuscita a intrufolarsi e a raggiungermi.
Ho cercato lo sguardo di un altro
Qualcuno ha paura di amare, qualcuno di perdere le persone che ama, di essere abbandonato, ferito, di non essere all’altezza di ciò che gli viene richiesto, paura di non essere abbastanza intelligente, abbastanza bravo, paura di non farcela a corrispondere alle aspettative degli altri, del mondo.
Quanta gente schiacciata, distrutta e ammutolita dalle paure.
Lo sono stata anche io, ho sofferto di depressione e attacchi di panico. Mi sono dibattuta in una ragnatela appiccicosa e tagliente senza trovare la forza di chiedere aiuto. Avevo tachicardia, lampi visivi, senso di soffocamento e paura di impazzire, come se il corpo stesse per esplodere. Mi accadeva di giorno (e questo mi impediva di vivere una vita normale) ma anche di notte, quando ero a letto, all’improvviso.
Volevo farcela da sola, liberarmi da sola, o sola o niente. Guai, mi dicevo, a chiedere aiuto! Guai, a mostrare la tua ferita o gli altri se ne approfitteranno. E poi, che umiliazione, mostrarsi deboli, bisognosi, piagnucolosi e malfermi come bambini che chiamano la mamma per un graffio. Eppure, un giorno è successo, un giorno che non ce la facevo più ho alzato lo sguardo a cercare gli occhi di qualcuno. Un giorno non ho potuto far altro che quello: alzare lo sguardo, incontrare un paio di occhi e chiedere: mi aiuti? Da quel momento, molto è cambiato. Sono cambiata io.
Ho imparato a mostrare le mie ferite
Piano piano ho imparato che potevo rischiare di mostrare la mia vulnerabilità, che non tutti, questo è ovvio, l’avrebbero compresa, che non tutti mi sarebbero stati accanto, non tutti sarebbero diventati amici o alleati, ma non tutti non vuole dire appunto nessuno, vuol dire, qualcuno sì, qualcuno no.
A dire il vero, molti, sì. Ho imparato che condividere con gli altri anche la tristezza, anche il bisogno, anche il dolore significa che alcuni si allontaneranno, impauriti o annoiati, ma che un infinito numero di persone delle quali non avresti sospettato l’esistenza e la disponibilità, si manifesteranno a te.
Non c’è bisogno di pretendere. Bisogna solo trovare la forza di aprire una finestra, un cancello, una porta e uscire. Bisogna prendere una sedia azzurra e sedersi di fronte a quella che diventerà un’amica per ascoltare il suo dolore e farla partecipe del tuo. Quello che accadrà sarà diverso, per ognuna e per ognuno, ma, quasi sicuramente, almeno una risata dopo le lacrime arriverà, e quella risata se è vero che non cancellerà l’amarezza, le sconfitte, la rabbia e la paura, le accoglierà però in uno spazio differente. Una sala d’aspetto asettica di un grande ospedale pubblico potrà trasformarsi in un intimo salottino con la luce soffusa, i fiori sul tavolo, uno spazio amichevole abitato dalle parole e accudito dalla reciproca attenzione.
di Simona Vinci, scrittrice
Dal Sito: www.donnamoderna.com
Il ruolo delle distorsioni cognitive nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia
Diversi studi hanno dimostrato come esista una trasmissione intergenerazionale dell'ansia e alla base vi sarebbero delle distorsioni cognitive.
Trasmissione intergenerazionale dell’ansia: come dimostrano ormai numerosi studi, i figli di genitori ansiosi hanno una maggior probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia, in età di sviluppo o successivamente in età adulta.
La trasmissione intergenerazionale dell’ansia
Secondo il modello cognitivista della psicopatologia, i disturbi d’ansia sono attribuibili ad errori di ragionamento sistematici che occorrono nella valutazione degli eventi esterni o mentali. Tali errori di ragionamento sistematici, in età adulta così come nei bambini e negli adolescenti causano risposte emotive coerenti con essi, ad esempio l’ansia.
Come dimostrano ormai numerosi studi, i figli di genitori ansiosi hanno una maggior probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia, in età di sviluppo o successivamente in età adulta. Ad esempio la meta analisi di Micco e colleghi (2009) ha evidenziato come i figli di genitori con una diagnosi di disturbo d’ansia abbiano il doppio delle probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia rispetto ai figli di genitori con altri disturbi psicologici (ad esempio depressione o abuso di sostanze), e il quadruplo delle probabilità rispetto a bambini che hanno genitori senza alcun disturbo psicopatologico.
Non sono ancora chiari i fattori che portano a tale trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Per molti anni si è sopravvalutata l’influenza di fattori genetici ed ereditari ma gli studi più recenti evidenziano come tali fattori spieghino soltanto in parte tale tendenza: seppure l’ereditarietà genetica contribuisca a predisporre l’individuo in termini di vulnerabilità ai sintomi d’ansia, il peso dei fattori ambientali sembra essere maggiore.
Nello studio su coppie di gemelli di Gregory ed Heley (2007), ad esempio, è stato evidenziato come soltanto un terzo della varianza nell’ansia infantile sia spiegata da fattori genetici, mentre i restanti due terzi siano attribuibili ad influenze ambientali. Con riferimento a quest’ultimo ambito di fattori, numerosi sono stati i tentativi teorici e sperimentali di individuazione dei meccanismi di trasmissione intergenerazionale dell’ansia: attaccamento, stile parentale, esperienze di apprendimento e distorsioni nell’elaborazione dell’informazione. Ad esempio, con riferimento alla teoria dell’attaccamento, sono stati condotti studi sperimentali in cui sono state riscontrate delle relazioni forti tra un comportamento di cura sensibile della figura di riferimento e la sicurezza di attaccamento dei bambini e, al contrario, un attaccamento di tipo insicuro nei genitori e nei bambini sembra essere associato all’ansia infantile.
Rispetto allo stile parentale diversi studi evidenziano come uno stile genitoriale controllante sia associato ad ansia nei bambini (Wood, McLeod, Sigman, Hwang, & Chu, 2003; McLeod, Wood & Weisz, 2006). Rapee (2005) ha teorizzato questa relazione causale ipotizzando che l’iper-controllo genitoriale possa trasmettere ripetutamente al bambino due messaggi: 1) il mondo è pericoloso; 2) non hai la capacità di affrontare efficacemente situazioni nuove e/o pericolose. Secondo l’autore inoltre il comportamento controllante può ridurre le esperienze del bambino di padroneggiamento indipendente efficace e rafforzare la dipendenza dagli altri e il dubbio rispetto alle proprie capacità.
In linea con questa ipotesi è uno studio di Thirlwall e Creswell, del 2010, su un campione non clinico di 24 madri con i loro figli di 4/5 anni di età, in cui le autrici ipotizzavano che quando le madri adottano comportamenti più controllanti (e meno favorenti l’autonomia), i bambini mostrano maggiori livelli di ansia in un nuovo compito, leggermente stressante, e questo effetto viene moderato dall’ansia di tratto del bambino. Ai bambini, con il supporto delle madri, era stato chiesto di preparare e successivamente tenere due brevi discorsi, sulla famiglia e su un giorno divertente. Le madri erano state formate da uno psicologo per tenere in alcuni casi con il figlio, durante la preparazione del discorso, un comportamento iper-controllante e in altri casi un comportamento maggiormente favorente l’autonomia del bambino. Tutte le interazioni tra madri e bambini e i discorsi dei bambini sono stati videoregistrati e successivamente codificati da psicologi, con il metodo del doppio cieco (gli psicologi coinvolti esaminavano o i discorsi o le interazioni e non avevano informazioni circa le ipotesi dello studio). Lo studio ha evidenziato che nei casi in cui le madri adottavano un comportamento controllante durante l’interazione con i figli, questi ultimi esprimevano un maggior numero di predizioni negative rispetto alla loro performance prima di consegnare i loro discorsi e riportavano sentimenti meno positivi sul compito. Tale relazione era moderata dall’ansia di tratto del bambino. Inoltre, i bambini con una più elevata ansia di tratto mostravano un significativo aumento nell’ansia durante la presentazione del discorso.
Alcuni autori (Creswell e coll,, 2010) hanno proposto un modello di comprensione delle relazioni dinamiche esistenti tra diversi fattori coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia, sostenendo che le distorsioni cognitive dei genitori ansiosi interagirebbero con i loro stili parentali, portando i loro figli a sviluppare a loro volta distorsioni cognitive che li predisporrebbero al successivo sviluppo di disturbi d’ansia. Le distorsioni cognitive dei genitori condizionano secondo gli autori il loro comportamento con i bambini secondo un duplice percorso: da un lato, in modo diretto, trasferendo verbalmente le distorsioni cognitive (ad esempio contrassegnando un certo stimolo come pericoloso) e con le reazioni emotive di ansiae paura che verranno poi apprese dai figli; dall’altro lato, in modo indiretto, andando ad influenzare le loro stesse aspettative rispetto a come i loro figli risponderanno ad un determinato stimolo percepibile come minaccioso. Tali aspettative si manifestano attraverso comportamenti che limitano l’autonomia di bambini impedendogli di esplorare i contesti e gli stimoli percepiti come minacciosi dai loro genitori, e quindi si confermano le loro credenze di pericolosità e minaccia. Le aspettative dei genitori rispetto alle reazioni dei figli di fronte ad uno stimolo minaccioso plasmerebbero altresì secondo gli autori le loro comunicazioni ai bambini circa le loro capacità di coping (le loro capacità di affrontarli efficacemente). Il risultato di tali comunicazioni dirette ed indirette sarebbe lo sviluppo di distorsioni dell’informazione nei bambini, ad esempio la tendenza ad interpretare sistematicamente stimoli ambigui come minacciosi e quella a sottostimare le proprie capacità di coping.
