giovedì 28 novembre 2019

Ansia, sudore, palpitazioni: come distinguere tra paura, fobia e attacchi di panico? Quali sono le fobie più comuni?

Come si fa a stabilire quando si tratta di "semplice" paura o se si tratta di fobia o attacchi di panico? Quali sono le fobie più comuni?
Avere paura di qualcosa è normale: si tratta di un’emozione strumento dell’evoluzione in grado di proteggerci e di tenerci lontano dalle situazioni pericolose. Detto questo, come si fa a stabilire quando si tratta di “semplice” paura o se si tratta di fobia? Humanitas Salute lo ha chiesto alla dottoressa Katia Rastelli, psicoterapeuta di Humanitas.

“Secondo uno studio condotto dall’American Psychiatric Association – spiegano gli esperti Humanitas in un approfondimento – le fobie si manifestano attraverso l’emozione della paura ma nulla hanno a che fare con la sana e naturale avversione per ciò che ci può danneggiare o addirittura uccidere. Se abbiamo una fobia, infatti, a poco o nulla serve pensare che quello che ci spaventa non può realmente metterci in pericolo, né ledere in alcun modo la nostra incolumità. Una fobia è una paura irrazionale, di solito rivolta ad alcuni oggetti o situazioni specifiche, che si manifesta con una sintomatologia piuttosto chiara. Ciò significa che la fobia, a differenza di quanto credono in molti, è una vera e propria patologia psichiatrica con cui solo negli Stati Uniti convivono approssimativamente 19,2 milioni di persone. Qualunque sia la causa che la scatena, la fobia si presenta di solito con sintomi ben definiti: stati d’ansia, battito cardiaco accelerato, sudore, palpitazioni, tremori, nausea, vertigini e una generale impossibilità di affrontare la situazione in maniera razionale. Al contrario della paura, quando è intensa, la fobia finisce quasi sempre per compromettere il normale corso della vita quotidiana.”

Come nasce una fobia? “Generalmente l’insorgenza di questa patologia psichiatrica è associata al periodo dell’adolescenza e spesso, soprattutto se non trattata o sottovalutata, rischia di accompagnare il soggetto per tutta la durata della sua vita. A soffrirne sono maggiormente le donne, mentre l’incidenza di questa patologia negli uomini è drasticamente ridotta del 50%. In genere la sintomatologia si presenta da sola, in assenza di un evento realmente traumatico, anche se può succedere che la storia personale di chi ne soffre presenti qualche elemento che porti a svilupparla più facilmente. Resta fermo il fatto che la fobia non nasce quasi mai come una reazione controllata e razionale a ciò che è realmente pericoloso, ma come una risposta incontrollata e sovradimensionata che impedisce a chi ne soffre di vivere serenamente anche situazioni quotidiane comuni. Specialmente se non vengono curate, le fobie possono anche manifestarsi con una sintomatologia progressivamente più grave che può sfociare in un disturbo da attacchi di panico.”

L’American Psychiatric Association ha identificato le dieci fobie più comuni: “Si va dalle ancestrali avversioni per gli animali che per i nostri antenati, privi di conoscenze mediche, rappresentavano un pericolo per la vita, alla volontà di evitare luoghi o particolari fenomeni atmosferici, fino alla paura incontrollata di contrarre malattie o, per contro, di sottoporsi a cure che comportino la vista del sangue.
Fra le dieci fobie più comuni citate dai ricercatori figurano l’aracnofobia, ovvero la paura dei ragni e degli aracnidi, l’ofidiofobia, ossia la paura dei rettili e la cinofobia, la paura dei cani. Le persone che soffrono l’altezza, gli spazi troppo vasti o affollati, non sopportano l’idea di volare e hanno paura di tuoni e fulmini, sviluppano rispettivamente l’acrofobia e l’agorafobia, l’aerofobia e l’astrofobia. Soffre invece di misofobia o di tripanofobia chi vive con terrore l’idea di entrare in contatto con germi e batteri e chi, al contrario, rifugge dottori e ospedali perché non riesce a sopportare l’idea di essere “bucato” con un ago. La decima fobia resta però la più insidiosa e indefinita di tutte. Si tratta della fobia sociale: estremamente diffusa quanto sottovalutata o, peggio, scambiata per una scarsa propensione sociale di chi ne è affetto. Chi soffre di fobia sociale evita il contatto con gli altri perché gli genera ansia, soffre terribilmente all’idea di doversi esporre e parlare in pubblico o di interagire in generale in un contesto più ampio.”

“E’importante distinguere un’ansia funzionale, che ci mette in allarme di fronte ad un pericolo reale, da una fobia, ossia una paura eccessiva per alcuni oggetti o situazioni che, nella vita comune, non dovrebbero procurarla – ha spiegato la dott.ssa Rastelli -. Per sua definizione la fobia è infatti irrazionale, perché il pericolo non è reale, tuttavia il malessere che porta con se’ lo è. Lo sa bene chi si trova limitato nella sua vita di tutti i giorni perché non riesce a prendere la metropolitana affollata per andare al lavoro o ad avere contatti con le altre persone perché il senso di disagio provato è troppo forte. Il problema delle fobie, che possono presentarsi con vari gradi di angoscia, è non solo quello di limitare le persone nella vita quotidiana (non guido più, non frequento più spazi aperti, fino al non uscire più di casa) ma anche quello, purtroppo, di sviluppare un’ansia anticipatoria, cioè la paura di trovarsi ancora in una situazione che si sente di non essere in grado di gestire”.

“La prima cosa da fare è comunque quella di valutare l’origine dell’ansia, ossia capire se si tratta di un pericolo reale o no e valutarne l’intensità – ha consigliato l’esperta -. Nel caso in cui il pericolo percepito fosse davvero eccessivo o tale da creare malessere, ci sono strade diverse per intervenire, e la scelta dipende strettamente dalla persona. Esiste una via farmacologica, con la prescrizione di ansiolitici oppure di antidepressivi in base al quadro clinico complessivo che può emergere solo nel corso di una visita da parte di uno specialista. Il farmaco riduce le risposte biologiche dell’ansia e agisce direttamente sul sintomo. L’altra strada è il percorso di psicoterapia che, se da una parte fa parlare il sintomo (da quando succede e perché? Cosa ti sta dicendo la tua fobia? C’è qualcosa che devi cambiare? Che significato ha nella tua storia di vita?), dall’altra lavora sulla capacità della persona di affrontare e gestire le paure e le situazioni che mettono in difficoltà. Questo può essere fatto, per esempio, sia attraverso esercizi di rilassamento, sia attraverso un lavoro sulle cause più profonde che possono aver portato a sviluppare proprio quel tipo specifico di fobia.”

“Nella psicoterapia psicodinamica, per esempio, ogni fobia è riconducibile ad un simbolo e ad un’area specifica dello sviluppo psichico della persona, e racconta molto delle difficoltà che la persona sta incontrando sul suo cammino e per le quali risulta essere, al momento,“poco equipaggiata” – ha precisato l’esperta -. A volte vengono consigliate entrambe le strade parallelamente, dipende dalla gravità del quadro ma anche e soprattutto dal desiderio della persona di mettersi in gioco nella conoscenza di sé”.

Dal Sito: meteoweb.eu

mercoledì 27 novembre 2019

La risoluzione del trauma con la tecnica E.M.D.R.


Comprendere cosa genera i sintomi è importante perché ogni disturbo ha una sua identità a una sua storia. Bisogna interrogarsi su quali esperienze sociali negative sono rimaste impresse nella mente di quella persona tanto da condizionarla oggi. A volte i sintomi emergono a seguito di eventi dall’impatto fortemente negativo, altre volte invece si manifestano in maniera apparentemente improvvisa e hanno un effetto “domino” su tanti aspetti del quotidiano (con il partner, in famiglia, a lavoro).

Una tecnica che si sta rivelando estremamente efficace nel trattamento dei disturbi psicologici di vario livello si chiama EMDR (Eyes Movements Desensibilization Reprocessing) e si basa sullalocalizzazione degli eventi traumaticie sulla riduzione degli effetti negativi nella vita della persona.

Quando si vivono momenti di forte disagio può capitare di sentirsi sopraffatti da sensazioni negative e spiacevoli perché la mente non riesce a contenerli e circoscriverli, per cui le tracce di quell’evento rimanendo cristallizzate nelle reti neurali nella loro forma più arcaica – pensieri, sentimenti, emozioni – possono riattivarsi quando vengono sollecitati da episodi “specifici” del quotidiano.

Il continuo ripresentarsi di qualcosa vissuto nel passato che rappresenta un “sentire” profondamente disturbante accade proprio in virtù delle tracce lasciate nelle “reti” che sono separate dal sistema mnemonico adattivo della persona. Ma da cosa si originano le reti neurali? Ogni rete è formata da informazioni provenienti da 4 canali: il canale sensoriale (prevalentemente vista, ma anche tatto, udito e olfatto), il canale emotivo, il canale cognitivo (dove sono presenti sia le convinzioni negative associate alla memoria traumatica che le cognizioni positive che la persona vorrebbe fossero associate alla memoria una volta che questa viene elaborata), ed in fine le sensazioni corporee.

I due emisferi cerebrali non si influenzano reciprocamente, ma sono responsabili in maniera esclusiva della elaborazione distinta delle informazioni provenienti dai 4 canali, pertanto è necessaria la stimolazione bilaterale per connettere l’emisfero che contiene le sensazioni corporee a quello che contiene l’informazione cognitiva ed ottenere così tutti i contributi necessari per una adeguata elaborazione dell’evento traumatico.

