mercoledì 18 novembre 2020

Cos'è e come funziona la Pet Therapy



„E' noto che sia di particolare beneficio anche a livello sociale e relazionale per tutti, ma in particolar modo per bambini, anziani o disabili“

"Nella medicina tradizionale l’efficacia della pet therapy come supporto al trattamento di diverse patologie è ormai data per assodata (in aggiunta alle normali terapie farmacologiche). Inoltre, è noto che sia di particolare beneficio anche a livello sociale e relazionale per tutti, ma in particolar modo per bambini, anziani o disabili". Attacca così una nota di Life Pet Care, che spiega cosa sia e come funziona la pet therapy, partendo dalle origini.

Come nasce la pet therapy

"Già gli antichi Egizi e i popoli Greci credevano molto nel potere terapeutico dell’interazione tra persone e animali.

Studi che contemplano la relazione tra persone e animali come forma terapeutica si ritrovano anche in Inghilterra, dalla fine del XVI secolo.

Ma a coniare il termine 'Pet-Therapy' in tempi recenti (nel 1953) fu Boris Levinson, psichiatra infantile. Levinson si accorse, infatti, che durante le sue sedute con alcuni pazienti autistici, la presenza del suo cane migliorava moltissimo la capacità di interazione e di relazione di queste persone. Nel tempo Levinson si impegnò per dimostrare l’efficacia di questo trattamento in termini di aumento di autostima e di empatia in soggetti affetti da autismo". 

Cosa è la pet therapy

La Pet Therapy (chiamata anche Aat: Animal-Assisted Therapy) è una modalità terapeutica dolce e priva di controindicazioni o effetti collaterali, che si basa sull’interazione e la relazione tra persone e animali. 

Negli anni è stato dimostrato che questa pratica comporta effetti benefici nel coadiuvare il trattamento di diversi tipi di patologie, specialmente nelle fasi di riabilitazione e convalescenza. I vantaggi sono numerosi anche per lo sviluppo dell’aspetto sociale, relazionale ed emotivo delle persone, siano essi bambini, anziani o disabili. 

Gli animali più amati per questa pratica sono soprattutto i cani, per la loro innata socialità e per l’affetto incondizionato che sanno donare a chi gli sta vicino. Anche i gatti si trovano spesso, grazie al calore che emanano tenendoli in collo e ai benefici, ormai comprovati, dell’effetto delle loro fusa.

Ma accanto ai cani e ai gatti, che restano gli animali più gettonati, nella pet therapy troviamo sempre di più anche altre tipologie di animali quali: coniglietti, porcellini d’india, criceti, pappagalli, ma anche cavalli, asini, capre, mucche e persino delfini!

Perché la pet therapy è efficace

Il grande beneficio della pet therapy deriva dal potere della relazione che si instaura tra essere umano e pet. Gli animali, infatti, sono dotati per loro natura di grande sensibilità e sanno donare in modo gratuito e libero amore, serenità e affetto alle persone che interagiscono con loro. 

Ma anche l’atto stesso di prendersi cura di un altro essere vivente, sia esso un cane, un gatto o un uccellino, genera nell’essere umano una crescita personale positiva, a beneficio non solo dello stato d’animo in termini di serenità e gioia, come elementi fondamentali in ottica di guarigione, ma anche perché rafforza le doti comunicative, sociali e sviluppa empatia e altruismo. 

Tutto questo avviene in modo molto naturale, semplice e spontaneo, perché nel relazionarsi con un animale l’essere umano lo fa senza pregiudizi, senza paure e senza meccanismi di difesa, che permettono l’instaurarsi di una relazione affettiva sana, facile e immediata. 

PER CHI È UTILE LA PET THERAPY?

La relazione con cani, gatti e altri pet contribuisce ad abbattere problemi di carattere psicologico quali depressione, ansia, stress, attacchi di panico, e insonnia. 

Sono infatti comprovati i benefici della pet therapy nella riduzione dei livelli di stress e ansia, in quanto migliora la circolazione sanguigna e regola la frequenza cardiaca. 

Ma l’efficacia è stata comprovata anche per i casi di autismo, disturbi dell’attenzione o dell’apprendimento, difficoltà psico-motorie e nevrosi. In particolare, la pet therapy si è rivelata particolarmente utile nel migliorare lo stato di malati di Alzheimer, come anche per altre tipologie di demenza senile. 

Bellissimi e sorprendenti sono poi spesso i risultati ottenuti con disabili, persone affette da patologie croniche, e in generale bambini e anziani in ottimo stato di salute, per quanto riguarda l’allenamento di capacità sociali e relazionali, nonché del buon umore. 

Proprio grazie a tutti questi benefici, oggi in Italia (come in altre parti del mondo) la pet therapy è una pratica sempre più diffusa e richiesta, specialmente nei centri medici, nelle case di riposo, ma anche in asili e centri sociali. 

Chi convive quotidianamente con il proprio pet, non potrà che confermare quotidianamente la bontà di queste relazioni!


Dal Sito: arezzonotizie.it

martedì 17 novembre 2020

Principi di psicologia spiegati da "Il Piccolo Principe"




La psicologia affascina molti, allora perché non provare a spiegarla con parole semplici e usando testi accessibili a tutti? E’ vero, il libro “il Piccolo Principe” è ormai inflazionato e non è affatto un manuale di psicologia!

Allora cosa c’entra il Piccolo Principe? Voglio sfruttare alcune sue frasi per spiegarti concetti chiave della psicologia. Lo so, è un modo molto alternativo di agire ma, come saprai, a noi di Psicoadvisor.com piace rendere le cose facili e questo libro fa al caso nostro.

Molti lo hanno letto, qualcuno lo ha apprezzato e altri si interrogano ancora sul suo significato metaforico… ma quanti si sono soffermati sul significato psicologicodi alcuni passi? In questo articolo vorrò darti qualche spunto di riflessione e magari, intanto, spiegarti qualche concetto basilare di psicologia. Premetto, però, che ilsignificato psicologico che ricavo da ogni frase è prettamente personale, inoltre, se non ti interessa “Il Piccolo Principe” salta gli aforismi e vai dritta/o ai significati.

Aforismi scelti da “Il Piccolo Principe”

Sfrutterò cinque aforismi dal libro “Il Piccolo Principe” per spiegare alcuni concetti di base della Psicologia moderna. Le farsi in esame sono quelle che seguono, il significato di ognuna sarà riportato in basso.

#1. “È molto più difficile giudicare se stessi che gli altri, se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente un saggio.”

#2. “Tutti i grandi sono stati piccoli, ma pochi di essi se ne ricordano.”

#3. E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.

#4. Amare non è guardarsi a vicenda, ma guardare nella stessa direzione!

#5. Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza.

Iniziamo a vedere il significato di ogni singola frase in chiave psicologica.

Significato e concetti chiave della Psicologia scientifica

Capire se stessi è il primo passo per imparare a vivere meglio e, lettura dopo lettura, Psicoadvisor.com vuole dare il suo “piccolo” contributo. Certo, per capire se stessi, la cosa più saggia da fare è quella di farsi seguire da uno psicologo/psicoterapeuta/psicanalista ma, intanto, ecco alcuni spunti utili che spero possano servirti. Si tratta di semplici concetti di base della psicologia che se interiorizzati bene, possono aiutarti a vivere meglio.

#1. La Metacognizione e gli errori attribuzionali

La metacognizione è quella “capacità di ordine superiore” che ci consente di osserva le nostre abilità e di valutarne il livello.

E’ effettivamente difficile valutare se stessi in modo razionale e spesso finiamo per svalutarci (bassa autostima, sindrome dell’impostore, dipendenza affettiva, scarsa autonomia, depressione) o sovrastimarci (narcisismo, effetto Dunnin-Kruger ma anche semplice arroganza…). Questa frase ci invita a sviluppare una migliore capacità metacognitiva, attuabile grazie alla possibilità di distanziarci da noi stessi, auto-osservarci e riflettere sui propri stati mentali.

E’ anche vero che spesso tendiamo lo sguardo all’esterno giudicando il comportamento degli altri senza valutare le circostanze che lo hanno indotto a comportarsi in un certo modo.

Quando dobbiamo valutare noi stessi (e un nostro comportamento), invece, tendiamo sempre a fare “attribuzioni esterne”. Cosa significa? Ecco un esempio: “mi sono comportato in un certo modo perché quella situazione mi ha indotto a compiere quella determinata azione”, in pratica valuto me stesso spiegando il mio comportamento in base alle circostanze esterne.

Al contrario, quando dobbiamo osservare il comportamento di un altro, tendiamo a giudicare “com’è”senza osservare i “fattori situazionali” e senza neanche provare a calarci nei panni dell’altro. Questo è un “bias di attribuzione”, cioè uno dei tanti errori che commettiamo nel fare inferenze su noi stessi e sull’altro. In pratica siamo portati a pensare bene di noi stessi anche quando le nostre azioni “non sono nobili” e pensare male degli altri anche quando le azioni altrui sono pari alle nostre.