Rispetto al ruolo svolto dalle distorsioni cognitive di madri e figli nello sviluppo di ansia nei bambini, nello Studio di Podina e colleghi (2013) a 423 madri e ai loro figli sono stati somministrati dei questionari di valutazione dell’ansia (Il Social Phobia Inventory alle madri, lo screen for child anxiety disorder ai bambini). In seguito sono state proposte ai bambini delle situazioni ipotetiche, che potevano essere interpretate come minacciose o come non minacciose, ad esempio “Sei a casa di un amico e i loro genitori sembrano essere molto arrabbiati), i bambini dovevano scegliere tra due alternative quella che più vicina al loro modo di interpretare la situazione ad esempio: 1) Hanno avuto una lite e sono arrabbiati tra di loro o 2) Non vogliono che tu sia qua e sono arrabbiati con te. Allo stesso modo, per misurare gli errori di ragionamento delle madri, sono state loro proposte dodici situazioni ambigue in relazione alle quali, similmente alla procedura usata con i figli, dovevano scegliere tra due possibili interpretazioni, quella più vicina al loro modo di interpretare la situazione. I risultati di tale studio mostravano come le interpretazioni negative delle madri mediassero in modo significativo la relazione tra ansia sociale materna e ansia nei bambini. Similmente, le interpretazioni negative dei bambini mediavano la relazione tra ansia sociale dei genitori e ansia nei bambini. Si è verificato inoltre come le interpretazioni negative delle madri fossero in correlazione diretta con le interpretazioni negative dei bambini.
Conclusioni e possibilità di intervento per interrompere la trasmissione intergenerazionale dell’ansia
Tutti gli studi presentati hanno importanti implicazioni cliniche, sottolineando l’importanza di intervenire sui diversi fattori coinvolti quando si trattano i disturbi d’ansia in età evolutiva, ad esempio con una terapia di stampo cognitivista standardper quanto riguarda le distorsioni cognitive delle madri e quelle dei bambini, con un parallelo lavoro sulla qualità della relazione di attaccamento e proponendo training di sostegno e sviluppo alla genitorialità alle coppie di genitori coinvolti.
Scritto da: Fiammetta Monte
Dal Sito: www.stateofmind.it
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/02/trasmissione-intergenerazionale-dell-ansia/
lunedì 23 ottobre 2017
Ansia ed attacchi di panico: cosa sono e come affrontarli
Intervenire in questi casi è possibile e la terapia cognitivo comportamentale risulta secondo molti studi di settore tra gli interventi più efficaci

Ogni emozione, piacevole o spiacevole, consiste in cambiamenti (rispetto allo stato precedente) che avvengono a tre livelli:
- Al livello del corpo: quando ci emozioniamo possono presentarsi aumento del battito cardiaco e della sudorazione, contrazione dei muscoli o altri cambiamenti somatici;
- Al livello della comunicazione: ogni volta che ci emozioniamo lo comunichiamo agli altri mediante le espressioni facciali, la gestualità, la postura e/o il nostro modo di muoverci;
- Al livello cognitivo: ad ogni emozione è associato un pensiero.
Tutte le emozioni sono importanti, perché ci permettono di comprendere e quindi poter comunicare agli altri ciò che per noi è importante e ciò che vogliamo: si tratta di “campanelli d’allarme” utili in quanto ci permettono di fare qualcosa per ristabilire un equilibrio: agire ad esempio sulla situazione per cambiarla o sui nostri pensieri per modificare o rendere meno intensa e quindi più tollerabile un’emozione spiacevole.
Ogni emozione ha una funzione specifica, quella della paura consiste nel segnalarci la presenza di un pericolo e spingerci a fare qualcosa per metterci in salvo. L’ansia è un’emozione simile alla paura, che presenta delle differenze rispetto alle circostanze in cui si manifesta e alle caratteristiche della minaccia. In particolare si possono identificare tre variabili in relazione alle quali si manifesta un’emozione piuttosto che l’altra:
- Consistenza della minaccia: quanto più la minaccia è definita, più si ha paura, più è indefinita, più si prova ansia;
- Evidenza di ciò che è minacciato (solitamente un nostro scopo): nella paura lo scopo minacciato è assolutamente evidente (ad es. è minacciata la sopravvivenza), quando si presenta l’ansia invece lo scopo minacciato non è chiaramente evidente (ad esempio potrebbe essere minacciato lo scopo di essere un valido impiegato e quindi “valere” come individuo);
- Immediatezza dell’evento: la paura è legata a situazioni evidenti, a pericoli in corso, mentre l’ansia compare in relazione ad eventi futuri.
Quando ci accorgiamo della presenza di un pericolo avvengono nel nostro corpo automaticamente numerosi cambiamenti, ad esempio può aumentare la frequenza del respiro, la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la sudorazione, mentre la digestione rallenta in quanto il sangue viene deviato in larga parte verso i muscoli, che diventano così pronti all’azione. In questo modo la paura predispone il corpo ad una reazione immediata: la reazione di attacco/fuga. Questa reazione, che ci permette di lottare contro il pericolo o scappare il più velocemente possibile era molto utile soprattutto per i nostri “antenati”, che trovandosi ad esempio di fronte ad animali pericolosi dovevano essere in grado di fuggire velocemente o “combattere”.
La reazione di attacco fuga, tranne in poche occasioni (ad. esempio se ci sta per investire un’automobile) oggi è poco utile, in quanto la maggior parte delle situazioni che classifichiamo come “pericolose”, non mettono in pericolo la nostra sopravvivenza fisica, ma i nostri scopi e le rappresentazioni di noi stessi e delle nostre relazioni: è poco utile ad esempio scappare velocemente se siamo di fronte al computer e abbiamo paura di redigere un documento che possa mettere a rischio il nostro scopo di essere “bravi impiegati”. Alla risposta di attacco fuga, di conseguenza, non segue un’attività fisica intensa che porterebbe alla graduale riduzione delle sensazioni fisiche tipiche della risposta di attacco fuga (alta frequenza cardiaca e di respirazione, sudorazione, ecc). Le sensazioni fisiche associate alla risposta di attacco fuga permangono e possono essere mal interpretate (ad esempio si può pensare di avere un problema cardiaco). Questa interpretazione porta quindi all’identificazione di un nuovo pericolo che va ad attivare nuovamente la reazione di attacco fuga, determinando un circolo vizioso che può esitare nel panico. In caso di attacco di panico la persona sperimenterà nel giro di dieci minuti quattro o più dei seguenti sintomi:
· Palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia;
· Sudorazione;
· Tremori fini o a grandi scosse;
· Dispnea o sensazione di soffocamento;
· Sensazione di asfissia;
· Dolore o fastidio al petto;
· Nausea o disturbi addominali;
· Sensazioni di sbandamento, instabilità, testa leggera o svenimento;
· Derealizzazione o depersonalizzazione (sentire di non essere reali o che le cose intorno a sé non lo siano);
· Paura di perdere il controllo o di impazzire;
· Paura di morire;
· Parestesie;
· Brividi o vampate di calore.
Gli attacchi di panico spaventano molto la persona che li sperimenta, che inizia a temere di poter averne altri in situazioni simili, di conseguenza può sperimentare ansia in attesa di eventi particolari o quotidiani (ansia anticipatoria) e ad evitare una serie di attività e luoghi che prima affrontava normalmente, con una conseguente e drastica riduzione della qualità della vita.
Intervenire in questi casi è possibile e la terapia cognitivo comportamentale risulta secondo molti studi di settore tra gli interventi più efficaci. In fase iniziale della terapia sarà necessaria un’accurata valutazione che permetta di ricostruire la storia di vita della persona che soffre di ansia ed attacchi di panico per individuare il percorso di apprendimento delle credenze su se stesso, gli altri e il mondoche predispongono ai disturbi d’ansia. In seguito insieme alla persona si individueranno degli obiettivi terapeutici. Molto spesso in caso di ansia ed attacchi di panico il primo obiettivo consiste proprio nell’apprendimento di modalità per riconoscere le emozioni e i loro correlati fisiologici, nonché nell’acquisizione della capacità di riconoscere e comprendere il meccanismo del circolo vizioso che porta al panico, per imparare gradualmente a riconoscere i primi segnali di ansia e gestirli diversamente, in modo tale che non portino a nuovi attacchi di panico.
DOTT.SSA FIAMMETTA MONTE - Ascoli Piceno (AP)
martedì 3 ottobre 2017
"FUORI DAL BUIO"
Incontri Formativi Gratuiti
L'Associazione INSIEME Onlus,
Ansia-Attacchi di Panico-Agorafobia con il Patrocinio del Comune di Grottammare (AP), è lieta di invitarvi a tre giornate formative gratuite.