Ed è proprio sulla stimolazione alternata degli emisferi che si fonda la tecnica EMDR: attraverso i movimenti oculari destra/sinistra, o l’alternanza di suoni destra/sinistra, o la stimolazione tattile prima nella mano destra e poi in quella sinistra che si sollecitano i due emisferi a restituire le informazioni immagazzinate, un po’ come se restituissero i pezzi del puzzle che hanno sottratto in un tempo passato per poterlo ricomporre nel qui ed ora!

Così facendo i ricordi disturbanti perdono la loro carica emotiva negativa (fase della desensibilizzazione), e ciò può accadere in una o più sedute indipendentemente da quanti anni siano trascorsi dall’evento traumatico.

Dopo l’EMDR la persona ricorda l’evento ma il contenuto è totalmente integrato in una prospettiva più funzionale, generando uno schema cognitivo ed emotivo positivo.

L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi e le sensazioni corporee in genere si riducono di intensità o spariscono completamente, diventando più adattavi.

L’elaborazione dell’esperienza traumatica che avviene con l’EMDR permette alla persona di cambiare prospettiva, cambiando le valutazioni cognitive su di sé, incorporando emozioni adeguate alla situazione attuale.

Il trattamento EMDR può rivelarsi utile anche in situazioni che risultano difficili sa superare ed elaborare, come ad esempio può aiutare a ridurre la sofferenza legata ad un lutto.

Perché abbiamo bisogno dello psicologo

La paura delle malattie nella moderna società dove si esalta l’efficienza umana è una delle più comuni perché la malattia ostacola il nostro e l’altrui benessere.

Quando poi emerge la paura di avere una malattia della mente ci destabilizziamo perché tendiamo a identificarci più strettamente con la nostra mente piuttosto che con il nostro corpo. Così spesso si pensa che rivolgersi allo psicologo per farsi “curare” è come ammettere di avere una malattia mentale, di “essere matti”.

In realtà lo psicologo può aiutarci a integrare aspetti della nostra personalità che teniamo lontani dalla nostra percezione cosciente perché non li accettiamo. Questi aspetti però non spariscono ma si manifestano attraversoaltri canali quali sogni, comportamenti particolari, reazioni eccessive o sintomi di vario tipo come ansia, panico, depressione, dipendenza, condizionando quindi la nostra esistenza.

A ciò si aggiungono i molti problemi comunemente affrontati dagli individui e dalle famiglie compresi il disagio coniugale, i problemi della genitorialità, la difficoltà nell’attaccamento, il divorzio, l’abuso, l’elaborazione di un lutto, il tradimento, il mobbing.

In tutti questi casi è evidente come le esperienze passate da un membro della famiglia possano causare disagio a quello stesso individuo e ai suoi familiari.

Cos’è la psicologia

La psicologia ci può aiutare a esprimere le nostre emozioni, i nostri desideri e a “tirar fuori” le risorse positive presenti in ognuno di noi, stimolandoci a condurre la nostra esistenza coerentemente con i nostri principi, con il nostro ambiente e con la nostra realtà sociale.

La psicologia infatti è la scienza che studia il comportamento umano e che cerca di comprendere e interpretare i processi mentali e affettivi che lo determinano. Come branca deve essere regolamentata e per questo per poter esercitare la professione di psicologo, sezione A, occorre conseguire una laurea quinquennale in Psicologia, effettuare poi un tirocinio di un anno e sostenere un Esame di Stato. Solo in seguito al suo superamento è possibile iscriversi all’Albo degli Psicologi, condizione necessaria per svolgere questa attività.

Lo psicologo, in quanto appartenente per legge a un Ordine, deve sottostare ai principi del Codice Deontologico, il quale prescrive comportamenti a garanzia di un esercizio professionale corretto a tutela dell’utenza. Di conseguenza l’affidarsi a un professionista regolarmente iscritto all’Albo fornisce al cittadino garanzie che altrimenti sarebbero impossibili da ottenere rivolgendosi a persone non abilitate.

Occorre aver chiara la differenza tra il professionista adeguatamente formato e una serie di altre figure (counselor, reflector, psicofisologo, pedagogista clinico) che non sono per legge obbligate a rispondere del proprio operato di fronte a un Ordine o a un Collegio Professionale che abbiano stabilito criteri deontologici e tecnici attraverso quali svolgere correttamente la propria attività.

Lo psicologo, come richiesto dal Codice Deontologico, aggiorna continuamente la propria formazione e utilizza soltanto le tecniche e le conoscenze per le quali ha ottenuto adeguata formazione.

Cos’è la psicoterapia

Un’ulteriore formazione è necessaria affinché si possa svolgere psicoterapia. Lo psicoterapeuta, infatti, è uno psicologo o un medico abilitato a svolgere anche attività di psicoterapia dopo aver frequentato una successiva scuola di specializzazione quadriennale riconosciuta dallo Stato. Lo psicologo-psicoterapeuta non prescrive farmaci, ma utilizza come strumenti la relazione, l’ascolto e la parola.

Lo psicoterapeuta competente aiuta la persona a ritrovare le radici dei propri blocchi e conflitti in modo che la persona raggiunga il cambiamento desiderato e una crescita personale.

Lo scopo della psicoterapia è quello di apprendere le motivazioni che hanno portato la persona a essere qual è.Fondamentale in questo percorso è soprattutto una buona alleanza tra il professionista e il paziente perché ogni seduta è un lavoro basato sulla collaborazione attiva del paziente stesso, che attraverso dei colloqui viene condotto all’elaborazione dei nuclei disfunzionali della sua persona e presenti nelle relazioni che egli stesso vive.

La psicoterapia, intesa come quel ramo della psicologia che analizza la sofferenza psicologica e pone in essere degli interventi per un nuovo benessere del paziente. Esistono ormai numerosi approcci teorici e metodologici di psicoterapia: l’approccio psicodinamico, sistemico-relazionale, cognitivo, comportamentale, della Gestalt, ecc.  In realtà oggi sarebbe più giusto di parlare di Psicoterapie per la varietà di approcci teorici e metodologici che negli anni si sono sviluppati.

Dal Sito: drlorenzoflori.it 

Attacchi di panico: la famiglia cosa può fare?

Attacchi di panico: quando all’interno di un nucleo familiare uno dei componenti vive costantemente i sintomi del panico l’intero sistema “famiglia” può entrare in crisi.

Inizialmente le persone che stanno vicino al famigliare che vive il panico e i relativi attacchi potranno sentirsi disorientati da questa nuova realtà e magari non sapranno bene cosa fare, cosa dire e potrà accadere che i primi tentativi di aiuto non vadano a buon fine. Per giunta l’emergere di sentimenti quali impotenza, frustrazione e rassegnazione potrà portare il famigliare ad affermazioni quali: “noi abbiamo provato di tutto ma nulla ha funzionato…non sappiamo più cosa fare con te….fai quello che vuoi che noi ci rinunciamo!”. Tutto questo può peggiorare i sintomi della persona che si trova a vivere un momento molto difficile della propria vita.

Queste situazioni reazionali possono accadere anche quando, inizialmente, ci si approccia al famigliare “con modi più leggeri” cercando di minimizzare le difficoltà manifestate con affermazioni del tipo: “stai tranquillo, non c’è niente di cui aver paura, non ci pensare che poi passa…sono solo dei pensieri”. Oppure quando si utilizzano “modi più forti” negando completamente l’attacco di panico e assumendo un atteggiamento critico con frasi del tipo “ma è possibile che queste cose succedano solo a te? Non vedi che è tutto frutto della tua testa? Adesso basta, qui c’è una casa, una famiglia, un lavoro da portare avanti e noi non abbiamo tempo da perdere”.

Le modalità di rapportarsi appena descritte, generalmente non aiutano, anzi aggiungono sentimenti di colpa ad una situazione già di per sé complicata, e producono vissuti di isolamento ulteriore, incomprensione e biasimo.

Per tale ragione è fondamentale tener presente che i familiari possono essere molto importanti nel processo di guarigione del familiare nel momento in cui hanno accesso a strumenti di sostegno e ad una corretta informazione sul disturbo del panico e sugli attacchi.

Il primo passo è quello di abbandonare i preconcetti e per questo bisogna considerare che, anche se gli attacchi di panico non lasciano delle conseguenze fisiche, sono una condizione medica diagnosticabile accompagnata da ben precisi sintomi fisici, emotivi e cognitivi e non il frutto di una “debolezza del carattere o di immaginazione” al pari di altri disturbi definiti “medici”.

Inoltre è importante conoscere e comprendere la storia e le cause del disturbo per potere intraprendere possibili soluzioni perché i famigliari devono svolgere un ruolo d’intervento attivo e concreto durante le manifestazioni dell’ansia. Questo può avvenire solo nel momento in cui si è capaci di discriminare i sintomiche accompagnano l’attacco di panico come tremori, le vertigini, l’aumento della sudorazione, l’aumento della frequenza cardiaca da altre condizioni mediche. E’ indispensabile non farsi sopraffare dai dubbi quali: “ho mio dio cosa sta succedendo?, cosa sarebbe meglio fare?, sarà vero quello che dice? Sarà un infarto?..ecc. In aggiunta la più importante azione da compiere in questi casi è rivolgersi a professionisti qualificati del settore come il medico di base, lo psichiatra e lo psicoterapeuta insieme ad altre figure riconosciute perché sono loro che hanno le conoscenze, le competenze e le strategie pratiche per poter svolgere un corretto intervento.

Nello stesso tempo è vitale sviluppare una rete di sostegnoperché spesso la persona che vive igli attacchi di panico è nella costante attesa di una futura crisi e ha paura di non poterla gestire, e si trova perciò a limitare drasticamente le proprie attività. Vengono ridotti momenti di svago, situazioni sociali come cene o pranzi con gli amici. Non si frequentano più posti ritenuti ansiogeni come il cinema, la palestra o le sale da ballo, mentre vengono mantenute solo le azione strettamente indispensabili come andare ad una visita medica. Proprio in questi momenti i familiari potrebbero far sentire il loro sostegno, ad esempio accompagnandolo negli spostamenti quotidiani, e il loro appoggio mentre la persona affronta le difficoltà giornaliere.