#2. Ricordi e ricostruzioni

Nessuno di noi ricorda le prime tappe del proprio sviluppo. Certo, a grandi linee ricordiamo che siamo stati bambini più o meno felici o più o meno tormentati… a grandi linee sappiamo quando abbiamo imparato a parlare o scrivere… a grandi linee sappiamo molte cose ma queste non sempre coincidono con la realtà.

I ricordi sono “ricostruzioni” di un vissuto e non riflettono sempre, in modo coerente, l’impatto reale che ha avuto un’esperienza su di sé. Per esempio, molti di noi credono di aver avuto un’infanzia serena perché non accettano eventuali carenze di amore o non vogliono mettere in dubbio la figura genitoriale, così si ritrovano con problemi affettivi/emotivi che non sanno da dove provengono. Ancora, è difficile che qualcuno di noi possa soffermarsi a riflettere da dove è partito e dove è arrivato.

Illustrazione: troydeshano.com

Non tutti hanno gli stessi mezzi cognitivi, non tutti hanno le stesse risorse di partenza. Chi fa una reale analisi delle risorse che aveva a disposizione durante l’infanzia?Eppure questa analisi dovrebbe essere propedeutica all’autovalutazione ed essenziale per la costruzione dell’autostima.

Solo ricordando ciò che sei stato e da dove vieni, sarai in grado di capire realmente te stesso. 

#3. Investimenti emotivi

Il significato riportato da molti blog e riviste, riferito a questa frase del libro Il Piccolo Principe è questo: “è grazie al tempo che dedichiamo ai nostri cari che i nostri cari possono comprendere quanto siano realmente importanti per noi. Il tempo è così prezioso che tutti ne vorrebbero di più e di cui sarebbe davvero impossibile calcolare il reale valore.

Da un punto di vista psicologico la frase non parla affatto di tempo ma di risorse emotive e aspettative.

Proiezioni, attribuzioni e investimenti emotivi possono condizionare fortemente la nostra esistenza e il valore che diamo alle cose, che sia la carriera dei sogni, il partner o un legame. Significa che più investi in una relazione e più quella relazione sarà importante per te… ma significa anche che la rotta può essere invertita! Se ti concentri su un determinato fattore, quel singolo fattore avrà un impatto enorme sulla tua vita e sul tuo umore.

Non mettere tutte le uova nello stesso paniere cognitivo“, questa frase di vocazione psicologica è stata poi ripresa anche in economia per consigliare ai capitalisti di diversificare gli investimenti. Da un punto di vista psicologico questa frase vuol dire molto. Se concentri tutte le tue forze su un singolo significato, dovrai assumerti il rischio che quella “singola cosa” avrà un forte impatto sul tuo umore ed è bene diversificare. La frase in sé faceva riferimenti agli “schemi di sé” e alla propria “identità” ma calza anche in questo contesto!

Puoi investire nel tuo rapporto di coppia ma non dovrà essere la ragione della tua esistenza, puoi investire nel tuo lavoro e curarlo, ma non potrà essere il tuo lavoro a definire la tua intera esistenza… Insomma, non bisogna mai perdere di vista se stessi, anche quando si è proiettati a una bellissima rosa che sa farci sognare!

#4. I sistemi motivazionali, l’accudimento e l’attaccamento

Noi occidentali concepiamo e viviamo l’amore romantico in un modo meraviglioso ma non privo di rischi. Il rischio, qui, è fare confusione tra amore e accudimento. Sfruttando la teoria dei “Sistemi motivazionali” scopriamo che “attaccamento e accudimento” sono due sistemi motivazionali che ci guidano per sviluppare il primo rapporto con il nostro caregiver (in genere la madre). Da adulti, nelle relazioni di coppia che instauriamo, non sono gli stessi sistemi motivazionali a dover guidare la coppia. Nella coppia matura e sana, i due singoli non hanno bisogno di guardarsi l’uno con l’altro e di prendersi incessantemente cura l’uno dell’altra (accudimento/attaccamento) ma possono vivere l’incredibile favola romantica della condivisione degli intenti.

Nelle relazioni sane, di certo ci sarà accudimento e attaccamento ma questi sistemi motivazionali saranno solo marginali. Nella coppia saranno attivi sistemi più evoluti dove la reciprocità e la condivisione di intenti e di esperienze potrà coadiuvare un’unione fantastica, che non ha niente a che vedere con la dipendenza affettiva o il doversi completare mediante l’altro.

#5. Regolazione emotiva

Molte persone mettono in atto dei meccanismi di difesa per fuggire via dalla sofferenza. La sofferenza fa parte della vita, il dolore va vissuto e non schivato perché il dolore può essere occasione di crescita. Con la giusta strategia di coping, il dolore può davvero far crescere.

C’è chi evita intere primavere per paura di qualche acquazzone invernale, ne sa qualcosa il partner evitante e chi preferisce legarsi a un cucciolo (che mai potrà abbandonarlo) piuttosto che instaurare un legame profondo con un essere umano (autonomo e che viene percepito come una minaccia).  Il dolore può sopraffare, certo, ma se non perdiamo di vista noi stessi e impariamo a regolare le nostre emozioni, anche il dolore potrà essere tollerabile.

L'importante è rimanere sé stessi: stai alla larga da chi vuole cambiarti





Nel corso della vita ti capiterà molto spesso trascorrere del tempo in compagnia di altre persone: potrebbero essere la famiglia, gli amici oppure un partner. La maggior parte degli individui che incontrerai ti apprezzerà per come sei fatto, ma non è detto che sia sempre così. Infatti, capita piuttosto spesso di avere rapporti con persone che inconsciamente cercano di cambiare quello che siamo. Magari qualche piccolo dettaglio del tuo carattere non è esattamente ottimale per chi hai davanti, ma ciò non vuol dire che il tuo modo d’essere sia per forza sbagliato. Eppure, certe persone sembrano non riuscire ad apprezzare alcuni tratti che ti distinguono, inconsciamente cercheranno di smussare quello che è il tuo carattere. Ovviamente, non è per forza una cosa negativa, infatti potrebbe capitare che frequentare individui diversi ti porti a eliminare qualche difetto caratteriale che non piaceva nemmeno a te. Eppure devi prestare attenzione quando qualcuno che non sia tu stesso prova a cambiare ciò che sei: davvero sei disposto a cambiare per questa persona? 

Le persone tossiche

Purtroppo, nella maggior parte dei casi queste persone cercheranno di allontanarti anche dai tuoi sogni e dai tuoi desideri, facendoti credere che siano impossibili da raggiungere o che non ne valga la pena. Magari hai proprio incontrato una persona tossica: non è detto che sia cattiva in sé, però tenderà sempre ad assorbire quella che è la tua essenza sfibrandoti lentamente. Con il tempo finirà per assorbire ogni tua energia e ti spingerà a considerare superflui quelli che prima erano gli obiettivi di tutta la tua vita. A primo impatto queste persone sono sempre molto premurose nei nostri confronti,tanto è vero che molto spesso ce ne innamoriamo.

Con il passare del tempo però, finiscono quasi sempre per mostrare il loro vero carattere. Inizierà semplicemente a sostituire i suoi sogni ai tuoi. Ti accorgerai di aver incontrato una persona tossica quando noterai tutti i suoi atteggiamenti possessivi e manipolatori. Infatti questa tipologia di individui tende ad abusare emotivamente di chi le circonda, mistificando le situazioni al fine di apparire sempre come una vittima. Con il tempo ti sembrerà naturale rinunciare ai tuoi sogni per lasciare spazio ai loro, ma è proprio a questo punto che devi fermarti un attimo e riflettere sulla situazione. 

Cos’è più importante? I tuoi sogni o i loro? 

Cerca di notare le manipolazioni e i ricatti: ripensa ad alcune situazioni che vi hanno riguardato, eri davvero dalla parte del torto? Molto probabilmente avranno agito per eclissare completamente i tuoi desideri, posizionando i loro al centro delle tue attenzioni. Quando sarai consapevole delle dinamiche che stanno caratterizzando il rapporto tra te e la persona tossica, quest’ultima si allontanerà da sola, lasciandoti finalmente respirare. Infatti le persone possessive, quando le situazioni che vivono non riescono più a soddisfare il loro ego, se ne vanno. Devi riuscire a stabilire le tue priorità e agire di conseguenza: quando si accorgeranno che non sei più manipolabile, cercheranno una nuova vittima per appagare il loro egocentrismo. 

Se imparerai a distinguere chi hai davanti, potrai assicurarti un’esistenza piena e soddisfacente. Ecco perché devi essere consapevole che sei tu, insieme al tuo modo di essere, il centro dell’universo. Quando riuscirai a essere sufficientemente forte, potrai anche lasciare andare le persone tossiche senza nessun timore: saprai già che ti renderà felice allontanartene. I veri amici e le persone realmente importanti per la tua vita non ti daranno motivi di dubitare di loro: si prodigheranno in gesti gentili e disinteressati, saranno sempre pronti ad aiutarti e riusciranno a renderti felice senza fatica. Circondati di queste persone ed evita chi vuole cambiarti per appagare il suo egocentrismo.