Sala Consiliare Comune di Grottammare (AP) via Marconi, 50
14 OTTOBRE ore 15
"SINDROME E TRAUMA DA TERREMOTO:
CONSIGLI E SOLUZIONI"
- Saluto delle Istituzioni
- Introduzione ai lavori Dr.ssa Clarice Mezzaluna
- Adulti di fronte alle catastrofi naturali a breve e lungo termine Dr. Lorenzo Flori
- I bambini e la terra che trema Dr.ssa Marika Ferri
- Trattamento del post-traumatico da stress Dr.ssa Tiziana Ciccioli
- Disturbi dell’adattamento e fobie Dr. Valerio Castellucci
- Testimonianza di una psicoterapeuta nel terremoto di Teramo Dr.ssa Emanuela Nittoli
- Testimonianza di una psicoterapeuta nel terremoto di Amatrice Dr.ssa Fabiana Bizzoni
28 OTTOBRE ore 15
"I DISAGI DEL NOSTRO TEMPO"
- Stress, fattori e cause di stress e le nostre capacità di adattamento
- Le sfide quotidiane, le nostre emozioni e la nostra mente Dr. Marco Forti; Dr.ssa Marzullo Rosaria Laura
- Autostima cosa sapere e cosa saper fare nella nostra esistenza Dr.ssa Fiammetta Monte
04 NOVEMBRE ore 15
"I MALI DELL'ANIMA"
- Presentazione Associazione Insieme Onlus Presidente Elisabetta Guidotti
- Storia Associazione Intervento fondatori/collaboratori Francesca Feliziani; Maria De Flaviis
- L’esperienza nell’AISME e nel Mental Health Europe Dr. Pino Pini
- Qualità della vita e disagio relazionale Dr. Gianluigi Innocenti
- Testimonianza partecipanti e facilitatori Gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto Insieme Onlus Simona Guerri Baldini; Valeria Di Gregorio
Per informazioni:
info@insiemedap.it – www. insiemedap.it
Associazione INSIEME ONLUS
Ansia- Attacchi di Panico-Agorafobia
Sede Via Ischia I, 346 - Grottammare (AP)
info@insiemedap.it – www. insiemedap.it
Associazione INSIEME ONLUS
Ansia- Attacchi di Panico-Agorafobia
Sede Via Ischia I, 346 - Grottammare (AP)
(Bando Formazione 2016 - Progetto Finanziato dal CSV MARCHE Centro Servizi per il volontariato)
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L’impulsività e la disregolazione emotiva: come tollerare la sofferenza
L' accettazione della sofferenza è l’unico modo per non farsi sopraffare dalle emozioni negative e dall' impulsività che spesso peggiora il nostro dolore
L’ accettazione della sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire con impulsività,peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose.
Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano
Perché è utile tollerare la sofferenza
La capacità di tollerare e accettare la sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire d’impulso, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita e per questo non possono essere completamente evitati. Imparare ad accettare e a tollerare tale sofferenza è l’unico modo per non farsi sopraffare dalle emozioni.
Questo tema è stato ampiamente indagato da Marsha Linehan (docente di psicologia e psichiatria presso l’Università di Washington e specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo borderline di personalità), la quale ha ideato un programma di skills training, facente parte del modello psicoterapico DBT (Dialectical Behavior Therapy). Tale terapia è stata concepita inizialmente per il disturbo borderline, ma successivamente si è evoluta ed è stata adattata anche ad altre forme psicopatologiche, tra cui i disturbi alimentari, le dipendenze, il comportamento suicidario, la depressione resistente.
La Dialectical Behavior Therapy prevede la combinazione di una terapia individuale e di uno skills training condotto in gruppo da un conduttore e un co-conduttore entrambi esperti di terapia dialettico-comportamentale. E’ opportuno anche che ci sia uno scambio di informazioni tra il terapeuta individuale e i conduttori dello skills training per favorire una maggiore integrazione tra i due tipi di terapia.
Lo skills training prevede 4 moduli e viene attuato generalmente in un setting di gruppo. L’obiettivo è quello di favorire nei pazienti l’apprendimento di strategie più adattive per gestire le situazioni difficili. I moduli dello skills training sono relativi alla pratica della mindfulness, alla regolazione delle emozioni, all’efficacia nelle relazioni interpersonali e alla tolleranza della sofferenza emotiva. In questo articolo mi soffermerò proprio su quest’ultimo modulo.
La tolleranza della sofferenza può essere definita come la capacità di percepire l’ambiente circostante senza pretendere che sia diverso da come è e di sperimentare le proprie emozioni e riconoscere i propri pensieri osservandoli senza valutarli o controllarli (Marsha Linehan, 2015). Per poter raggiungere tale obiettivo, secondo Marsha Linhean, è necessario apprendere delle abilità definite di sopravvivenza alle crisi, che consistono in soluzioni a breve termine a situazioni particolarmente dolorose. Le abilità di sopravvivenza alle crisi è, tuttavia, opportuno che siano utilizzate solo in momenti davvero critici, di elevata intensità emotiva, quando si rischia di agire con impulsività, peggiorando le conseguenze; in un secondo momento, invece, è utile utilizzare le abilità presentate negli altri moduli della DBT per regolare le emozioni, raggiungere i propri scopi, attuare processi di problem-solving, gestire le proprie relazioni interpersonali, e quindi in ultima analisi costruire una vita degna di essere vissuta.
Nello stesso modulo Marsha Linehan presenta il tema dell’accettazione della realtàquando gli eventi risultano dolorosi, ma purtroppo non possono essere modificati, perlomeno nel breve termine. Tale percorso risulta spesso molto doloroso, ma al termine di esso è possibile sperimentare uno stato di maggiore calma e serenità. Tale concetto sarà meglio esplicato in seguito.
La capacità di tollerare e accettare la sofferenza è un obiettivo fondamentale nella vita di chiunque e soprattutto di chi, quando prova emozioni intense e dolorose, tende ad agire d’impulso, peggiorando in questo modo le situazioni che in quel momento sono già di per sé dolorose. Il dolore e la sofferenza fanno parte della vita e per questo non possono essere completamente evitati. Imparare ad accettare e a tollerare tale sofferenza è l’unico modo per non farsi sopraffare dalle emozioni.
Questo tema è stato ampiamente indagato da Marsha Linehan (docente di psicologia e psichiatria presso l’Università di Washington e specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo borderline di personalità), la quale ha ideato un programma di skills training, facente parte del modello psicoterapico DBT (Dialectical Behavior Therapy). Tale terapia è stata concepita inizialmente per il disturbo borderline, ma successivamente si è evoluta ed è stata adattata anche ad altre forme psicopatologiche, tra cui i disturbi alimentari, le dipendenze, il comportamento suicidario, la depressione resistente.
La Dialectical Behavior Therapy prevede la combinazione di una terapia individuale e di uno skills training condotto in gruppo da un conduttore e un co-conduttore entrambi esperti di terapia dialettico-comportamentale. E’ opportuno anche che ci sia uno scambio di informazioni tra il terapeuta individuale e i conduttori dello skills training per favorire una maggiore integrazione tra i due tipi di terapia.
Lo skills training prevede 4 moduli e viene attuato generalmente in un setting di gruppo. L’obiettivo è quello di favorire nei pazienti l’apprendimento di strategie più adattive per gestire le situazioni difficili. I moduli dello skills training sono relativi alla pratica della mindfulness, alla regolazione delle emozioni, all’efficacia nelle relazioni interpersonali e alla tolleranza della sofferenza emotiva. In questo articolo mi soffermerò proprio su quest’ultimo modulo.
La tolleranza della sofferenza può essere definita come la capacità di percepire l’ambiente circostante senza pretendere che sia diverso da come è e di sperimentare le proprie emozioni e riconoscere i propri pensieri osservandoli senza valutarli o controllarli (Marsha Linehan, 2015). Per poter raggiungere tale obiettivo, secondo Marsha Linhean, è necessario apprendere delle abilità definite di sopravvivenza alle crisi, che consistono in soluzioni a breve termine a situazioni particolarmente dolorose. Le abilità di sopravvivenza alle crisi è, tuttavia, opportuno che siano utilizzate solo in momenti davvero critici, di elevata intensità emotiva, quando si rischia di agire con impulsività, peggiorando le conseguenze; in un secondo momento, invece, è utile utilizzare le abilità presentate negli altri moduli della DBT per regolare le emozioni, raggiungere i propri scopi, attuare processi di problem-solving, gestire le proprie relazioni interpersonali, e quindi in ultima analisi costruire una vita degna di essere vissuta.
Nello stesso modulo Marsha Linehan presenta il tema dell’accettazione della realtàquando gli eventi risultano dolorosi, ma purtroppo non possono essere modificati, perlomeno nel breve termine. Tale percorso risulta spesso molto doloroso, ma al termine di esso è possibile sperimentare uno stato di maggiore calma e serenità. Tale concetto sarà meglio esplicato in seguito.
Cos’è una crisi e quando utilizzare tali abilità
La crisi può essere definita come una situazione particolarmente stressante, di breve durata ma che non può essere modificata nell’immediato. Essa genera un’emozione molto forte, ma se si utilizzano alcune abilità è possibile ridurre l’intensità del dolore e dell’emozione tanto da renderlo più sopportabile.
Mettendo in atto queste abilità, si evita di agire sull’onda della mente emotiva, dell’ impulsività, di peggiorare la situazione e invece si permette a se stessi di porsi nella mente saggia e di definire ciò che può essere più vantaggioso in quella determinata situazione. Un esempio di situazione critica in cui è assolutamente opportuno ricorrere a tali abilità può essere quella in cui si è assaliti da un desiderio impellente di bere, abusare di droghe o picchiare qualcuno, in quanto tali comportamenti risultano disfunzionali, peggiorano la situazione e presentano una serie di effetti contrari e negativi a lungo termine.