E’ importante che la famiglia sappia che anche quando il familiare intraprende un percorso terapeutico questo non avviene seguendo un processo lineare, ecco perché può succedere che si alternino delle fasi di miglioramento a delle fasi in cui i sintomi peggiorano. Proprio per questo motivo dovrebbero sostenere la persona nel riconoscere che dei passi in avanti sono stati svolti e che se si attraversa un “momento no” non vuol dire che il lavoro svolto sia stato perduto. E’ importante riconoscere gli sforzi che la persona sostiene nell’affrontare gli attacchi di panico anche se ancora non riesce a star bene. Ad esempio rinforzare l’impegno messo nell’iniziare nuovamente a guidare dopo un lungo periodo di blocco. In generale è sempre consigliato sottolineare positivamente tutte quelle azioni attraverso le quali la persona cerca di riappropriarsi della propria vita. Soprattutto nei momenti di difficoltà e in cui si perde la motivazione bisogna sostenerla e aiutarla a non scoraggiarsi e a ritrovare la motivazione per riprendere il percorso terapeutico. A questo scopo è utile adoperarsi per farla ragionare, a non aspettarsi tutto e subito, a ricordarsi dei risultati raggiunti e consolidati, a perseverare e soprattutto a non arrendersi.

Ma cosa fare per aiutare chi sta avendo un attacco di panico? Qualche consiglio pratico.

Nel caso di un attacco di panicobisogna mantenere la calma per non agitare ulteriormente la persona in crisi, riconoscere i sintomi dell’attacco di panico è fondamentale per capire esattamente in che direzione muoversi, quindi se si è di fronte al panico o ad una manifestazione di altra natura che può necessitare di un altro tipo di intervento, ad esempio medico.

Una volta accertato che si tratti di attacco di panico è bene parlare alla persona con un tono calmo e fermoallo scopo di riassicurarla e di farle sentire che non è sola “Sei al sicuro qui. Io sono qui insieme a te. Se lo vuoi io sono qui per aiutarti”. E’ anche utile aiutare la persona a realizzare che sta avendo un attacco di panico e, sempre con tono rassicurante, dirle “Stai avendo un attacco di panico, vedo che hai molta paura, tra qualche minuto sarà passato”. Prenderle la mano potrebbe essere un gesto utile per farle sentire la vostra presenza, sempre chiedendo se le farebbe piacere oppure la metterebbe in imbarazzo. Un altro momento di incertezza che vive chi presta aiuto è legato alla domanda: “E’ meglio se rimango o se la lascio da sola?”, e anche in questo caso basta osservare e chiedere: a meno che non sia la persona stessa che vive l’attacco di panico a chiedere di rimanere da sola, è bene rimanere a farle compagnia. Dal momento che un attacco può manifestarsi in qualunque momento, potrebbe succedere anche in un luogo caotico ed affollato; in quel caso si consiglia di spostarsi in un posto più tranquillo e appartato, trovando una posizione “ideale” di rilassamento, che sia in piedi, seduto o addirittura sdraiato.

In caso di attacchi di panico sollecitare la persona a rientrare nel momento presente è sempre una mossa consigliata, così da creare un contatto diretto e basato sul qui ed ora, facendosi raccontare cosa sta vivendo, ad esempio chiedendo di tanto in tanto “Come ti senti adesso?”. Il respiro rappresenta il primo parametro da far rientrare nella norma per limitare lo sviluppo della crisi; per incoraggiare il controllo del respiro una tecnica molto utile è quella di contare mentre la persona respira: “Inspira 1-2. Espira 1-2”, poi gradualmente si aumentano i tempi contando fino 3, poi a 4, poi a 5. E’ importante che la respirazione sia lenta, continua e non eccessivamente profonda perché l’iperventilazione può peggiore i sintomi. Se si è in casa, un’altra tecnica per orientare la persona al momento presente consiste nell’invitarla a svolgere un semplice compito pratico, come ad esempio lavare i piatti o rassettare una stanza. Se non si è in casa, invece, la si può invitare a compiere delle semplici attività focalizzate e ritmiche come ad esempio alzare e abbassare le braccia.

Attacchi di panico: cose da evitare.

Anche in questo senso è utile tenere presente degli accorgimenti pratici su cosa sarebbe meglio evitare di fare nel caso qualcuno sia soggetto ad attacchi di panico; se si preferisce non agire attivamente, sarebbe buona cosa almeno evitare di gettare benzina sul fuoco.

La durata di un attacco di panico varia dai 5 ai 20 minuti, ma anche nella sua brevità può essere un’esperienza estremamente intensa e traumatizzante per chi la vive, e avvolte anche per chi assiste. Per questi ultimi sarebbe auspicabile rimanere calmi, non mostrare paura e evitare esclamazioni infauste, malaugurate, di critica e biasimo. Le domande sono utili da fare per capire cosa sta accadendo, ma non deve essere un interrogatorio, che porterebbe ancora più tensione e ansia. Un errore molto comune è quello di pensare che con delle espressioni brusche si solleciti la persona a rinsavire e superare quel momento. Ma basta fermarsi un momento a riflettere: come si può pensare che avere delle maniere forti e brusche possa sortire l’effetto di “calmante” se si ha davanti una persona che già è in uno stato di agitazione generale?

Adottare un atteggiamento superficiale, di disappunto e distaccato probabilmente non darà mai in nessun caso dei buoni risultati, soprattutto nei rapporti interpersonali.

martedì 26 novembre 2019

ATELOFOBIA: LA PAURA DELL’IMPERFEZIONE O DI NON ESSERE MAI ABBASTANZA

L'atelofobia è la paura relativa all’ imperfezione o di non essere mai abbastanza. Le persone con questa paura cercano di raggiungere la perfezione in tutto: rispetto a se stesse, sia a livello fisico che prestazionale. 
Ricercano sempre il raggiungimento di uno standard elevatissimo nei risultati scolastici, nelle prestazioni sportive, al lavoro, nel rapporto con i familiari ed amici. Invece di cercare di vivere in modo spensierato e leggero accettando le situazioni cosi come si presentano spendono molte energie per controllare se stesse e l’ambiente. Il bisogno di controllo e le elevate richieste nascono dalla paura di commettere degli errori che porterebbe loro a dubitare delle proprie capacità.
Le persone con atelofobia mancano di fiducia in se stesse ed erroneamente ritengono che verranno accettate dagli altri solo nella misura in cui saranno ineccepibili, perfette e sempre disponibili nei confronti altrui. Pertanto, si sforzano di eccellere in ogni campo della vita, si mostrano esageratemente compiacenti, immaginando che questo atteggiamento è ciò gli altri si aspettano da loro. In realtà tali standard e la critica non sono richieste che provengono dall’esterno ma dalla persona stessa che tratta si tratta in modo esageratemente normativo.
Essi potrebbero avere avuto dei genitori, o altre figure significative, molto esigenti che li hanno spinti a perseguire obiettivi impraticabili pena l’essere sottoposti a severe critiche o punizioni.
I sintomi dell’atelofobia variano da sudorazione, nausea, attacchi di panico a seconda della situazione e dello stato mentale dell’individuo:
  • Battito cardiaco accelerato;
  • Secchezza delle fauci;
  • Confusione mentale;
  • Tensione muscolare;
  • Iperventilazione;
  • Sensazione di instabilità,
  • Forte angoscia;
  • Sensazione di perdita di controllo;
  • Sentimenti di inadeguatezza.
Per controllare la paura dell’imperfezione e del fallimento può essere utile fare una lista di cose, persone e situazioni temute per poi distruggerla in mille pezzi. Di solito questo semplice stratagemma aiuta la mente rifiutare l’idea di dover sempre essere perfetti, a rilassarsi, e accogliere con maggior disponibilità il rischio di sconfitte ed insuccessi. Anche se si tratta di una soluzione temporanea può risultare efficace anche di fronte al timore di commettere errori più grandi.
L’atelofobia può essere un problema serio quando le paure interferiscono con la vita personale, sociale e professionale. Un trattamento tempestivo è necessario per evitare gravi condizioni che possono ostacolare la capacità dell'individuo di svolgere i normali compiti di routine.
In tal caso è necessario parlarne con uno psicoterapeuta per elaborare l’origine di tali paure ed individuare modalità specifiche ed adeguate per controllare la paura. 
Si sono rivelate utili diverse forme di psicoterapia: l’ipnosi, le terapie di auto-controllo, le tecniche di rilassamento e, nei casi più gravi, anche il trattamento farmacologico con ansiolitici.

lunedì 25 novembre 2019

Ansia sociale e stress, 22 consigli di chi ha conosciuto i benefici della psicoterapia



Ti stressi prima, durante e dopo un esame, aspettando che appaia la doppia spunta su WA, controllando il numero di like sui tuoi feed? 22 modi collaudatissimi di fartela scendere e vivere felice.

Ansia e stress ti fanno vivere poco serenamente? C'è chi ha trovato benefici nella psicoterapia. Per provare ad affrontare con leggerezza (ma non con superficialità) il tema, partiamo dal presupposto che la risposta definitiva a quasi tutte le domande fondamentali della vita sono due: una è 42 (come ci insegna Douglas Adams) e l'altra è fregarsene. Ripeterti come un mantra: anche meno. Fosse facile non saremmo qui a scriverne. Se preferisci puoi canticchiare Titanium: I'm bulletproof nothing to lose, fire away, fire awaaaaay. La verità è che la tua fragilità è ciò che ti rende unica, così come ogni tua piccola imperfezione, ma puoi diventare impermeabile ai comportamenti tossici delle altre persone, resistente agli tsunami d'ansia senza mettere in stand by i tuoi sentimenti, lasciarti attraversare dalle ondate emotive senza per forza combatterle.