Dal Sito: aprilamente.info 

Farmaci, quando smettere all’improvviso è pericoloso



Tanto più è stato lungo il trattamento tanto è più delicato il percorso per sospenderlo. In particolare bisogna «disabituarsi» al cortisone e agli antidepressivi

Smettere? A volte è la parte più difficile di una terapia. E interrompere una cura male, o al momento sbagliato, è uno degli errori più comuni. Vale una prima regola fondamentale, come spiega il farmacologo Sif Gianni Sava: «Tanto più è stato lungo un trattamento, quanto più delicato è il percorso da seguire per sospenderlo. I farmaci, per funzionare, interferiscono con l’organismo e questo deve avere tempo per riadattarsi a stare senza, per “lavarne” via pian piano gli effetti».

I farmaci «più a rischio»

Per alcuni principi attivi la necessità di scalare le dosi per «disabituarsi» è nota: i cortisonici, per esempio, vanno abbandonati gradualmente perché influenzano la produzione naturale di ormoni da parte del surrene e uno stop troppo brusco potrebbe provocare insufficienza surrenalica. «Meno conosciuta, invece, è l’importanza di interrompere una terapia con benzodiazepine in maniera controllata: spesso lo si fa cambiando farmaco e passando a prodotti con un’emivita più lunga (che cioè restano in circolo per un tempo maggiore, consentendo un “diradamento” delle pillole e quindi un abbandono progressivo, ndr)», dice Sava.

Sintomi da astinenza

L’interruzione repentina può dare infatti sintomi di astinenza come insonnia spesso associata a incubi, forte ansia fino agli attacchi di panico, tensione muscolare: una specie di “rimbalzo”, con la comparsa proprio dei sintomi per cui di solito si assumono questi farmaci. Togliere all’improvviso l’effetto inibitorio delle benzodiazepine sul cervello, a cui ci si era abituati in mesi di terapia, porta infatti a un incremento dell’eccitabilità del sistema nervoso, come se venisse a mancare un freno: poi con il tempo si torna all’equilibrio, grazie alla ripresa del funzionamento dei recettori su cui agiscono questi ansiolitici, ma i sintomi di uno stop repentino possono essere molto sgradevoli. I farmaci attivi sul sistema nervoso centrale peraltro sono quelli per cui la sospensione della terapia deve essere condotta con maggiore attenzione, sotto la guida del medico: un recente studio di Mireille Rizkalla del Department of Clinical Integration della Midwestern University di Chicago, per esempio, ha segnalato che molti pazienti possono andare incontro a una sorta di sindrome da interruzione degli antidepressivi con disturbi come insonnia, mal di testa, alterazioni sensoriali e dell’equilibrio, sintomi simil-influenzali. Per evitarli è opportuno gestire l’abbandono della terapia col medico, magari associando la riduzione progressiva dei dosaggi a una fase di maggior supporto non farmacologico con la psicoterapia.

Comunicare con il medico

«Le interruzioni brusche, soprattutto nelle patologie psichiatriche, possono portare a recidive e vanno evitate», osserva il farmacologo dell’università di Catania Filippo Drago. «In generale poi ogni sospensione di cura va concordata col medico, che deve comprendere i motivi per cui il paziente vorrebbe interrompere: sta ancora male perché la terapia non è corretta? Oppure sta bene e quindi non vede motivo per continuare? A seconda dei casi, può essere opportuno cambiare farmaco o aumentare la consapevolezza del paziente sulla necessità di proseguire il trattamento anche se non si hanno più disagi evidenti. L’alleanza col medico è sempre indispensabile per evitare errori terapeutici di ogni tipo».


Dal Sito: corriere.it

Farmaci, quando smettere all’improvviso è pericoloso



Tanto più è stato lungo il trattamento tanto è più delicato il percorso per sospenderlo. In particolare bisogna «disabituarsi» al cortisone e agli antidepressivi

Smettere? A volte è la parte più difficile di una terapia. E interrompere una cura male, o al momento sbagliato, è uno degli errori più comuni. Vale una prima regola fondamentale, come spiega il farmacologo Sif Gianni Sava: «Tanto più è stato lungo un trattamento, quanto più delicato è il percorso da seguire per sospenderlo. I farmaci, per funzionare, interferiscono con l’organismo e questo deve avere tempo per riadattarsi a stare senza, per “lavarne” via pian piano gli effetti».

I farmaci «più a rischio»

Per alcuni principi attivi la necessità di scalare le dosi per «disabituarsi» è nota: i cortisonici, per esempio, vanno abbandonati gradualmente perché influenzano la produzione naturale di ormoni da parte del surrene e uno stop troppo brusco potrebbe provocare insufficienza surrenalica. «Meno conosciuta, invece, è l’importanza di interrompere una terapia con benzodiazepine in maniera controllata: spesso lo si fa cambiando farmaco e passando a prodotti con un’emivita più lunga (che cioè restano in circolo per un tempo maggiore, consentendo un “diradamento” delle pillole e quindi un abbandono progressivo, ndr)», dice Sava.

Sintomi da astinenza

L’interruzione repentina può dare infatti sintomi di astinenza come insonnia spesso associata a incubi, forte ansia fino agli attacchi di panico, tensione muscolare: una specie di “rimbalzo”, con la comparsa proprio dei sintomi per cui di solito si assumono questi farmaci. Togliere all’improvviso l’effetto inibitorio delle benzodiazepine sul cervello, a cui ci si era abituati in mesi di terapia, porta infatti a un incremento dell’eccitabilità del sistema nervoso, come se venisse a mancare un freno: poi con il tempo si torna all’equilibrio, grazie alla ripresa del funzionamento dei recettori su cui agiscono questi ansiolitici, ma i sintomi di uno stop repentino possono essere molto sgradevoli. I farmaci attivi sul sistema nervoso centrale peraltro sono quelli per cui la sospensione della terapia deve essere condotta con maggiore attenzione, sotto la guida del medico: un recente studio di Mireille Rizkalla del Department of Clinical Integration della Midwestern University di Chicago, per esempio, ha segnalato che molti pazienti possono andare incontro a una sorta di sindrome da interruzione degli antidepressivi con disturbi come insonnia, mal di testa, alterazioni sensoriali e dell’equilibrio, sintomi simil-influenzali. Per evitarli è opportuno gestire l’abbandono della terapia col medico, magari associando la riduzione progressiva dei dosaggi a una fase di maggior supporto non farmacologico con la psicoterapia.

Comunicare con il medico

«Le interruzioni brusche, soprattutto nelle patologie psichiatriche, possono portare a recidive e vanno evitate», osserva il farmacologo dell’università di Catania Filippo Drago. «In generale poi ogni sospensione di cura va concordata col medico, che deve comprendere i motivi per cui il paziente vorrebbe interrompere: sta ancora male perché la terapia non è corretta? Oppure sta bene e quindi non vede motivo per continuare? A seconda dei casi, può essere opportuno cambiare farmaco o aumentare la consapevolezza del paziente sulla necessità di proseguire il trattamento anche se non si hanno più disagi evidenti. L’alleanza col medico è sempre indispensabile per evitare errori terapeutici di ogni tipo».


Dal Sito: corriere.it

venerdì 13 novembre 2020

Sospesi



Eh già, la sensazione è proprio quella di essere sospesi…

Alcuni la chiamano ansia da limbo, altri ansia da sospensione ma la sostanza non cambia.
Ci manca l’idea del futuro.
Siamo tutti in attesa, con la percezione del limite di non poter contare sulla nostra attitudine più allenata: progettare il futuro.

Siamo di fronte ad una nuova tipologia di stress che da acuto sta diventando cronico e per il quale è stata anche coniata una definizione ad hoc: stress da pandemia.
Uno “…stress individuale comunitario non convenzionale, sospeso, subacuto, persistente di una situazione stressante perdurante e perturbante…”(Biondi & Iannitelli,2020).
Quindi una condizione del tutto nuova se messa in relazione a quanto già conosciuto e definito nella pratica clinica.

Dicevo siamo sospesi tra l’emergenza passata e la prospettiva di un nuovo lockdown.
E la sensazione di smarrimento ci pervade: siamo in presenza di qualcosa che mentre colpisce il presente sentiamo che sta dissestando il nostro futuro.

Ma se non possiamo cambiare gli eventi, possiamo decidere come reagire.
Vulnerabilità non vuol dire impotenza e meno che mai passività!