Le abilità per tollerare la sofferenza, senza agire con impulsività
Una prima abilità che, secondo Marsha Linehan, consente di trattenersi dall’agire con impulsività peggiorando così la situazione, è quella dello STOP che prevede diversi passi:
Stop: quando le emozioni stanno per prendere il sopravvento, è opportuno fermarsi, non reagire, non muovere nessun muscolo per cercare di conservare il controllo;
Fare un passo indietro: prendere le distanze dalla situazione e respirare profondamente è funzionale a riacquistare il controllo della situazione;
Osservare: fermarsi a guardare ciò che accade dentro e al di fuori di sé consente di non saltare alle conclusioni, di comprendere ciò che sta accadendo e di considerare le diverse opzioni;
Procedere in maniera mindful: questo passo consente di agire con consapevolezza, considerando i propri pensieri e le proprie emozioni e quelli degli altri; si agisce ponendosi nella mente saggia e chiedendosi ciò che sarebbe più opportuno fare per non peggiorare la situazione.
Un’ abilità che, invece, consente di prendere decisioni rispetto al proprio comportamento scegliendo tra 2 o più possibilità è quella dei PRO e dei CONTRO. La strategia consiste nello stilare una lista dei vantaggi e degli svantaggi dell’agire con impulsività e del resistere all’impulso sia a breve che a lungo termine. Azioni dettate dall’ impulsività potrebbero essere: mettere in atto comportamenti violenti, di abuso di alcol o sostanze oppure comportamenti autolesivi. Una volta stilata tale lista dei Pro e Contro potrebbe essere opportuno portarla con sé e rileggerla quando si sta per mettere in atto un comportamento impulsivo.
Altri comportamenti funzionali nei momenti di crisi sono quelli che agiscono sulla chimica del corpo e che abbassano il livello fisiologico di attivazione. Queste abilità consistono nel ridurre la temperatura corporea ad esempio utilizzando dell’acqua fredda, oppure nel compiere uno sforzo fisico o ancora nel rallentare il ritmo della respirazione. Infine se si ha più tempo a disposizione è possibile mettere in atto il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.
Altre abilità che consentono di porsi nella mente saggia e di ridurre il contatto con la propria sofferenza sono quelle di distrazione. Tali skills sono opportune nelle situazioni in cui il dolore può diventare troppo forte o quando i problemi non possono essere risolti immediatamente. È possibile individuare 7 diversi tipi di attività di distrazione:
Impegnarsi in attività emotivamente neutrali o opposte alle emozioni negative contribuisce a ridurre impulsività e sofferenza emotiva (ad esempio guardare un film, ascoltare della musica, leggere, praticare dello sport sono azioni che possono aiutare a distrarsi dal dolore);
Contribuire al benessere degli altri attraverso azioni gentili, premurose o di volontariato consente di spostare la propria attenzione da se stessi agli altri;
Fare confronti con chi è meno fortunato può essere funzionale a rileggere la propria situazione in un’ottica più positiva;
Un’altra abilità consiste nel mettere in atto azioni opposte, ossia azioni che generano un’emozione opposta rispetto a quella che si sta sperimentando in quel momento. Provare ad attivare emozioni diverse nelle situazioni di crisi consente di avere il controllo di sé e delle proprie emozioni, di allontanarsi per un momento da un dolore troppo forte e di rendere più sopportabile una sofferenza che altrimenti sarebbe troppo intensa;
In alcuni casi anche tenere lontana una situazione fisicamente o mentalmente può consentire di evitare di mettere in atto comportamenti distruttivi; si può immaginare di impacchettare il dolore, di chiuderlo in una scatola o di erigere un muro tra sé e quella situazione;
In altri casi può essere più funzionale distrarsi con delle azioni mentali, tra cui contare fino a 10, oppure con azioni concrete, ad esempio cantare una canzone o fare dei puzzle.
Un’ultima categoria di abilità è rappresentata da quelle che consentono di generare sensazioni fisiche differenti, ad esempio stringere una palla di gomma o un cubetto di ghiaccio o fare un bagno caldo o una doccia fredda possono indurre dei cambiamenti fisiologici repentini e contribuire a tollerare e a modificare quel momento doloroso.
Altre abilità autoconsolatorie sono, invece, quelle che consentono di sfruttare i cinque sensi per rendere più piacevole e confortante una situazione difficile, utilizzando la vista (osservare la natura, il cielo stellato, altri stimoli visivi), l’udito (ascoltare la musica, il rumore della pioggia, suonare uno strumento..), l’olfatto (sentire il profumo dell’incenso, di una candela profumata, di un fiore..), il gusto (degustare cibi preferiti) e il tatto (coccolare un animale domestico, spalmarsi della crema idratante..) contribuisce a rendere più tollerabile e piacevole la situazione presente.
Infine altre abilità funzionali a rendere meno doloroso il momento presente possono essere: immaginare di essere in un posto immaginario o reale rilassante, cercare un senso al dolore che si sta provando, pregare, dedicarsi ad attività rilassanti (quali lo yoga o la meditazione), stare sul presente e compiere solo un’azione alla volta, concedersi un breve riposo, autoincoraggiarsi e complimentarsi con se stessi per gli sforzi che si stanno compiendo.
La crisi può essere definita come una situazione particolarmente stressante, di breve durata ma che non può essere modificata nell’immediato. Essa genera un’emozione molto forte, ma se si utilizzano alcune abilità è possibile ridurre l’intensità del dolore e dell’emozione tanto da renderlo più sopportabile.
Mettendo in atto queste abilità, si evita di agire sull’onda della mente emotiva, dell’ impulsività, di peggiorare la situazione e invece si permette a se stessi di porsi nella mente saggia e di definire ciò che può essere più vantaggioso in quella determinata situazione. Un esempio di situazione critica in cui è assolutamente opportuno ricorrere a tali abilità può essere quella in cui si è assaliti da un desiderio impellente di bere, abusare di droghe o picchiare qualcuno, in quanto tali comportamenti risultano disfunzionali, peggiorano la situazione e presentano una serie di effetti contrari e negativi a lungo termine.
Le abilità per tollerare la sofferenza, senza agire con impulsività
Una prima abilità che, secondo Marsha Linehan, consente di trattenersi dall’agire con impulsività peggiorando così la situazione, è quella dello STOP che prevede diversi passi:
Stop: quando le emozioni stanno per prendere il sopravvento, è opportuno fermarsi, non reagire, non muovere nessun muscolo per cercare di conservare il controllo;
Fare un passo indietro: prendere le distanze dalla situazione e respirare profondamente è funzionale a riacquistare il controllo della situazione;
Osservare: fermarsi a guardare ciò che accade dentro e al di fuori di sé consente di non saltare alle conclusioni, di comprendere ciò che sta accadendo e di considerare le diverse opzioni;
Procedere in maniera mindful: questo passo consente di agire con consapevolezza, considerando i propri pensieri e le proprie emozioni e quelli degli altri; si agisce ponendosi nella mente saggia e chiedendosi ciò che sarebbe più opportuno fare per non peggiorare la situazione.
Un’ abilità che, invece, consente di prendere decisioni rispetto al proprio comportamento scegliendo tra 2 o più possibilità è quella dei PRO e dei CONTRO. La strategia consiste nello stilare una lista dei vantaggi e degli svantaggi dell’agire con impulsività e del resistere all’impulso sia a breve che a lungo termine. Azioni dettate dall’ impulsività potrebbero essere: mettere in atto comportamenti violenti, di abuso di alcol o sostanze oppure comportamenti autolesivi. Una volta stilata tale lista dei Pro e Contro potrebbe essere opportuno portarla con sé e rileggerla quando si sta per mettere in atto un comportamento impulsivo.
Altri comportamenti funzionali nei momenti di crisi sono quelli che agiscono sulla chimica del corpo e che abbassano il livello fisiologico di attivazione. Queste abilità consistono nel ridurre la temperatura corporea ad esempio utilizzando dell’acqua fredda, oppure nel compiere uno sforzo fisico o ancora nel rallentare il ritmo della respirazione. Infine se si ha più tempo a disposizione è possibile mettere in atto il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson.
Altre abilità che consentono di porsi nella mente saggia e di ridurre il contatto con la propria sofferenza sono quelle di distrazione. Tali skills sono opportune nelle situazioni in cui il dolore può diventare troppo forte o quando i problemi non possono essere risolti immediatamente. È possibile individuare 7 diversi tipi di attività di distrazione:
Impegnarsi in attività emotivamente neutrali o opposte alle emozioni negative contribuisce a ridurre impulsività e sofferenza emotiva (ad esempio guardare un film, ascoltare della musica, leggere, praticare dello sport sono azioni che possono aiutare a distrarsi dal dolore);
Contribuire al benessere degli altri attraverso azioni gentili, premurose o di volontariato consente di spostare la propria attenzione da se stessi agli altri;
Fare confronti con chi è meno fortunato può essere funzionale a rileggere la propria situazione in un’ottica più positiva;
Un’altra abilità consiste nel mettere in atto azioni opposte, ossia azioni che generano un’emozione opposta rispetto a quella che si sta sperimentando in quel momento. Provare ad attivare emozioni diverse nelle situazioni di crisi consente di avere il controllo di sé e delle proprie emozioni, di allontanarsi per un momento da un dolore troppo forte e di rendere più sopportabile una sofferenza che altrimenti sarebbe troppo intensa;
In alcuni casi anche tenere lontana una situazione fisicamente o mentalmente può consentire di evitare di mettere in atto comportamenti distruttivi; si può immaginare di impacchettare il dolore, di chiuderlo in una scatola o di erigere un muro tra sé e quella situazione;
In altri casi può essere più funzionale distrarsi con delle azioni mentali, tra cui contare fino a 10, oppure con azioni concrete, ad esempio cantare una canzone o fare dei puzzle.