Disinnescare gli stati ansiosi può essere molto più semplice di quanto credi, se sai come fare.Nella maggior parte dei casi non hai niente da perdere e in tutti gli altri, be' se la posta in gioco è alta, agitarti quando ce l'hai già messa tutta non serve a nulla: le cose che puoi controllare o che dipendono da te sono infinitesimali rispetto a quelle su cui puoi davvero fare la differenza.

Nell'universo delle ansie che ti assalgono quotidianamente la maggior parte sono legate all'ansia di controllo, ovvero quella che ti viene quando vorresti sapere che tutto andrà a finire bene, ma nel frattempo stai in acido. Una brutta è l'ansia anticipatoria, che ti assale per esempio quando hai paura per un'interrogazione o ti va il cuore a mille perché domani sera esci per la prima volta con la tua crush). Oppure ansia generalizzata che può andare fuori controllo per diversi motivi, spesso legati allo stress, anche quello che ti autoprocuri quando hai aspettative altissime, ai limiti dell'irragionevole, o ti arrovelli pensando e ripensando a una certa situazione (ovvero vai in modalità overthinking).

Qual è la cosa più importante che hai imparato facendo psicoterapia?

Un utente ha postato la domandasul canale AskWomen di Reddit e hanno risposto a decine, elargendo consigli basati su esperienze personali, che possono rivelarsi preziosi anche per te. Perché è vero che ogni caso e a sé e anche i sintomi dello stress possono essere diversi: dal mal di testa, alla dermatite o l'orticaria, dal calo d'umore al mal di stomaco e tensione muscolare, ma spesso quello che ciascuno di noi ha imparato per sé può essere utile per gli altri se condiviso con la giusta valutazione di un consiglio. Perché di fronte a una depressione l'esperto è la via per stare meglio, ma sapere che non siamo gli unici ad affrontare situazioni di stress può farci sentire meno soli.

Tecniche per disinnescare l'ansia

Quando vengo sopraffatta da un'emozione respiro profondamente per un minuto e a quel punto mi passa. Che si tratti di rabbia, tristezza o stress, per me funziona!

Ho scoperto che se sei ansiosa e ti lasci trasportare dalle elucubrazioni su "cosa succederà se", significa che stai soffrendo e tecnicamente soffrirai due volte, per l'ansia anticipatoria e per l'evento reale, che probabilmente non accadrà nemmeno e quindi non soffrirai affatto.

Quando sono super ansiosa, la reazione di attacco o fuga non è la mia unica opzione. Posso semplicemente accettare come mi sento, anche se mi sento a disagio. Prima o poi so che passa. I sentimenti sono solo visitatori di passaggio: come sono arrivati, se ne vanno. 

Come migliorare le relazioni interpersonali

Non puoi controllare il modo in cui le altre persone reagiscono o si comportano, quindi preoccuparti del perché le persone fanno o non fanno qualcosa è una battaglia persa.

Ho imparato a stabilire dei limiti. Sembra una cosa ovvia che credo venga naturale alla maggior parte delle persone, ma per alcuni non lo è. Dopo essere andata in terapia mi sono resa conto che se avessi saputo quello che so ora, non avrei dato così tanta importanza ad almeno metà delle persone che facevano parte della mia vita e mi sarei risparmiata un sacco di casini. Non mi rendevo nemmeno conto di dover mettere dei paletti! Ho imparato l'importanza di farlo, ma le tecniche da usare dipendono dalla persona o dalla situazione. Adesso la mia vita è infinitamente migliorata!

Come gestire una dipendenza

Ho imparato che non siamo soli. Ho fatto terapia di gruppo e mi ha colpito moltissimo quanto i nostri problemi e gli schemi di pensiero fossero quasi identici.

Ho imparato quali sono i passaggi nel ciclo della dipendenza: anche le persone che non lottano contro l'abuso di sostanze dovrebbero conoscerli, perché è un meccanismo che si applica a diverse situazioni della vita.

Tenere un diario mi è servito moltissimo. Stavo attraversando un momento difficile e non avevo nessuno con cui poter confrontare la mia esperienza. Va molto meglio da quando ho l'abitudine di scrivere regolarmente sul diario.

Come focalizzarti su te stessa

Ho capito che non spetta a me "aggiustare" chiunque.

Che non sono responsabile dei sentimenti o delle azioni degli altri.

Ho capito che va bene mettere me stessa al primo posto, soprattutto se ne va della mia salute mentale.E se ad altre persone non va bene, peggio per loro.

Che non devo scegliere tra due estremi di me stessa perché posso essere entrambi.

Fare pace coi tuoi sentimenti

Ho capito che è legittimo provare sentimenti e che bisogna sentirli pienamente, nella loro interezza, e accettarli. Non puoi controllare come ti fa sentire qualcosa o qualcuno, ma puoi controllare il modo in cui agisci.

Ho imparato a dare ai miei sentimenti il ​​rispetto e la considerazione che meritano. Ho capito che reprimerli o negarli non farà che peggiorare le cose.

Le emozioni sono utili. Reprimerle non aiuta, ma cavalcarle, capirle e ponderarle sì. Raramente cado nella stessa spirale d'ansia due volte, perché cerco di capire come mai un particolare pensiero mi spaventa così tanto.

Come ritrovare il controllo (a costo di lasciarti andare)

Ho imparato a focalizzarmi sui miei pensieri positivi, rispetto a quelli negativi. Ho capito come gestire la spirale dei pensieri prima che prenda il sopravvento e vada completamente fuori controllo, ma soprattutto ho imparato a stare meglio con me stessa e non essere sempre così severa nei mie confronti.

A tenere sotto controllo le mie aspettative. Affrontare le cose con aspettative realistiche mi risparmia un sacco di stress, frustrazione e angoscia.

Ho capito di avere molto più controllo sulla mia vita di quanto pensassi e che bisogna insegnare alle persone come vuoi che ti trattino o che si relazionino con te.

Lo spirito con cui affrontare la psicoterapia

La terapia non ha lo scopo di curarti, ma ti aiuta a far venire a galla i tuoi sentimenti. Mi ci sono volute quattro sessioni per capirlo e solo da quel momento gli incontri col terapeuta sono diventati efficaci.

Mi sono resa conto di essere davvero brava nell'autoanalisi e nell'introspezione. La maggior parte dei miei appuntamenti erano conversazioni con me stessa, il mio terapeuta ascoltava e annuiva mentre traevo le mie conclusioni e mi assegnavo diversi "compiti" da svolgere al di fuori delle sessioni. Ho capito che devo essere più indulgente e paziente con me stessa, mentre intraprendo un percorso per diventare una versione migliore di me stessa.

Ho imparato due cose facendo terapia: un trauma è un trauma, non importa da che parte lo prendi, sarà sempre un trauma. E che la mia identità si modella attorno a quel trauma, quindi io sono anche il risultato di quel trauma, senza il quale sarei diventata una persona diversa.

Che bisognerebbe sempre fissarsi degli obiettivi, cominciando da piccoli traguardi facili da raggiungere, per poi gradualmente andare sempre più lontano. In questo modo gli obiettivi a breve termine si trasformano in risultati a lungo termine!

Dal sito: cosmopolitan.com

venerdì 22 novembre 2019

Credi anche tu alla bugia che lo psicologo è per “deboli”?



Diciamoci la verità, la figura dello psicologo è stata sempre circondata da luoghi comuni e pregiudizi.
Se in passato il più ricorrente è stato “dallo psicologo ci vanno i pazzi” oggi quello più in voga è sicuramente “dallo psicologo ci vanno i deboli”.

Tutti sappiamo che non è così, il problema è che per l’essere umano talvolta chiedere aiuto è veramente complicato.

Facciamo un attimo dell’autoironia su noi stessi.

Vita di tutti i giorni.

Pensate a quando una donna decide di voler fare “da sola”. Nemmeno un terremoto riuscirebbe a smuoverla da quella posizione.

Oppure pensate a quanto è difficile per un uomo chiedere indicazioni stradali se per caso si è perso con la macchina e accanto a lui c’è seduta una donna. In quel momento l’orgoglio prende il sopravvento, si ha il timore di mostrarsi insicuri e poco virili… per cui… piuttosto girerà tutta la notte a vuoto ma non si azzarderà mai ad abbassare quel dannato finestrino per chiedere aiuto!

Se le premesse sono queste, figuriamoci quanto possa essere difficile per certe persone chiedere aiuto ad uno psicologo :)

E se ci prendessimo tutti quanti un po’ meno sul serio? Se vivessimo la vita con più leggerezza?
Forse la soluzione è semplicemente diventare consapevoli di questi meccanismi interiori e passarci sopra.

In fondo ognuno di noi, chi più chi meno, ha il timore di essere giudicato. Se tornate un po’ indietro con la memoria vi accorgerete che il sistema educativo ha sicuramente una parte di responsabilità.

Per anni, fin da piccoli, a scuola hanno posto l’accento su ciò che sbagliavamo, evidenziando bene in “rosso” i nostri errori, non certo le nostre qualità.

Insomma, per troppo tempo ci hanno fatto credere che è sbagliato sbagliare.

Ma la verità è che gli studi degli psicologi non sono frequentati da deboli, ma da persone in gamba, coraggiose e sensibili che hanno il coraggio di accettare e superare i propri limiti.

Sono tantissime le persone di grande successo che, grazie alla loro testimonianza, hanno dimostrato la possibilità concreta di risolvere momenti difficili grazie al supporto professionale di uno psicologo o psicoterapeuta.