Lo strumento adattativo per eccellenza è la mente.
Dobbiamo contare su questa preziosa alleata. È lei che orienta i nostri pensieri.
E i nostri pensieri possono essere tossici, di scarsa qualità, negativi per il nostro benessere mentale. Sono tossici quando insinuano dubbi, aspettative negative, futuro catastrofico.
La linfa ai pensieri tossici arriva dalla cosiddetta infodemia e cioè un surplus di informazioni contraddittorie, angoscianti, che vengono rimbalzate da una trasmissione all’altra per tutta la giornata, la stessa brutta notizia che ripetuta all’infinito diventa un insieme di brutte notizie e, nel replicarsi, diventa estremamente contagiosa.

L’antidoto a tutto questo? Invertire la produzione da pensieri tossici a quelli utili, di ottima qualità e per questo salutari per il nostro benessere.
Sono quelli che ci orientano al realismo, alla coerenza, alla flessibilità; gli elementi della resilienza essenziali per gestire questo insidioso stress da pandemia.

Realismo, coerenza e flessibilità devono diventare il nostro navigatore.
Il realismo ci aiuta ad ritrovare la strada nella giungla delle contraddizioni che caratterizzano le informazioni distribuite dai media.
La coerenza ci aiuta a comprendere la situazione ed usare le risorse personali.
Comprendere la situazione ci aiuta a mettere in campo strategie costruttive utili a fronteggiarla.
La flessibilità infine favorisce l’adattamento alle regole restrittive ed alle limitazioni che esse impongono.

“se comprendo cosa accade posso affrontarla, 
se posso affrontarla mi sento in grado di gestire le difficoltà”.

I pensieri utili da coltivare sono quindi legati alla consapevolezza di:
saper riconoscere cosa è verosimile e cosa non lo è,
riuscire a sottrarsi all’infodemia
poter influenzare la situazione, adottando comportamenti responsabili,
potersi impegnare ad affrontare la quotidianità,
confidare nelle proprie risorse e resistere.

È importante vivere il presente, un giorno alla volta, prendendone il meglio. Provate ad aprire la finestra, uscire sul balcone oppure fare due passi ma utilizzando i cinque sensi: guardate, ascoltate, annusate l’aria, provate a sentire il peso del corpo sui vostri passi, toccate l’aria che vi circonda tenendo le mani aperte mentre camminate… Sperimentate questo semplice esercizio  per rimanere nel presente, alleggerire e ricaricare la mente di energia.

Per fronteggiare lo stress da pandemia, è necessario creare sane routine giornaliere di self care e potenziando le nostre abitudini quotidiane.
Avere cura di se vuol dire: mangia sano, muoviti più che puoi, cura il tuo aspetto esteriore, riposati, dedica il tempo che si è liberato da altri impegni a tutto ciò che hai rimandato, che non hai mai avuto il tempo di fare.

Fai quella telefonata, che rimandi da tanto tempo, ad amici e parenti.
La socialità è parte essenziale di noi e una chiacchierata, anche se a distanza, rappresenta quella condivisione emotiva, quel conforto sociale così importante per la regolazione emotiva dello stress.

Ma se tutto questo non dovesse bastare, ricordatevi sempre della psicologia.
Chiedere aiuto esprime coraggio e realismo, consapevolezza che i limiti, se affrontati adeguatamente, diventano i nostri margini di miglioramento, mai debolezza.

 

Dal Sito: nuoto.com

Dolore al petto causato dall’ansia




I sintomi fisici dell’ansia sono molti. A volte provoca una sensazione di soffocamento e iperventilazione, altre volte può causare una cefalea di tipo tensionale e ci sono anche persone che soffrono di attacchi di panico. Tuttavia, uno dei sintomi che causa più paura è il dolore al petto da ansia.

Il problema è che molte persone confondono il dolore toracico causato dall’ansia con un infarto, aumentando così ulteriormente paura e disagio. Tuttavia, il dolore al petto è uno dei sintomi più comuni nei disturbi d’ansia, quindi è importante imparare a riconoscerlo e eliminarlo. Infatti, uno studio condotto presso l’Università del Texas ha rivelato che una persona su dieci che soffre di attacchi di panico sperimenta anche dolore al petto.

I sintomi del dolore al petto da ansia

Il dolore al petto causato dall’angoscia viene solitamente percepito come un pizzicore. Alcune persone lo percepiscono sotto forma di punture di spilli nel petto, altri provano una sensazione di oppressione, come se avessero un peso sul petto che impedisce loro di respirare.

Di solito il dolore al petto da ansia appare improvvisamente, specialmente quando la persona si sente particolarmente ansiosa, stressata o angosciata. Scompare anche abbastanza rapidamente, nell’arco più o meno di dieci minuti, anche se in alcuni casi può durare fino a un quarto d’ora, soprattutto se la persona è molto spaventata, dato che in questo modo rafforza il sintomo.

Questo sintomo di solito non compare da solo ma è accompagnato da altri sintomi dell’ansia:

– Vertigini

– Sensazione di svenimento

– Difficoltà a respirare normalmente

– Tremori

– Variazioni della temperatura corporea

– Sensazione che la situazione è fuori controllo

– Intorpidimento e sudorazione nei piedi e nelle mani

– Palpitazioni

Come differenziare il dolore al petto da stress da un attacco di cuore?

Il dolore al petto è anche uno dei sintomi tipici di angina e infarti miocardici, quindi entrambi i problemi vengono spesso confusi. Ma ci sono alcune differenze:

– Il dolore toracico dovuto all’ansia si manifesta normalmente quando siamo a riposo, mentre il dolore dovuto ad un attacco cardiaco appare di solito quando siamo attivi.

– Il dolore da attacco cardiaco si estende solitamente dal petto ad altre parti del corpo, come la mascella, le spalle e le braccia, mentre il dolore toracico causato dall’ansia è limitato alla zona toracica.

– Il dolore toracico da stress si manifesta rapidamente e poi svanisce altrettanto rapidamente come è apparso, mentre il dolore al cuore inizia lentamente e aumenta gradualmente d’intensità.

– Il dolore causato da un problema al cuore di solito persiste nel tempo e peggiora con lo sforzo fisico, mentre il dolore causato dall’ansia diminuisce rapidamente quando riusciamo a rilassarci.

In ogni caso, nel dubbio, è sempre consigliabile recarsi al pronto soccorso per sincerarsi che si tratti di un disturbo causato dall’ansia e non di un problema cardiaco.

La “buona notizia” è che uno studio condotto presso la Harvard Medical School ha rivelato che circa un quarto dei pazienti che arrivano al pronto soccorso con dolore al petto hanno in realtà una crisi d’ansia e altre ricerche realizzate presso l’Università del Missouri hanno indicato che nel 50% dei casi il dolore non ha un’origine cardiaca.

Normalmente, sapere che il dolore al petto non ha un’origine cardiaca ci rassicura momentaneamente, ma di solito non è abbastanza. Se non si riceve una spiegazione convincente e un trattamento adeguato, continueremo a soffrire e il dolore rischierà di diventare più ricorrente e cronico. Non è una coincidenza infatti che circa il 50% delle persone che soffrono di dolore al petto da ansia finiscono per sviluppare agorafobia durante il primo anno da quando hanno sofferto il primo episodio. Aumenta anche il rischio di soffrire di depressione e abuso di sostanze, di solito psicofarmaci.

D’altra parte, non dobbiamo perdere di vista il fatto che gli attacchi di panico e l’ansia fobica sono collegati ad un aumentato rischio di soffrire di una malattia cardiovascolare mortale. I meccanismi non sono stati ancora chiariti, ma potrebbe essere dovuto ai cambiamenti a livello fisiologico causati dallo stress prolungato.

Cosa causa il dolore al petto da ansia?

Il dolore toracico da stress è una risposta psicosomatica; cioè, un riflesso fisico di ciò che accade nella mente. Ma questo non significa che il dolore sia solo nella nostra mente.

L’ansia attiva la risposta fisiologica dello stress, che provoca immediatamente cambiamenti fisiologici, psicologici ed emotivi specifici che ci preparano ad affrontare la presunta minaccia.

Alcuni di questi cambiamenti includono il rafforzamento dei muscoli del corpo in modo che possano sopportare meglio il danno, inclusi i muscoli del torace. Il dolore al petto sarebbe il riflesso della prolungata tensione muscolare quando siamo ansiosi. Ma non è tutto qui.

Quando lo stress viene mantenuto nel tempo, il corpo non si riprende e rimane in uno stato di tensione costante. Ciò rende l’organismo semi-iperstimolato a causa del costante rilascio di cortisolo e adrenalina, gli ormoni dello stress. Quando il corpo rimane iperstimolato, può rispondere con sensazioni e sintomi simili a quelli che si attivano in una specifica situazione di stress.

Infatti, uno dei cambiamenti che provoca lo stress è l’iperventilazione, l’inalazione di troppo ossigeno durante la respirazione, che normalmente è dovuta alle rapide contrazioni muscolari e all’eccesso di aria nei polmoni. L’iperventilazione contrae i vasi sanguigni e contribuisce a provocare il dolore al petto perché richiede un elevato movimento della muscolatura toracica e del diaframma. Inoltre, le brevi inalazioni superficiali e costanti fanno apparire la sensazione di affogamento, che genererà maggiore attivazione nervosa e un maggior numero di inalazioni, causando un circolo vizioso.

Altre cause del dolore al petto da ansia sono le alterazioni della motilità gastrica e la dilatazione del tratto digestivo. In alcuni casi possono anche causare la compressione dei nervi del torace, o l’accumulo di gas nello stomaco, che può salire al petto causando dolore.

Trattamento del dolore al petto da ansia: 5 modi per alleviarlo immediatamente

Per trattare il dolore al petto da ansia è necessario eradicare la causa. Ciò significa che dovrai combattere l’ansia alla fonte. Pertanto, devi analizzare quali fattori esterni ed interni causano la risposta ansiosa. È un lavoro psicologico profondo in cui non solo devi analizzare il tuo stile di vita e i fattori ambientali che generano stress e ansia, ma devi anche analizzare come i tuoi modi di pensare e reagire possano esacerbare l’ansia. In alcuni casi, quando si tratta di ansia generalizzata, potrebbe essere necessario l’aiuto di uno psicologo.

Puoi anche ricorrere ad alcune tecniche che ti aiuteranno ad alleviare rapidamente il dolore al petto e ad uscire dalla situazione:

Pratica delle tecniche di respirazione. Una media di otto minuti di respirazione lenta e profonda è sufficiente perché le funzioni respiratoria e cardiovascolare si normalizzino. Appartati in una zona tranquilla e inspira contando fino a 10 e poi espira delicatamente sempre contando fino a 10. Ripetilo finché non ti senti più calmo. Esistono anche altri esercizi di respirazione che possono essere utili, devi solo trovare quello che funziona meglio per te.

Metti le cose in prospettiva. È essenziale capire che è solo dolore al petto da ansia, che non morirai e puoi riprendere il controllo della situazione quando vuoi. Si tratta di mettere le cose in prospettiva, prendendo una distanza psicologica da quello che ti sta accadendo in modo da non cadere in un circolo vizioso.

Non combattere contro i pensieri e le emozioni negative.Il primo impulso è solitamente quello di cercare di silenziare i pensieri negativi che generano ansia e respingere le emozioni spiacevoli che stai vivendo. Ma, normalmente, questa strategia è controproducente e genera ancor più ansia per ogni tentativo fallito. Pertanto, l’ideale sarebbe assumere la situazione con un atteggiamento di consapevolezza. Cioè, sii consapevole dei tuoi pensieri e delle emozioni negative ma non resistergli. Quando accetti ciò che ti sta accadendo, quei pensieri ed emozioni svaniranno da soli.

Usa la visualizzazione. Quando ti senti ansioso, prova a visualizzare un luogo che ti calmi. Questa tecnica è particolarmente utile quando non puoi lasciare il posto dove ti trovi. Più dettagli puoi visualizzare, meglio è. Se ad un certo punto perdi la concentrazione, non arrabbiarti, riporta delicatamente il tuo pensiero alla visualizzazione.

Pratica delle tecniche di rilassamento. Le tecniche di rilassamento non solo ti aiuteranno ad alleviare il dolore al petto da ansia, ma ti permetteranno anche di abbassare il livello di stress. Ci sono diverse opzioni, dalla pratica dello Yoga alla tecnica di rilassamento muscolare profonda, il Training Autogeno di Shultz o la meditazione mindfulness. Devi solo trovare quella che funziona meglio per te.

giovedì 12 novembre 2020

 I pericoli di diventare una "spugna emotiva"





Se sei una persona altamente sensibile, è probabile che quando entri in uno spazio nulla sfugga al tuo radar. Senti gli odori più sottili, noti i dettagli quasi impercettibili della stanza e, naturalmente, percepisci le sfumature emotive. Sei in grado di percepire l’energia che c’è nell’ambiente.

Di conseguenza, puoi arrivare a notare nel tuo corpo la tensione generata da ambienti carichi di stress, frustrazione o rabbia repressa. Quella sensibilità speciale, tuttavia, ha un lato oscuro perché non solo può finire per schiacciarti, ma ti rende anche una persona più vulnerabile alle dinamiche tossiche che possono essere stabilite nei tuoi circoli della fiducia più intimi e quotidiani, come la casa o il lavoro.

Le persone ipersensibili spesso diventano “spugne emotive”

Le persone che sono molto sensibili dal punto di vista emotivo possono percepire con grande chiarezza le continue ondate di tensione, preoccupazione, frustrazione, tristezza o rabbia che gli altri emanano. Quella speciale sensibilità li rende più vulnerabili agli stati emotivi di coloro che li circondano, diventando una sorta di “spugna emotiva” che assorbe la negatività che c’è intorno a loro.

Se sei una persona iperempatica, non è strano che finisca per essere il serbatoio delle tensioni passive-aggressive degli altri. Senza rendertene conto, diventerai una sorta di “assistente emotivo” per gli altri. O, nel peggiore dei casi, nel loro capro espiatorio o nel sacco da boxe.

Poiché l’ipersensibilità emotiva si manifesta dai primi anni di vita, è probabile che fin dalla tenera età sei diventato l’assistente emotivo dei tuoi genitori e da adulto hai assunto il ruolo di assistente emotivo del tuo partner. Questa estrema sensibilità è ciò che ti porta ad assumere il ruolo di assistente di tutte quelle persone che non sono cresciute emotivamente e non sanno come gestire i loro stati affettivi.

Certo, è naturale che le esperienze emotive degli altri ci influenzino. Se notiamo che qualcuno è triste, avremo la tendenza a offrirgli conforto e sostegno. Se qualcuno è arrabbiato, proveremo a calmarlo. Regoliamo le nostre emozioni e comportamenti in base a ciò che provano gli altri per rispondere in modo assertivo.

Ogni volta che proviamo ad aiutare qualcun altro a regolare le sue emozioni, incoraggiandolo o rassicurandolo, mettiamo in pratica ciò che viene detta “regolazione emotiva estrinseca”. In altre parole, prendiamo il “controllo” delle sue emozioni e proviamo a dargli un orientamento più positivo. Non è una cosa negativa.

In effetti, se sei molto sensibile, probabilmente ti sentirai costretto a migliorare le cose, anche se a volte non ne sei pienamente consapevole. Se percepisci che l’energia emotiva di una persona è bassa, farai una battuta per rallegrarla. Quando percepisci dello stress, metti da parte la tua ansia e diventi l’ancora sicura a cui gli altri possono aggrapparsi. Se prevedi un’esplosione di rabbia, rimani in silenzio e provi a calmare la tempesta.

Ma in alcuni casi, l’impulso di “prendersi cura” degli altri può diventare così intenso che ti togli potere o assumi un ruolo da incompetente per soddisfare il bisogno dell’altro di sentirsi forte o di credere che ti protegga, quando in realtà accade il contrario. Senza rendertene conto, finisci per diventare il “regolatore emotivo” degli altri, a costo delle tue stesse emozioni, mettendo da parte i tuoi bisogni e relegandoli ad un secondo o terzo piano. E questo non è positivo. Soprattutto se diventa uno schema comportamentale che si mantiene nel tempo.



Identificazione proiettiva: la caduta delle ombre

Molte persone, quando hanno una carica emotiva che non sono in grado di accettare e gestire, semplicemente la proiettano verso l’esterno. È ciò che Melanie Klein chiamava “identificazione proiettiva”.

L’identificazione proiettiva è un meccanismo di difesa che funziona a livello inconscio in cui una persona scarica sugli altri i sentimenti e/o qualità che rifiuta in se stesso. In questo modo, la persona finisce per proiettare la propria impotenza, rabbia, frustrazione o persino invidia sugli altri semplicemente perché ripudia quei sentimenti e non li accetta come propri.

Le persone emotivamente ipersensibili sono a rischio di diventare delle “spugne emotive” che assorbono tutta la rabbia, la vergogna, la tristezza o l’ansia che gli altri non sono in grado di gestire. Sono più propensi a percepire questi sentimenti proiettati e, senza accorgersene, finiscono per “digerirli” al posto degli altri.

Il problema è che nei casi di identificazione proiettiva, la persona che proietta quelle emozioni o qualità rifiutate desidera che chiunque le assuma, senta e si comporti secondo quella fantasia proiettiva. Ciò significa che questo meccanismo ha sia un lato “attributivo” che uno “acquisitivo”, in modo che chiunque agisca da spugna emotiva possa finire per assumere i sentimenti e le qualità altrui come propri.

Nelle famiglie, ad esempio, l’identificazione proiettiva può acquisire un carattere cronico ed essere particolarmente problematica poiché erode il senso d’identità della persona che assume queste proiezioni come proprie. Attraverso una manipolazione diretta o sottile, può finire per credere di essere debole o insensibile, quando in realtà è esattamente il contrario. In pratica, assume il ruolo che gli altri gli hanno assegnato. E questo finirà per erodere la sua identità.