Un’ultima categoria di abilità è rappresentata da quelle che consentono di generare sensazioni fisiche differenti, ad esempio stringere una palla di gomma o un cubetto di ghiaccio o fare un bagno caldo o una doccia fredda possono indurre dei cambiamenti fisiologici repentini e contribuire a tollerare e a modificare quel momento doloroso.
Altre abilità autoconsolatorie sono, invece, quelle che consentono di sfruttare i cinque sensi per rendere più piacevole e confortante una situazione difficile, utilizzando la vista (osservare la natura, il cielo stellato, altri stimoli visivi), l’udito (ascoltare la musica, il rumore della pioggia, suonare uno strumento..), l’olfatto (sentire il profumo dell’incenso, di una candela profumata, di un fiore..), il gusto (degustare cibi preferiti) e il tatto (coccolare un animale domestico, spalmarsi della crema idratante..) contribuisce a rendere più tollerabile e piacevole la situazione presente.
Infine altre abilità funzionali a rendere meno doloroso il momento presente possono essere: immaginare di essere in un posto immaginario o reale rilassante, cercare un senso al dolore che si sta provando, pregare, dedicarsi ad attività rilassanti (quali lo yoga o la meditazione), stare sul presente e compiere solo un’azione alla volta, concedersi un breve riposo, autoincoraggiarsi e complimentarsi con se stessi per gli sforzi che si stanno compiendo.
Le abilità di accettazione della realtà
Quando la situazione che si sta vivendo continua ad essere dolorosa e non è possibile modificarla, perlomeno nell’immediato, secondo Marsha Linehan è opportuno mettere in atto delle abilità di accettazione della realtà, che consentono di vivere una vita presente migliore di quella che si vivrebbe continuando ad ostinarsi nel voler modificare tale realtà.
Accettare la realtà significa smettere di combatterla e lasciar andare l’amarezza e la sofferenza; la realtà andrebbe accettata in ogni sua parte, in maniera completa. Ciò che è opportuno accettare è che ogni cosa ha delle cause che possono anche prescindere da se stessi, che ci sono limitazioni legate al passato o al presente e che la vita può essere degna di essere vissuta anche se vi sono eventi dolorosi. Se questi eventi negativi e immodificabili non vengono accettati si rischia di continuare a provare emozioni intense e dolorose di tristezza, vergogna o rabbia.
L’ accettazione rappresenta, dunque, l’opposto dell’ostinazione, che invece consiste nel continuare a rifiutare la realtà, nel volerla cambiare a tutti i costi, nel voler continuare a tenere il controllo della situazione. Il processo di accettazione, invece, può comportare emozioni di tristezza ma successivamente ne segue una sensazione di calma e si evita di trasformare il dolore in sofferenza ripetuta.
Accettare, tuttavia, non significa rassegnarsi o essere passivi di fronte ad eventi dolorosi; significa prendere consapevolezza delle proprie emozioni, smettere di ostinarsi contro la realtà. Se si negano o si evitano gli eventi, perché troppo dolorosi, essi non cambiano e le emozioni dolorose persisteranno a lungo. Il dolore non può essere evitato e per cambiare la realtà è necessario prima accettarla. In questo senso accettare non significa rassegnarsi.
L’ accettazione della realtà è l’obiettivo fondamentale anche della psicoterapia dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), la quale sostiene che la sofferenza non possa essere evitata e che accompagni la vita di chiunque. L’ACT si basa su 3 punti essenziali che consistono nell’ accettazione esperienziale, nella mindfulness e nell’impegno a vivere la propria vita in base ai propri valori. L’ACT è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e sostiene in generale che sia necessario combattere l’evitamento con l’ accettazione dell’esperienza e delle emozioni esperite e che ognuno abbia dei valori che guidano la propria esistenza.
La mindfulness, che viene contemplata sia nell’ambito della DBT che dell’ACT, è invece un approccio di consapevolezza alla realtà e consiste nel prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in maniera non giudicante (Jon Kabat Zinn). Avere un approccio mindful significa essere presenti nel qui e ora e vivere la ricchezza e la pienezza della vita presente, senza giudicare o pensare troppo. L’obiettivo è quello di favorire una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada e dei propri stati mentali.
Ciò che accomuna l’ACT, la DBT e la mindfulness è l’attenzione posta all’ accettazione della realtà e degli stati mentali anziché tentare di modificarli e tutti e tre gli approcci fanno parte della terza ondata della terapia cognitivo-comportamentale.
Concludendo, quando la realtà che si sta vivendo è troppo dolorosa e si rischia di mettere in atto comportamenti dettati dall’ impulsività che potrebbero peggiorare la situazione è opportuno utilizzare delle strategie di sopravvivenza alla crisi, finalizzate a tollerare la sofferenza emotiva. Inoltre, quando la realtà risulta immodificabile e al contempo genera sofferenza, anziché ostinarsi nel cercare di cambiarla, può essere più vantaggioso avviare un processo di accettazione dell’esperienza dolorosa.
Dal Sito: www.stateofmind.it
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Quando la situazione che si sta vivendo continua ad essere dolorosa e non è possibile modificarla, perlomeno nell’immediato, secondo Marsha Linehan è opportuno mettere in atto delle abilità di accettazione della realtà, che consentono di vivere una vita presente migliore di quella che si vivrebbe continuando ad ostinarsi nel voler modificare tale realtà.
Accettare la realtà significa smettere di combatterla e lasciar andare l’amarezza e la sofferenza; la realtà andrebbe accettata in ogni sua parte, in maniera completa. Ciò che è opportuno accettare è che ogni cosa ha delle cause che possono anche prescindere da se stessi, che ci sono limitazioni legate al passato o al presente e che la vita può essere degna di essere vissuta anche se vi sono eventi dolorosi. Se questi eventi negativi e immodificabili non vengono accettati si rischia di continuare a provare emozioni intense e dolorose di tristezza, vergogna o rabbia.
L’ accettazione rappresenta, dunque, l’opposto dell’ostinazione, che invece consiste nel continuare a rifiutare la realtà, nel volerla cambiare a tutti i costi, nel voler continuare a tenere il controllo della situazione. Il processo di accettazione, invece, può comportare emozioni di tristezza ma successivamente ne segue una sensazione di calma e si evita di trasformare il dolore in sofferenza ripetuta.
Accettare, tuttavia, non significa rassegnarsi o essere passivi di fronte ad eventi dolorosi; significa prendere consapevolezza delle proprie emozioni, smettere di ostinarsi contro la realtà. Se si negano o si evitano gli eventi, perché troppo dolorosi, essi non cambiano e le emozioni dolorose persisteranno a lungo. Il dolore non può essere evitato e per cambiare la realtà è necessario prima accettarla. In questo senso accettare non significa rassegnarsi.
L’ accettazione della realtà è l’obiettivo fondamentale anche della psicoterapia dell’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), la quale sostiene che la sofferenza non possa essere evitata e che accompagni la vita di chiunque. L’ACT si basa su 3 punti essenziali che consistono nell’ accettazione esperienziale, nella mindfulness e nell’impegno a vivere la propria vita in base ai propri valori. L’ACT è stata sviluppata da Steve Hayes e i suoi collaboratori nel 1986 e sostiene in generale che sia necessario combattere l’evitamento con l’ accettazione dell’esperienza e delle emozioni esperite e che ognuno abbia dei valori che guidano la propria esistenza.
La mindfulness, che viene contemplata sia nell’ambito della DBT che dell’ACT, è invece un approccio di consapevolezza alla realtà e consiste nel prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in maniera non giudicante (Jon Kabat Zinn). Avere un approccio mindful significa essere presenti nel qui e ora e vivere la ricchezza e la pienezza della vita presente, senza giudicare o pensare troppo. L’obiettivo è quello di favorire una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada e dei propri stati mentali.
Ciò che accomuna l’ACT, la DBT e la mindfulness è l’attenzione posta all’ accettazione della realtà e degli stati mentali anziché tentare di modificarli e tutti e tre gli approcci fanno parte della terza ondata della terapia cognitivo-comportamentale.
Concludendo, quando la realtà che si sta vivendo è troppo dolorosa e si rischia di mettere in atto comportamenti dettati dall’ impulsività che potrebbero peggiorare la situazione è opportuno utilizzare delle strategie di sopravvivenza alla crisi, finalizzate a tollerare la sofferenza emotiva. Inoltre, quando la realtà risulta immodificabile e al contempo genera sofferenza, anziché ostinarsi nel cercare di cambiarla, può essere più vantaggioso avviare un processo di accettazione dell’esperienza dolorosa.