L’attore Alessandro Gassman ha raccontato di come sia possibile guarire dagli attacchi di panico: “Ho fatto il mio percorso psicologico e sono guarito. Tutti dovrebbero sapere che gli attacchi di panico sono un problema da affrontare e risolvere”

Gigi Buffon, campione del mondo e portiere fuoriclasse della nazionale, ha deciso di affrontare una volta per tutte la depressione, quel “buco nero dell’anima”, che lo ha inghiottito per mesi.
“Era come se la mia testa non fosse mia, ma di qualcun altro, come se fossi continuamente altrove. Pensavo che gli psicologi fossero figure che rubassero, tra virgolette ovviamente, soldi agli insicuri. Invece sono persone che servono, perché se ne trovi uno bravo e capace, trovi una figura con la quale non hai paura a confrontarti. Parli di tutto, ti apri, senza il minimo timore: e farlo non è mai facile”

Federica Pellegrini, atleta dei record nel nuoto italiano, ha rischiato di non gareggiare più per colpa dell’ansia: “L’ansia era diventata il mio guaio più grave, quando l’ansia toccava l’apice, non riuscivo nemmeno a entrare in acqua, arrivavo ai blocchi di partenza e correvo via. Dalla mia esperienza ho imparato che le persone che soffrono d’ansia hanno bisogno di sostegno. Se capita anche a voi non vergognatevi, quindi, di chiedere aiuto! E’ inutile cercare di superare questo tipo di problema da soli: si perdono molte energie e senza ottenere un risultato tangibile”

L’eccentrico (sugli schermi) attore Johnny Depp non avrebbe mai avuto una carriera di successo se non fosse riuscito a superare prima i suoi problemi di forte timidezza ed ansia sociale. L’aiuto di un professionista gli ha permesso di superare il disagio e passare le giornate facendo quello che ama di più.

L’attrice Gwyneth Paltrow ha rivelato di aver sofferto di depressione post partum: “la parte più difficile per me è stata prendere consapevolezza del problema. Penso sia molto importante per ogni donna poter parlare del proprio malessere…”

Anche l’attrice Catherine Zeta-Jonesha passato dei momenti difficili nel corso della sua vita: “Non c’è bisogno di soffrire silenziosamente e non bisogna vergognarsi di chiedere aiuto”.

L’attrice-sceneggiatrice Emma Thompson ha sofferto di depressione a causa della sua infertilità: “Per anni contavo i bambini delle altre coppie per strada pensando che non sarei mai più stata felice.” Successivamente è riuscita ad uscire dalla sua depressione andando in terapia una volta alla settimana.

La scrittrice J.K. Rowling, autrice della saga “Harry Potter” alla fine è riuscita a vincere il proprio malessere: “Sono una grande sostenitrice della terapia, mi ha aiutata molto”.

Ma non è necessario rivolgersi ad uno psicologo solo in concomitanza di un disagio. Anzi, nella maggiorparte dei casi un percorso psicologico si rivela estremamente utile per superare dei normali momenti complicati della nostra esistenza e ritrovare l’equilibrio.

Ad esempio come è successo a Jennifer Aniston, attrice beniamina della serie televisiva “friends”: “Quando avevo trentanni scelsi di andare in terapia per pulire tutta la “merda” e il rumore che avevo dentro. La terapia è utile per capire chi siamo veramente, per educare noi stessi. E’ possibile fare chiarezza su un sacco di cose. Se non si è felici, è possibile diventare felici. La felicità è una scelta. Questa è la cosa che mi sento davvero di dire oggi.”

Anche altre celebrità come Jennifer Garner si sono rivolte ad uno psicologo nonostante non soffrissero di alcun disturbo specifico: “E’ facile quando soffriamo e siamo arrabbiati dare la colpa agli altri oppure dire “tanto passerà”. Ma alla fine ho dovuto fare i conti con la realtà. Ho pensato: “Perché la mia relazione non funziona? Quale parte del fallimento è sotto la mia responsabilità? Così ho iniziato la terapia per fare un percorso su me stessa”.

Nella vita, la difficoltà è la caratteristica che inevitabilmente precede quasi tutti i successi.

Sbagliare non è un dramma, non dobbiamo vergognarci nel cambiare rotta. Infatti ogni volta che succede abbiamo la possibilità di trasformare i problemi in opportunità, disponiamo di nuove scelte.

Eppure tutti noi temiamo l’insuccesso. Siamo stati cresciuti con la paura di sbagliare. Lo odiamo perché nell’immediato ci provoca un grande dolore, anche se ci porterà un beneficio nel lungo periodo.

Il fallimento ci rafforza perché abbiamo la possibilità di lasciar andare le cose che non funzionano concentrandoci su ciò che invece ci fa migliorare e crescere.

È importante ricordare che nella vita possiamo imparare dagli errori tanto quanto impariamo dai nostri successi. L’errore infatti non è qualcosa da evitare a tutti i costi ma qualcosa di molto prezioso, da coltivare e ascoltare attentamente.

ANSIA: IL SENTIERO DELLA MINDFULNESS



Come seguire il sentiero della mindfulness per gestire l’ansia.
Un disturbo d’ansia è qualcosa che va oltre il senso di nervosismo o tensione.
Una persona ansiosa mostra uno stato di allerta esagerato e costante nei confronti di potenziali minacce (il più delle volte irrazionale), pensieri negativi intrusivi e ripetitivi, uno stato di iper attivazione e paura, la risposta di attacco-fuga è sempre pronta a scattare.

L’ansia è responsabile dell’insorgenza di una serie di sintomi fisici disturbanti come tachicardia, aumento della pressione e problemi digestivi. I sintomi che caratterizzano l’Ansia Generalizzatae il disturbo d’Ansia Sociale possono essere talmente invalidanti da limitare il normale funzionamento individuale.

La terapia Cognitivo Comportamentale è uno dei trattamenti d’elezione per i disturbi d’ansia. L’idea di base è che le persone che soffrono di disturbi d’ansia tendono a sovrastimare il pericolo che qualcosa di terribile possa accadere nella propria vita e a sottostimare la propria capacità di fronteggiarlo.
La terapia cognitivo comportamentale cerca di aiutare i pazienti a sostituire i pensieri negativi con pensieri più funzionali, e la risposta di attacco-fuga con strategie di fronteggiamento più adeguate. Il paziente e il terapeuta collaborano nel processo di cambiamento.

Nell’ambito della nuova “onda” della terapia Cognitivo Comportamentale, le terapie basate sulla mindfulness hanno l’obiettivo di cambiare la relazione che la persona ansiosa ha con i propri pensieri.

Nella terapia basata sulla mindfulness, la persona si concentra sulle sensazioni del corpo che emergono quando si sente in preda all’ansia. Invece di evitare o rifuggire queste sensazioni, la persona rimane presente e sperimenta i sintomi dell’ansia nella loro completezza. Invece di evitare i pensieri ansiosi, la persona si apre a essi nel tentativo di realizzare e divenire consapevole che i pensieri non corrispondono letteralmente alla realtà.

Sebbene possa sembrare contro-intuitivo, sperimentare appieno l’ansia, permette alle persone ansiose di comprendere quanto siano realmente fuse con i propri pensieri negativi, e di riuscire con la pratica a lasciarli andare.
Rimanendo presenti al proprio corpo, imparano che l’ansia che provano è solo una reazione a delle minacce percepite. Imparando a non-reagire agli eventi percepiti come pericolosi, riescono a placare l’erronea risposta di attacco-fuga.

All’ Università di Bergen in Norvegia, Vollestad, Nielsen, e Nielsen hanno passato in rassegna 19 studi sull’efficacia della Terapia Basata sulla Mindfulness e hanno verificato che effettivamente si verifica una sostanziale riduzione dei sintomi.

I ricercatori hanno inoltre verificato che la terapia basata sulla mindfulness aiuta a ridurre i sintomi della depressione. Dato importante se consideriamo che sintomi di depressione si presentano nel 20-40 percento delle persone che soffrono di Ansia Generalizzata e Ansia Sociale
In un modo che sembra paradossale dunque, un metodo per ridurre l’ansia è quello di essere “PIENAMENTE E CONSAPEVOLMENTE ANSIOSI”. È in questo modo che l’ansia si rivela essere il risultato di una percezione falsata e ingannevole, e quando questo avviene l’ansia si attenua.

