Il respiro si ferma, le mani tremano, lo stomaco si stringe, un
sudore freddo percorre il corpo. La morte si para davanti agli occhi
come unico possibile esito di questa infinita sofferenza. La corsa in
ospedale, sintomi che assomigliano ad un infarto, il paziente impotente e
imbambolato racconta confuso che si sente morire. “No! Non è il cuore
che si sta fermando, afferma lo psicoterapeuta della Società Italiana di
Psicologia e Psicoterapia Relazionale, Pietro Scurti, piuttosto è
la propria esistenza che non decolla”.
Dr Pietro Scurti -Psicologo-Pisicoterapeuta -Socio ordinario Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale
In Italia ne soffrono oltre 10
milioni di persone. Uno stato d’ansia violento che vede soffrirne uomini
e donne quasi in egual modo. Alcuni pazienti raccontano che non escono
di casa da anni, o che hanno percorsi stabiliti entro ai quali “si
sentono più o meno al sicuro”, altri non guidano più da soli o hanno
parcheggiato l’auto e si muovono solo a piedi. Altri ancora, prosegue lo
psicoterapeuta, sono giovani ragazzi che attendono la crisi come un
terremoto che dovrà verificarsi, vivendo l’attesa in maniera spasmodica e
coinvolgendo l’intero sistema familiare.
Quali possono essere i fattori scatenanti di questi stati d’angoscia?
Quello che comunemente definiamo attacco di panico è uno stato
d’allerta ed in quanto tale viene a segnalarci qualcosa che nella nostra
vita non va o si è bloccato. Qualcosa a cui nell’arco del tempo non
abbiamo dato la giusta attenzione, scelte non fatte, emozioni non
espresse, relazioni non soddisfacenti. Situazioni insomma da tempo
evitate e represse attraverso una overdose di silenzi, azioni o
comunicazioni di copertura, funzionali allo spostamento del focus, dal
disagio interiormente vissuto alla facciata mostrata al mondo.
E’ come se allora questi attacchi di panico venissero ad “aiutarci” a trovare il coraggio di cambiare?
Esattamente. Se non scatta un allarme poderoso e destabilizzante come
questo, il soggetto non prenderebbe mai in considerazione la
possibilità che non sia più sufficientemente innamorato della propria
vita.
Che significa?
Significa che vivere questi stati limite lo costringono a centrare
l’attenzione su di sé, a chiedere aiuto. I primi riferimenti rimangono
nell’area medica, organica, si cercano specialisti di tutti i tipi,
perché l’accettazione più complessa da fare è sempre quella che ci
implica come individui, mentre è paradossalmente più rassicurante
ricevere una diagnosi che ci dica che c’è un tumore, un polmone che fa
le bizze, il fegato o il cuore che non funzionano. Ma la mente, le
relazioni familiari, la personalità restano l’ultima spiaggia. E così
dallo psicoterapeuta si arriva sconfitti e sfiduciati, è come se
dicessero: “possibile è un fatto mentale allora?”
Che ruolo svolge l’ansia in tutto questo disagio?
La prima cosa da dire è che l’ansia è una risposta funzionale della
nostra mente e del nostro corpo. Ci rende attenti, vigili, ci fa pescare
dentro energie insospettate, ci permette di affrontare e superare
esami, prove, ostacoli. I problemi nascono quando l’ansia supera i
livelli di funzionalità ed invade il soggetto, per dirla in breve, nella
mente, e conseguentemente nella vita dei pazienti, irrompe “e se?”, il
futuro, ricco di incognite insopportabili e foriero di temute disgrazie.
I soggetti cominciano ad avere difficoltà a riconoscere e viversi il
presente e sempre più cercano di controllare e prevedere il futuro. Va
da sé che l’operazione, impossibile in partenza, crei forti disagi.
All’inizio di questa intervista ha citato la famiglia, può
specificare che implicazioni abbia “l’attacco di panico” con gli altri
componenti familiari?
Come psicoterapeuti sistemico-relazionali siamo quasi obbligati a
rileggere i sintomi in una chiave sempre più ampia. Un sintomo è sempre
una comunicazione ed una comunicazione, qualsiasi essa sia, per quanto
bizzarra, ha senso in correlazione al contesto in cui avviene. L’attacco
di panico spesso sollecita nuove ricalibrature delle distanze
affettive, ma anche spaziali, all’interno della famiglia. Una madre
eccessivamente invasiva ed insicura, un marito impegnato totalmente nel
lavoro, un giovane che sta per spiccare il volo fuori dall’orbita
familiare, per un corso di studi, la carriera militare, un fidanzamento,
un lavoro. Ecco che a tenere tutto omeostaticamente fermo, arriva la
“paura di morire”. Il padre viene richiamato alla presenza, la mamma può
assumere il comando delle iniziative per la cura, il figlio smette di
tentare l’autonomia dicendo “vorrei…ma non dipende da me”. Il disagio
garantisce l’immobilità, ma al tempo stesso, ne denuncia
l’insopportabilità.
Quale possibile trattamento?
Molto spesso la terapia familiare risulta l’approccio vincente. La
decodifica che il sintomo svolge nella famiglia, la possibilità che il
confronto profondo all’interno della stessa coppia genitoriale, e tra
questa e i figli, genera uno sblocco delle emozioni, una redistribuzione
delle responsabilità più funzionale alla crescita di tutti i suoi
membri. Insomma oscillare tra una sana appartenenza ed una sana
separazione. In fondo è questo il destino di ogni essere umano.
prevenzione-salute.it
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