Dal Sito: www.stateofmind.it
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/accettazione-sofferenza-impulsivita/
Trasformare la paura
Chi ha paura del lupo cattivo? O dell’uomo nero? Io da bambino avevo il terrore di Barbanera, il capo dei Bucanieri che in un film della Disney (con Peter Ustinov, 1967), per qualche lunghissimo istante, fissava lo spettatore accigliato e feroce, dritto dritto fin sulla poltrona del cinema. Quello sguardo burbero mi ha inchiodato e perseguitato per molte notti. Se ci ripenso …. brrrr …. ancora me lo ricordo! Chissà quante birbanterie dovevo aver combinato….
E sì, perché le paure aprono la porta al nostro lato oscuro e rimosso, quello dove gettiamo alla rinfusa tutto ciò di cui non andiamo fieri e che pensiamo sia meglio tenere lontani dal salotto buono. Anche da adulti poi, spesso le paure di oggi sono i rappresentati simbolici delle paure arcaiche e infantili più importanti: paura di perdere la sicurezza, l’amore, paura di essere abbandonati, paura di morire. Soprattutto l’ultima. Infatti la paura ha un alto valore conservativo e funzionale: se originariamente la paura ci ha protetto dalle belve feroci, oggi ci protegge dall’attraversare la strada senza guardare oppure dall’imboccare l’autostrada contromano.
La paura quindi è del tutto naturale, normale e aiuta ad evitare molti pericoli. Quelli che non hanno (o pensano di non avere) paura di nulla, possono correre rischi inutili o mettersi in pericolo senza ragione. La paura però può diventare patologica, facendo temere anche cose di cui non c’è nulla di cui aver paura e generando fobie.
Infatti, è anche vero che non sempre la paure moderne ci proteggono da un pericolo reale: prendere l’ascensore o l’aereo, entrare in un tunnel autostradale, fare la fila alla posta non sempre sono una minaccia diretta ed immediata alla sopravvivenza. Ed in effetti, osservando il fenomeno da un punto di vista epidemiologico, il numero di diagnosi che possono ricondursi alla paura e all’angoscia stanno crescendo in modo esponenziale: dallo stress alla depressione, dai disturbi ossessivi a quelli paranoidi, dalle fobie alle ansie e agli attacchi di panico. Tutti fanno riferimento fondamentalmente alla paura di qualcosa: paura di non farcela, di non essere all’altezza, paura di uscire di casa, paura degli insetti o delle malattie, paura degli sconosciuti, fino alla paura di tutto e perfino alla paura della paura.
Non lasciarsi vincere dalla paura
Riaffermato che la paura è istintiva e può essere un valido aiuto per evitare situazioni potenzialmente pericolose, quando invece è rivolta verso minacce improbabili, la paura diventa un freno che impedisce di vivere una vita piena e felice. In questi casi, perdiamo notevoli gradi di libertà, di gioia, e l’esistenza scorre tra mille paletti, ostacoli ed impedimenti. In questo articolo, mi riferisco specificatamente alle paure dovute a pericoli inverosimili, e non alle paure sane che saggiamente ci proteggono da un pericolo reale.
Paura e coraggio
L’importante è avere la capacità di affrontare la propria paura e agire anche quando si è spaventati. Se la scelta giusta è quella che spaventa, bisogna avere il coraggio di prenderla comunque, anche se spesso non è per niente facile. In questo modo la paura diventa coraggio. Sia il codardo che il coraggioso hanno paura. Il secondo è colui che sa affrontarla e utilizzarla come sprone positivo e non si lascia invece bloccare dalla paura stessa. Chi non ha paura di nulla non dimostra coraggio, ma semplice incoscienza. Chi ha più paure o fobie di altri dovrà quindi dimostrare maggiore coraggio, anche solo, nei casi più gravi, per uscire di casa ed affrontare la vita quotidiana. Si tratta di una prova che può essere molto dura da affrontare, ma che può dare dei risultati sorprendentemente positivi.
L’importante è avere la capacità di affrontare la propria paura e agire anche quando si è spaventati. Se la scelta giusta è quella che spaventa, bisogna avere il coraggio di prenderla comunque, anche se spesso non è per niente facile. In questo modo la paura diventa coraggio. Sia il codardo che il coraggioso hanno paura. Il secondo è colui che sa affrontarla e utilizzarla come sprone positivo e non si lascia invece bloccare dalla paura stessa. Chi non ha paura di nulla non dimostra coraggio, ma semplice incoscienza. Chi ha più paure o fobie di altri dovrà quindi dimostrare maggiore coraggio, anche solo, nei casi più gravi, per uscire di casa ed affrontare la vita quotidiana. Si tratta di una prova che può essere molto dura da affrontare, ma che può dare dei risultati sorprendentemente positivi.
Coabitare con la paura
Anche quando la vita è costellata da paure e angosce, rimane sempre – pur minima o ridotta – una capacità di scelta. Ad esempio, avere coraggio è una scelta: non è un evento istintivo. Anzi! Ma anche quando non si riesce ad agire con coraggio nella direzione giusta, si può ancora scegliere di fermarsi. Anche fermarsi è una scelta: non è un evento istintivo (la fuga, lo è). In altre parole, anche nei momenti più bui, esiste sempre un piccolo angolino di luce interiore, un frammento di Sè che non è terrorizzato. Esite! Cercatelo.
In questo modo, gradualmente e con molta, molta pazienza e amore, si possono evitare tutti quei comportamenti reattivi che paradossalmente – in un circolo vizioso – non fanno altro che alimentare ulteriormente la paura, l’ansia e l’angoscia.
Non farsi controllare dalla paura non vuol dire che è sempre possibile sconfiggerla o eliminarla del tutto. A volte si può riuscire egregiamente a non farsi dominare, ma al contempo, accettare che essa esiste: c’è! Sta lì, e basta. È comprensibile che vorremmo cancellarla definitivamente, ma talvolta possiamo accettare una (pur sgradevole) convivenza, e mantenendo così un ragionevole controllo sugli eventi della nostra vita.
Imparare dalla paura
La paura infatti potrebbe essere un messaggero che porta un insegnamento. Forse decodificandone il messaggio più criptico, a volte potremmo forse scoprire che essa è un Maestro di vita. Talvolta la paura può – incredibilmente – suggerirci un passaggio di crescita che fino a quel momento rimaneva oscuro e impenetrabile. E solo grazie (!?) alla paura possiamo avere la motivazione per andarlo a scoprire. Per imparare dalla paura però, come dicevo prima, dobbiamo entrarci, viverla in tutta la sua pienezza, accettandone la compagnia, almeno temporaneamente. Quanto basta per comprendere a fondo quale passaggio di crescita siamo spinti a compiere.
La paura è il contrario dell’amore
Alcuni pensatori ritengono che il contrario dell’amore non sia l’odio, ma la paura. E secondo me, non hanno tutti i torti. Chi non sa amare, spesso è solo e pieno di paure. Chi è cinico, vede sempre il nero dappertutto e pensa solo a sé, chi non ama niente e nessuno, è pieno di paure. Anche se non le confessa o è diventato bravo a non mostrarle. Non voglio sostenere che chi ha paura deve essere per forza cinico o insensibile. Ma penso veramente che la capacità di amare sia la miglior competenza da sviluppare per chi vuole trovare una soluzione autentica e profonda alle proprie paure. Chi ama con tutto se stesso è in grado di affrontare le proprie paure in modo migliore, perché l’amore gli dona il coraggio di compiere anche le decisioni difficili. Per amore si può affrontare qualsiasi cosa: si tratti dell’amore verso un’altra persona o dell’amore per noi stessi, che ci impedisce di vivere tremanti e dominati dalla paura ma ci sprona ad essere o diventare migliori. Forti del nostro amore è possibile prendere le decisioni più complesse, che sappiamo essere quelle giuste anche se ci spaventano, perché lo facciamo avendo bene in mente che stiamo agendo per il nostro bene o per quello delle persone che amiamo. L’amore può in questo senso essere una forza potentissima, in grado di sconfiggere gradualmente la paura. Ogni volta che si affronta un ostacolo e lo si supera, aumenta la nostra autostima e diminuiscono le fobie irrazionali. La paura non si può semplicemente eliminare, non si può decidere razionalmente di non avere paura. Si può fingere di non avere paura, ma questo non la farà scomparire. E’ quindi necessario affrontare la paura e trasformarla in uno stimolo positivo. Attraverso la paura si giunge al coraggio e all’amore, l’unico vero antidoto per non farsi controllare dalla paura stessa.
E io? Ho poi imparato a non aver paura del pirata Barbanera? Confesso di sì, e semplicemente ne vado fiero. Come ci sono riuscito? Ci ho fatto amicizia: e così ho scoperto che è soltanto un duro dal cuore tenero.
Anche quando la vita è costellata da paure e angosce, rimane sempre – pur minima o ridotta – una capacità di scelta. Ad esempio, avere coraggio è una scelta: non è un evento istintivo. Anzi! Ma anche quando non si riesce ad agire con coraggio nella direzione giusta, si può ancora scegliere di fermarsi. Anche fermarsi è una scelta: non è un evento istintivo (la fuga, lo è). In altre parole, anche nei momenti più bui, esiste sempre un piccolo angolino di luce interiore, un frammento di Sè che non è terrorizzato. Esite! Cercatelo.
In questo modo, gradualmente e con molta, molta pazienza e amore, si possono evitare tutti quei comportamenti reattivi che paradossalmente – in un circolo vizioso – non fanno altro che alimentare ulteriormente la paura, l’ansia e l’angoscia.