Ad ogni modo tutti tendiamo a preoccuparci. Si può trattare di questioni di minore o maggiore importanza come le relazioni che intratteniamo, il lavoro o la direzione della nostra vita. O di incombenze quotidiane come la pianificazione della giornata come anche di quelle piccole “frasi infelici” che avremmo potuto evitare di dire. Preoccuparsi è normale, ma il rimuginio può sopraffarci al punto da impedirci di partecipare pienamente alla nostra esperienza e a quanto accade momento dopo momento. E quando sconfina, può portarci a provare ansia o al limite estremo un attacco di panico.
Ci ritroviamo dunque a passare la maggior parte del tempo nella nostra testa, a pensare. Analizziamo, pianifichiamo, ci poniamo obiettivi lavorativi, facciamo confronti, etichettiamo e giudichiamo le nostre esperienze e riflettiamo su e valutiamo le nostre emozioni. Molti di noi passano molto tempo a ripensare al passato o ad anticipare il futuro. La mente è occupata a raccontare storie, a interpretare le esperienze secondo il proprio punto di vista (che non per forza corrisponde alla realtà oggettiva).
Quando ci perdiamo nella preoccupazione è facile scambiare i nostri contenuti mentali o le paure con la realtà, invece di riconoscerli come pensieri. Ed è ancora più vero quando i pensieri sembrano talmente reali da favorire l’insorgere di sintomi fisici ed emozionali. È possibile interpretare male il comportamento di un amico che non ci ha richiamato o di un collega che non ci ha salutati. Possiamo arrivare a immaginare il peggio prima di una presentazione in pubblico o un colloquio. Lo stomaco si contrae, il cuore batte veloce, il respiro si fa più corto e veloce. La testa può diventare leggera e si cominciano a sentire formicolii alle dita dei piedi e delle mani. Prima di accorgersene ci si ritrova in preda al panico, e le conseguenza sulla nostra vita possono essere estremamente negative.
Tutti possiamo vivere questa esperienza. Nessuno deve sentirsi solo.
La buona notizia è che c’è un momento in cui si può ancora intervenire, ovvero quando cominciate a notare di esservi persi nelle preoccupazioni, di avere pensieri ripetitivi o di provare sensazioni di stordimento o di tensione corporea. Spostando l’attenzione dai pensieri alle sensazioni del corpo e del respiro, è possibile passare dalla modalità del “pensare” a quella del “percepire”. Questo permette di alterare automaticamente le risposte fisiche, psicologiche ed emotive.
Se voi, come tante persone provate disagio, rabbia o frustrazione nei vostri confronti per il fatto di sentirvi in ansia, e cercate di opporre resistenza alla vostra esperienza, questo non farà altro che intensificare l’ansia e peggiorare la situazione. Invece che combattere contro la vostra esperienza dicendovi che non dovreste provare ciò che provate, o tentando di non sentire o allontanare il disagio, è importante che vi permettiate di sentire ciò che sentite. Se imparate a divenire consapevoli di ciò che provate e permettete che le cose siano come sono in quel momento, è più probabile che l’intensità diminuisca e passi.
Di seguito tre semplici e veloci tecniche mindfulness che potete utilizzare per gestire le preoccupazioni e l’ansia, come anche per placare i primi segnali dell’insorgere dell’attacco di panico.

ANCORAGGIO
Uno dei modi migliori per calmarsi è “ancorarsi” dirigendo l’attenzione verso la parte bassa del corpo. Cominciate a concentrarvi sui vostri piedi e a sentire come stanno all’interno dei calzini e delle scarpe, a contatto col pavimento. Espandete l’attenzione dirigendola prima verso la parte inferiore delle gambe e poi sulle cosce. Avvertite una sensazione di leggerezza o pesantezza? Ora includete la percezione del vostro respiro, sempre più rilassante ogni volt anche espirate.
Questo è un buon modo per ancorarsi ed è possibile farlo in ogni momento, con gli occhi aperti o chiusi, mentre siete seduti o mentre camminate. Ancoratevi e poi, respirate.

CONTARE IL RESPIRO
Questa tecnica può essere utilizzata insieme all’ancoraggio o da sola. Prima potete ancorarvi. Alla prossima inspirazione, contate mentalmente fino a 6, e durante l’espirazione, contate mentalmente fino a 10. La tecnica ha lo scopo di rallentare sia l’inspirazione che l’espirazione. L’espirazione è inoltre più lenta dell’inspirazione, forzandovi a rilasciare più biossido di carbonio, rallentando il ritmo cardiaco e favorendo uno stato di calma.
Se il livello di ansia è altro e non riuscite a contare, ripetete “dentro” o “inspiro” ad ogni inspirazione e “fuori” o “espiro” ad ogni espirazione.. ricordandovi di cercar di espirare il più a lungo possibile. Andate avanti tutto il tempo che vi serve.

RESPIRARE CON LE DITA
Si tratta di un altro metodo per contare il respiro. Mettete una mano di fronte a voi con il palmo rivolto verso il viso. Con l’indice dell’altra mano, tracciate il lato esterno del pollice fino alla punta mentre inspirate, fate una pausa sull’apice trattenendo il respiro, e poi discendete lungo l’altro lato mentre espirate. Questo è un respiro. Proseguite allo stesso modo tracciando i contorni di tutte le dita e al termine del ciclo, tornate indietro e ripetete in senso contrario. Questa pratica vi da la possibilità di concentrarvi sia dal punto di vista visuale che cinestesico. È utile se l’ambiente circostante è troppo rumoroso e diventa difficile concentrarsi mentalmente. È anche molto semplice da insegnare a bambini adolescenti.

Dal sito: iwatson.com

Ansia o attacco di panico? Scopriamo quali sono le differenze e come individuare lo stato di malessere


E' utile comprendere in che cosa consiste realmente l'attacco di panico e ciò che lo differenzia da un episodio di ansia acuta e, di conseguenza, riuscire ad adottare le misure opportune.
Oggi giorno, è frequente sentire parlare persone che soffrono di attacchi di panico. Quando ci si rivolge ad un terapeuta per approfondire la situazione, non è raro scoprire che il “panico”, in realtà, è stato utilizzato come sinonimo per descrivere una semplice acutizzazione d’ansia. Questa confusione sulla terminologia è incentivata dalla moltitudine di informazioni presenti sul web, utili in alcuni casi, ma spesso fuorvianti per altri. Diviene utile, quindi, comprendere in che cosa consiste realmente l’attacco di panico e ciò che lo differenzia da un episodio di ansia acuta, con l’obiettivo di acquisire maggiore consapevolezza sulla sintomatologia e, di conseguenza, riuscire ad adottare le misure opportune.

Conoscere l’attacco di panico

Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), definisce l’attacco di panico come “una comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo all’interno del quale devono verificarsi almeno 4 dei seguenti sintomi:

–Palpitazioni o tachicardia

–Sudorazione

–Tremori o grandi scosse

–Dispnea o sensazione di soffocamento

–Sensazione di asfissia

–Dolori o fastidio al petto

–Nausea o disturbi addominali

–Sensazione di vertigine o svenimento

–Brividi o vampate di calore

–Parestesie

–Derealizzazione o depersonalizzazione

–Paura di perdere il controllo o impazzire

–Paura di morire”

Per una diagnosi di disturbo di panico, Il DSM-5, afferma che è necessario:

A- aver avuto l’attacco di panico più volte, in modo ricorrente. con la comparsa di almeno 4 dei sintomi elencati precedentemente;

B- che almeno uno degli attacchi sia stato seguito da un mese (o più) di uno o di entrambi i seguenti sintomi:

– preoccupazione persistente per l’insorgere di altri attacchi

– comportamenti disadattivi correlati agli attacchi, come la messa in atto di comportamenti specifici per evitare le situazioni in cui si è verificato l’attacco, fino alla possibilità di sviluppare agorafobia.

Frequentemente si sente infatti parlare del disturbo di panico con agorafobia, qualora la persona con diagnosi di disturbo di panico, abbia sviluppato anche un’ansia marcata in almeno 2 situazioni tra cui: l’utilizzo di trasporti pubblici, il trovarsi in spazi aperti o chiusi, lo stare in fila o tra la folla, o ancora, l’esser fuori casa da soli. Questo perchè potrebbe accadere che una persona inizi ad evitare le situazioni sopracitate per il timore di non riuscire a fuggire o non essere soccorso in caso di sintomi improvvisi correlati al panico.

Al contrario, se non si sono soddisfatti tali criteri, è più facile che l’episodio sia riconducibile ad uno stato di ansia acuto. In questo secondo caso, è possibile domandarsi se l’ansia provata possa esser stata generata da una situazione specifica o, in alternativa, non possa esser ricondotta ad una qualche cosa in particolare. Come farlo? Fermandosi e facendo il punto della situazione! Per capire se l’ansia è “generalizzata” o “specifica”, dovresti registrare su un foglietto (o su un telefono cellulare), in quale tipo di situazione ti trovavi nel momento in cui è insorto l’attacco: quando e dove è avvenuto, con chi eri e cosa stavi facendo/cosa stava accadendo. Dalle risposte, potrai capire se l’ansia sia per lo più riconducibile ad una causa specifica oppure se si tratta di uno stato d’ansia generalizzato, se questi sopraggiunge frequentemente e indistintamente in svariate situazioni e soprattutto non può essere connesso a nessun oggetto specifico.

ATTACCHI DI PANICO: CONOSCERLI PER GESTIRLI

Come si alimenta il panico

Spesso, chi soffre di attacchi di panico riporta la sua grande difficoltà a gestire il problema. Il motivo è che, spesso, quando si cerca di risolvere un disagio, si mettono in atto delle soluzioni che apparentemente sembrano buone ma a lungo andare si rivelano inefficaci, se non addirittura disfunzionali. Nella maggior parte dei casi, è ciò che succede al nostro sistema reattivo-percettivo quando tentiamo di controllare uno stato d’ansia o, ancora peggio, il panico. Si attuano delle “tentate soluzioni” (reazioni, atteggiamenti o comportamenti) che apparentemente sembrano funzionare, ma con il passare del tempo si rivelano inefficaci, non facendo altro che alimentare il problema. Questo accade perché nonostante appaiano poco risolutive, vengono mantenute con ostinazione fino alla creazione di un copione della realtà rigido e disfunzionale. Ad esempio, una tentata soluzione comune a chi soffre di attacchi di panico è quella di esercitare un elevato controllo sulle proprie sensazioni psicofisiche, con l’aspettativa di monitorarle e ridurle; quando in realtà, l’unico risultato sarà quello di farle aumentare e spaventarsi ancora di più. Il classico circolo vizioso potrebbe essere così riconducibile: dalla percezione di pericolo, arriva la reazione di allarme con la sintomatologia correlata (sudore, tachicardia, tremori, paura di morire, ecc.), per poi mettere in atto quelle “soluzioni” (evitamento, fuga, controllo ecc.) che al posto di far diminuire il problema, lo esacerbano, portando così la persona a sperimentare un’amplificazione delle sue percezioni (di vulnerabilità, inefficacia, mancato controllo, senso di fallimento…) con successiva cronicizzazione del problema.

