venerdì 24 settembre 2021

Accettarsi: 7 consigli per vivere meglio senza piangersi addosso




Imparare ad accettarsi non è semplice. In questo articolo troverai una vera e propria guida con 7 consigli pratici per intraprendere un percorso di auto-consapevolezza verso l’accettazione di sé.

Piccoli o grandi dispiaceri quotidiani, l’insoddisfazione, il fallimento di qualche relazione personale o professionale e centinaia di altre sfide di tutti i giorni, possono mettere a durissima prova l’accettazione di se stessi.

Ad ogni modo, al bando ogni auto-commiserazione. Anche perché, in fondo, c’è almeno una buona notizia: essere in grado di accettarsi è qualcosa che puoi coltivare giorno dopo giorno, come un’abilità da costruire e rinforzare sul tuo carattere e sulla tua personalità.

Per incentivarti a compiere questa strada in modo più spedito e soddisfacente, di seguito ho riportato 7 suggerimenti da leggere con attenzione e applicare fin da oggi.

Sono certo che i risultati non tarderanno ad arrivare e con il passare dei giorni rafforzerai la tua sicurezza e aumenterai l’autostima!

1) Tormentarsi è inutile

Il punto di partenza più efficace è comprendere che è opportuno smetterla di odiarsi. Con questo non voglio dire che iniziando a ripetere a te stesso “sono il migliore!” lo diventerai, ma è bene capire che tormentarsi, essere perennemente insoddisfatti o intolleranti nei confronti del proprio modo d’essere, non ti porterà da nessuna parte.

Insomma, per iniziare il percorso che ti porterà a una piena auto-accettazione, è bene iniziare a demolire qualsiasi tentazione di disdegnarsi e disprezzarsi.

Già solo questo piccolo impegno ti consentirà di rompere alle origini quel circolo di pensieri, ben poco virtuoso, che sta compromettendo la possibilità di vivere un’esistenza più soddisfacente e a tuo agio con te stesso.

Eppure, molte persone esitano a mostrare un po’ di gentilezza nei propri confronti, perché la ritengono immeritata. Ricorda però che la chiave per accettarsi è capire che le debolezze e le fragilità fanno parte dell’esperienza di tutti e accettare chi sei comporta amare te stesso anche per i tuoi difetti, e non “nonostante loro”.

Se vuoi intraprendere un vero e proprio percorso per riacquistare la fiducia in te stesso, ti consiglio di dare un’occhiata ad Autostima Passo Passo, la guida con cui Andrea ti accompagna gradualmente verso la riscoperta del super eroe che c’è in te.

2) Soffermati sui tuoi punti di forza



Una volta che hai capito che odiare te stesso non porta da nessuna parte, devi compiere un altro sforzo che però – ti garantisco – porterà grandi risultati fin da subito: focalizzati sui tuoi punti di forza, mettendo in secondo piano quelli di debolezza.

La tendenza di ogni essere umano è quella di guardare con maggiore severità i propri difetti piuttosto che i punti di forza. Insomma, molte persone – e forse tu sei tra queste – non riescono a vedere i loro punti di forza non perché non ne abbiano, ma perché sono posti in secondo piano rispetto ai punti “negativi”.

Il mio suggerimento è quello di cambiare l’ordine: prova a mettere in primo piano le tue qualità e vedrai che, dinanzi a queste, anche i difetti che oggi sembrano più gravosi, diventeranno più piccoli.

Un piccolo esercizio potrebbe esserti d’aiuto. Se stai vivendo un momento in cui ritieni sia molto difficile accettarsi, prova a prendere un foglio di carta e, ogni mattina, scrivi un tuo punto di forza.

Non è necessario indicare capacità “straordinarie”. Prova ad annotare quelle attitudini che ritieni possano costituire delle qualità positive per te e per gli altri.

Per esempio, puoi iniziare scrivendo che sei una persona gentile (se lo sei!) o particolarmente brava in qualche ambito del tuo lavoro, e così via. Scoprirai che, man mano che evidenzierai le tue qualità, i punti di forza diventeranno sempre più numerosi, vari e inaspettati.

Un altro pratico esercizio che potrebbe esserti utile è realizzare una lista simile, ma sostituendo i punti di forza con le difficoltà che hai superato nel corso della tua vita o con gli obiettivi che hai raggiunto. Così facendo sposterai il focus dalle qualità ai risultati, rinvigorendo la tua autostima.

3) Prendi le distanze dai detrattori

Dai uno sguardo alle persone che ti stanno intorno. Chi parla male di te? E perché permetti a queste persone di ferirti?

Prendi le distanze dalle persone “detrattrici”, che finiranno con il “contagiarti” con la loro negatività.  Di contro, circondati di persone che ti accettano per quello che sei e credono in te. In questo modo creerai il giusto ambiente per accrescere la tua autostima e accettarti con più entusiasmo e maggiore facilità.

4) Sii indulgente con te stesso



È una trappola nella quale caschiamo tutti, prima o poi: i rimpianti che ci legano al passato possono impedirci di accettarci nel presente.

Ebbene, esiste una via di fuga: sii indulgente con te stesso, perdonati e vai avanti!

Che si tratti di qualcosa che hai fatto e non avresti dovuto fare, o di un lato del tuo carattere che ti ha condotto a rompere una relazione, è importante fare tesoro dagli errori, compiere ogni sforzo per migliorarsi, evitare di replicare tali sbagli in futuro e, soprattutto, accettare di non poter cambiare il passato.

Vuoi un esempio? Uno dei maggiori problemi dell’accettarsi deriva dalla nostra incapacità di riconciliare chi siamo rispetto ai sogni che avevamo in gioventù. Magari da bambino pensavi che saresti diventato un calciatore famoso, e invece l’unico calcio che sai dare è quello del giovedì sera, al campo di calcetto. O magari che saresti diventato milionario, e invece fai fatica ad arrivare a fine mese. Oppure che avresti avuto moglie e figli, e invece non hai mai stretto una relazione seria.

Quali che siano i tuoi sogni o i tuoi obiettivi, piangere sul fatto che non sono stati realizzati è del tutto inutile! Piuttosto, capta questi rimorsi e trasformali in energia per fare meglio, oggi!

Ma che fare quando il rimorso affiora dalle nubi del passato, per monopolizzare la tua mente con i suoi rimproveri?

Il metodo che ti consiglio di seguire è semplice, ma efficace. Quando cadi vittima del rimorso, non sfuggirgli, ma affrontalo con decisione. Rifletti sul fatto che all’epoca avevi comunque preso la migliore decisione con le informazioni che avevi a disposizione quindi, la decisione presa, anche se non corretta, in quel momento sembrava essere la scelta più opportuna.

Così facendo, lasciando andare il passato e le cose che non puoi controllare, potrai finalmente liberare dell’energia positiva su ciò puoi governare. Non a caso accettare di avere un problema è il primo passo per apportare cambiamenti positivi verso la sua risoluzione.

5) Zittisci il tuo spirito critico

Il tuo spirito critico è una costante e fastidiosa presenza che rimprovera e disapprova quel che fai e quel che sei. Molte persone fanno l’errore di identificare questo lato del loro animo con la “ragione”, o con quella voce della coscienza che sta dicendo la verità. Errato!

Anche se un po’ di sana critica può essere costruttiva, perché ti induce a migliorare e a riflettere su alcuni aspetti dell’ambiente che ti circonda, ricorda che se lasci troppo spazio allo spirito critico finirai con l’essere schiacciato.

Cerca invece di rispondere a questa presenza con un atteggiamento più costruttivo. Ricorda a te stesso che, come tutte le persone, non sei immune a errori e imperfezioni, e questi non sono necessariamente “cattivi” o “fallimentari”. Si tratta invece di eventi che ti danno l’opportunità di apprendere, riparare e crescere.

6) Aiuta gli altri



Fare beneficenza è una pratica molto salutare… per te, e per le persone che ricevono il frutto dei tuoi sforzi. Ma per quale motivo fare beneficenza può accrescere la possibilità di accettarsi per quel che si è?

Il meccanismo psicologico che si innesca dinanzi al “sacrificio” di rinunciare a qualcosa di proprio per darlo agli altri, fa sì che si possa concretamente vedere come le proprie azioni possano esercitare un’influenza positiva sulle altre vite. Finirai con il sentirti più “buono” e diffonderai questa bontà agli altri, in maniera contagiosa.

Se non puoi fare beneficenza in denaro, puoi comunque aiutare gli altri con un po’ di volontariato. Dopo poco tempo ti renderai conto che ciò che darai è sicuramente molto meno di ciò che riceverai in cambio.

7) Parla con la tua versione migliore

Alcuni psicologi sostengono che un metodo utile per accettarsi è quello di usare l’immaginazione per interagire con una versione migliore di se stessi. Ma come?

Prova a visualizzare nella tua mente un “io” che è migliore, più gentile, più onesto, più empatico e più disponibile. E che può consigliarti su cosa fare e cosa non fare.

Visualizzare una sorta di “separazione” dell’io sofferente attuale dall’io migliore futuro, può aiutarti a sfruttare una saggezza che già si trova dentro di te. Un esercizio semplice, che ti permetterà di comprendere come dimostrare empatia, compassione e amore verso te stesso in modo più immediato!

Naturalmente sono consapevole che questo esercizio potrebbe non essere facile da applicare, soprattutto nelle prime occasioni. Per questo motivo ti suggerisco di ritagliarti uno spazio sufficientemente silenzioso e isolato, prenderti qualche minuto per meditare e praticare questa visualizzazione ogni volta che sei in difficoltà o hai bisogno di un “sostegno” per prendere decisioni importanti.

Perché non provo più nessuna emozione? L’anedonia e l’appiattimento emotivo




Esistono persone che improvvisamente smettono di provare emozioni, sia piacevoli che spiacevoli, nonostante gli sforzi realizzati per ritornare a provare qualcosa. Rabbia, felicità, piacere o tristezza. Sparite. Come se un’armatura intorno al cuore impedisse alle emozioni di fuoriuscire, anche con le persone care. Un’armatura costruita poco a poco senza rendersene conto, e che, una volta chiusa, non permette di vedere il fantastico mondo emotivo che si cela all’interno. Ma perché accade? E com’è possibile riattivare le poprie emozioni?

Appiattimento emotivo

Si parla di appiattimento emotivo quando la persona non sente più le emozioni, piacevoli o spiacevoli che siano, neanche per le persone care: sembra che tutto le scorra addosso senza più nessun senso. In generale si parla di anedonia quando questo appiattimento emotivo si verifica all’improvviso, mentre esistono altri tipi di disturbi che prevedono un’assenza di emozioni, legati all’apatia e all’alessitimia. Vediamoli tutti nello specifico.

Cos’è l’anedonia?

Perché quando si parla di anedonia si parla di appiattimento emotivo? Normalmente l’anedonia si verifica con una perdita di interesse o incapacità di provare piacere svolgendo attività che dovrebbe o essere gratificanti, come per esempio il sesso, il mangiare, le interazioni sociali o altre attività emotive-sensoriali.

L’anedonia è pertanto considerata tale non solo quando la perdita del piacere è totale, ma anche quando è solo relegata ad alcune sfere. In questo senso si parla di appiattimento emotivo proprio perché normalmente tale disconnessione non avviene su base volontaria, ma su base inconscia e in persone molto sensibili emotivamente. Questo tipo di fenomeno può verificarsi quando la persona si sente così vulnerabile o quando il dolore è così intenso che in qualche modo la persona si spegne per non sentire più.

L’anedomia può pertanto essere causata da un trauma, ma può essere anche sintomo di patologie come la depressione o la schizofrenia, ma anche di alcolismo o di abuso di sostanze stupefacenti. È importante considerarla come sintomo (e non come disturbo) perché appunto può essere l’allarme di altre patologie mediche più nascoste, come disturbi dell’umore, della personalità, psicotici o di abuso di sostanze.

Possiamo definire due tipi di anedonia:

• sociale: ovvero la mancanza di piacere e interesse avviene per tutte quelle attività che coinvolgono relazioni sociali, mettendo in atto comportamenti di evitamento e isolamento;

• fisica: riguarda l’assenza di piacere verso condizione più sensoriali, come per esempio il cibo.

L’anedonia risulta invalidante e spiazzante, proprio perché il piacere è fondamentale a livello psicologico dal momento che segnala il soddisfacimento di un bisogno a livello individuale e la conseguente gratificazione è un indicatore di quali comportamenti siano necessari all’individuo per il suo benessere psicofisico e la sua sopravvivenza.

Quando facciamo esperienza del piacere impariamo quali sono i comportamenti che ci fanno bene e tendiamo a ripeterli per poter di nuovo rivivere tale sensazione. Nel momento in cui si presenta l’anedonia e il conseguente appiattimento emotivo, ovviamente non siamo più in grado di ripetere tale esperienza e di vivere tali sensazioni, rendendo così il mondo privo di significato e di attrazione.

L’anedonia si configura come una difesa del nostro cervello che ci impedisce di sentirci male, ma allo stesso tempo anche di sentirci bene. È un isolamento emotivo che porta a non soffrire ma che finisce per essere una tortura che impedisce alla persona di vivere. Trasforma chi ne soffre in un robot freddo e senza emozioni: non si prova più interesse per niente, né affetto per gli altri, né passione per le cose come la musica o un libro, né commozione davanti alle cose brutte o amore davanti alle belle. Un abisso vuoto di sensazioni.



Anedonia e alessitimia

Abbiamo definito l’anedonia come un appiattimento emotivo che può essere qualificato come un sintomo di un disturbo più profondo. Bisogna distinguere questo tipo di anestesia emotiva da un’altra condizione, definita alessitimia. L’alessitimia viene definita come l’incapacità di identificare e riconoscere le proprie emozioni per un lungo periodo di tempo Per questo alessitimia e anedonia possono essere confuse perché hanno caratteristiche simili: in entrambi i casi, è difficile identificare e riconoscere le proprie emozioni.

La differenza la fa principalmente il fattore tempo: una persona alessitimica non è mai stata in grado di riconoscere o provare emozioni, mentre per la persona anedonica esiste un prima o un dopo, ovvero esiste un momento (che può essere più o meno identificabile) in cui la persona ha smesso di sentire.

Anedonia e apatia

Anche l’anedonia e l’apatia, anche se si presentano con dei tratti simili e a volte possono manifestarsi contemporaneamente, sono disagi diversi tra loro. L’apatia si identifica come la mancanza di motivazione per realizzare un comportamento volto alla realizzazione di un obiettivo o all’attività cognitiva ed emotiva. Questo significa che le persone che soffrono di apatia molto spesso non hanno voglia di fare...niente! L’apatia rende difficile intraprendere qualsiasi nuovo comportamento: è un disagio caratterizzato da un’immobilità mentale, fisica ed emotiva. L’apatia può avere molteplici cause, può essere anch’essa considerata un sintomo di un disagio più profondo, ma può anche essere associata a uno specifico momento della vita dell’individuo (per esempio l’adolescenza).

L’anedonia invece come abbiamo già accennato è la mancanza di qualsiasi tipo di emozione. In particolare gli individui smettono di provare piacere per le attività, quindi in qualche modo è come se mancassero di motivazione, ma in realtà è il sistema legato alle forma di gratificazione/piacere che viene compromesso.

Un’altra differenza da sottolineare è quella esistenza tra anedonia e psicopatia: quest'ultima si caratterizza come una condizione in cui vi è una totale assenza di emozioni, empatia e senso di colpa, prodotta dall’incapacità di mettersi nei panni dell’altro.




I sintomi dell’anedonia

I sintomi dell’anedonia riguardano appunto l’incapacità di provare emozione, a partire da un determinato momento della vita. Come abbiamo già accennato esistono due tipi di anedonia: uno sociale, che riguarda la mancanza di piacere nelle interazioni sociali, e una fisica, che riguarda la mancanza di piacere sensoriale, per esempio verso il cibo o il sesso.

A livello di sintomi, entrambe queste categorie includono:

• isolamento ed evitamento sociale;

• mancanza di interazione e relazioni sociali;

• appiattimento emotivo che si riversa anche nelle capacità comunicativa e verbali;

• difficoltà di adattamento alle relazioni sociali;

• fingere emozioni che in realtà non si stanno provando, in risposta ad alcune necessità sociali (essere tristi davanti a una notizia triste o felice in contesti allegri);

• calo della libido e disinteresse per l'intimità;

• problemi fisici persistenti.

Perché soffro di anedonia?

Abbiamo visto che l’anedonia può essere sintomo di disturbi più profondi. Ma come mai compare? E come possiamo capire se si sta soffrendo di anedonia?

L’anedonia compare quando non sopportiamo più il dolore: è una difesa che il cervello mette in atto per proteggerci dagli stati depressivi. In questo modo è possibile quasi vivere normalmente all’inizio: smettendo di sentire dolore si può continuare a stare in società, a lavorare, senza che sia necessario riposare per migliorare la depressione, o mettere in discussione le cose che non piacciono. O ancora non è necessario imparare dagli errori, aprirsi all’altro, chiedere perdono o pretendere qualcosa dagli altri.

Apparentemente tutto potrebbe continuare in questo modo senza destare troppi sospetti negli altri: nessun dolore né felicità, l’importante è non stringere nessun tipo di legame e restare isolati. Ma la realtà profonda è ben diversa.

Chi soffre di anedonia sa che qualcosa non va ed è preoccupato per l’assenza di emozioni, ma molto spesso non sa quando sia iniziato tale disagio né come uscirne. In alcuni casi la disconnessione è talmente forte che che si arriva a vivere come in una bolla, senza riconoscere più i diversi di problemi sociali, relazionali, famigliari, etc

E le persone intorno a chi soffre di anedonia catalogano questo persona come fredda e menefreghista e sottolineando il fatto che non si è più gli stessi. La tortura della persona che soffre di anedonia è proprio quI: da un lato non si prova niente né tantomeno si prova interessa per ciò che dicono gli altri, ma allo stesso tempo si capisce che c’è qualcosa che non va e si cerca di provare qualcosa, ma non ci si riesce.

Una lotta interiore che prende le fila dal fatto di voler provare qualcosa senza riuscirvi. Questo meccanismo di difesa funziona uccidendo allo stesso modo sia le emozioni piacevoli che quelle spiacevoli.

Le cause neuropsicologiche dell’anedonia


A livello neurologico non è ancora chiara da dove derivi tale disagio, ma si tende a credere che derivi da un mix di diversi fattori, tra cui fattori ambientali, genetici, culturali e sociali. L’anedonia infatti si configura primariamente come un deficit legato ai meccanismi neurali che processano la ricompensa. In particolare l’interferenza si verificherebbe in quel complesso sistema di aree e vie neurali, tra cui le  aree cerebrali corticali, che generano la pianificazione di quei comportamenti diretti a uno scopo: ovvero vi è un deficit nella ricerca della motivazione per quei comportamenti che potrebbero portare alla gratificazione e al piacere.

Nonostante non si sappia esattamente cosa scateni questo disagio, si ritiene che i bassi livelli di attivazione della corteccia prefrontale possano essere collegati a vari fattori ambientali tra cui stress cronico, un evento traumatico o l’abuso di sostanze.




Si guarisce dall'anedonia?

Si guarisce dall’anedonia? Cosa si può fare per ritornare a provare e sentire le emozioni? Essendo sintomo di un disturbo profondo, può essere molto difficile riuscire a guarire da soli dall’anedonia. Pertanto il primo consiglio è sempre quello di richiedere aiuto a un psicoterapeuta professionista per potere intraprendere un percorso terapeutico e ricercare la radice del problema.

In ogni caso, se ci dovessimo sentire in un momento di appiattimento emotivo, potremmo provare a lavorare su noi stessi cercando di capirne il perché è quando iniziato. Proviamo a vedere alcuni passi che potrebbero essere utili:

• Il primo interrogativo potrebbe essere quello di cercare la cause (o le cause) dell’anedonia. Per esempio; quando è stata la prima volta che si è provato tale appiattimento emotivo? A volte la causa o il trauma sono molto chiare, ma in altri casi potrebbe essere la somma di piccoli eventi che sommati poco a poco hanno riempito di dolore la persona portandola a spegnere i suoi sentimenti. Per questo è utile capire quando è stata la prima volta che ci siamo resi conto di non provare niente e la causa scatenante di questo disagio.

• Una volta individuata l’origine di tale disagio, potrebbe essere utile analizzare il proprio passato per affrontare ciò che ha fatto scattare tale meccanismo di difesa. Questo punto è fondamentale per accettare e superare il dolore, facendo sí che si possa imparare a vivre nel presente senza carichi aggiuntivi che arrivino dal passato.

• Arrivati a questo punto è importante chiedersi di che cosa si ha bisogno, ora che tale emozioni ed esperienza è stata digerita, per poter vivere un presente appagante e felice?

• L’ultimo passo è cercare di ricordare cosa si provava e cosa si faceva quando si provavano determinate emozioni: etichettando le diverse sensazioni può essere più facile rientrare nello schema comportamentale che le genera.

Ovviamente questi punti sono solo dei piccoli esercizi di analisi: se il malessere dovesse continuare è fondamentale contattare uno psicologo per aiutare a individuare e superare tale problema. 


Dal Sito: guidapsicologi.it  


Teniamoci lontano dalla sindrome dell’ “Era meglio prima”




“Si stava meglio quando si stava peggio”? Davvero “non ci sono più le cose di una volta”?…

Vivere nei ricordi di tempi passatiessere nostalgici di ciò che è stato e non è più può costituire una posizione psichica ed esistenziale in cui una persona si ritrova bloccata, incapace di abituarsi ai cambiamenti e procedere verso il futuro. Combattere la nostalgia per abbracciare il cambiamento non significa rinnegare il passato, ma prenderne le giuste distanze con onestà e realismo traendone ispirazione o insegnamento per procedere in avanti.

“La nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare.”

(Milan Kundera)

Il significato di nostalgia in psicologia

La nostalgia è un sentimento dolce-amaro nel quale si riporta alla memoria l’emotività positiva di un momento passato, ma al tempo stesso si prova una struggente tristezza per non poterlo più rivivere nel presente. È un sentimento diverso dalla tristezza del lutto perché, a differenza di questa, consente di apprezzare e gioire degli aspetti positivi del passato. Può riguardare una persona effettivamente scomparsa dalla propria vita, ma anche un episodio specifico o un’epoca della propria esistenza. Sembra che la nostalgia si impadronisca più facilmente delle persone in là con gli anni, ma esistono anche persone relativamente giovani, magari all’inizio della propria vita adulta, che non esitano a rimpiangere la spensieratezza dei tempi dell’adolescenza o dell’infanzia.

A volta la nostalgia può sorprenderci nei momenti più impensati quando un dettaglio della nostra esperienza sensoriale ci fa rivivere certi ricordi lontani, come avviene nel celebre brano delle madeleine di Proust:

“… appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine. Ma lo superava infinitamente (…) Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito (…) e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me.”

(Marcel Proust, Dalla parte di Swann – Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi)

Altre volte invece, la nostalgia può essere una modalità affettiva con la quale una persona tende a vivere il presente, presa più dal rimpianto di ciò che è stato che dalla motivazione a il vivere  presente. In questi casi la nostalgia può rivelarsi una trappola: si tende a idealizzare un passato lontano a confronto del quale il presente non risulterà mai all’altezza. Questo rischia di demotivare ulteriormente. Ma è davvero così?

Il “mito dell’età dell’oro” è presente in molte culture umane fin dalla notte dei tempi, lo ritroviamo dell’antica Grecia (si pensi a Esiodo) o narrato da Virgilio nell’antica Roma o, ancora, raccontato nella Genesi del Vecchio Testamento. In tutti i casi si fa riferimento a un’epoca ancestrale e mitica nella quale gli esseri umani erano privi degli affanni della mortalità, delle malattie e della necessità di lavorare; vivevano in armonia con la natura e con gli dei (o con Dio, privi del cosiddetto “peccato originale”).

A un accadimento drammatico, di “rottura” si fa risalire in genera l’origine di tutti i mali “terreni” di uomini e donne: l’apertura del vaso di Pandora oppure l’assaggio della mela da parte di Eva (da notare che spesso il sottofondo di questi miti ha un carattere spiccatamente misogino).

Sembrerebbe parte della natura umana dunque “fuggire” dai problemi e dalle limitazioni attuali per rivangare un passato “mitico”. È ciò che accade sia al livello sovrapersonale, come negli esempi citati, sia a livello individuale ogni qual volta una persona non riesce a trovare energie o motivazioni per adattarsi a un cambiamento e si rifugia nel passato. Quest’ultimo può venire facilmente idealizzato ed edulcorato dai meccanismi della nostra memoria.

Ogni qual volta rinveniamo un ricordo autobiografico nella nostra mente, infatti, non ci rappresentiamo una copia esatta ed esclusivamente “fattuale” dell’episodio o del periodo della nostra vita in questione. Accade invece di rielaborare le nostre memorie omettendo magari dettagli contraddittori, giustificando a posteriori certe scelte nostre o altrui, amplificando o sminuendo il ruolo di certi fattori e così via… Lo stato d’animo in cui ci troviamo a rievocare questi ricordi può influenzare potentemente il modo in cui li “riassembliamo” e, se siamo guidati da una fuga nella nostalgia nella nostra personale “età dell’oro”, potremo facilmente ricostruire gli eventi in modo parziale e semplificato evidenziandone solo ed esclusivamente gli aspetti postivi e minimizzando quello negativi che pure in passato potrebbero averci fatto soffrire.



È come se avessimo a disposizione una nostra cineteca personale che è in grado di produrre non solo film differenti, ma anche versioni diverse di una stessa storia a seconda dei “filtri” emozionali che utilizziamo per proiettarla nella nostra mente.


Come uscire dalla nostalgia quando ci fa soffrire

Quando rimaniamo imprigionati nel film mentale della nostra personale “età dell’oro” ci ritroviamo involontariamente a vivere una cesura fra passato e presente, li avvertiamo come due mondi separati l’uno dall’altro fra cui non c’è possibilità di comunicazione. Ma dobbiamo sempre ricordarci che il regista siamo noi, siamo sempre stati noi e che quello che siamo oggi è in ogni caso il risultato di ciò che siamo stati e abbiamo vissuto in passato. Nei momenti in cui il nostro sistema mentale è attaccato dai ricordi potremmo avere difficoltà a percepirci soggetti attivi della nostra vita, potremmo sentirci più facilmente passivi rispetto sia agli eventi positivi del passato che a quelli difficili del presente.

• Quali erano invece gli elementi di difficoltà o di preoccupazione che avevate anche nel tempo tanto idealizzato di cui oggi sentite nostalgia?

• E quali strategie e risorse personali avete attivato per superarli?

• Quali elementi della vostra personalità, del vostro carattere, delle vostre abilità sociali avete utilizzato allora per reagire alle difficoltà e godere della bellezza di ciò che avevate?

• Cosa può insegnarvi il ricordo di tutto questo? Ci sono capacità personali che state tenendo “nel cassetto” e che invece anche oggi potreste utilizzare per affrontare il presente?

• Se alcuni aspetti del passato vi suscitano nostalgia, quali obiettivi di cambiamento potrebbero ispirarvi nella vita di oggi? (Alcuni ad esempio nel rimpiangere l’infanzia dei figli potrebbero trovare gratificante occuparsi di qualcuno in azioni di volontariato sociale o di baby sitting; altri potrebbero usare le energie che un tempo spendevano nel lavoro per scoprire hobby a cui prima non avrebbero avuto modo di dedicarsi; altri ancora potrebbero coltivare attivamente il proprio bisogno di tornare all’adolescenza concedendosi qualche occasione di svago con l’intento di ricaricarsi per le responsabilità della vita adulta).

Il passato ci continua ad appartenere, sempre, e sempre può dirci qualcosa non solo su chi siamo stati, ma su chi siamo adesso, su quali risorse, sogni e desideri ci contraddistinguono e ci hanno permesso di diventare le persone che siamo. Quello che ci sembra di aver perso negli anni può essere una preziosa fonte di ispirazione per ciò che invece possiamo ricercare, in modi e tempi diversi, anche oggi adattandoci ai cambiamenti che la vita ci impone.

Il passato può essere una prigione da cui non riusciamo a vedere altri orizzonti, oppure una fonte di ispirazione per trovare nuove strade sul nostro cammino…

“Se col pensiero avete da misurare il tempo in stagioni, fate allora che ciascuna stagione cinga tutte le altre, E che il presente abbracci il passato con il ricordo e il futuro con l’ardente desiderio.”

(Kahlil Gibran, Il profeta, 1923)



 Cristina Rubano
Dal sito: eticamente.net

Ansia: quando serve la psicoterapia






Alzi la mano chi non ha mai detto, almeno una volta, di aver provato ansia in una determinata situazione: un esame, un appuntamento, un colloquio di lavoro. Sono davvero tante le situazioni in grado di innescare quell'agitazione, facendoci vivere male.


La pandemia ha aumentato l'ansia?

Negli ultimi tempi, a causa della pandemia, una certa forma di ansia generalizzata ha colpito un po' tutti: la paura del virus, i ripetuti lockdown e naturalmente le preoccupazioni economiche attanagliano una fetta rilevante della popolazione. Aggiungiamo che una delle forme più subdole di ansia, l'ipocondria, riguarda proprio la paura delle malattie, per comprendere come molte persone in questi mesi stiano soffrendo oltre misura la situazione in atto, con conseguenze rilevanti sulla qualità della vita e la salute.

Psicoterapia a distanza: uno strumento prezioso

Non è certo un caso che la richiesta di psicoterapia e supporto psicologico sia in costante aumento, con balzi anche del 30% (fonte: Istat) rispetto alla situazione prepandemica. La possibilità sempre più diffusa di prestazioni psicoterapiche on line attraverso note piattaforme (Skype, Zoom, Meet) ha certamente favorito la crescita della domanda; a fianco della DAD, per molte persone e tantissimi psicoterapeuti è iniziata la PAD, psicoterapia a distanza! Date queste premesse, nei confronti dell'ansia quando è davvero necessaria la psicoterapia e quando possiamo invece farcela da soli? Abbiamo girato la domanda a Andrea Nervetti, Vice Direttore della Scuola di Specializzazione in psicoterapia dell'Istituto Riza.

L'ansia ha molti volti

"Iniziamo col dire che esistono molte forme di ansia" spiega lo psicoterapeuta "e la maggioranza in verità ha poco o nulla a che vedere con la pandemia in corso, ipocondria esclusa. Persino in questo caso però, la pandemia è un innesco, non la causa profonda del malessere, che è sempre interiore."

Intende dire che l'ansia da pandemia non esiste?

"Intendo dire che la causa profonda di ogni malessere psicologico è sempre profonda, non ha a che fare se non a livello superficiale con gli accadimenti del mondo esterno, pandemia compresa. Ha dunque a che vedere con dinamiche interne dell'individuo che soffre. Naturalmente, una situazione di tale gravità, che ha impattato in maniera così vasta sulle vite di tutti, ha un'incidenza sullo stato dell'umore di chiunque, ma le situazioni di ansia che richiedono l'intervento della psicoterapia non hanno praticamente mai a che vedere solo con la paura del virus e gli altri stati d'animo al covid connessi."

Quali sono queste situazioni?

"I disturbi ossessivo compulsivi anzitutto: si tratta di forme di ansia molto subdole che rendono la vita quotidiana molto pesante. Le persone che ne soffrono si costringono a rituali di pulizia o di controllo così complessi e faticosi da impattare negativamente sul vissuto quotidiano e sulle relazioni sociali. In questi casi la psicoterapia è fondamentale ma non solo in questi."

A cosa si riferisce?

"Anche l'ipocondria, l'ansia delle malattie, può diventare un vero ostacolo a una vita serena, così come alcune forme di ansia da prestazione, non solo a livello sessuale. In generale, credo che la psicoterapia serva in tutti quei casi nei quali il disturbo incide direttamente sui principali ambiti esistenziali (lavoro, famiglia, amore) mettendoli a rischio. Questo vale anche per i disturbi di personalità e per quelli relativi al comportamento alimentare: anche in questi casi, la gestione degli impulsi ansiosi che generano i comportamenti disfunzionali andrebbe affrontata con un professionista."

Quando invece possiamo cavarcela da soli?

"In molti casi l'ansia è gestibile senza aiuti esterni. Esistono molte pubblicazioni che offrono preziosi strumenti in grado di aiutare le persone a vivere questa emozione. L'immaginazione creativa, la cedevolezza, allontanarsi dall'idea che eventi del passato siano i responsabili degli stati d'animo odierni: ecco alcuni degli atteggiamenti giusti che possiamo mettere in campo per difenderci dall'ansia."

E che cosa invece cronicizza il disturbo?

"Combattere l'ansia, razionalizzarla, pensare di gestirla attraverso un pervicace controllo della nostra vita. Sono le emozioni a determinarci, non il contrario. Accade anche per l'ansia. ma smettere e indossare gli abiti mentali giusto è alla portata di chiunque".

Dal Sito: riza.it

Colon irritabile: cause, sintomi e interpretazione psicosomatica





Il colon irritabile, noto anche con l’acronimo IBS, dall’inglese Irritable Bowel Syndrome, è un disturbo caratterizzato da un’ipersensibilità dell’intestino crasso – il colon appunto – che genera un’alternanza di stitichezza e d’improvvise scariche diarroiche e dolori addominali, con una prevalenza di questa seconda manifestazione.


Colon irritabile: cosa ci dice la medicina ufficiale

La colite lievemente cronica, meglio definita “sindrome da colon irritabile”, è un disturbo che, di solito, viene diagnosticato per esclusione, ossia quando non ci sono altri motivi per spiegare il malessere riferito dal paziente. Proprio per eliminare altri possibili fattori vengono effettuati alcuni esami strumentali, come la colonscopia, il test per l’intolleranza al lattosio o gli esami del sangue per la celiachia, che può manifestare sintomi simili a quelli che caratterizzano la sindrome dell’intestino irritabile. Anche le origini del problema sono incerte: s’ipotizza uno scorretto funzionamento della mucosa intestinale e del sistema immunitario, con la produzione irregolare dei neurotrasmettitori, come la serotonina, che determinano, inoltre, le contrazioni della muscolatura liscia del colon oppure lo stress e lo stato psicologico della persona. L’unica cosa chiara ed evidente di questa patologia sono i sintomi: sono così imponenti da condizionare profondamente la vita quotidiana. I sintomi colitici, come dolore addominale, gonfiore, sensazione di evacuazione incompleta e disfunzioni dell’apparato digerente, sopraggiungono in modo imprevedibile e sconvolgente, rendendo il soggetto un vero “prigioniero” della toilette. Chi soffre di colon irritabile è costretto, quindi, a evitare molte situazioni sociali oppure, se proprio non può evitarle – si pensi al contesto lavorativo – vi si approccia con ansia, il che aumenta sensibilmente la probabilità della temuta scarica intestinale.

L’intestino è un secondo cervello

Tutti ne parlano e anche recenti studi lo confermano: l’intestino è un secondo cervello. Non si tratta, dunque, di un organo preposto solo al funzionamento periferico adibito a liberare l’organismo dalle scorie, bensì appare dotato di un proprio tessuto neuronale autonomo capace di elaborare sensazioni ed emozioni. Per questo motivo, quando proviamo ansia o stress, l’intestino lo comunica, facendosi sentire, attraverso disturbi come stipsidiarrea o il colon irritabile, che alterna le due. Le ragioni, inoltre, che associano il cervello e all’intestino sono molteplici. Il primo assorbe dall’esterno stimoli e impressioni, poi li metabolizza, ne conserva una parte, quella utile a vivere, ed elimina il rimanente. L’intestino prende dal cibo i nutritivi essenziali che servono al corpo per funzionare e smaltisce ciò che è in eccesso. In entrambi i casi se questo meccanismo non si svolge correttamente arrivano i problemi: pensieri destinati ad essere cestinati tessono trame vorticose nella mente e la intasano; in egual modo un intestino pigro, nel quale il cibo ristagna, intossica tutto il corpo. Quel che ci accade nella vita viene elaborato a entrambi i livelli e se la parte alta non riesce ad affrontare del tutto un problema, quella bassa gli viene in soccorso, ovviamente a modo suo, con il suo linguaggio biologico.

Colon irritabile: la prospettiva psicosomatica

Numerose ricerche scientifiche dimostrano l'efficacia di un approccio di tipo psicosomatico alla cura della sindrome da colon irritabile. L’irrequietezza intestinale mette spesso in imbarazzo chi ne soffre e lo costringe a ridurre la propria libertà d’azione, abitudini e pulsioni, inducendo frequenti stati d’ansia e un senso di frustrazione che può sfociare in comportamenti depressivi. Anche se i farmaci, sia quelli convenzionali, sia quelli alternativi, di solito non funzionano, il problema del colon irritabile è risolvibile, ma è necessario cambiare strategia. Non basta ridurre tutto in termini di stress, bensì bisogna ascoltare ciò che il nostro corpo vuole comunicarci con un disturbo che arriva all’improvviso e poi va via, e torna più volte. Per questo la “chiave d’accesso” che più ci avvicina a questa fastidiosa patologia è proprio quella psicosomatica, che secondo molti ricercatori ha permesso di individuare anche le caratteristiche emotive comuni a tutte le persone che ne soffrono. Di frequente nella vita del soggetto affetto da colon irritabile sono presenti molte restrizioni o imposizioni che hanno messo a tacere ogni realizzazione personale e l’espressione della personalità, generando paurarabbiavergogna e una profonda disistima di sé.

Colon irritabile: alla base c’è un’insicurezza psicologica

Uno dei tratti distintivi del colon irritabile è il fatto che in questa sindrome possano alternarsi stipsi e diarrea. Ciascuno di questi disturbi ha precise caratteristiche, ma è proprio il loro succedersi a consentirci di fare un parallelo tra il comportamento intestinale e quello emotivo. In quest’ottica, che ha prove scientifiche e psicologiche molto solide, il costante alternarsi di un atteggiamento mentale come l’apertura e la chiusura, rimanda alle fasi di evacuazione frequenti e rare, con un’indecisione di base tra dare e trattenere, esprimere e aspettare, agire o non agire, soddisfare i propri bisogni e negarli, arrabbiarsi e nascondere la rabbia. Tutto ciò crea una sorta di enorme dubbio riguardo alla possibilità di mostrarsi così come si è oppure no, a causa di un’esistenziale paura di non essere accettati e perciò una grande insicurezza. In sostanza, come anticipato, si tratta di un problema di autostima. Chi soffre di colon irritabile sta attraversando una fase di radicata incertezza, non su qualcosa di specifico, ma sul proprio valore, sulla propria identità e su ciò che vuole per davvero. Forse la vita che sta vivendo non è più quella che fa per lui, come suggeriscono le parole dell’istinto, ma la paura di cambiare, l’eccesso di razionalità, lo convincono dell’opposto, costringendolo a un tira e molla continuo che si riflette sulla funzionalità intestinale. Quest’eterno oscillare da un sintomo all’altro (dalla stipsi alla diarrea) esprime, infatti, la ricerca di un baricentro sicuro, stabile, che consenta di affrontare la situazione. Ecco perché la soluzione vera per il colon irritabile passa dalla psiche. Ognuno può scegliere quale sia il percorso più adatto: un lavoro psicologico, un arricchimento delle risorse mentali, un migliore contatto con il proprio corpo e spirito. Ciò che conta è considerare che un disturbo così brutale e viscerale riguarda, in realtà, una delle parti che costituiscono nel profondo ciò che siamo davvero: la fiducia, la stima, la consapevolezza di sé. Il sintomo ci chiede di farli crescere.

Colon irritabile: l’identikit di chi ne soffre

Chi soffre di colon irritabile si trova al centro in un forte conflitto, percosso da due forze uguali e contrarie: una natura espansiva, sanguigna e molto emotiva che si oppone al timore che tale aspetto di sé incontrollabile prenda il sopravvento. La dualità è vissuta a vari livelli: desiderio di libertà e senso di colpaistinto e ragionecontrollo e disordine. Si cerca così di far coesistere due universi e dietro a un self-control solo di facciata si cela un vulcano che da un momento all’altro potrebbe esplodere.

Colon irritabile: gli atteggiamenti giusti

Se la sindrome da colon irritabile manifesta quindi una difficoltà a elaborare e sviluppare il mondo interiore, un ottimo contributo al superamento del problema è cercare di dare forma: alla personalità, alle emozioni, alla creatività, al lavoro psichico. Non una forma qualsiasi, ma chiaramente una che sia la propria. Ognuno di noi ha bisogno di tradurre in immagini, in fatti tangibili, in attività definite, quel che è realmente è e quel che ha dentro di sé. È un bisogno primario della psiche: assecondarlo aiuterà, grazie alle similitudini tra cervello e intestino, ad equilibrare meglio anche l’esigenza primaria fisiologica che si esprime con le feci.

ABBI CURA DEL TUO CORPO

Avere fiducia in se stessi vuol dire percepire il corpo come un saldo fondamento su cui poggia tutto il nostro mondo, la nostra persona. Per questo è necessario dargli le giuste attenzioni. Possono essere d’aiuto tutte le tecniche che agiscono in questo senso, dai vari tipi di massaggio agli sport di disciplina come il tai-chi, il karate o la danza. Può essere utile, come spiegano i ricercatori dell’University of California di Los Angeles, anche una pratica meditativa come la mindfulness: la consapevolezza di essere presenti nel “qui e ora”, che ci conduce alla pienezza del vivere.

DI COSA HAI DAVVERO BISOGNO

L’irritabilità intestinale, sia simbolicamente sia concretamente, continua a ricordare a chi ne è affetto che esistono dei “bisogni primari” di cui occuparsi subito, cosa che ora non sta facendo. Individua quali solo le tue vere e più profonde esigenze interiori, i tuoi desideri, e comincia a esprimerli e a soddisfarli uno per volta, così da rendere vano questo continuo allarme acceso dall’intestino.

STOP AI SENSI DI COLPA

Se l’intestino è sensibile, di riflesso, anche la personalità sarà molto suscettibile alle critiche dell’ambiente esterno. Questa paura può essere vinta soltanto riequilibrando le relazioni con gli altri. Non stare sempre sulla difensiva e angosciosa ricezione dei giudizi altrui, sii morbido: se li temi è perché tu per primo non dai voce alle tue necessità e opinioni, ai “sì” e ai “no” che ti vengono da dentro, magari li zittisci e li cancelli prima che escano dalla bocca. È ora, quindi, di fare spazio alle tue esigenzesenza nessun senso di colpa.

L'ESERCIZIO CATARTICO

Un esercizio che può aiutare a liberarti da tutti i sensi di colpa, le paure, i rimorsi che ti opprimono è metterli in nero su bianco su un foglio di carta. Annota anche i tuoi desideri inconfessabili, lì nessuno li giudicherà. Appena hai finito di scrivere, accartoccia il foglio e gettalo via. Puoi fare questo esercizio più volte al giorno, anche solo con la mente immaginando un cestino nel quale buttare i pensieri che ti assillano.

Dott. Andrea NervettiPsicologo e psicoterapeuta

Dal Sito: riza.it

Depressione: l’altro alto che non ci aspettiamo





Tristezza, malinconia, senso di vuoto, mancanza di energie, apatia, sono solo alcuni dei sintomi tradizionalmente associati alla depressione.
Senza banalizzare o semplificare l’argomento, e senza alcuna pretesa di esaustività, mi piacerebbe portare una riflessione su una differente prospettiva da cui guardare alla depressione.
Innanzitutto, è bene precisare che per ragioni di brevità e chiarezza espositiva, non saranno qui menzionati e differenziati i diversi disturbi depressivi come descritti nel DSM-V, che si presentano con caratteristiche diagnostiche specifiche, ma si parlerà della sofferenza depressiva cosi come è generalmente intesa e che fa riferimento al Disturbo Depressivo Maggiore.

Nella sua accezione classica e tradizionale, il disturbo depressivo è concepito in termini sostanzialmente negativi, comprensibilmente peraltro, vista la sintomatologia con cui si presenta e attraverso cui viene diagnosticato: umore depresso, perdita di interesse e piacere per la maggior parte delle attività, stanchezza e mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione, diminuita capacità di concentrazione, ricadute negative sull’alimentazione e sul sonno, pensieri negativi, ecc…

Un dolore che va a intaccare spesso la stessa voglia di vivere….La persona che soffre di depressione è una persona che prova una sofferenza profonda, un malessere subdolo e invalidante, che limita e si ripercuote negativamente sulla capacità della persona di vivere la sua vita, le sue relazioni, il suo lavoro, la sua quotidianità. La stessa etimologia della parola Depressione, che deriva dal latino deprimère, (de-premo, premere, schiacciare), ossia “premere verso il basso”, “schiacciare a terra”, rimanda a qualcosa che opprime, abbatte, schiaccia…

A partire dalle precedenti considerazioni, e senza minimizzare la sofferenza vissuta dalla persona, esiste la possibilità di guardare alla depressione da un punto di vista diverso e complementare?
 
Una prospettiva altra che non tolga riconoscimento, dignità e rispetto ai vissuti individuali e strettamente soggettivi, ma che cerchi invece di dar loro un senso e un significato più profondo e complesso e che possa, infine, rivelarsi, utile strumento di comprensione e forse di via d’uscita?
Innanzitutto, è opportuno distinguere tra stato d’animo o umore temporaneamente negativo e depressione: la tristezza o un umore basso fanno parte della vita di tutti i giorni, solo se divengono persistenti nel tempo e limitanti la vita quotidiana e le capacità di funzionamento dell’individuo possono far pensare ad uno stato depressivo.

Un’adeguata riflessione sul tema deve inoltre partire dal considerare che non esiste un unico tipo di depressione, né tutte le forme di depressione sono equivalenti, per cui si può impostare un trattamento analogo per tutti: questo è un aspetto da rilevare ogni qualvolta ci troviamo di fronte a un disagio, fisico o psicologico.

Ogni persona è unica, unico è il vissuto e quindi unica e specifica dovrebbe essere la presa in carico.

Non si deve dimenticare che ciò che fa la differenza è l’esperienza, umana, della persona che abbiamo di fronte.
 
Ho trovato molto significativo, a tal proposito, il contributo di Luigi Cancrini, noto psichiatra e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica e sistemica. Egli sostiene che la depressione è un sintomo, non una malattia, il cui significato va ricercato ed esplorato prima di “curarlo” ed eliminarlo (Cancrini, 2003).

Questo concetto si collega, se vogliamo, alla più ampia riflessione sulle emozioni e sul loro significato: ogni emozione ha diritto di cittadinanza, anche quelle che siamo soliti definire emozioni “negative”; c’è una validissima ragione se proviamo quello che proviamo in una data situazione, e questo vale anche per la tristezza, così pesantemente presente in chi soffre di depressione. Da un certo punto di vista, la tristezza stimola la capacità riflessiva, una sorta di “chiusura” in se stessi, allo scopo di riflettere, sebbene faticosamente, sugli eventi accaduti, su ciò che ci manca e per noi è importante; un ripiegamento che consente di preservare e recuperare energie, aiuta a comprendere che c’è qualcosa che non va e ci spinge a ricercare la vicinanza con l’altro significativo.

E nella depressione accade che lo sguardo della persona viene rivolto all’interiorità, prendendo quasi le distanze dall’esterno, per portare l’attenzione dentro di sé, nella profondità del proprio mondo interiore, per liberarci da ciò che ci imprigiona, per ri-costruire e re-inventare se stessi, come sostiene James Hillman: “…Eppure è attraverso la depressione che entriamo nelle profondità, e nelle profondità troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico della vita […]. (Essa) Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso e umile impotenza […].La vera rivoluzione comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione. Che non si dibatte per uscirne, […], ma che scopre invece la coscienza e le profondità di cui essa ha bisogno. Così ha inizio la rivoluzione per il bene dell’anima.”. (Hillmann, 1992).

Cancrini sostiene che la depressione è sempre una reazione patologica ad un lutto non elaborato, laddove per lutto non s’intende esclusivamente la perdita di una persona cara, ma un accadimento che ha comportato la perdita di qualcosa di valore per la persona: un lavoro, una relazione sentimentale, un progetto, un ruolo, o parte della propria identità, un cambiamento significativo. Un dolore non raccontato, non espresso in una relazione significativa, che dunque non ha trovato ascolto, accoglienza, comprensione. E che sovente si accompagna ad altri sentimenti, come lo sconcerto e la rabbia. (Cancrini, 2003).
Sempre lo stesso autore, infatti, riportando la sua esperienza clinica, ci dice che molto spesso la depressione diventa una sorta di maschera dietro cui si nascondono altri vissuti, in particolare di rabbia e aggressività, che se lasciati emergere, nel momento in cui vengono espressi  e gradualmente significati, consentono alla depressione stessa di andare pian piano sullo sfondo ( Cancrini, 2003).
 
Entro certi limiti, la depressione può dunque essere intesa come una reazione sana, se spinge a riflettere sugli eventi, a ricercare le possibili cause scatenanti: un ripiegamento su di sé utile per recuperare forze e risorse, per domandarsi cosa non sta funzionando, e dunque cosa si può fare per trovare sollievo al proprio dolore. Questa considerazione, tra l’altro, permette anche di contrastare la visione della depressione come  un disturbo cronico. Secondo Cancrini la cronicità è legata all’intervento solo sintomatico, avulso da un’esplorazione più complessa e profonda del significato, anche relazionale, della depressione.
 
E qui, dunque, troviamo un  punto molto importante nell’approccio alla depressione, vale a dire individuare i possibili aspetti scatenanti la sofferenza, prendere coscienza di ciò che è accaduto, dargli voce e riconoscimento: quali sono gli eventi drammatici accaduti? Quali sentimenti hanno generato? E che relazione c’è con il contesto relazionale significativo della persona?
Spesse volte poi in terapia sono le stesse persone che raccontano come durante i momenti bui, emergano domande profonde, quali “Cosa non mi piace della mia vita? Se mi guardo intorno, cosa non mi soddisfa?”: e queste domande rappresentano un utile punto di partenza per indagare e approfondire le radici della sofferenza, i nodi drammatici che si sono verificati, e per far gradualmente emergere i vissuti sottostanti e nascosti,  insieme forse a nuovi desideri e possibilità.  Questo è un processo che va realizzato all’interno di un “luogo sicuro”, qual è il contesto terapeutico, in cui il terapeuta accompagna la persona nell’esplorazione di quei contenuti profondi, spesso nascosti alla coscienza, supportando al contempo l’espressione delle emozioni e dei vissuti dolorosi, e lasciando emergere il possibile risvolto e significato ‘adattivo’ della situazione.

Autore: Katia Querin

Dal Sito: psyeventi.it

La gratitudine per fronteggiare le insidie della vita





Il dizionario Treccani definisce la gratitudine come un sentimento che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto e desiderio di poterlo ricambiare. Le ricerche focalizzate sul benessere psicologico considerano però che tale disposizione d’animo non sia rivolta esclusivamente alla riconoscenza verso l’altro ma che riguardi anche l’abitudine di rivolgere il proprio sguardo alle piccole cose belle della vita.

La gratitudine può dunque essere considerata un’emozione quando implica uno stato temporaneo nei confronti di situazioni/risultati in cui il successo sperimentato è vissuto come non dipendente da noi, ad esempio la vicinanza di una persona amata o l’apprezzamento di un gesto altruistico nei nostri confronti.

Essa rappresenta invece un tratto di personalità più stabile quando fa riferimento alla predisposizione a notare “il lato positivo”.
In quest’ultima accezione, assume una certa rilevanza se connessa al concetto di resilienza, in quanto la tendenza alla gratitudine potrebbe rappresentare un punto di forza nel fronteggiamento di eventi di vita avversi e in ultima istanza un fattore protettivo rispetto alla vulnerabilità a patologie mentali.

Studi di neuroimmagine hanno portato a descrivere la gratitudine come un fenomeno determinato dalla collaborazione di più aree cerebrali coinvolte in riconoscimento, interpretazione, valutazione e risposta a stimoli emozionali o cognitivi, sia interni che esterni. Alcuni autori hanno poi osservato come esercizi di gratitudine modifichino l’attivazione del circuito della ricompensa.
Date queste premesse, negli ultimi anni molte ricerche si sono focalizzate sull’analisi dei benefici apportati da percorsi focalizzati sulla gratitudine in popolazioni cliniche e non.
Alcuni studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi basati sulla gratitudine in individui a rischio suicidario e in pazienti oncologici nella riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva. Altri si sono concentrati sugli effetti di questi training nella popolazione generale. Sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora a uno stato embrionale, i primi risultati appaiono promettenti.
Allenarsi alla gratitudine può, come si diceva prima, potenziare la capacità di affrontare piccole e grandi sfide ampliando le risorse psicologiche e sociali, riducendo i livelli di attivazione fisiologica e di ansia, incrementando la fiducia in se stessi e la sensazione di ”potercela fare” (autoefficacia percepita). In caso di insuccesso, può inoltre offrire la possibilità di normalizzare l’accaduto, lasciando poco spazio a distorsioni cognitive come la catastrofizzazione (“Non ne uscirò mai più!”) o il pensiero tutto-o-nulla (“Ho commesso un errore, sono un fallito!”).

Ma come allenarsi ad essere grati, dunque?

La strategia più nota riguarda la compilazione giornaliera di un diario della gratitudine in cui annotare, a fine giornata, da 3 a 5 cose per cui ci si sente grati in quel giorno. Inizialmente potrebbe apparire artificioso, ma concedersi il tempo di osservare le piccole cose belle quotidiane offre la possibilità di notare con sempre maggiore naturalezza (grazie all’allenamento!) come, affianco ai problemi e agli impegni giornalieri, trovino spazio anche piccoli momenti di gioia che spesso diamo per scontati (fare colazione con i nostri biscotti preferiti, incontrare un autista che vedendoci correre incontro all’autobus, decide di attenderci prima di ripartire, etc.). La nostra testa è allenata a scovare problemi, individuare soluzioni e garantirci così la sopravvivenza, ma affiancare al problem solving momenti di gratitudine potrebbe alleggerire la nostra quota di stress.

Un altro strumento per allenare la gratitudine è quello della lettera a un proprio caro. Si tratta di concedersi dieci-quindici minuti per scrivere a qualcuno le ragioni per cui gli siamo riconoscenti. Decidere di consegnare la lettera potrebbe implicare un rischio perché non è detto che le aspettative che inevitabilmente si creano rispetto a questa condivisione verranno soddisfatte ed è per questo che il diario rappresenta la scelta più popolare quando si tratta di esercizi di gratitudine.

Il “training di gratitudine” presenta però anche delle controindicazioni: in alcune popolazioni non appare efficace (es.: in individui che abbiano una dipendenza dall’alcol) ed è stato descritto come, specie in una fase iniziale, potrebbe indurre le persone a sperimentare sentimenti di colpa e vergogna e a sentirsi in debito nei confronti di ciò o di coloro verso i quali sono grati. Nonostante questo, allenarsi a riconoscere le piccole “grazie” quotidiane potrebbe avere ricadute positive sul benessere psicologico e sociale, sulla gestione di emozioni, pensieri ed eventi negativi e sull’abilità di coltivare i valori su cui si intende basare la propria vita.

Autore: Arianna Calabrese

Dal Sito: psyeventi.it

Ansia sociale: cos'è, sintomi, cause e trattamento






Ci sentiamo ripetere fin dall’infanzia che l’uomo è un animale sociale e, in effetti, la nostra vita è costellata di incontri con gli altri: dalla scuola al lavoro, passando per feste, cene e occasioni di svago. Ci sono persone, però, per cui queste occasioni sono fonte di imbarazzo, malessere oppure panico vero e proprio. Questo disturbo è molto più frequente di quanto sembri e prende il nome di ansia sociale

Cos'è l'ansia sociale 

A tutti prima o poi capita di sentirsi un po’ nervosi al pensiero di sostenere un esame all’università o di passare il tempo insieme ad altri sconosciuti. Finché questo nervosismo è controllabile e limitato a circostanze particolari, è tutto nella norma: siamo esseri umani, è normale sentirsi a disagio ogni tanto!

Quando però si innesca una vera e propria fobia, capace di compromette la qualità della vita e le relazioni con gli altri, si sfocia nell’ansia sociale (detta anche fobia sociale o sociofobia). Chi ne soffre ha talmente tanta paura di sentirsi in imbarazzo da evitare tout court qualsiasi situazione ritenuta “a rischio”, pur sapendo in cuor suo che quest’ansia è eccessiva. Questa condizione è catalogata dal manuale Msd tra i disturbi di ansia e stress. 

Età di esordio e prevalenza 



Sebbene di ansia sociale non si parli molto, si stima che prima o poi ne abbia sofferto circa il 13% della popolazione, con un’incidenza maggiore tra le donne. C’è chi mostra una spiccata timidezza fin dall’infanzia e chi, invece, sviluppa simili disagi sociali dopo l’adolescenza. Difficilmente capita in età avanzata. 

È ancora presto per affermarlo con certezza, ma è probabile che sia uno dei tanti strascichi con cui dovremo fare i conti dopo l’esperienza della pandemia. In questi mesi l’ansia post-Covid si è già manifestata in tanti modi: c’è chi continua ad evitare gli spazi aperti o molto affollati e chi, invece, disinfetta tutto in modo quasi ossessivo.

Le tipologie di fobia sociale 

A seconda dei sintomi e delle manifestazioni della fobia sociale, il manuale Msd la suddivide in due categorie: quella correlata alla performance e quella generalizzata.

Semplice 

Ci sono persone che manifestano una forte ansia al pensiero di svolgere una determinata attività in pubblico, come mangiare al tavolo di un ristorante, fare conversazione, parlare di fronte a una platea in ascolto, scendere in campo a una partita di calcio o di pallavolo, suonare uno strumento, o anche andare nel bagno di una stazione o di un centro commerciale. Le medesime azioni, se svolte senza testimoni, non comportano nessun tipo di problema. 

Generalizzata 

Si parla invece di ansia sociale generalizzata quando tale disagio non è limitato a queste situazioni, tutto sommato piuttosto rare e circostanziate. In questi casi la questione si fa più seria perché il soggetto può sviluppare una vera e propria paura delle persone che lo porta a limitare sempre di più le occasioni di incontro con gli altri, fino a compromettere la propria qualità della vita.

Le cause 

Quando si ha a che fare con problemi così vasti e complessi, è banalizzante andare alla ricerca di un lineare rapporto causa-effetto. Non c’è nessun interruttore da schiacciare per far insorgere – o viceversa scomparire – la sociofobia, perché ciascuno di noi è un mosaico di sensibilità, tratti caratteriali ed esperienze vissute. In certi casi per esempio la fobia sociale insorge – o peggiora – a seguito di un episodio spiacevole, come un’umiliazione o un’aggressione subìta davanti a tutti. In altri casi invece è associata a depressione e altri disturbi d’ansia. Come indicazione generale, si può dire che tipicamente la persona che ha paura di uscire di casa ha una bassa autostima e viene messa facilmente in crisi dal giudizio degli altri. 

Come capire se si è affetti da ansia sociale: i sintomi 

Come riconoscere l’ansia sociale e distinguerla dalla semplice timidezza? Quando si trova in una situazione che percepisce come critica, la persona parla troppo velocemente o balbettando, suda, sente brividi e palpitazioni, ha il fiato corto, arrossisce per le vampate di calore, percepisce i crampi allo stomaco o un senso di nausea. In poche parole, si sente profondamente in difficoltà. Magari razionalmente sa di avere una reazione eccessiva ma nei fatti non riesce a controllarsi e, anzi, continua a rimuginare alimentando la propria paura.

Come avviene la diagnosi 

Non basta mostrare questi sintomi in modo sporadico per ricevere una diagnosi di ansia sociale. Il medico si esprime in tal senso se la sociofobia si manifesta per più di sei mesi, in una o più situazioni sociali (che di solito sono sempre le stesse), in misura sproporzionata rispetto al pericolo reale. Si sfocia nella fobia sociale quando la “semplice” timidezza spinge a tenersi ben alla larga da determinati contesti pubblici, a costo di sacrificare le relazioni, lo svago o il lavoro.

Le conseguenze



Già, perché il forte disagio si manifesta addirittura prima rispetto al momento dell’incontro con gli altri; si parla appunto di ansia anticipatoria. Così accade che il soggetto rimugini tra sé e sé, si auto-convinca di non essere all’altezza e trovi una scusa qualsiasi per restare rinchiuso in casa senza vedere nessuno. L’evitamento è proprio un tratto distintivo che accomuna le varie fobie.

La cura della fobia sociale 

Quando ci si rende conto di avere paura di uscire di casa al punto tale da privarsi della socialità, è il caso di prendere il problema di petto. Soltanto uno specialista sarà capace di ricostruire le cause dell’ansia sociale e trovare l’approccio più adatto. 

Psicoterapia

Una strada fruttuosa è la psicoterapia, soprattutto mediante l’approccio cognitivo-comportamentale che va alla ricerca degli schemi di pensiero disfunzionali e li corregge, modificando di conseguenza anche il comportamento. 

È possibile che il terapeuta opti per la strategia dell’esposizione graduale, adottata anche per il trattamento di altre fobie. Ciò significa farsi coraggio e affrontare la situazione che mette a disagio, andando per gradi. Se per esempio il tabù è prendere parola davanti a tutti, si può cominciare da un piccolo gruppo di persone con cui si è molto in confidenza. Una volta rotto il ghiaccio, si può iniziare a fare la stessa cosa anche con gli sconosciuti. Solitamente il terapeuta insegna tecniche di rilassamento e mindfulness che aiutano a vivere serenamente questi test.

Farmaci 

Sulla base dell’entità dei sintomi e del quadro clinico del soggetto, il medico può prescrivere dei farmaci antidepressivi o ansiolitici


Dal Sito: deabyday.tv

martedì 4 maggio 2021

Il disturbo da panico è un problema invalidante che tutti dovrebbero imparare a gestire





Gli attacchi di panico sono un grosso problema con il quale tante persone combattono ogni giorno. Innanzitutto bisogna imparare a riconoscerli. A qualcuno sarà probabilmente capitato, magari mentre faceva la spesa o era al bar, di cominciare a sentire il cuore battere forte in maniera innaturale. A questo, magari, si sono aggiunti capogiri, tremori, sudorazione eccessiva, una sensazione di nodo alla gola e di non riuscire a respirare.

Tutto questo insieme provoca paura di svenire e un senso di terrore generalizzato. I pensieri si accavallano: se sopraggiungesse lo svenimento? Se non ci fosse nessun aiuto? Il panico diventa troppo e arriva il momento in cui addirittura si fugge, e non si riesce più a tornare magari a fare la spesa con calma o nella stessa situazione sociale in cui è avvenuto l’attacco. Che, tra l’altro, non è durato più di una decina di minuti.

Attenzione se si cronicizza

I Lettori più attenti avranno sicuramente riconosciuto tutti i segnali tipici di un attacco di panico. Non è una cosa così inusuale e almeno il 30% delle persone ne sono state colpite una volta nella vita.

Può diventare un problema cronico, e in questo caso viene definito “disturbo da panico”, in circa l’uno per cento di questi soggetti. Il disturbo da panico è un problema invalidante che tutti dovrebbero imparare a gestire.

Questa improvvisa manifestazione di ansia è di fatto un’escalation di quella già normalmente presente. Le paure che si manifestano – quella di morire, di impazzire, di subire gravi danni fisici, come un infarto – hanno una sorta di “memoria”. L’ansia dipende, infatti, anche da certe condizioni ambientali e circostanziali.

Rivolgersi a un professionista

Per esempio, se si ha avuto un attacco prima di andare a dormire, o durante le ore notturne, si può sviluppare una paura che diventa cronica quando si avvicina quel momento della giornata. Quando questo disturbo comportamentale si cronicizza, ecco che si inizia a parlare di disturbo di panico.

Il disturbo da panico è un problema invalidante che tutti dovrebbero imparare a gestire. Compromette la serenità della vita, ma la psicoterapia offre a tutti i mezzi per risolvere la questione. L’importante è sempre confrontarsi con un professionista del settore per riprendere il controllo della propria vita.

Maggio è il mese della salute mentale: 3 cose che devi smettere di fare subito


Era il 1949 quando Mental Health America decise di istituire negli Stati Uniti un mese della salute mentale. Insieme alla Giornata Mondiale della Salute Mentale, che si tiene ogni anno il 10 ottobre, l’intero mese di maggio è un’occasione per sensibilizzare sull’argomento e suggerire alla popolazione di sottoporsi a screening e valutazioni del proprio stato mentale. In occasione della ricorrenza, ogni anno verso la metà di marzo MHA rilascia un toolkit di materiale utile da utilizzare in maggio per le valutazioni e la propaganda.

A distanza di oltre 70 anni, abbiamo ancora bisogno – forse più che mai – di un mese della salute mentale per aumentare la consapevolezza su problemi sempre più diffusi. Tuttavia, se qualcosa si sta risvegliando a livello internazionale, in Italia ci scontriamo ancora con pregiudizi e ingiustificati timori che sembrano duri a morire.

Cercare su Google la chiave “mese della salute mentale” restituisce ben pochi risultati e da fonti non sempre autorevoli. Diverso è quando la ricerca viene effettuata in lingua inglese: sia che si cerchi “mental health month” o “mental health awareness month”, la pagina dei risultati ci porta su siti di associazioni di rilevanza notevole, per lo più britanniche o americane.

Mese della salute mentale 2021, riconnettersi con la natura come chiave per il nostro benessere



È interessante come il mondo moderno presti grande attenzione alla cura della salute mentale degli individui: yoga, meditazione, bilanciamento vita-lavoro, burnout e crescita serena sono argomenti di cui si discute sempre più spesso e in maniera diffusa, anche all’interno di aziende e ambienti lavorativi.

L’argomento a cui quest’anno è stata dedicata la settimana dal 10 al 16 maggio è proprio la riconnessone con la natura. Soprattutto a seguito del preoccupante aumento di casi di ansia e depressione seguiti all’isolamento della pandemia, la riconnessone in ogni suo aspetto è un concetto chiave per il benessere mentale di chiunque.

Si parla tanto di salute mentale, ma la malattia mentale è ancora un tabù

Eppure, in una società che tanto spinge perché gli individui raggiungano in se stessi un certo livello di armonia, parlare di malattia mentale, anziché di salute mentale, è ancora un tabu. Condizioni come ansia e depressione sono ancora viste come gestibili dal semplice pensiero positivo. Argomenti come episodi maniacali, attacchi di panico e – il grande innominabile – suicidio sono ancora intoccabili. “Non dire certe cose” è la risposta standard quando si tenta di parlarne.

Come se la salute mentale fosse – nonostante la grande attenzione dei media – ancora vista come una scelta o un’attitudine. Come se non fosse parte dello stato di salute generale dell’individuo e le malattie mentali non avessero, spesso e volentieri, cause fisiologiche trattabili con adeguate terapie.

Eppure, e questo dato dovrebbe farci riflettere, esperti e terapeuti mettono in guardia dall’incidenza notevole delle malattie mentali nella popolazione: secondo la National Alliance for Mental Illness, almeno il 20% della popolazione soffre di una qualche tipologia di disturbo mentale.

Il lancio di hashtag come #1in5 e la presenza sempre più importante di influencer e attivisti per la salute mentale sui social dovrebbe farci riflettere su questo. Sempre più persone si trovano a combattere con un nemico potente, sconosciuto – particolarmente quando a insorgere sono i primi sintomi – e soprattutto invisibile.

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3 abitudini che tutti possiamo cambiare a partire dal mese della salute mentale



Come fare, allora, per sensibilizzare sul serio sulla salute mentale? Fare prevenzione e sensibilizzazione, a partire dalle scuole ad esempio, potrebbe portare a una più diffusa cultura della salute e della malattia mentale. Pensando in grande, si potrebbe spingere per una maggiore accessibilità dei servizi di supporto e terapia per chi ne ha bisogno, magari addirittura istituire uno psicologo di base che lavori fianco a fianco con il medico generico.

Ma se volessimo partire da un obiettivo più raggiungibile, più alla nostra portata?

Anche in questo caso, ci sono senza dubbio cose che possiamo fare. Un primo passo è riflettere, prima di tutto, su alcune abitudini o atteggiamenti che sminuiscono le battaglie di chi si confronta quotidianamente con la malattia mentale. Ecco tre semplici passi alla portata di tutti per migliorare la vita delle persone che abbiamo intorno.

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1. Smetti di utilizzare le malattie mentali come se fossero aggettivi

Sei proprio bipolare. Mamma mia come sei ansiogeno. Non entrare in casa con le scarpe, ché sono un po’ ossessivo-compulsivo.

Uno dei motivi per i quali le malattie mentali sono poco comprese, e spesso sottovalutate, è la superficialità con la quale utilizziamo parole mutuate dalla terminologia medica nel linguaggio comune.

Il primo passo da fare per una consapevolezza su tutto ciò che riguarda al salute e la malattia mentale potrebbe essere questo, una piccola abitudine che ci aiuti a rimettere le cose nella giusta prospettiva. “Bipolare” non è sinonimo di lunatico, volubile o imprevedibile. “Ansia” non è sinonimo di tensione e nemmeno di paura. “Ossessivo-compulsivo” non è sinonimo di preciso o metodico. Sarebbe un mondo molto più semplice se lo fosse, ma non è così. Quindi, come prima cosa, cominciamo a utilizzare le parole con cognizione di causa.

2. Smetti di pensare che è solo una questione di stile di vita

Parliamoci chiaro, uno stile di vita sano è certamente un alleato formidabile della nostra salute. Il tema del mese della salute mentale 2021, come dicevamo, è proprio la riconnessone con la natura. Ma, se una corretta alimentazione, la giusta quantità di moto e una visione del mondo leggera e positiva possono aiutarci a prevenire un gran numero di complicazioni, non bisogna mai dimenticare che lo stile di vita da solo non guarisce dalle manifestazioni di una malattia mentale, esattamente come non guarisce da quella fisica.

Allo stesso modo dovremmo smettere di utilizzare a sproposito espressioni come “antidepressivo naturale”. A giudicare da quello che si legge sui media e sui social, qualunque minerale, alimento, attività o pratica sembra essere un antidepressivo naturale. Di nuovo: se è vero che dedicarsi alla cura di se stessi può aiutarci nella prevenzione di complicazioni spiacevoli, la depressione è una condizione da non sottovalutare e, quando si verifica un episodio depressivo, bisogna affidarsi a un professionista e non solo a uno stile di vita curato. Idem per altre convinzioni tossiche sulla stessa riga.

3. Smetti di paragonare i tuoi problemi a quelli degli altri

Resilienza, esiste un termine più abusato? Questa caratteristica encomiabile dell’animo umano, tipica di chi riesce a imparare dal dolore senza venirne annientato, ci viene ormai propinata come risposta a qualunque problema, spesso in maniera tossica. Se è vero che l’ottimismo è un’attitudine salutare, è altrettanto vero che rabbia, frustrazione e tristezza sono emozioni umane che, in alcuni casi, è necessario vivere. Sopprimerle perché c’è chi sta peggio o perché abbiamo tanto per cui sentirci felicipuò essere più deleterio che utile.

Quando una persona chiede aiuto, molti sono portati a paragonare la propria esperienza di vita a quella di chi sta soffrendospesso elevando il proprio dolore e le proprie vittorie come fossero più legittimi di quelli altrui. Così, in risposta a persone di successo che dichiarano di aver sofferto o di star soffrendo di problemi psichiatrici, si leggono commenti del tipo “Vorrei mandarli a lavorare in fabbrica per fargli capire cosa si prova” oppure “Perché essere tristi se non gli manca nulla?”.

Questa attitudine non fa che sminuire l’esperienza di vita altrui – che spesso è ben al di fuori di ciò che possiamo immaginare e comprendere – e soprattutto alimenta il pregiudizio comune per il quale alcune patologie mentali non sono considerate malattie.

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Ricorda che ogni esperienza di vita è valida quanto la tua



Forse dovremmo tenere a mente questo. Una malattia non tiene conto della nostra situazione familiare, della carriera, della realizzazione personale e di quanto amore abbiamo intornoSemplicemente arriva e fa piazza pulita di ogni cosa. Senza una ragione, spesso senza una causa scatenante, semplicemente si presenta e prende il controllo.

Dovremmo smettere di minimizzare le richieste di aiuto di chi ha il coraggio di mostrarsi così vulnerabile da aprirsi su un argomento tanto delicato. E ricordare sempre una nozione fondamentale: quando alziamo la voce sui social definendo pigro, ingrato o inetto un personaggio famoso che rivela di avere problemi di salute mentale, il personaggio in questione non leggerà mai il nostro commento, ma un caro amico che sta soffrendo sì. E se ne ricorderà.

Dal Sito: ildigitale.it 

Depressione post partum, come si manifesta?


Dopo aver partorito, a molte donne capita di soffrire di depressione post partum. Si tratta di un problema relativamente frequente che colpisce 1 donna su 10 nell’arco dei 12 mesi successivi al parto. Depressione post partum, come si manifesta? Scopriamolo insieme.

Depressione post partum: come si manifesta

La depressione post partum è a tutti gli effetti una depressione che si distingue dalle forme più classiche di quest’ultima essenzialmente per il particolare periodo di insorgenza (da un mese a un anno dopo la nascita del bambino) e per alcune specifiche componenti alla base del suo sviluppo, soprattutto sul piano ormonale e psicoemotivo. I segnali e i sintomi che devono far sospettare la presenza della depressione post partum, invece, sono del tutto sovrapponibili a quelli della depressione unipolare.

Saper interpretare le proprie sensazioni e reazioni psichiche dopo la nascita del bambino è fondamentale per capire se si sta attraversando un comune “baby blues“, che si risolverà da solo in poco tempo, o se si può trattare di una vera depressione post partum, da sottoporre all’attenzione del medico e da trattare in modo specifico.

I sintomi della depressione post partum possono essere simili a quelli della depressione maggiore e comprendere: tristezza estrema, sbalzi d’umore, pianto incontrollabile, insonnia o ipersonnia, perdita di appetito, irritabilità e rabbia, mal di testa, estrema stanchezza, preoccupazioni eccessive o disinteresse nei confronti del bambino, sensazione di inadeguatezza, paura di far male al bambino, senso di colpa per i sentimenti provati, ideazione suicidaria, ansietà o attacchi di panico.

Depressione post partum: come si manifesta e le cause

Non esiste una singola causa responsabile della depressione post partum. D’altronde, possono giocare un ruolo favore allo sviluppo della patologia fattori fisicistile di vitastato emotivo.

Dopo la nascita del piccolo, infatti, si verifica una drammatica discesa dei livelli ormonali e questi cambiamenti possono determinare sbalzi d’umore e stanchezza.

Inoltre, quando si attraversa un periodo in cui viene a mancare il corretto riposo e si è sopraffatti dal sonno, possono risultare di difficile risoluzione anche i problemi quotidiani. 

Inoltre, la presenza di un bambino esigente o la presenza di fratelli maggiori, le difficoltà di allattamento al seno, i problemi finanziari o la mancanza di sostegno da parte del partner possono portare allo svilupparsi di tale patologia.

Depressione post partum: come si manifesta e cosa fare

La terapia varia sulla base della gravità della depressione e dei bisogni individuali. Se si è in una fase cosiddetta di baby blues, generalmente questa scomparirà per conto proprio entro pochi giorni, fino a un massimo di due settimane. Nel frattempo, occorre prendersi più riposo possibile, accettando anche l’aiuto dei familiari

La depressione post partum vera e propria viene spesso curata attraverso una corretta consulenza e terapia. Per quanto riguarda la consulenza, può essere d’aiuto parlare del proprio malessere con uno psichiatra o uno psicologo. Attraverso la consulenza dello specialista, si può trovare un modo migliore per far fronte ai propri sentimenti, risolvere problemi e raggiungere traguardi realistici. A volte anche una terapia di famiglia o di coppia può aiutare.

Dal Sito: mammemagazine.it