Non farsi controllare dalla paura non vuol dire che è sempre possibile sconfiggerla o eliminarla del tutto. A volte si può riuscire egregiamente a non farsi dominare, ma al contempo, accettare che essa esiste: c’è! Sta lì, e basta. È comprensibile che vorremmo cancellarla definitivamente, ma talvolta possiamo accettare una (pur sgradevole) convivenza, e mantenendo così un ragionevole controllo sugli eventi della nostra vita.
Imparare dalla paura
La paura infatti potrebbe essere un messaggero che porta un insegnamento. Forse decodificandone il messaggio più criptico, a volte potremmo forse scoprire che essa è un Maestro di vita. Talvolta la paura può – incredibilmente – suggerirci un passaggio di crescita che fino a quel momento rimaneva oscuro e impenetrabile. E solo grazie (!?) alla paura possiamo avere la motivazione per andarlo a scoprire. Per imparare dalla paura però, come dicevo prima, dobbiamo entrarci, viverla in tutta la sua pienezza, accettandone la compagnia, almeno temporaneamente. Quanto basta per comprendere a fondo quale passaggio di crescita siamo spinti a compiere.
La paura è il contrario dell’amore
Alcuni pensatori ritengono che il contrario dell’amore non sia l’odio, ma la paura. E secondo me, non hanno tutti i torti. Chi non sa amare, spesso è solo e pieno di paure. Chi è cinico, vede sempre il nero dappertutto e pensa solo a sé, chi non ama niente e nessuno, è pieno di paure. Anche se non le confessa o è diventato bravo a non mostrarle. Non voglio sostenere che chi ha paura deve essere per forza cinico o insensibile. Ma penso veramente che la capacità di amare sia la miglior competenza da sviluppare per chi vuole trovare una soluzione autentica e profonda alle proprie paure. Chi ama con tutto se stesso è in grado di affrontare le proprie paure in modo migliore, perché l’amore gli dona il coraggio di compiere anche le decisioni difficili. Per amore si può affrontare qualsiasi cosa: si tratti dell’amore verso un’altra persona o dell’amore per noi stessi, che ci impedisce di vivere tremanti e dominati dalla paura ma ci sprona ad essere o diventare migliori. Forti del nostro amore è possibile prendere le decisioni più complesse, che sappiamo essere quelle giuste anche se ci spaventano, perché lo facciamo avendo bene in mente che stiamo agendo per il nostro bene o per quello delle persone che amiamo. L’amore può in questo senso essere una forza potentissima, in grado di sconfiggere gradualmente la paura. Ogni volta che si affronta un ostacolo e lo si supera, aumenta la nostra autostima e diminuiscono le fobie irrazionali. La paura non si può semplicemente eliminare, non si può decidere razionalmente di non avere paura. Si può fingere di non avere paura, ma questo non la farà scomparire. E’ quindi necessario affrontare la paura e trasformarla in uno stimolo positivo. Attraverso la paura si giunge al coraggio e all’amore, l’unico vero antidoto per non farsi controllare dalla paura stessa.
E io? Ho poi imparato a non aver paura del pirata Barbanera? Confesso di sì, e semplicemente ne vado fiero. Come ci sono riuscito? Ci ho fatto amicizia: e così ho scoperto che è soltanto un duro dal cuore tenero.
Giampiero Ciappina
Dal Sito: www.solaris.it
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giovedì 14 settembre 2017
L’insostenibile Leggerezza del Bugiardo Patologico
Il Bugiardo compulsivo non è manipolativo o almeno non lo è apertamente. Mentre, il bugiardo patologico è colui che mente incessantemente per ottenere qualcosa e lo fa senza curarsi delle conseguenze...
FENOMENOLOGIA DEL BUGIARDO PATOLOGICO.
Vostro marito o vostra moglie, il vostro compagno o la vostra compagna, o degli amici dicono tante bugie, spesso senza avere un risvolto pratico? Beh, escludendo ogni patologia a carico del destinatario della menzogna, è possibile si possa avere a che fare con un bugiardo patologico.
Prima di entrare nel vivo del discorso è opportuno comprendere la differenza fra bugiardi patologici e bugiardi compulsivi.
Il bugiardo compulsivo non mente per raggiungere un fine specifico, ma semplicemente per abitudine e soprattutto perché mentire lo fa stare meglio rispetto a quando racconta la verità. Essere sinceri per queste persone diventa un’impresa psicologicamente difficile, così mentono su qualsiasi cosa. La bugia diventa una risposta automatica ed irrefrenabile, compulsiva appunto. Questo tipo di bugiardo, non è manipolativo o almeno non lo è apertamente. Mentre, il bugiardo patologico è colui che mente incessantemente per ottenere qualcosa e lo fa senza curarsi delle conseguenze emotive e comportamentali che questo atteggiamento può avere sugli altri.
In questo caso l’abitudine alla menzogna è vista come meccanismo per affrontare la realtà. Il bugiardo patologico è in genere manipolativo, autocentrato e ben poco empatico rispetto alla dimensione psicologica delle altre persone.
La persona che mente ha interiorizzato da così tanto tempo il meccanismo della menzogna che riesce a conviverci in modo egosintonico e difficilmente percepisce il suo modo di fare come patologico.
Il primo passo da realizzare è quindi l’autoconsapevolezza, ovvero rendersi conto di avere un problema su cui lavorare. In seconda battuta va sottolineato che, come ogni altro comportamento che offre comfort e fuga dallo stress, la menzogna può creare dipendenza e assuefazione, quindi si tratta di un qualcosa difficile da disimparare. Come per le tossicodipendenze, se non c’è una forte motivazione a smettere, è difficile che si possa approdare a cambiamenti strutturali per la persona. I bugiardi sono tanto abituati a mentire che, spesse volte, non riescono a distinguere più la realtà dalla fantasia. E’ come se la bugia andasse a sostituire la verità con dei contenuti compensatori che completano perfettamente il puzzle della realtà. Infine, la realtà stessa assume una connotazione di falsità e la bugia diventa la realtà.
La prima caratteristica che connota un bugiardo patologico è dichiararsi sostenitori della sincerità e dei valori. Si tratta di persone severamente malate, anche se appaiono normali in superficie, e il loro disturbo può provocare gravissime conseguenze a chi sta loro vicino.
Sono persone che non hanno consapevolezza della loro malattia e credono che mentire sia giusto al fine di proteggere il proprio ego per guadagnare dei benefici. Gli altri, naturalmente, ricevono dai danni gravi in risposta ai comportamenti spietatamente manipolatori, e mendaci messi in atto dal bugiardo. Fondamentalmente, si tratta di persone che sono in grado di inscenare una pantomima della realtà fino ad apparire sinceri al più attento osservatore.
A molti capita di incontrare e conoscere persone con tale disturbo; essi si presentano con grande attorialità, ipocrisia (“ipocrita”, in greco significa attore) e astuzia come persone buone e sincere, quindi utilizzano questa maschera come copertura al fine di poter mentire e raggirare con maggior efficacia. Perciò è molto difficile riconoscerli e si può facilmente diventarne vittima nelle relazioni di amicizia, di lavoro e sentimentali.
A rendere ancora più complicata la situazione è la presenza di un pervasivo disturbo di personalità, in genere narcisistico, nei mentitori patologici.
I narcisisti amano troppo se stessi per riuscire ad amare gli altri. Secondo uno studio statunitense, pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”, non sono in grado di mantenere relazioni sentimentali felici e durature. Per il “narciso”, l’amore è un gioco in cui si deve fare sempre la “parte del leone”, per mantenere sempre il potere anche a costo di mentire, tradire e umiliare il partner.
La personalità narcisistica è risultata incompatibile con la possibilità di stabilire relazioni sentimentali soddisfacenti, durature e affettivamente importanti. Infatti, nonostante sia vero che per amare gli altri bisogna prima di tutto amare se stessi, i narcisisti, in realtà, non amano veramente se stessi, ma si sopravvalutano continuamente, a spese di chi sta loro vicino.
Lo studio mette poi in guardia chi cerca un partner: “attenzione a non confondere il narcisismo con l’autostima”, perché l’autostima si concilia benissimo con la capacità di amare, il narcisismo implica necessariamente lo sfruttamento e l’umiliazione del partner. Certo, spesso i narcisisti sono estremamente affascinanti e sfuggenti, ma alla “prova del cuore” rivelano gradualmente la loro vera natura: egoisti, infedeli, manipolatori, prepotenti.
Il manipolatore relazionale è egocentrico; un vampiro psico-affettivo che si nutre dell’essenza vitale delle sue prede. Critica, disprezza, colpevolizza, ricatta, ricordando agli altri i principi morali o il perseguimento della perfezione, ma questo solo quando gli torna utile. E per raggiungere i suoi scopi ricorre a ragionamenti pseudo-logici che capovolgono le situazioni a suo vantaggio.
Spesso la sua comunicazione è paradossale: messaggi opposti in double bind, a cui è impossibile rispondere senza contraddirsi, oppure deforma il significato del discorso.
Si auto-commisera, si deresponsabilizza, non formula richieste esplicite e chiare. Non tollera i rifiuti, vuol sempre avere l’ultima parola per trarre le sue conclusioni, pur non condivise. Muta opinioni e decisioni. Soprattutto mente, insinua sospetti, riferisce malintesi . Simula somatizzazioni ed autosvalutazioni, ma dimostra sostanzialmente disinteresse affettivo.