La vera soluzione? Innescare un meccanismo contro-circolare che aggiunge automaticamente nuove esperienze positive correttive nella memoria della persona, spezzando così il circolo.

Le strategie alternative correttive

Chi soffre di attacchi di panico, potrebbe mettere in atto alcune delle seguenti strategie alternative correttive:

La “congiura del silenzio”: anziché parlare del proprio malessere, come comunemente si pensa, bisognerebbe evitare di comunicare agli altri il proprio disagio poiché il continuo parlare peggiorerà il problema;

La tecnica del come peggiorare: allo scopo di capire quali comportamenti bisogna evitare per la cronicizzazione del problema, prova a riflettere su cosa potresti fare per peggiorare i tuoi sintomi. Sembra un contro senso; ma se capisci quali sono le tentate soluzioni che solitamente metti in atto per tenere a bada il problema (ad esempio, una di queste potrebbe essere il prestare troppa attenzione alle sensazioni corporee connesse all’attacco di panico), riuscirai anche ad eliminarle (se l’atteggiamento controllante sulle sensazioni viene trasformato in accettazione, aspettando che passino);

La tecnica della peggiore fantasia: prova ad immergerti ogni giorno per circa mezz’ora nelle tue paure, cercando di evocare volontariamente sensazioni e situazioni che ti creano ansia. Produrre ciò che spaventa, aiuta a diminuire la paura stessa, in virtù del cosiddetto “effetto paradosso” (con più si pensa ad una determinata cosa, con più diventa difficile ottenerla!);

Esercitati in una tecnica di rilassamento: come il rilassamento progressivo di Jackobson, che, grazie alla contrazione e alla successiva distensione di differenti gruppi muscolari, aiuta a localizzare i vari nodi di tensione per poi rilassarli. In alternativa, puoi esercitarti con il training autogeno, una tecnica di rilassamento composta da sei esercizi che, se praticati regolarmente, hanno il beneficio di placare l’ansia e lo stress, apportando un senso generale di benessere psicofisico.

 
Dal Sito: tagmedicina.it 

L’ansia…Non deve spaventarti! Bisogna accoglierla e comprenderla


E’ importante capire che in realtà l’ansia nasce come un’alleata per la persona, è un meccanismo che viene auto-costruito per fermarsi.
L’ansia è un qualcosa che abbiamo tutti e, questo, ci deve far dedurre che è funzionale all’esistenza umana. Nello specifico i problemi legati ad essa avvengono quando diventa troppa e non è più gestibile. Le domande da porsi, quindi, sono: “Perché la mia ansia è diventata troppa da essere disfunzionale per la mia vita? Cosa sta determinando questo sovraccarico? Qual è la fonte di tutto ciò?”

E’ importante capire che in realtà l’ansia nasce come un’alleata per la persona, è un meccanismo che viene auto-costruito per fermarsi. Non a caso spesso le persone che soffrono di disturbi legati all’ansia sono quelle che sono molto impegnate ad essere produttive, che si muovono nella loro esistenza a ritmo di “DEVO ESSERE, DEVO FARE, DEVO DIRE”.

Il bisogno di tenere tutto sotto controllo, infatti, è altamente correlato alla sovrapproduzione di ansia. Attraverso alcuni segnali, come ad esempio il fiato corto, il respiro spezzato, il sudore freddo, i giramenti di testa, l’insonnia, i fischi nelle orecchie, il tremolio degli occhi, il battito cardiaco accelerato, strane sensazioni nel petto e le gambe molli, l’ansia vuole mettere la persona in ascolto di se stessa.

Più la persona segue il suo ritmo frenetico di vita, più l’ansia alza il tiro con la sintomatologia. L’ansia, quindi, va ascoltata con coraggio, va accolta, non deve essere vissuta come un qualcosa di mostruoso da combattere.

Più si finisce a fare a braccio di ferro con essa e più diventa forte e bloccante. Non va evitata, serve a comprendere che devono essere attuati cambiamenti personali importanti, serve a capire che si sta andando in una direzione caratterizzata da un CONFLITTO INTERNO notevole.

Quando c’è una sovrapproduzione di ansia c’è sempre un conflitto interno tra lo stato dell’io genitore e lo stato dell’io bambino. Ogni volta che si presenta, serve a portare alla luce che nella vita c’è qualcosa che non va. E’ proprio per tutto questo che va ascoltata. Se ne andrà non appena la persona inizierà a fare cambiamenti nella sua quotidianità, quando prenderà in mano la sua vita. Se ne andrà quando la persona riconquisterà il piacere di vivere, quando non sarà vittima della paura del giudizio degli altri, della paura dell’abbandono e della paura del rifiuto.

Spesso, più la persona impara ad essere assertiva, a saper dire di NO, e più l’ansia svanisce. La produzione in eccesso è correlata, infatti, al processo dell’implosione. A volte la fonte dell’ansia è una crisi esistenziale in cui non si riesce a capire bene cosa si vuole essere e dove si vuole andare. Quando arriva l’ansia, quindi, con tutto il suo quadro sintomatologico, bisogna accoglierla e comprenderla…

E’ questo il segreto! In teoria nasce come alleata per recuperare la “propria strada”. Un obiettivo può essere quello di conoscere la propria ansia, ridimensionandone lo spazio che occupa ed il potere che ha, leggere il vero messaggio che porta e lo scopo delle sue visite.

Dal sito: tagmedicina.it

martedì 19 novembre 2019

Attacchi di panico: da dove arrivano e come fare per superarli


Dieci milioni di italiani hanno sperimentato almeno una volta nella vita cosa significa vivere un attacco di panico. Vi spieghiamo cosa sono, da dove arrivano e come potete ritrovare la serenità

Cos’è l’attacco di panico?

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V), il Disturbo da Attacchi di Panico fa parte dei Disturbi d’Ansia.

Colpisce prevalentemente il sesso femminile tra i 18 e i 25 anni, tanto che in questa fascia circa il 33% dei giovani ha sperimentato i sintomi del panico. Non solo giovani ma anche donne e uomini di qualsiasi età possono esserne colpiti e dopo che accade il primo attacco di panico, niente è più come prima. Si stima che la seconda fascia di età più colpita sia quella che parte dai 44 e arriva ai 55 anni, è in prevalenza di genere femminile ma è in crescita anche tra gli uomini soprattutto se professionisti di alto livello.

Quando arriva il primo attacco di panico succede letteralmente il panico. La mente va in tilt, non si riesce a ragionare razionalmente, si crede di morire o di stare per impazzire. Fisicamente si fa fatica a respirare, ci sono tremori interni ed esterni, vertigini, formicolii diffusi agli arti, ci possono essere dolori al torace e il cuore sembra impazzito tanto da voler uscire dal petto. La sensazione è quella di essere avvolti da una nube nera che schiaccia il petto e non andrà mai via. L’attacco di panico dura dai 5 a un massimo di 20 minuti, si conclude spesso con un pianto liberatorio e con un ritorno graduale alla realtà. La sensazione che lascia è di profonda stanchezza fisica e di forte ansia.

L’attacco di panico può essere un caso isolato dovuto a difficoltà momentanee oppure può ripetersi con una forma variabile, nei casi più gravi possono essercene anche più al giorno. Perché sia diagnosticato un vero e proprio Disturbo da Attacchi di Panico, almeno un attacco per almeno un mese dovrà essere caratterizzato da una persistente preoccupazione che possa riaccadere in futuro o da un significativo e disfunzionale cambiamento nel comportamento in cui il soggetto ad esempio comincerà a evitare le situazioni percepite come pericolose.

L’attacco di panico viene percepito come una mina vagante che colpisce nei momenti in cui si è più tranquilli, quando non ci sono situazioni di particolare paura ed è proprio questo che terrorizza e paralizza. L’attacco di panico ruba la serenità.

Da dove arrivano?
La prima domanda a cui una persona pensa dopo i primi attacchi di panico è cosa sta succedendo e da dove arrivano queste terribili sensazioni che sta provando. Si ripercorrono gli ultimi eventi di vita e a parte qualche giorno di stress o qualche evento poco piacevole, non sembra sia successo niente di particolarmente rilevante. Il primo attacco può anche arrivare in un momento di forte stress come lutto o malattie che non riusciamo a gestire in altro modo. All’inizio si da tutta la colpa a quel fatto ma mano a mano ci si rende conto che l’evento negativo sta passando mentre il panico rimane. Succede perché, quando arriva l’attacco di panico, il corpo e la mente sono già arrivati al punto di saturazione più alto. Probabilmente avete accumulato silenzi, avete messo da parte troppe volte quel dolore tanto forte quanto pericoloso, avete tappato la bocca a emozioni che non sono mai sparite. Sono rimaste dentro di voi, sono diventate più forti ogni volta che le avete ignorate o soffocate e adesso l’unico modo che hanno per farsi sentire è urlare in questo modo così dirompente e faticoso da accettare. State tranquilli, è normale che non abbiate idea di cosa c’è sotto, è fisiologico che non sappiate quali emozioni sono state trascurate. Se così non fosse non avreste vissuto l’attacco di panico. Adesso però è il momento di dargli una voce.