Come affrontare l’identificazione proiettiva se si è emotivamente sensibili?

Comprendere che la tua sensibilità ti ha reso il serbatoio delle proiezioni delle ombre degli altri può essere doloroso, ma ricorda che trascinare quella relazione tossica per anni è ancor più dannoso.

Essere consapevoli di ciò che sta accadendo è il primo passo per liberarsi e smettere di comportarsi come una spugna emotiva. Questa dinamica di rilascio può essere complicata poiché la tua parte protettiva e sensibile può sentirsi in colpa ed è probabile che tu voglia continuare a negare ciò che accade.

Tuttavia, non si tratta di cercare dei colpevoli, ma di riconquistare la tua libertà. Devi capire che, anche se sei una persona emotivamente sensibile, non hai l’obbligo di gestire sempre le emozioni degli altri.

In effetti, assumere le emozioni che gli altri non vogliono gestire non le aiuta, ma impedisce loro di crescere. Impedisce loro di riconoscere le loro ombre e assumere le loro responsabilità. Invece, devi imparare a fissare dei limiti, dire di no e, soprattutto, rifiutare di integrare quelle proiezioni tossiche perché non fanno davvero parte di te.

Fonti:

Nozaki, Y. & Mikolajczak, M. (2019) Extrinsic Emotion Regulation. Emotion; 20(1): 10-15.

Klein, M. (1996) Notes on some schizoid mechanisms. J Psychother Pract Res; 5(2): 160–179.


Paura di guidare: cause, sintomi e come superare l'amaxofobia





Ogni persona ha le proprie paure. C'è chi teme l'altezza, chi il buiole malattie o addirittura la morte. Qualsiasi paura è scaturita da una causa ben precisa che, però, non sempre si conosce. Tuttavia, risalire a questa origine risulta molto spesso la chiave per affrontare una volta per tutte tale fobia. Per esempio, lo sapevi che esiste persino la paura di amare, chiamata, dai più esperti in termini tecnici, filofobia?

Oggi, invece, scopriremo meglio una fobia che si dà troppo per scontata, ovvero la paura di guidare. Non tutti coloro che ne soffrono lo fanno per gli stessi motivi: infatti, anche se i sintomi presentati sono quasi sempre gli stessi, ci possono essere molteplici cause dietro di essa. Fortunatamente, ci sono vari modi per vincere l'amaxofobia, a seconda della sua intensità, dei suoi sintomi e anche della sua origine.

Che cos'è l'amaxofobia?

Il termine amaxofobia deriva dal greco amaxos, ovvero carro, e da phobia, che significa, appunto, paura. Essa consiste nella paura di condurre un veicolo che, ai giorni d'oggi, si traduce con la paura di mettersi alla guida. Di solito si riscontra questa fobia in persone appartenenti a diverse fasce d'età, andando dai neo patentati agli adulti con più esperienza. Benché ne possano soffrire sia gli uomini che le donne, si sono constatati più casi tra la popolazione femminile.

Si può distinguere la leggera ansia tipica di chi ha appena preso la patente dall'amaxofobia vera e propria in vari modi. Innanzitutto, lo stress dei neopatentati si attenua dopo qualche mese, soprattutto esercitandosi continuamente nel guidare l'auto e perfezionando la guida nelle strade più "difficili", come le autostrade o quelle a scorrimento veloce. Poi, si riconosce la paura di guidare dal livello d'ansia sproporzionato rispetto alle circostanze. Infine, chi ha questa fobia tende a rinunciare sempre di più al mettersi al volante. Molto spesso, gli amaxofobici si precludono alcune occasioni, di svago o di lavoro, oppure affrontano un viaggio decisamente più complesso piuttosto che prendere la loro macchina e guidare.



I sintomi della paura di guidare

Quando si ha una forte paura di mettersi al volante, generalmente si riscontrano gli stessi sintomi psico-fisici di qualsiasi altra fobia. Innanzitutto, si può notare un'accelerazione del battito cardiacovertigini, brusco aumento della sudorazione e respiro affannato. Inoltre, il senso d'ansia che ci assale quando abbiamo molta paura di qualcosa si può ripercuotere sul tratto gastro-intestinale, scaturendo episodi di nausea, diarrea e altri disturbi gastrici.

Nei casi più gravi, l'amaxofobia porta le persone che ne soffrono a veri e propri attacchi di panico. Soprattutto in una situazione del genere, la paura di guidare non è da sottovalutare, a maggior ragione se il veicolo, macchina o moto che sia, è già in movimento, anche a una bassa velocità.


Le cause

Come abbiamo già accennato, conoscere le cause dietro all'amaxofobia è di grande aiuto per cercare di affrontare e vincere questo timore. Innanzitutto, è importante capire se tale paura sia legata anche a dei fattori esterni oppure al semplice fatto di stare alla guida.

Cause esterne alla guida

Per esempio, ci sono persone che hanno paura di guidare al buio e, quindi, in questo caso l'amaxofobia si unisce alla nictofobia, ovvero al timore delle tenebre. Altre volte, prevale la claustrofobia dovuta a tratti stradali al chiuso come le gallerie oppure al senso di sovraffollamento causato dal traffico dell'ora di punta. Infine, chi soffre di vertigini potrebbe avere paura di guidare sui ponti, sui cavalcavia e persino sui tornanti in montagna.

Cause interne alla guida

Poi, seguono tutti quei fattori che riguardano, invece, l'azione di stare dietro al volante. In tali circostanze, la paura di guidare è riconducibile molto spesso a un trauma. Aver subito un incidente come guidatore o come passeggero, averne visto uno mentre si passeggiava o si guidava o persino aver avuto un familiare o un amico coinvolto in una tragedia della strada è una delle cause principaliche portano una persona a temere la guida di una macchina o di qualsiasi mezzo in generale.

Qualora non si fosse vissuto nessun incidente o episodio traumatico di questo tipo, allora l'origine dell'amaxofobia è del tutto psicologica ed è legata all'aspetto simbolico dell'atto della guida. Gli esperti dicono che questi amaxofobici temono di prendere il controllo su qualcosa che, nella situazione presa in esame, è identificato con un'auto o una moto. In realtà, tale paura è più ampia e consiste nel timore di assumersi delle responsabilità nella vita ediventare indipendenti.

A tutto ciò si aggiunge anche la preoccupazione di fare incidenti, di sbagliare una manovra mentre si è al volante o di perdere il controllo del mezzo dovute magari a critiche che sono state fatte mentre si stava imparando. Infatti, non c'è cosa peggiore di un insegnante o un parente che critica costantemente il neo guidatore e che lo fa sentireinsicuro di sé e delle proprie capacità.

Come superare la paura di guidare

Abbiamo fatto notare come le cause dietro alla paura di guidare siano molteplici e, per questo, non si può indicare un solo modo per affrontare e vincere l'amaxofobia. Tuttavia, se ne soffri, noi ti consigliamo di seguire questi semplici suggerimenti che ti possono essere d'aiuto per riprendere confidenza con la macchina o un altro mezzo di trasporto che hai smesso da tempo di guidare. Qualora non ti sentissi ancora sicura, non rischiare: affronta l'argomento con uno psicologo o psicoterapeuta. Saprà appoggiarti nel superare questa fobia con calma e cercando di scoprire da che cosa sia stata scaturita.

1. Fai ricorso a delle tecniche di rilassamento

Anche nel caso di altre paure, le tecniche di rilassamento possono aiutare ad affrontare meglio l'ansia. Ce ne sono di vari tipi: si va dalla meditazione allo yoga al mindfulness. Tutte queste discipline coniugano l'esercizio fisico al controllo della respirazione e si rivelano perfette per la gestione di ansia e stress. Infatti, se fatte correttamente, aiutano a contrastare i pensieri negativi e a portare energie positive. Mentre si guida, bisogna essere ottimisti e non pensare in continuazione che si potrà causare o essere coinvolti in un incidente.

Se riuscirai ad allontanare le negatività grazie alle tecniche di rilassamento, potrai notare quanto sia piacevole stare al volante: una sensazione di libertà e indipendenza davvero unica.


2. Scegli un accompagnatore (ma solo per le prime volte!)

Se è da molto tempo che non guidi, puoi o rifare qualche lezione con il maestro di scuola guida oppure chiedere aiuto a un tuo parente o amico. L'importante è che questa sia solo una fase: non potrai sempre guidare in compagnia di qualcuno, altrimenti non lo farai mai in maniera autonoma. Ti consigliamo di far sedere per le prime volte l'accompagnatore accanto a te e, successivamente, di farlo passare sul sedile posteriore. Tutto ciò ti permetterà di assumere più confidenza nelle tue capacità.

3. Ricomincia a guidare poco alla volta

Quando ti rimetti alla guida, scegli un percorso semplice. Inizia con dei giri attorno all'isolato di casa tua. Poi, estendili di qualche chilometro, guidando nelle zone che conosci meglio, così da non avere ulteriore ansia nel controllare la strada. Solo quando avrai acquisito più dimestichezza, passa alle strade a scorrimento veloce, come tangenziali e autostrada, oppure a quelle con più traffico. Fai sempre tutto per gradi, senza esagerare e controllando il tuo livello d'ansia.

4. Crea un'atmosfera serena in macchina

Può sembrare strano, ma l'atmosfera in auto fa molto. Se si tiene il veicolo pulito e in ordine, si avrà più voglia di entrarci e di metterlo in moto. Per questo motivo gli esperti si raccomandano di "prendersi curadella propria macchina, così da creare un ambiente di comfort non solo in casa, ma anche nel nostro mezzo personale.

Ovviamente, puoi trovare questa sensazione di calma e serenità come preferisci. Potresti iniziare con mettere un diffusore per auto della tua fragranza preferita e a scegliere le playlist o i cd con le canzoni che ti piacciono di più. Tutto questo ti aiuterà a rilassarti e a sentirti a tuo agio.


5. Chiedi aiuto a un esperto

Come per tutte le altre fobie, quando si raggiungono dei livelli alti, con magari episodi di attacchi di panico, e quando non si riescono più a gestire gli effetti collaterali, allora la scelta migliore è quella di consultare un professionista. Lo stesso vale per la paura di guidare.

Nel caso in cui essa sia dovuta a untrauma e al conseguente disturbo post-traumatico da stress, è opportuno seguire un percorso di psicoterapia con lo scopo di modificare i pensieri negativi dovuti all'evento traumatico e riacquistare fiducia in te stessa e nelle tue capacità.

Se, invece, la tua amaxofobia è dettata da ansia non di natura traumatica, allora puoi ricorrere a una terapia cognitivo-comportamentalesempre seguita da uno psicologo o da uno psicoterapeuta. Attraverso delle tecniche di rilassamento e a un lavoro di desensibilizzazione della paura, è possibile ricreare gli scenari della guida e persino essere affiancati dallo specialista per i primi giri di prova.


Dal Sito: alfemminile.com




martedì 10 novembre 2020

Burnout (Sindrome da Burn-Out): Cos’è? Cause, Sintomi e Terapia






Il burnout è un insieme di sintomi che deriva da una condizione di stress cronico e persistente, associato al contesto lavorativo.

La sindrome da burn-out dipende dalla risposta individuale ad una situazione professionale percepita come logorante dal punto di vista psicofisico. In tale contesto, l'individuo non dispone di risorse e strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiare questa sensazione di esaurimento fisico ed emotivo.

Pertanto, il lavoratore che ne è soggetto, arriva al punto di "non farcela più" e si sente completamente insoddisfatto e prostrato dalla routine quotidiana. Nel tempo, il burnout può condurre ad un distacco mentale dal proprio impiego, con atteggiamento di indifferenza, malevolenza e cinismo verso i destinatari dell'attività lavorativa. Il burnout non va sottovalutato, considerandone i sintomi passeggeri e poco importanti: la demoralizzazione e la negatività per il proprio contesto possono sfociare, talvolta, nella depressione e in altri disturbi più complessi da affrontare.

Le strategie per superare la sindrome da burn-out sono diverse e comprendono la psicoterapia cognitivo comportamentale, la modifica delle abitudini lavorative e l'adozione di misure utili a contrastare lo stress nella quotidianità.

Cos’è

Cos'è il Burn-out?

"Burn out" è un termine di origine inglese che letteralmente significa "bruciato", "esaurito" o "scoppiato".  Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il burnout è una sindrome derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo, che non riesce ad essere ben gestito.

La sindrome del burnout è caratterizzata da una serie di fenomeni di affaticamento, delusione, logoramento e improduttività che sfociano in prostrazione e disinteresse per la propria attività professionale quotidiana.

Il Burnout è una sindrome

Nel maggio 2019, il burnout è riconosciuto come "sindrome" e, come tale, è elencato nell'11esima revisione dell'International Classification of Disease (ICD), il testo di riferimento globale per tutte le patologie e le condizioni di salute. L'Organizzazione Mondiale della Sanità definisce il burnout come un "fenomeno occupazionale" derivante da uno stress cronico mal gestito, ma specifica che non si tratta di una malattia o di una condizione medica.

Cosa non è il Burnout

Il burnout si riferisce soltanto al contesto lavorativo e, per definizione, non deve essere esteso ad altri ambiti della propria vita. Questo fenomeno occupazionale non va confuso, inoltre, con disturbi specificamente associati allo stress, come nel caso, ad esempio, del disturbo post-traumatico da stress, nonostante alcune manifestazioni possano essere condivise.

Non si può parlare di burnout, quindi, se:

Si è affetti da stress cronico in altre situazioni, come quelle familiari o relazionali;

Si soffre di:

Disturbi d'ansia e fobiespecifiche;

Disturbi dell'adattamento;

Disturbi dell'umore, fra cui la depressione.

Non si tratta di burnout quando lo stress lavorativo è solo temporaneo, prevedibile e limitato nel tempo e le reazioni all'impegno psicofisico regrediscono con brevi pause di recupero.

Cause e Fattori di Rischio

Burnout: quali sono le cause?

Il burnout va inteso come un processo multifattoriale che riguarda sia i soggetti (variabili individuali, come sesso, età e stato civile), che la sfera organizzativa e sociale nella quale lavorano. Questa forma di esaurimento è determinata da una condizione di stress cronico inserito in un contesto lavorativo e/o derivante da esso, nella quale viene percepito uno squilibrio tra richieste-esigenze professionali e risorse disponibili.



La sindrome da burnout è sostenuta, quindi, da un vissuto di demotivazione, delusione e disinteresse. I ritmi intensi, le richieste pressanti e la responsabilità lavorativa in combinazione alla tendenza ad identificarsi con la propria professione, determinano spesso un grande investimento di energie e risorse che, nel tempo, può facilitare la comparsa di questa forma di esaurimento.

Variabili individuali

Fattori socio-demografici

Età: alcuni esperti del settore sostengono che l'età avanzata costituisca uno dei principali fattori di rischio di burnout; altri ritengono, invece, che i sintomi siano più frequenti nei giovani, le cui aspettative sono deluse e stroncate dalla rigidezza delle organizzazioni lavorative;

Stato civile: persone senza un compagno stabile sembrano essere più vulnerabili a sviluppare questa forma di esaurimento psico-fisico.

Differenza di genere: le donne sarebbero più esposte degli uomini al pericolo di soffrire di burnout.

Caratteristiche di personalità

Tendenza a porsi obiettivi irrealistici;

Personalità autoritaria o introversa (incapacità di lavorare in team);

Concetto di sé come indispensabile;

Abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale;

Motivazione ed aspettative professionali elevate.

Fattori socio-ambientali e lavorativi

Un ambiente di lavoro non favorevole può portare a manifestazioni psico-fisiche, con un significativo impatto negativo sul benessere della persona. Il burnout può essere correlato a diverse componeneti della sfera lavorativa, di tipo organizzativo o correlati alla comunicazione e alla sicurezza sul luogo di lavoro, come:

Le aspettative connesse al ruolo:

Carico eccessivo di lavoro: se superiore alla capacità dell'individuo di farvi fronte può predisporre al burnout;

Mancanza di controllo sulle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro: sembra esservi un'associazione tra il burnout e la carenza di autonomia per attuare l'attività nella maniera che ritiene più efficace o le abilità di assumersi la responsabilità di decisioni importanti;

Valori contrastanti: l'incongruenza tra i valori dell'individuo e dell'organizzazione può tradursi nella pressione di una scelta tra ciò che si vuole fare e ciò che, invece, si deve fare;

Attività inadeguate rispetto alle competenze del lavoratore o aumento di responsabilità, senza la giusta compensazione;

Le relazioni interpersonali:

Difficili interazioni con colleghi o clienti;

Frequenti conflitti nella programmazione del lavoro o interruzioni;

Le caratteristiche dell'ambiente di lavoro:

Politiche sanitarie e di sicurezza inadeguate;

Bassi livelli di supporto ai lavoratori;

L'organizzazione stessa del lavoro:

Comunicazione e gestione insufficiente;

Compiti e obiettivi poco chiari;

Programmi che cambiano spesso;

Orari inflessibili e scadenze irrealistiche;

Partecipazione limitata o scarsa nei processi decisionali della propria area di lavoro.

A queste situazioni, si aggiungono:

Mancato riconoscimento (sia sociale, che economico) del risultato;

Assenza di equità (cioè la percezione di onestà e correttezza che favorisce soddisfazione e motivazione);

Presenza di rischi alti, come per i soccorritori o gli agenti di pubblica sicurezza;

Mobbing e molestie psicologiche.

Burnout: chi sono i soggetti più a rischio?

Inizialmente, la sindrome del burnout è stata correlata alle cosiddette "helping professions", cioè le professioni sanitarie e assistenziali che prevedono un contatto con le persone o deputate alla difesa, alla sicurezza pubblica ed alla gestione delle emergenze: infermieri, medici, insegnanti, assistenti sociali, operatori per l'infanzia, poliziotti e vigili del fuoco.

In seguito, si è riconosciuto che il burnout può associarsi a qualsiasi contesto lavorativo in cui esistano forti condizioni stressanti e pressanti (come, ad esempio, può accadere per le posizioni di grande responsabilità lavorativa) o implicazioni relazionali molto accentuate (es. avvocato, ristoratore, politico, impiegato delle poste, segretaria ecc.).

Sintomi e Conseguenze

Sindrome da Burnout: come si manifesta?

La sindrome del burn-out caratterizzata da un rapido decadimento delle risorse psicofisiche e da un peggioramento delle prestazioni professionali.

Il burnout non si manifesta quasi mai in modo improvviso, ma è il risultato di un processo graduale che si sviluppa nel tempo. All'inizio, il lavoratore si trova a sostenere con forte impegno le mansioni che gli vengono assegnate, allo scopo di mantenere le proprie capacità di rendimento. Tuttavia, il forte carico di lavoro associato a poche fasi di riposo può tradursi in un vero e proprio sfinimento psichico.

Nella maggior parte dei casi il burnout, si sviluppa in modo subdolo: spesso, chi ne soffre non se ne accorge e considera normali i primi campanelli d'allarme, come insonnia, cefalea, mal di stomaco, insofferenza per i turni e poca motivazione per lo svolgimento dell'attività lavorativa.

Un segno caratteristico del burnout è che il lavoratore non riesce a recuperare nonostante le possibilità di riposo (la sera, nel fine settimana, in vacanza ecc.).



Caratteristiche del Burn-out

Le manifestazioni della sindrome da burnout sono numerose e varie, ma tre caratteristiche sono sempre presenti:

Senso di esaurimento o depauperamento delle energie

L'esaurimento emotivo è il sintomo centrale del burnout e consiste nel sentimento di essere svuotato e annullato dal proprio lavoro. Le persone colpite si sentono sfinite sul piano emotivo, fisico e mentale.

Aumento della distanza mentale dal proprio lavoro

Nel burnout, si manifesta un atteggiamento di distacco mentale dalle proprie mansioni con aumento dell'isolamento dal proprio lavoro con ridotta efficacia professionale. Inoltre, sono presenti sentimenti di negativismo o cinismo relativo al proprio impiego e nei confronti delle persone che richiedono o ricevono la prestazione o il servizio (colleghi, clienti, superiori).

Ridotta efficacia professionale

La ridotta realizzazione personale, la percezione della propria inadeguatezza al lavoro, la caduta dell'autostima e il sentimento di insuccesso nel proprio lavoro si traducono nel calo dell'efficienza personale: il lavoratore percepisce di diventare sempre meno efficiente, nonostante si impegni di più nelle proprie mansioni.

Burnout: sintomi fisici, psicoemotivi e comportamentali

Rispetto alla routine lavorativa quotidiana, il burnout si rende evidente con le seguenti manifestazioni psicologiche e comportamentali:

Mancanza di iniziativa;

Difficoltà a portare a termine i compiti;

Distacco emotivo e ridotto interesse verso il proprio lavoro;

Difficoltà nelle relazioni con gli utenti;

Demotivazione;

Alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno;

Rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento;

Cinismo e atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti;

Assenteismo;

Depersonalizzazione;

Senso di frustrazione.

Dal punto di vista emotivo e cognitivo, i sintomi del burnout comprendono:

Difficoltà di concentrazione;

Bassa stima di sé;

Senso di colpa, fallimento, rabbia e risentimento;

Agitazione, irritabilità e nervosismo;

Infelicità;

Pianto frequente;

Indecisione;

Mancanza di attenzione;

Difficoltà a pensare in modo chiaro;

Mancanza di creatività;

Preoccupazione costante.

Per quanto riguarda i sintomi fisici, il burnot comporta:

Stanchezza;

Insonnia;

Tachicardia;

Mal di testa;

Nausea;

Inappetenza;

Dolori e problemi digestivi;

Senso di soffocamento;

Tremori;

Sudorazione alle mani;

Mal di schiena e tensioni muscolari;

Vertigini;

Ipertensione;

Disturbi sessuali o riproduttivi.

Complicanze

La sindrome da burnout è una situazione di forte disagio per il soggetto e può comportare diverse conseguenze nella vita quotidiana dell'azienda. Gli effetti negativi del burnout si ripercuotono, infatti, nell'ambiente di lavoro e finiscono con il coinvolgere anche l'utenza, a cui viene offerto un servizio inadeguato. Il lavoratore dimostra di non tollerare colleghi, clienti e superiori con insofferenza, atteggiamenti critici, aumento della conflittualità e altri comportamenti negativi.

Il burnout può condurre, inoltre, il soggetto ad un abuso di alcol, cibo, farmaci o sostanze psicoattive. Se non s'interviene, si possono verificare isolamento, autolesionismo e impoverimento della vita di relazione, disturbi d'ansia, crisi di panico e depressione.

Diagnosi

Come viene stabilita la diagnosi di burnout?

La diagnosi del burnout è stabilita da un professionista competente in materia (medico del lavoro, psichiatra, psicologo ecc.) quando il soggetto manifesta i sintomi fisici, psicologici e comportamentali tipici della sindrome.

Per comprendere l'entità della patologia e stabilire un adeguato piano di intervento, vengono intrapresi dei colloqui, per raccogliere informazioni relative al livello di compromissione delle funzioni generali ed alle caratteristiche con cui si manifesta il burnout (da quanto tempo e con quale intensità). Questa valutazione ha, inoltre, l'obiettivo di trovare i collegamenti tra il disagio sperimentato dal paziente ed i fattori che scatenano o contribuiscono a mantenere la sindrome del burnout.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha fornito direttive e criteri di riferimento ai medici per diagnosticare la sindrome del burnout. Al contempo, lo stesso organismo sta per intraprendere lo sviluppo di linee guida basate sull'evidenza del benessere mentale nei luoghi di lavoro.

Trattamento e Rimedi

Quali interventi sono previsti in caso di Burnout?

La risoluzione del burnout prevede un approccio sia a livello organizzativo, che a livello individuale.



Innanzitutto, l'intervento deve favorire una maggiore consapevolezza del problema nella propria vita professionale, quindi il soggetto che ne soffre deve riconoscere i fattori responsabili dello sviluppo e del mantenimento dell'esaurimento psicofisico. Inoltre, è necessario comprendere le relazioni esistenti tra il comportamento personale, il proprio vissuto ed il contesto di vita e lavorativo.

Successivamente, le strategie per affrontare il burnout prevedono la modifica del comportamento e degli atteggiamenti in coerenza a quanto acquisito. In aggiunta a tale cambiamento, può essere necessario un periodo di psicoterapia.

Se s'interviene tempestivamente con un'adeguata assistenza medica o psicologica, si evita che si inneschino meccanismi più complessi e difficili da gestire. Sul luogo di lavoro, il burnout può essere affrontato chiedendo sostegno al proprio superiore, al reparto risorse umane oppure all'ufficio competente dell'azienda. Al contempo, è possibile accrescere il supporto sociale, non solo di colleghi e amici, ma anche dei familiari, cercando di bilanciare al meglio il rapporto lavoro-vita privata.

Psicoterapia per il Burnout

Gli interventi psicoterapeutici, come quello cognitivo-comportamentale, contribuiscono a migliorare la prognosi del burnout, tenendo conto della complessità della patologia e della specifica individualità del soggetto.

Questo percorso è finalizzato a fornire al paziente informazioni chiare e specifiche sul suo disturbo (es. sintomi, decorso ecc.), per aiutarlo a gestire la sintomatologia che comporta e:

Favorire un adeguato esame di realtà;

Ripristinare le funzioni principali della persona;

Ridurre le difficoltà sociali, cognitive e psicologiche;

Favorire il superamento degli episodi sintomatici in modo costruttivo per giungere ad un nuovo equilibrio.

Prevenzione

Come prevenire il Burnout

Rispettare le proprie esigenze (sonno, cibo, attività fisica ecc.) e risposare a sufficienza nei momenti di recupero dopo il lavoro: l'importante è ritagliarsi del tempo per fare ciò piace;

Fissare obiettivi ragionevoli, senza pretendere troppo da sé stessi;

Quando la mole di lavoro sembra davvero eccessiva, definire le priorità con il vostro superiore oppure, se è possibile, delegare ad altri alcune delle mansioni da portare a termine;

Evitare i conflitti con i colleghi ed adottare un atteggiamento proattivo;

Condurre uno stile di vita sano (sport, dieta ecc.) per una maggiore resilienza nel fronteggiare qualsiasi tipo di esperienza stressante.