Si tratta, insomma, di personalità disturbate e disturbanti, con cui ci si può legare sentimentalmente per venire immancabilmente destabilizzati dalla loro perfida influenza.
Concludo citando Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna. Chi è pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell’aria, tra il fantastico e il possibile, mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla ‘compassione’ verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa: la bugia.
di Francesca Fiore
Dal Sito: www.stateofmind.it
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2011/12/bugiardo-patologico/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2011/12/bugiardo-patologico/
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Comportamenti di sicurezza tra i pazienti con disturbo di panico: una nuova lista per identificarli con maggior precisione
I comportamenti di sicurezza sono poco riconoscibili poiché usati da chiunque, è il processo cognitivo che li rende modi disfunzionali per evitare il panico
I comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando.
Ansia: tra evitamento ed esposizione
La relazione tra ansia ed evitamento fobicoha ricevuto considerevole attenzione negli ultimi quarant’anni. L’evitamento e la fuga possono presentarsi in risposta a pericoli e paura, e a loro volta, tali risposte possono mantenere le credenze fobiche. Per contro, la teoria dell’apprendimento ci insegna che l’esposizione a stimoli fobici comporta la riduzione dell’ ansia. Questo processo è meglio noto come “abituazione”. L’esposizione viene ritenuta un trattamento altamente efficace per i disturbi di panico e fobia sociale.
Tuttavia, in alcuni pazienti fobici, i miglioramenti ottenuti con la sola esposizione sembrano relativamente modesti. Ad esempio, sebbene i soggetti con fobia sociale si trovino ripetutamente esposti a situazioni sociali durante la vita quotidiana, essi non sembrano mostrare una forte riduzione dell’ ansia. Si ipotizza che il fattore di mantenimento dell’ ansia siano i comportamenti di sicurezza, agiti all’interno della situazione ansiogena (Clark et al.2006).
I comportamenti di sicurezza sono quei comportamenti agiti in una situazione ansiogena, senza cui l’ ansia aumenterebbe in maniera sostanziale. Pertanto, sebbene si resti nella situazione temuta, in realtà la si sta ancora evitando. Questi comportamenti di sicurezza funzionano come un amuleto. I comportamenti di sicurezza utilizzati spesso dalle persone con attacchi di panico includono: evitare di andare in giro senza i farmaci in borsa (anche se non li prendono mai o raramente); assicurarsi di avere il cellulare con sé quando ci si allontana da casa; stare vicino all’uscita quando si prende un autobus o il treno (Nakano et al.2008).
Salkovskis e colleghi (1991) ritengono che i comportamenti di sicurezza agiti nellesituazioni ansiogene giochino un ruolo importante nel mantenere l’ ansia, nonostante l’esposizione, poiché essi impediscono alle persone di confrontarsi direttamente con la disconferma delle loro credenze catastrofiche ed irrazionali. Per esempio, un soggetto con fobia sociale che evita lo sguardo dell’altro per timore di essere notato e deriso, probabilmente pensa “sono riuscito ad evitare di essere notato e di essere considerato strano, perché ho evitato lo sguardo altrui”. Impegnarsi in comportamenti di sicurezzamette al riparo le persone dalle loro minacce percepite, compromettendo però la possibilità di scoprire quanto siano in realtà improbabili le catastrofi immaginate. Se i pazienti continuano ad usare comportamenti di sicurezza per “prevenire” il danno, il nesso logico con la minaccia percepita si rafforza e l’esposizione agli stimoli fobici finisce per distorcere ulteriormente la credenza.
Comportamenti di sicurezza e disturbo di panico
Poche ricerche si sono occupate di esaminare i comportamenti di sicurezza nel disturbo di panico. Nel caso del panico, l’attacco si manifesta come risultato dell’errata interpretazione delle sensazioni corporee che si accompagnano normalmente all’ansia, che vengono identificate come pericolose.
Salkovskis e colleghi (1996) elencarono 10 tipici comportamenti di sicurezza e chiesero a più di 100 soggetti con disturbo di panico quanto spesso ricorressero a tali comportamenti quando si sentivano ansiosi. Successivamente, correlando l’uso dei comportamenti di sicurezza con le cognizioni catastrofiche, identificarono diverse ipotetiche associazioni teoriche. Ad esempio, una persona che teme di svenire è probabile che si aggrappi a qualcosa, mentre una persona che teme un attacco di cuore si asterrà dall’esercizio fisico.
I comportamenti di sicurezza possono essere molto subdoli e idiosincratici. Ad esempio, mentre alcuni soggetti che temono le palpitazioni evitano di bere alcolici, altri possono bere per ridurre la loro ansia in pubblico. Per i primi soggetti, evitare l’alcool è un comportamento di sicurezza, mentre per i secondi il consumo di alcool è un comportamento di sicurezza. La personale visione di ciò che è catastrofico determina quale azione sia un comportamento di sicurezza. In maniera simile, alcuni soggetti preferiscono fare shopping in posti affollati, sentendosi più sicuri quando vi sono attorno molte persone disponibili, mentre altre entrano nei negozi soltanto quando vi sono pochissime persone presenti, ad esempio la mattina presto o la sera tardi, poiché possono evitare di essere visti qualora avessero un attacco di panico.
Molti comportamenti di sicurezza non sono immediatamente riconoscibili (si parla di comportamenti “covert”), come l’avere nel portafoglio abbastanza soldi per assicurarsi che siano pronti qualora succeda qualcosa, assicurarsi di portare il telefono cellulare o che qualcun’ altro sia a casa mentre il soggetto è fuori.
Tutti questi comportamenti sono normali nel senso che possono verificarsi quotidianamente nella vita di chiunque, ma è il processo cognitivo del paziente che rende queste azioni dei comportamenti di sicurezza. Per identificare correttamente i comportamenti di sicurezza “covert”sembrano essere necessari ben più di 10 elementi elencati da Salkovskis e colleghi.
Una recente ricerca, svolta da Funayama e colleghi presso l’università di Kyoto, pubblicata nel 2013, ha individuato una lista di 25 comportamenti di sicurezza più frequentemente riportati dai soggetti con disturbo di panico, e li ha correlati con i sintomi ansiosi, le situazioni agorafobiche e le risposte al trattamento di tali soggetti.
A 46 pazienti, partecipanti ad un trattamento cognitivo comportamentale di gruppo per il disturbo di panico, fu consegnata la lista di comportamenti di sicurezzasviluppata dagli autori in base alle esperienze con pazienti con disturbo di panico. La lista conteneva 25 item, a cui i pazienti potevano aggiungere ulteriori comportamenti agiti e non presenti in elenco. La lista comprendeva: portarsi dietro i farmaci, distrazione dell’attenzione, portarsi dietro una bottiglia di plastica, bere acqua, focalizzare l’attenzione su qualcosa, portarsi dietro il cellulare, assicurarsi della posizione delle uscite, cercare di stare assieme a qualcuno, cercare una via di fuga, sedersi vicino alla porta sul treno o in autobus, rimanere fermi, portare soldi extra, aggrapparsi a qualcosa, accovacciarsi, aprire la finestra, muoversi lentamente, chiudere gli occhi, leggere un libro o una rivista, spingere il carrello mentre si fa shopping, muoversi, ascoltare musica dalle cuffie, chiedere aiuto, prendere le medicine prima di uscire, tenersi a qualcuno, controllare i movimenti di braccia e gambe.
Altri comportamenti aggiunti dai soggetti furono: canticchiare a bassa voce, portarsi dietro asciugamani e salviette per le mani, portare dietro carta d’identità e patente, esporsi al vento, incrociare le gambe, bere alcol, evitare alcol, fumare, prendere più vestiti, evitare di mangiare prima di uscire, studiare la via del ritorno e controllare il calendario, guidare da soli, camminare veloci, portarsi dietro un ventaglio, portarsi dietro un piccolo snack, cercare un lavandino, incrociare le braccia, dormire, fare una doccia, evitare gli angoli della stanza, dormire a pancia in giù, guardare la tv, controllare l’agenda del partner, giocare sul cellulare, portarsi dietro un paio di slip, camminare con lo sguardo basso.
Aver dietro i medicinali (n=29), distrarre l’attenzione (n=27), portare una bottiglia di plastica (n=24) e bere acqua (n=23) furono riportati da più della metà dei pazienti. Le più forti correlazioni tra sintomi del panico e comportamenti di sicurezza furono rilevate tra l’evitare i sintomi di derealizzazione ascoltando musica con le cuffie, prevenire le parestesie spingendo il carrello durante lo shopping, evitare il senso di nausea accovacciandosi o restando fermi. L’associazione più forte tra situazioni agorafobiche e comportamenti di sicurezza fu rilevata tra la paura di prendere un autobus o un treno da soli e il bisogno di muoversi. Riuscire a rimanere fermi è indice di risposta positiva al programma di CBT, mentre il cercare di concentrarsi su altro predice una scarsa risposta al trattamento (Funayama et al. 2013).
La ricerca, sebbene limitata, ha posto le basi per lo sviluppo di linee guida nell’identificazione dei comportamenti di sicurezza tra soggetti con disturbo di panico, e potrebbe essere uno strumento d’aiuto ai clinici per fornire trattamenti CBT ancor più individualizzati ed efficaci.
Dal Sito: www.stateofmind.it
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/comportamenti-di-sicurezza-panico/
Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/comportamenti-di-sicurezza-panico/
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Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/09/comportamenti-di-sicurezza-panico/
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