Come fare per superarli?
Aspettare che il periodo passi non funzionerà. Forse per qualche tempo starete bene ma poi gli attacchi torneranno o si trasformeranno in altre forme altrettanto devastanti. Quello che dovreste fare è evitare che ricapitino e che possano tornare a scatenare la paura. Esistono terapie farmacologiche per curare il Disturbo da Panico ma seguite questa strada solo se consigliata da un professionista di riferimento come uno psichiatra. In ogni caso alla terapia farmacologica andrebbe affiancato un percorso psicoterapeutico atto a scoprire il malessere profondo che si cela dietro queste manifestazioni. Vi verranno insegnate tecniche per gestire gli attacchi e per fare in modo che non facciano più così paura mentre in parallelo si lavorerà su tutti quei pensieri disfunzionali che il panico ha creato. A poco a poco ritornerete a sentire di poter gestire quello che vi succede. Mentre gli attacchi di panico si diraderanno, imparerete a scoprire voi stessi. Darete voce alle vostre emozioni, farete pulizia di pensieri negativi e capirete che gli attacchi di panico, così come l’ansia generalizzata, arrivano per due motivi: salvarvi la vita e farvi rinascere.


ELISA CASTELLANO
Dal Sito: vanityfair.it 

Perché lo yoga funziona come anti stress



Dei benefici dello yoga dal punto di vista della salute fisica abbiamo già parlato: ora, invece, è tempo di approfondire il discorso dei benefici dello yoga sulla salute mentale, nello specifico dello yoga come anti  stress. Questo argomento è stato trattato da un nuovo studio, condotto dalla Boston University School of Medicine, i cui risultati hanno evidenziato che questa pratica orientale può migliorare i sintomi della depressione e dell’ansia sia a breve sia a lungo termine. Lo yoga, quindi, si è confermato un ottimo trattamento (da associare, ovviamente, ai farmaci) da consigliare ai pazienti in cura per problemi di salute mentale.

I benefici dello yoga sulla salute mentale: perché queste pratiche possono aiutare

I ricercatori hanno preso in considerazione 30 pazienti in cura per depressione e ansia, dividendoli casualmente in due gruppi. Tutti i partecipanti, con la supervisione degli esperti, hanno completato delle sessioni di yoga iyengar (uno stile di yoga molto popolare, conosciuto per la sua precisione per gli allineamenti e per l’uso di sostegni) e hanno messo in pratica una serie di tecniche di respirazione.
L’unica differenza tra i due gruppi è consistita nelle ore trascorse a fare yoga durante i tre mesi di osservazione: 123 ore totali per il cosiddetto gruppo ad alto dosaggio, 87 per il gruppo a basso dosaggio.

Sintomi di ansia e depressione più lievi

Gli esperti, monitorando i partecipanti settimana dopo settimana, hanno scoperto che già un mese dopo l’inizio dello studio la qualità del sonno di entrambi i gruppi era notevolmente migliorata. Al termine del periodo di osservazione, inoltre, in quasi tutti i pazienti i sintomi dell’ansia e della depressione erano più lievi.
E non solo: i soggetti si sono mostrati più sereni e ottimisti: “Gli studi passati non si sono mai soffermati sul legame tra yoga e depressione. Il nostro è stato una sorta di studio psicologico per far capire alle persone che questa pratica può essere usata anche per migliorare il benessere mentale. I nostri risultati daranno un input importante alla neurobiologia, che si occuperà di approfondire ulteriormente la questione dal punto di vista clinico”, ha detto Marisa M. Silveri, professoressa di psichiatria e co-autrice della ricerca.

Lo yoga da inserire nelle terapie assieme ai farmaci

In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale del 10 ottobre, gli esperti hanno annunciato che in Italia, al momento, ci sono circa 3 milioni di persone che soffrono di depressione (2milioni sono donne). Questa patologia mentale, dati alla mano, è attualmente laprima causa di disabilità nel mondo.Inoltre, tra il 2005 e il 2015, i casi sono aumentati del 20%. Capire come combattere e limitare la depressione è una delle principali sfide per la salute a livello globale. E lo yoga può senza dubbio essere d’aiuto.
I risultati di questo studio, infatti, testimoniano che queste tecniche, se praticate con regolarità da pazienti con ansia e depressione, possono essere un’efficace terapia da affiancare ai farmaci e ai colloqui con esperti di salute mentale.

Agorafobia: quando l’ansia paralizza



Agorafobia: il disturbo non è solo la paura degli spazi aperti. Emerge secondariamente all’insorgenza di attacchi di panico.

Il mondo al di là dell’uscio di casa può spaventarci e diventare una sfida impossibile da accettare. Può succedere in caso di agorafobia. Il nome, però, non inquadra con la dovuta precisione il disturbo. “Fobia”, tutti lo sappiamo, sta per paura, mentre “agorà”, nell’antica civiltà greca, era il nome che contraddistingueva la piazza principale della città. Così, spesso, l’agorafobia viene intesa come una paura degli spazi aperti, in quanto tali.
Un po’ come se fosse, solamente, il contrario della claustrofobia. Ma non è proprio così, il quadro è un po’ più variegato.

“Infatti, nella maggior parte dei casi– spiega il Direttore della Psichiatria dell’Ospedale Niguarda– l’agorafobia è un problema che emerge secondariamente all’insorgenza di attacchi di panico e che si instaura quando si comincia ad evitare sistematicamente tutti i luoghi, le situazioni ed i contesti nei quali si teme che possa verificarsi una nuova crisi di panico”.

In genere le persone che vivono l’esperienza dell’attacco di panico presentano vari sintomi, anche a livello fisico, ad esempio quelli di tipo cardiocircolatorio, come palpitazioni e tachicardia, ma anche respiro affannoso, sudorazione, dolore o fastidio al petto, vampate di calore e brividi.

Possono associarsi, inoltre, nausea o disturbi addominali, formicolii, sensazione di sbandamento, vertigini e tremori. Questo conduce spesso al timore di perdere il controllo su di sé, di avere un malore o addirittura di essere in procinto di morire.

Nei casi più gravi possono comparire anche sintomi psichici come la depersonalizzazione, cioè l’alterata percezione di sé, caratterizzata da una sensazione di distacco o estraneità dai propri processi di pensiero o dal proprio corpo.

Non tutte le persone che soffrono di attacchi di panico sviluppano l’agorafobia. Quelle interessate dal disturbo temono in particolare le situazioni in cui sarebbe imbarazzante scappare o per cui sarebbe difficile ricevere soccorso.

Di conseguenza, evitano questi luoghi con l’obiettivo di controllare l’ansia legata alla possibilità di una nuova crisi di panico. Quando queste preclusioni iniziano a compromettere le normali attività quotidiane, allora si parla di agorafobia. Il disturbo è due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini e il picco d’esordio è intorno ai primi 20 anni, la comparsa dopo i 40 è rara.

Il trattamento prevede l’uso di psicofarmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (un particolare neurotrasmettitore), sono i cosiddetti antidepressivi SSRI.
Hanno dimostrato efficacia nel prevenire la ricorrenza degli attacchi di panico – sottolinea lo specialista –, possono però presentare effetti collaterali che vanno valutati caso per caso. Nelle fasi iniziali del trattamento possono essere utili anche ansiolitici benzodiazepinici, che vanno però limitati a periodi brevi per il rischio di creare dipendenza. L’altro punto saldo del trattamento è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che permette di avere dei miglioramenti in un arco temporale che va dai sei mesi ad un anno”.


domenica 17 novembre 2019

I cani aiutano a combattere depressione e solitudine 


Il legame che si crea tra un animale domestico e il suo proprietario è speciale e va oltre la semplice compagnia. In molti casi diventa addirittura un membro della famiglia, amato e coccolato e in grado di ricambiarci con lo stesso affetto. Abbiamo già parlato dei benefici che derivano per i nostri bambini dal crescere con un amico a quattro zampe, ma un nuovo interessante studio scientifico pone l’accento sull’importanza che hanno gli animali domestici nel farci stare bene, allontanando stress e depressione.

Lo studio pubblicato su BMC Public Health ha esaminato i cambiamenti dello stato di benessere mentale una volta che si adotta un cane, prendendo in considerazione quattro misure: solitudine, affetto positivo e negativo e angoscia psicologica. I risultati mostrano che chi possiede un cane ha meno probabilità di soffrire di depressione, ansia e stress.

La ricerca ha analizzato gli effetti della compagnia di un cane sulla salute mentale partendo da un presupposto: gli animali domestici si sono evoluti sintonizzandosi profondamente con il nostro comportamento e le nostre emozioni. I cani in modo particolare sono in grado di comprendere molte delle parole che usiamo, ma sono ancora più bravi a interpretare il nostro tono di voce, il linguaggio del corpo e i gesti, valutano il nostro stato emotivo e capiscono anche cosa stiamo pensando, dandoci conforto e sostegno.

Per il nuovo studio, i ricercatori hanno diviso i partecipanti in tre gruppi:

  • le persone senza cane e senza interesse a prenderne uno;
  • le persone che non avevano un cane ma erano molto interessate a prenderne uno in futuro;
  • le persone che hanno avuto un cane entro un mese dall’inizio dello studio.

I partecipanti hanno compilato un questionario per misurare il loro umore, valutando non solo la loro felicità generale, ma anche i sintomi di disagio psicologico come solitudine o stress. Dai risultati è emerso che coloro che erano proprietari da poco di un cane si sentivano significativamente meno soli: l’effetto si è verificato entro 3 mesi e non vi è stata alcuna riduzione negli 8 mesi in cui è durato lo studio.

Gli effetti benefici non derivano soltanto dal possedere un cane ma anche altri animali domestici come gatti o conigli. Molti studi hanno dimostrato che le coccole date ai nostri amici a quattro zampe sollevano l’umore, così come la loro presenza fa ringiovanire e aiuta a ridurre il rischio di malattie cardiache, ma è anche una fonte di felicità e di stabilità mentale.

Gli animali domestici, in particolare cani e gatti, possono ridurre lo stress, l’ansia e la depressione, alleviare la solitudine, incoraggiare all’esercizio fisico e alla giocosità. La cura di un animale può inoltre aiutare i bambini a crescere più sicuri e attivi e la loro compagnia è una risorsa preziosa per gli anziani.

Dal Sito: