lunedì 23 dicembre 2019

Il panico spazza via una vita tranquilla ma finta



Spesso chi soffre di attacchi di panico non sa farsene una ragione, convinto che la sua vita scorra serena e tranquilla: e se il problema fosse proprio questo?

"Sto benissimo. In famiglia nessun problema, sul lavoro va alla grande, con gli amici tutto come al solito, cioè bene. C’è solo questo attacco di panico che mi viene ogni tanto, veramente forte, ma direi che è tutto a posto".

Mentre dice queste parole in tono sicuro e rassicurante, la persona quasi si dimentica di essere al primo incontro di psicoterapia. Non sta fingendo di star bene, anzi, è davvero convinta che le cose stiano così, e in effetti, all’esterno, così appare. Tanto che la stessa scelta di fissare l'incontro è stata suggerita da altri:

"Se fosse per me non sarei neanche venuta qui nel suo studio, ma il medico di base mi ha detto che sarebbe stato meglio fare un consulto psicoterapico per questi attacchi di panico. Allora eccomi qui, ma io sto bene, mi creda".

"Io le credo - dice lo specialista - però immagino che questi attacchi di panico le diano fastidio".

"Sì, certo, quando mi vengono sì, ma poi finiscono ed è tutto come prima".

"E ogni quanto le vengono?».

"Beh, poco: una volta ogni tanto, circa una volta alla settimana… Anzi due, anche se settimana scorsa forse erano tre/quattro. Però sto bene, eh!"...

Quando l'attacco di panico è la spia di un problema non riconosciuto

Da questo dialogo, che riproduce uno schema frequente, emergono elementi fondamentali. Il primo è che la persona è totalmente sganciata dal suo sintomo: gli attacchi di panico sono per lei eventi estranei, malesseri che non la riguardano, perché lei va avanti senza batter ciglio. Ebbene, proprio questa distanza è il sintomo di un problema più ampio. Un problema rimosso dalla coscienza, che trova nell'attacco di panico l’unico modo per dare segno di sé e lanciare il suo grido di allarme, in una persona che però non si spaventa (come invece capita ad altri) e che riesce a “incasellarlo” come elemento fastidioso, certo, ma non di ostacolo ai suoi obiettivi.

Ed è proprio questo incasellamento a determinare il progressivo aumento della frequenza degli attacchi di panico. Il medico di base ha visto bene: se la persona non farà qualcosa, il sintomo potrebbe aggravarsi. Lo psicoterapeuta, allora, comincia ad aiutarla a risolvere un problema la cui principale difficoltà è di non essere riconosciuto come tale.

Guardarsi allo specchio per scoprire il senso degli attacchi di panico

Il panico “senza motivo apparente”, dunque. O, anche, il panico senza partecipazione emotiva. Cosa può fare la persona che ne soffre? La psicoterapia è un’opzione, ma anche da soli si possono fare alcuni passi fare. La prima cosa è prendere atto che queste manifestazioni sono sintomi psichici, e che un sintomo psichico ha sempre un motivo di esistere. Quindi, anche se la vita "ufficiale" sembra andare bene, è necessario aprirsi all’idea che, dietro questa funzionalità apparente, c’è qualcosa che non va. Non sappiamo ancora cosa, ma all’inizio è già importante dare al sintomo il suo significato primitivo: quello di espressione di un disagio. Il passo successivo è la deduzione che il disagio in questione deve essere importante, dato che riesce, ogni tanto e via via sempre più spesso, a bucare la spessa tela di negazione che lo copre e, anche se per poco, a fermare la persona nella sua intransigente marcia quotidiana.

Emozioni represse? Panico in vista!

Se la persona fosse in contatto con le proprie emozioni, sarebbe spaventata o preoccupata per gli attacchi di panico. Serve allora un po’ di introspezione, è questo che manca. C’è bisogno di prendersi momenti di pausa per osservarsi e porsi domande fondamentali: "C’è qualcosa che vorrei vivere ma che non sto vivendo? E cosa? Sessualità? Senso del piacere? Tempo libero? Creatività? Innamoramento? Attività fisica?".

Il panico è spesso la spia della necessità urgente di dare spazio al principio del piacere, alla libido, che potrebbe essere stata rimossa dal quotidiano in nome di ruoli magari anche gratificanti a livello mentale, ma non a livello emotivo o affettivo, esistenziale, corporeo.

Attacchi di panico: osserva quando arrivano

Ripensa ai momenti in cui sono arrivati gli attacchi di panico e prova a individuare se vi siano delle costanti. Ci sono tre possibilità.

Se insorgono nei momenti di riposo
Il tuo essere sempre in attività è una specie di tappo o di anestetico nei confronti della tua realtà interiore. Il sistema nervoso approfitta allora dei momenti di vuoto (inattività, riposo, sonno, tempo libero) per esprimere tutto il malessere o l’energia bloccata. Rallenta il ritmo.
 

Se insorgono nei momenti di attività
Si tratta di un panico legato a determinate situazioni. Ci sono contesti che detesti o rifiuti intimamente, ma a cui ti sottoponi lo stesso. Individua quali sono e se vi siano uno o più schemi di relazione che ti mettono in particolare difficoltà.
 

Se insorgono senza nessi apparenti
Non ci sono contesti specifici né momenti topici: il panico segnala un malessere a tutto campo che non viene preso in considerazione e che, per questo, sta aumentando il suo disordine e la sua tensione interna. Bisogna prendere in mano la situazione al più presto.

Ritorna con la mente al primo attacco di panico

Torna con la mente alla prima volta in cui ti è venuto un attacco di panico. In molti casi la situazione in cui ti trovavi e il momento di vita che stavi vivendo contengono gli elementi che hanno innescato il disturbo. Il primo ricordo è una vera e propria “macchina del tempo” che ti restituisce la sorgente del panico di cui soffri, prima che altri aspetti successivi inquinassero il campo e rendessero difficile capirne la matrice. È possibile che, nel fare ciò, la tua mente tenda a banalizzare ciò che scopri e le riflessioni conseguenti. Non cedere a questo automatismo e vai fino in fondo.

Guida pratica contro gli attacchi di panico

Riduci l’efficienza ad ogni costo
Quando il senso del dovere e dell’efficienza ad ogni costo impediscono di prendere atto di un problema come gli attacchi di panico, vuol dire che si è superato un limite. Essi stessi sono una causa del panico, perché opprimono la vita. Esci da questa tenaglia. Il funzionalismo è lo schema che il panico vuole spezzare. Spezzalo prima tu, e il panico se ne andrà.
 

Allarga l’immagine di te
Forse hai creato un’immagine di te come di persona che affronta tutto, che non molla mai. Oppure di persona arrivata, che si gode i vantaggi di un ruolo (comodità, posizione, ammirazione altrui), magari nascondendosi gli svantaggi (immobilità, limitazioni, rigidità di comportamento). Ora serve rinnovare questa concezione, che nega i problemi e che ti impedisce di occuparti di te. Anche perché, se ciò accadesse in presenza di sintomi fisici, sarebbe ancora più pericoloso. Più amore per te stesso.
 

Ascolta la voce dei disagi
Ridurre l’efficientismo e rivedere la propria immagine apre lo spazio e il tempo per cominciare a dare ascolto alle emozioni, ai desideri profondi, ai malesseri e alle paure. Il panico cerca di esprimerli tutti insieme, in modo caotico e provvisorio, ma se tu, giorno per giorno, cerchi di riconoscerli e di dargli voce, del panico non ci sarà più bisogno.

Dal Sito: riza.it 

CHI HA PAURA DEL NATALE? PILLOLE DI PSICOLOGIA SALVA FESTE


L'arrivo del nuovo anno e lo stress del periodo natalizio possono causare ansia e lieve depressione in molte persone. Ecco come fare per superare le feste con il sorriso.

Il Natale è ormai alle porte. La televisione ce lo ricorda pressoché in ogni momento, così come i supermercati, gli annunci on-line e persino gli addobbi nelle nostre case. Tuttavia il Natale non è per tutti sinonimo di felicità, calore e spensieratezza. Moltissimi studi documentano come durante le festività che hanno a che fare con l’ultimo periodo dell’anno non è infrequente  avvertire sbalzi d’umore, sconforto e momenti di tristezza profonda, che a volte destano la preoccupazione di chi li sperimenta.

Alcuni studiosi più impavidi hanno parlato propriamente di Depressione di Natale, una sindrome che sembra colpire indistintamente persone di ogni età o sesso, anche quelle che non hanno una storia psichiatrica alle spalle. Da una parte questa reazione sembrerebbe essere una forma di ribellione della nostra mente alla felicità “imposta” e “martellante” dei modelli televisivi e pubblicitari. Dall’altro lato, però, occorre ricordare che le chiusure d’anno e le festività rappresentano tradizionalmente dei momenti di bilancio, raccoglimento e ricordo delle persone che non fanno più parte della nostra vita, e in un certo senso rappresentano la cartina tornasole delle nostre attuali relazioni, con tutti i loro pregi e le loro criticità.

DEPRESSIONE NATALIZIA: ANSIA, IRRITABILITÀ… E NON SOLO

Da un punto di vista epidemiologico, la scienza ha documentato l’esistenza di sindromi psicologiche ad andamento stagionale. Ad esempio la stagione invernale, con temperatura più fredda e le risicate ore di luce interferisce nettamente sull’insorgenza o sulla riacutizzazione della depressione e delle malattie dell’umore in genere. Così come l’estate tende a stimolare comportamenti maggiormente tendenti all’euforia. Certo, non è la stagione dell’anno in sé a determinare gli sbalzi di umore ─ l’origine di questi disturbi è sempre multifattoriale ─ tuttavia in qualche modo anche le feste, le ricorrenze e il clima interferiscono sulla nostra salute psichica.

Non è insolito lamentare mal di testa, agitazione, ansia, problemi di sonno, aumento dell’irritabilità e della litigiosità, difficoltà nella concentrazione, riduzione o aumento dell’appetito, senso di inadeguatezza, fastidio e senso di costrizione e imbarazzo  legato al dover passare per forza del tempo con persone sgradite o, al contrario, non riuscire a passare il tempo con i propri cari mentre invece tutti gli altri sembrano farlo. Proprio la solitudine o la mancanza di relazioni sociali intense e reali possono aumentare il disagio e, alle volte, dare origine all’effetto opposto: quello di tendere all’isolamento e al distacco.

Queste difficoltà improvvise e fastidiose sono legate anche al fatto di dover iniziare un nuovo corso senza poter far nulla per impedire o rallentare il tempo che passa. I bilanci e le valutazioni derivati da questa consapevolezza potrebbero portarci a pensare di essere indietro con i nostri programmi e di non essere stati abbastanza bravi nel rispettare i nostri propositi. La pausa dal lavoro e dagli impegni quotidiani ci fa riemergere problematiche e preoccupazioni tenute solitamente lontane e soffocate dalla routine. Questo può generare una forte ansia e paura per il futuro.

IL SEGRETO PER SOPRAVVIVERE: LA COMUNICAZIONE

Ma come alleviare questi spiacevoli sentimenti? Innanzitutto è importante non chiudersi a riccio, aprirsi agli altri, condividere le proprie titubanze con le persone care, accettare se stessi e i propri limiti con valutazioni oneste nei confronti del proprio operato e soprattutto non nutrire nuovamente aspettative troppo elevate e schiaccianti nei confronti dell’anno che verrà. Questo meccanismo infatti non fa altro che alzare ancora di più l’ansia da prestazione.

Molto probabilmente non sarà il Natale e il Capodanno 2019 a renderci persone nuove e perfettamente aderenti ai nostri canoni di perfezione, tuttavia possiamo utilizzare questo periodo particolare per raccogliere i ricordi e trovare tutto ciò che di positivo abbiamo fatto e che ci è stato fatto, per impegnarci a fare ─ realisticamente ─ ancor meglio in futuro.

Dal Sito: ildigitale.it

Christmas blues: cos'è la depressione natalizia e i consigli per affrontarla




Il “Christmas blues“, o depressione Natalizia, è più frequente di quanto forse si creda. Paradossale, eppure, circondati da luci sfavillanti ed alberelli colorati, a molti capita di sentirsi profondamente tristi.

 

Depressione natalizia: differenze col disturbo affettivo stagionale

Una tristezza, quella da Christmas Blues, che va necessariamente distinta dal disturbo affettivo stagionale, descritto dal DSM5 come “Disturbo depressivo maggiore, ricorrente, con andamento stagionale”. Il DAS riguarda episodi depressivi importanti, aventi esordio stagionale (solitamente in autunno/inverno); non collegabili ad altri fattori stressanti (es. disoccupazione stagionale); con remissioni che avvengono tipicamente in un periodo dell’anno (frequentemente la primavera).

A differenza del disturbo stagionale, il Christmas blueso depressione natalizia è direttamente collegata al periodo festivo: un vero e proprio “tour de force” di convenzioni sociali e festeggiamenti “obbligati” che, per alcuni, porta con sé ansia, insonnia, crisi di pianto, pensieri negativi, anedonia.

Va detto che, di per sé, i festeggiamenti natalizi comportano una serie di potenziali stressors: frequenti riunioni familiari (che possono tra l’altro coinvolgere persone che ci sono più o meno gradite); liste di regali da individuare ed acquistare (ed eventuali difficoltà economiche); diminuzione degli impegni lavorativi/scolastici in favore del tempo trascorso in famiglia, con conseguente acutizzazione della sofferenza e del senso di solitudine in coloro che affrontano il dolore per una perdita recente (la morte di una persona cara, una separazione o una crisi nell’ambito affettivo-relazionale, un problema legato alla salute) o stanno attraversando un grande cambiamento (ad esempio un trasferimento, un pensionamento, la perdita del lavoro); l’abituale inclinazione a “tirare le somme” dell’anno appena trascorso (e quindi insoddisfazione e dolore laddove si senta di non aver conseguito i traguardi prestabiliti).

I concomitanti cambiamenti stagionali, quali la diminuzione delle ore di luce e della produzione di Serotonina, possono ulteriormente incidere sullo stato di tristezza della Christmas blues influenzando: umore, ritmo sonno-veglia, sessualità, memoria e altri ambiti associati al nostro benessere.

Come affrontare, dunque, la malinconia del Christmas blues?

Rivolgendosi rapidamente ad un professionista, in tutti i casi nei quali lo si ritenga utile. La consultazione di un esperto può rivelarsi decisiva, in particolare quando la remissione dal Christmas blues non avviene in maniera spontanea e il disturbo da depressione natalizia assume forme ingravescenti o fortemente limitanti.

Può essere d’aiuto attivare qualche strategia di fronteggiamento, quali ad esempio le seguenti:

Allentare la pressione indotta dalle aspettative, dalle convenzioni sociali e dallo stress delle “mille cose da fare”:

Organizzarsi per tempo, per non ritrovarsi coinvolti nell’estenuante “corsa ai regali” dell’ultimo minuto; acquistare con criterio, pianificando le spese e stabilendo in anticipo un budget massimo adeguato alle possibilità. Secondo alcuni ricercatori (Kasser e Sheldon), lo shopping natalizio può infatti essere fonte di stress, malessere ed insoddisfazione;

Partecipare agli eventi sociali nel rispetto dei nostri “limiti”, imparando a “dire di no” agli appuntamenti con persone che sappiamo ci provocheranno profondo malumore, e cercando di aumentare, invece, gli incontri gradevoli.

Accogliere le proprie emozioni: il fatto che in un clima festoso ci si senta tristi o malinconici non significa che siamo “sbagliati” o che ci dobbiamo sforzare per uniformarci al contesto. Al contrario, ascoltare la nostra tristezza e cogliere il significato del nostro Christmas blues può essere per noi prezioso. Forzarsi di apparire gioiosi per sentirsi “adeguati” comporta infatti un aumento del livello di stress; confidare a persone fidate il proprio stato d’animo, parlare della propriadepressione natalizia invece, ci permetterà di sperimentare la condivisione, di lenire il senso di solitudine e di sviluppare resilienza.

Abituarsi a “lasciar andare” i pensieri ricorrenti, abbandonando il rimuginìo sul passato o sui problemi della vita: il pensiero ricorsivo non contribuisce a risolvere i problemi, non aiuta a prendere decisioni, non lenisce l’ansia. Li mantiene, al contrario, continuamente vividi e presenti, col risultato di un aumento dei livelli di ansia e di una riduzione delle abilità di problem solving.

Rimanere agganciati al “qui ed ora”: intorno a noi ci sono cose, emozioni, persone, situazioni, delle quali non riusciamo a godere appieno, se naufraghiamo nei pensieri del passato (e di ciò che abbiamo perduto) o nelle ansie per il futuro (e di quel che potrebbe succedere);

Godere delle ore di luce: una passeggiata di almeno un’ora all’aria aperta, se il clima lo permette, ha effetti positivi sul nostro benessere psicofisico e aiuta a contrastare gli effetti del Christmas blues (al contrario della visione di trasmissioni televisive natalizie, che rischiano di accrescere la malinconia e la depressione natalizia)

Mantenere un contatto con la propria quotidianità: può essere d’aiuto per non lasciarsi travolgere dai ritmi e dagli impegni fagocitanti connessi al periodo, che creano una distanza notevole dalla vita di tutti i giorni (ruoli, attività, impegni lavorativi) e possono acuire il senso di solitudine e di estraneazione tipico del Christmas blues;

Prendersi cura di sé: dedicare del tempo ad attività piacevoli, alla cura del proprio corpo, alla lettura o al cinema, ai propri hobbies. Anche facendosi un piccolo regalo, nei limiti delle proprie possibilità, anziché – magari – attenderlo.

Nutrire la propria flessibilità, ridimensionando l’importanza del periodo natalizio e provando a vivere le Feste non come una imposizione, ma come una scelta, da compiersi in modo coerente con i propri valori.

Dal Sito: stateofmind.it 

domenica 22 dicembre 2019

Terapia cognitivo comportamentale


Nel corso degli anni, la psicologia ha adottato svariati approcci per comprendere e affrontare il funzionamento umano. Ciascuno di essi con i propri approcci teorici e applicazioni pratiche. Da più di tre decenni, la terapia cognitivo comportamentale si è confermata come l’orientamento psicoterapico con più prove della sua efficacia.

La terapia cognitivo comportamentale si applica, con ottimi risultati, alle problematiche più diverse. Si tratta, infatti, di un’opzione estremamente efficiente e flessibile. Garantisce cambiamenti significativi in ​​tempi limitati e la pluralità di tecniche che racchiude le conferisce la flessibilità necessaria ad adattarsi ai problemi specifici e all’individuo.

Origini della terapia cognitivo comportamentale

Nel corso degli anni sono state diverse le correnti psicologiche che hanno prevalso in un dato momentoper poi cedere il passo ad altri approcci.

Due di questi (comportamentismo e cognitivismo) sono all’origine della terapia di cui ci occupiamo oggi. In primo luogo, pertanto, è necessario capire in cosa consistono.

Comportamentismo

Il comportamentismo concentra il suo interesse sul comportamento visibile. Il suo oggetto di studio è costituito unicamente dai comportamenti che l’individuo produce e che possono essere osservati e misurati.

Secondo tale corrente, i comportamenti sono risposte a determinati stimoli e aumentano o diminuiscono la loro frequenza in base alle conseguenze. Possiamo dunque modificare il comportamento di una persona variando le relazioni tra stimolo, risposta e conseguenza.

Ad esempio: il soggetto con la fobia dei cani ha associato i cani alla paura, pertanto scappa in loro presenza. Se riusciamo a interrompere tale associazione, i cani cesseranno di essere uno stimolo avverso e il soggetto smetterà di scappare. D’altro canto, se vogliamo che un bambino mangi più verdure, dovremmo premiarlo ogni volta che lo fa.

Cognitivismo

Questo approccio psicologico si concentra sullo studio delle cognizioni, ovvero dei pensieri o processi mentali. È interessato a comprendere il meccanismo realizzato dall’essere umano dopo aver ricevuto delle informazioni: come le elabora e come le interpreta.

Il fondamento del cognitivismo è che non percepiamo la realtà così com’è, ma per come siamo. Ognuno di noi, con i propri processi interiori, dà un significato diverso alla realtà che percepisce.

Ad esempio: chiamate un amico e non vi risponde. Potereste pensare che non abbia sentito la chiamata o che non vi vuole parlare perché non ne ha piacere. La realtà è la stessa, ma il processo interiore è decisamente diverso.

Terapia cognitivo comportamentale

La terapia cognitivo comportamentale si presenta come una combinazione delle due correnti precedenti, mettendo in relazione pensieri e comportamenti. Essa afferma che esiste una relazione intrinseca tra pensiero, emozione e comportamento e che i cambiamenti in una qualsiasi di queste tre componenti si ripercuoteranno sulle altre.

In tal senso, impiega tecniche molto diverse tra loro, volte a modificare uno dei tre elementi, sapendo che in tal modo interesserà l’essere umano nella sua interezza.

Ad esempio:

La ristrutturazione cognitiva è una tecnica che consiste nell’aiutare il soggetto a modificare le proprie convinzioni o pensieri. A tale scopo, lo si invita a valutare la veridicità dei suoi pensieri e a cercare alternative più adattive. Dopo aver cambiato il modo in cui si interpreta la realtà, cambia anche il modo di sentire e agire.

L’esposizione è una tecnica volta a modificare il comportamento. Il soggetto viene incoraggiato a smettere di evitare o sfuggire ciò che teme e ad affrontarlo. Quando cambia il proprio comportamento e affronta la situazione, ne comprova l’innocuità; immediatamente cambiano le sue convinzioni ed emozioni al riguardo.

Le tecniche di rilassamento si concentrano sulle emozioni. In particolare, aiutano la persona a gestire autonomamente le proprie emozioni e il proprio livello di attivazione. Quando le emozioni cambiano, i pensieri diventano meno catastrofici e il comportamento passa dall’evitamento all’affrontamento.

La terapia cognitivo comportamentale è pertanto un approccio completo, flessibile ed efficace. Ottiene miglioramenti importanti in breve tempo e per un’ampia varietà di disturbi e problematiche. Si tratta, inoltre, dell’orientamento psicologico con più prove sperimentali che ne avvalorano l’efficacia. Tuttavia, quando si tratta di scegliere l’approccio terapeutico, è consigliabile informarsi sulle alternative disponibili e scegliere quello nel quale ci si riconosce maggiormente.



sabato 21 dicembre 2019

Il Vero Regalo di Natale


Ricordo ancora che, quando ero piccolo, il Natale era per me un evento sensazionale. Ma non dipendeva solo dal fatto che era l’occasione per avere il regalo più bello dell’anno. Quello che più mi piaceva era l’atmosfera che si respirava dall’inizio di dicembre. I negozi di tutta la città cominciavano a vestirsi a festa, agghindandosi di luci e drappi rossi, con piccoli abeti sintetici adagiati in un angolo, su una distesa di batuffoli di cotone idrofilo. E le strade, che te le godevi dal tardo pomeriggio quando faceva buio, da parte a parte tempestate di tanti puntini gialli luminosi, come se il cielo per l’occasione fosse sceso per donarci un abbraccio. Si respirava un’aria di festa.

Era questo che mi piaceva. Tutto attorno a me pulsava al ritmo dell’aspettativa e io mi sentivo parte armonica di tutto il resto. Tutto si preparava al Natale.

Adesso, che di anni in più ne ho in abbondanza, non nascondo che il Natale ha per me ancora un gran fascino. Ma mentre i miei figli stanno forse vivendo ciò che vivevo io, nella trepidante attesa di Babbo Natale, io mi sento in attesa di altro, con la consapevolezza che, a prepararsi al Natale, non sono solo le vetrine e le strade di ogni città, ma l’intero Universo.

Il Natale porta con sé un significato profondo, molto più profondo della nascita del Figlio di Dio che si è immolato sulla croce per noi. La nascita di Gesù, di più di 2000 anni fa, riveste un significato di portata cosmica, che ogni anno si riflette, nello stesso giorno, in ognuno di noi. La nascita di Gesù da Maria Vergine, nella grotta tra il bue e l’asinello, coi tre Magi e i loro doni, è la rappresentazione terrena di un movimento di forze che agiscono a livello di macrocosmo e di microcosmo, cioè noi. E sono forze che spingono appunto verso la rinascita, verso il rinnovamento.

Una lettura della simbologia legata al Natale ci può aiutare nel comprendere il significato nascosto della nascita di Gesù, che molti si limitano ad assumere come semplice accadimento storico.

Innanzitutto, il Natale si celebra subito dopo il solstizio di inverno, vale a dire nel momento in cui la durata della luce nelle 24 ore è minima e la durata del buio è massima. Dopo il solstizio, il Sole, che nel suo moto apparente lungo l’eclittica ha raggiunto la sua massima escursione verso sud, torna verso nord, portando nuova luce, nuova vita. Se fino ad allora, nelle fredde e buie giornate invernali, ogni attività era rallentata (sia quelle umane che quelle della Natura), adesso inizia il risveglio. Ed è proprio un messaggio di risveglio che l’evento-Nascita ci porta. Ma non parliamo soltanto di risveglio fisico che ci può portare alla maggior voglia di fare. Il risveglio di cui si parla è quello del Cristo-Sole, della Coscienza di ognuno di noi, ancora sopita nella nostra grotta, dove appunto è nato Gesù Cristo. Ed è proprio nella nostra grotta intima che abitano i nostri animaliinteriori (il bue e l’asinello), vale a dire tutti quei meccanismi mentali, quelle stereotipie, quel chiacchiericcio mentale che ci rende sempre più “macchine umane” anziché uomini.

Quello che il Natale ci vuole dire è di far nascere la nostra Coscienza, il nostro Cristo Intimo, così come Gesù è nato dalla Vergine Maria, la kundalini, superando il dominio meccanico del nostro Ego. E a darci la direzione ci viene in aiuto l’Universo intero, che nella notte del 24 dicembre allinea a Sirio, alla stella più luminosa (la cometa), le tre stelle della cintura di Orione, un tempo chiamate “I Tre Re”, i Magi, indicandoci la direzione esatta in cui il nuovo Sole sorgerà. Gasparre, Melchiorre e Baldassarre che portarono a Gesù i famosi tre doni, si presentano a ancora a noi con un regalo incommensurabile, il segreto della trasformazione. La Mirra (nera) rappresenta la morte, dell’Ego, dei meccanicismi, del noi-artificiale; l’incenso (bianco), lo spirito, che accoglie il nuovo Io, libero da condizionamenti, e che lo sostiene per non ricadere nelle tentazioni del mondo; l’Oro (giallo), il compimento dell’Opera Alchemica, della trasformazione del piombo in oro, della macchina umana in corpo di luce.

I miei figli si aspettano un regalo da Babbo Natale, ed è giusto così. Sarebbe troppo chiedere loro di comprendere i principi dell’Alchimia, per tutto c’è il suo momento. Anche io mi aspetto un regalo, ma dai Re Magi, perché anche quest’anno il mio Oro possa splendere un po’ di più.

Ed è quello che auguro anche a voi.

Buon Natale!

Francesco Albanese

Dal Sito: eticamente.net 

“Vince Chi Molla”, La Meravigliosa Canzone Di Niccolò Fabi Che Insegna A Vincere


Nella vita ci hanno sempre insegnato a non mollare mai, ma nessuno ci ha mai detto perché non si dovrebbe mollare… Arrendersi è considerato da “perdenti”, nelle partite, negli incontri di boxe, nella vita chi molla… perde.

Ci hanno sempre insegnato di stringere i denti, andare avanti, combattere per un ideale, anche se il più delle volte non è il nostro ma quello imposto da qualcun altro, un genitore, il capo, la società.

Puntare sempre più in alto, sovrastare chiunque per arrivare alla meta, spingere, sgomitare, scalciare anche imbrogliare pur di vincere.

Dimostrare il proprio coraggio, la propria ambizione, il proprio valore con la forza e la determinazione.

Ma poi?

Tutta questa fatica, tutto questo sgomitare per dimostrare a noi stessi (o forse più agli altri) di essere i migliori i più forti porta davvero alla vittoria?

Fermiamoci un attimo a riflettere su questo.

Ascoltiamo questa canzone di Niccolò Fabi: Vince chi molla, tratto dall’album “Una somma di piccole cose” del 2016.

“Lascio andare la mano
che mi stringe la gola
Lascio andare la fune
Che mi unisce alla riva
Il moschettone nella parete
L’orgoglio e la sete”

Cosa vogliono dire le prime strofe? Esprimono semplicemente il voler lasciare andare gli stereotipi che ci soffocano e ci legano, quelle cose che non ci permettono di essere noi stessi, che intrappolano la nostra vita nell’idea che dobbiamo per forza essere diversi da quello che siamo per essere forti e accettati. In questo caso anche lasciar andare la paura di noi stessi, dei muri che alziamo e di quello che vorremmo essere ma che non siamo… del nostro giudizio. Già perché non esiste un giudice più severo di noi stessi, ci reputiamo sempre “troppo poco” senza renderci conto di quanto invece valiamo se accettiamo chi siamo. Decidiamo di mollare la paura di noi stessi.

“Lascio andare le valigie
I mobili antichi
Le sentinelle armate in garitta
Ogni mia cosa trafitta
Lascio andare il destino
Tutti i miei attaccamenti
I diplomi appesi in salotto
Il coltello tra i denti”

Lasciare andare significa anche liberarsi delle vecchie cose che ci legano al passato, dei ricordi che ci hanno segnato, delle cose superflue e anche lasciare perdere rancori e odio che avvelenano il nostro animo.

Togliendo dalla vita queste cose è come diventare di colpo più leggeri, ci si arrende alla vita lasciando che scorra a modo suo, senza costrizioni, legami, muri, argini.

“Lascio andare mio padre e mia madre
E le loro paure
Quella casa nella foresta
Un umore che duri davvero
Per ogni tipo di viaggio
Meglio avere un bagaglio leggero
Distendo le vene
E apro piano le mani
Cerco di non trattenere più nulla
Lascio tutto fluire
L’aria dal naso arriva ai polmoni
Le palpitazioni tornano battiti
La testa torna al suo peso normale
La salvezza non si controlla
Vince chi molla
Vince chi molla”

Vince chi molla insegna anche a staccarsi da quello che è il volere o l’aspettativa dei propri parenti o della società, da chi vi vuole diversi da quello che siete in realtà, cercando di vivere con “un bagaglio leggero”, lasciando fluire la vita, salvandosi.

Abbandonare un attaccamento insano al passato libera e risveglia l’anima, fa si che il destino ricominci a seguire il suo corso senza deviazioni costrittive, senza ostacoli, attraversando il vuoto facilmente permettendo di vincere.

E’ quindi inutile avere il controllo su ogni cosa, lasciarsi andare e trascinare dalla corrente spesso può rivelarsi la soluzione migliore per affrontare la vita in maniera più leggera, più sana; accogliendo quello che viene senza ostacolarlo o deviarlo è sicuramente più semplice e più appagante.

“Vince chi molla” è quindi un’esortazione, un invito a non perseverare, a non resistere al continuo mutare delle cose, una presa di coscienza dei nostri limiti

Niccolò Fabi commenta così la sua stessa canzone:

“Questa è una canzone sulla paura. Sulla paura delle trasformazioni, quella delle grandi partenze, la paura delle separazioni. E sulla regina di tutte le paure, quella di morire, anzi più precisamente di stare per morire, che è ancora più perniciosa e chi l’ha provata sa esattamente di cosa parlo.
Viene spesso consigliato in quei casi di non opporre resistenza, di non combattere con le onde ma di lasciarsi andare che la corrente prima o poi ci riporterà a riva.
Chiudendo gli occhi e respirando a fondo aiuta molto anche visualizzare una immagine di quiete. La mia preferita è una collina battuta dal vento. A ripensarci bene questa forse non è una canzone.”

Questa canzona può rifarsi addirittura ad un passo biblico (1Re 3,16-28), quello dove Salomone deve scegliere a chi dare un bambino reclamato da due donne, e decide infine di dividerlo in due (letteralmente) per accontentarle entrambe. In questo caso la vera madre “molla” e decide di salvare la vita del figlio rinunciandone al possesso… E in questo caso la vera madre vince.

Non abbiate paura di mollare la presa quando le dita non reggono più, in fondo ci vuole coraggio per lasciare andare e mollare. Ci vuole coraggio per essere vincitori.

Dal Sito: eticamente.net 

Per combattere le fobie il cervello ha bisogno della sua “copertina di Linus”




L’ansia e lo stress possono trasformare in un incubo alcuni episodi della vita quotidiana che in verità non nascondono alcun pericolo. Succede a una persona su tre
Una canzone o un motivo musicale, un pupazzo di peluche, un volto amico, la copertina di Linus.  Ricorrere a questi strumenti per combattere l’ansia che paralizza chi soffre di qualche fobia può essere più efficace della terapia cognitivo comportamentale o degli antidepressivi. Lo suggerisce uno studio dell’Università di Yale appena pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences che invita chiunque abbia questo problema a individuare la sua personale ancora di salvezza. 

Le sedute dal terapeuta o gli psicofarmaci aiutano circa la metà delle persone che soffrono di ansia scatenata da situazioni non realmente pericolose (paura dei ragni, del buio, degli spazi chiusi ecc..), per tutti gli altri queste strategie non sono in grado di offrire un apprezzabile sollievo. 




«Un segnale di sicurezza potrebbe essere un brano musicale, una persona o persino un oggetto come un animale di peluche che rappresenta l'assenza di minaccia», ha affermato Paola Odriozola, coautore dello studio. 

L’ansia e lo stress possono trasformare in un incubo alcuni episodi della vita quotidiana che in verità non nascondono alcun pericolo. Succede a una persona su tre: i ragni, gli ascensori chiusi, le piazze affollate, il buio possono scatenare attacchi di panico incontrollabili e difficili da gestire anche per chi ne è testimone. 

I ricercatori di Yale invitano a fare affidamento su un segnale che dà sicurezza, un simbolo, un suono, un peluche o qualunque altra cosa che non sia mai stata associata a un evento negativo. 

Questo “trucco” funziona perché agisce sull’ansia attraverso un canale neurale completamente diverso rispetto a quello attivato dalla terapia cognitivo-comportamentale che prevede una graduale esposizione alla fonte delle paure fino a quando il paziente arrivi a comprendere che il pericolo non è reale. Chi è affetto da aracnofobia viene così lentamente costretto a entrare in contatto con i temutissimi insetti fino a quando riuscirà a considerarli innocui. Non sempre però il piano funziona.  

I ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti sia su uomini che su animali per trovare una soluzione alternativa. Nel primo caso le persone sono state indotte ad associare una determinata forma a un evento ansiogeno e una forma differente a un evento non minaccioso. Nel caso degli animali, al posto delle figure sono stati usati dei suoni. In un primo momento i soggetti coinvolti nella sperimentazione sono stati esposti esclusivamente al segnale associato al pericolo e solo successivamente a entrambi.

L'aggiunta del secondo elemento non minaccioso, il segnale di sicurezza, ha soppresso la paura dei soggetti in confronto alla risposta alla sola forma correlata alla minaccia.

Dalle immagini cerebrali è emerso che questo stratagemma ha attivato, sia negli gli uomini che nei topi, una rete neurale diversa da quella attivata con la terapia basata sulla graduale esposizione alla fonte delle paure. Il che suggerisce che il segnale che dà sicurezza potrebbe essere usato per rendere più efficaci le attuali terapie. 




«La terapia basata sull'esposizione graduale punta alla graduale estinzione della paura e sebbene durante la terapia si formi una memoria di sicurezza, questa è sempre in concorrenza con la memoria della minaccia precedente.  Questa competizione rende le attuali terapie soggette a ricadute delle fobie,  ma non esiste alcuna memoria negativa associata ai segnali di sicurezza», ha spiegato Dylan Gee coautore dello studio. 

I ricercatori sono convinti che questo semplice intervento possa potenziare gli effetti delle attuali strategie terapeutiche, sia psicologiche che farmacologiche, che non sempre funzionano e quando funzionano non è detto che i benefici durino a lungo.

Dal Sito: healthdesk.it

mercoledì 18 dicembre 2019

Raccontiamoci ...






"Dal mio primo attacco di panico ad oggi"

Il mio primo attacco ...😱😱 marzo 2007, una paresi al corpo; sono finita in ospedale con la parte sinistra completamente paralizzata, prima d'allora mai sentito parlare di attacchi di panico, tutti pensavano ad un'ischemia o comunque qualcosa di grave...
Mi fecero di tutto e di più; controlli a non finire, per poi capire che era un semplice attacco di panico. 😱😱
Nulla di più grave, fortunatamente.🙏🙏

La mia vita da quel momento non è stata più la stessa.
Alti e bassi, psicologi, psichiatri, medicine... 💊💊
Mi rifiutavo di credere che questa cosa potesse bloccarmi e non seguivo un bel nulla di quello che mi consigliavano, avevo sempre e solo ragione io...  Non appena stavo meglio, tornavo a fare la vita di sempre, ecco che, puntualmente, ricadevo nei miei attacchi... 😓😓
Un vortice continuo e intanto il tempo passava e io non facevo nulla per potermi curare, come se dovessi sfidare qualcuno ma, stavo sfidando solo me stessa. 😣😣

Nel 2009 la mia sfida crollò in tutto e per tutto... ⛔⛔⛔ Da un giorno all'altro la mia vita finì completamente, buio più profondo, non potevo fare più nulla.

Sono stata un'anno chiusa in casa, senza poter fare praticamente più nulla, perdendo tutto: famiglia, lavoro, amici, sole, mare, aria... ero solo un peso da accudire. 😰😰
L’unica cosa che riuscivo a fare durante il giorno, era alzarmi dal letto e mettermi in poltrona, per abbracciare mio figlio quando tornava da scuola.
Non esisteva più niente nella mia vita.
Solo gli attacchi di panico, 10–15 al giorno un susseguirsi senza tregua.
Il mio fisico stava cedendo; non mangiavo più, ero arrivata a pesare 43 kg, i miei organi si stavano ammalando... 😓
Ed ecco che arrivano tutte quelle emozioni descritte nel mio video, devastanti...
http://youtu.be/ybuZpMUeZbE
Ero talmente al punto di non ritorno che non so ancora per quanto tempo avrei resistito, soprattutto perché rifiutavo il cibo e ogni tipo di nutrimento...
Sono stata aiutata molto da chi mi stava vicino, purtroppo trovare qualcuno che riesca a capirti, gestirti, e soprattutto aiutarti ad aprire gli occhi a tutto questo, è difficile. Finalmente accettai di avere un problema, decisi di seguire un percorso sia con farmaci, (al punto in cui ero arrivata erano indispensabili), sia con tanta psicoterapia e anche facendo training autogeno. Seguivo alla lettera tutto quello che mi diceva il mio medico, senza fare più di testa mia. 😊😊
Questo percorso fu molto lungo ma, piano piano ripresi a fare tutte le cose quotidiane che avevo perso.
Quando per la prima volta ripresi a guidare sembravo una bimba con il suo giochino preferito. 🚗🚗🚗
Da li in poi tutto in salita, iniziarono i cambiamenti, la vecchia Elisabetta era stata buttata via, stava nascendo una nuova Elisabetta che, non solo mi piaceva molto di più ma, che iniziava ad assaporare le piccole cose della vita, cose che prima non apprezzavo minimamente.
Per me il panico è arrivato a dirmi "stop la vita che conduci non va assolutamente bene" ... ⛔⛔⛔ Ecco perché alle volte per stare meglio bisogna cambiare... fuori tutto può aspettare la vita no... ❤❤
Io ho perso due anni della mia vita senza fare nulla, dando retta solo al mio voler arrivare ovunque, poi il crollo totale!
Non auguro a nessuno di passare ciò che ho passato io.
Ecco perché ad oggi il gruppo, la pagina, l'associazione...
Da subito, appena rimessa in piedi iniziai a trasmettere il mio messaggio, la mia storia, cercare di dare un un'aiuto, nella speranza di poter portare un po' di luce ⭐⭐
Non aspettate troppo tempo, accettate di avere un problema e chiedete aiuto, pensate solo che lo state facendo per voi stessi e per nessun altro!
Chiedere aiuto è un grandissimo atto di forza

Scusate sono stata troppo lunga ma, ogni tanto, ci tengo a far conoscere un pezzettino della mia storia
Un abbraccio a tutti 

Eli



Agorafobia: sintomi e cause e come si risolve l'ansia da spazi aperti e affollati



Chi soffre di agorafobia ha paura degli spazi aperti e affollati oppure di trovarsi in pubblico: scopri le cause e i sintomi e come si risolve.


L’agorà era la piazza principale delle città greche, luogo grande ed imponente dove si svolgeva la vita della polis, ed è da qui che prende il nome la fobia di chi ha paura degli spazi aperti e di stare in mezzo alla gente, ovvero l' agorafobia. Ma di cosa si tratta di preciso? L'agorafobia è un tipo di disturbo d'ansia e coloro che ne soffrono temono situazioni reali o previste in cui potrebbero avere un attacco di panico o sentirsi intrappolati, indifesi o addirittura vergognarsi.

Agorafobia e attacchi di panico viaggiano a braccetto, difatti coloro a cui è stata diagnosticata l'agorafobia hanno sofferto di uno o più attacchi di panico ed hanno evitato i luoghi in cui potesse succedere di nuovo. Gli agorafobi evitano la folla o di trovarsi in un luogo pubblico, avendo paura degli spazi aperti con persone come strade trafficate. La paura può essere così travolgente che è comune per loro sentire di non poter uscire di casa, luogo in cui si sentono al sicuro. È un disturbo che colpisce le donne più degli uomini e di solito si manifesta tra i 25 e i 30 anni.


Agorafobia, cause

Esistono diversi fattori che possono influenzare lo sviluppo dell'agorafobia.
Temperamento ansioso o nervoso.
Stress ambientale.
Esperienze di apprendimento.
Avere disturbi di panico o altre fobie.
Risposta di forte paura e voglia di fuggire agli attacchi di panico.
Aver vissuto situazioni di tragedia in famiglia o incidenti dal grande impatto.
Avere un parente di sangue con agorafobia.
Depressione.
Uso prolungato di droghe o alcol.
Altri disturbi di salute mentale.

Agorafobia, sintomi

Gli agorafobi possono provare ansia anticipatrice e sviluppare comportamenti difensivi ed evitare determinate situazioni, in particolare:


Uscire soli di casa.
Situazioni affollate in cui c'è da attendere in fila.
Spazi chiusi, come cinema, ascensori o piccoli negozi.
Spazi aperti, come strade trafficate, parcheggi, ponti o treni.
Utilizzare i mezzi pubblici.
Hanno problemi significativi o angoscia sul lavoro, situazioni sociali o momenti e situazioni che producono paura o ansia sproporzionate.
Agorafobia, diagnosi

Il disturbo deve essere di almeno sei mesi e prima di raggiungere una diagnosi possono essere necessarie diverse interviste con lo psichiatra per valutare i sintomi oltre a un esame fisico e altri test come un esame del sangue o test di imaging per escludere altre cause. Lo psichiatra può richiedere di parlare con persone vicine come la famiglia e gli amici per conoscere cambiamenti comportamentali e ossessioni nel paziente come evitare la guida, andare al cinema, teatri, supermercati, magazzini, usare l'ascensore, usare i mezzi pubblici, stare lontano da casa, esercizio fisico, partecipazione a discussioni. Si presterà attenzione anche a comportamenti difensivi come essere sempre accompagnati da una persona affidabile, un animale, trasportare oggetti rassicuranti, fare shopping in determinati orari o avere sempre un centro sanitario o un ospedale vicini.
Agorafobia, come guarire

Il trattamento contro l'agorafobia è a lungo termine e include un programma di psicoterapia che, oltre a conoscere i fattori che portano alle crisi, di solito include una terapia di confronto per affrontare e tollerare i sintomi che li scatenano. L'obiettivo è ridurre l'ansia gradualmente e raggiungere la desensibilizzazione affrontando in sicurezza, senza paura o ansia, i luoghi e le situazioni che hanno causato le crisi. Oltre alla psicoterapia potrebbe essere necessario un trattamento con antidepressivi ma sarà l'esperto a valutare, caso per caso, quando e dove è necessario intervenire in questi termini.

Dal Sito: cosmopolitan.com

domenica 15 dicembre 2019

Lasciamo Spazio Nella Nostra Vita Per Un Po’ Di Sana Solitudine




“La solitudine è pericolosa. È dipendenza. Una volta che ti rendi conto di quanta pace c’è in lei, non vuoi avere a che fare con le persone.”

(Carl G. Jung)

La solitudine non è sempre negativa e da intendere come un senso di assenza o mancanza che ci deve pesare o deprimere, a volte può essere benefica ed avere un effetto salutare: può diventare un modo per ritrovarsi e non per isolarsi del mondo, per ripartire da noi stessi.

A volte essere soli è l’unico modo per ritrovare la nostra compagnia.

Essere soli per ritrovare se stessi

Possiamo usare la solitudine a nostro favore per capire cosa conta davvero nella nostra vita, in cosa vogliamo veramente investirci, anche al livello relazionale. Darsi la possibilità di fare una pausa dal mondo esterno può essere salutare quando ci rendiamo conto di non aver fatto scelte autentiche che rispecchiano ciò che siamo realmente. In questo caso, la solitudine funge un po’ da space-clearing “metafisico”: ci diamo la possibilità di contemplare lo spazio vuoto senza la necessità di fuggire da esso o di riempirlo frettolosamente perché abbiamo paura del silenzio.

Stare soli ci permette di non fuggire da noi stessi, ma di accoglierci ed accettarci così come siamo, di guardarci dentro con benevolenza, di ascoltare quella voce interiore che di solito mettiamo a tacere con la confusione e il rumore che creiamo nella nostra vita; ci permettiamo di essere gentili con noi stessi, comprensivi, pazienti e di essere la nostra propria priorità.

“Comincia sempre da te; in tutte le cose e soprattutto con l’amore. Amore è portare e sopportare sé stessi. La cosa comincia così. Si tratta veramente di te; tu non hai ancora finito di ardere; devono arrivarti ancora altri fuochi finché tu non abbia accettato la tua solitudine e imparato ad amare.”

(Carl G. Jung)

La solitudine come momento purificatorio

La solitudine ci permette di ritagliarci del tempo e dello spazio per noi, di dedicarci ai nostri interessi; se è vero che può diventare un peso quando si prolunga oltre misura, quando è equilibrata invece la solitudine ci permette di allontanarci da ciò che non ci corrisponde: luoghi, modi di vivere, persone, ecc. ; e di recuperare nello stesso tempo il contatto con tutto ciò che magari abbiamo dimenticato o trascurato di noi in passato: i nostri hobby e interessi, per esempio.

Quando siamo soli, possiamo focalizzare la nostra attenzione e la nostra energia su di noi, sfruttando quel momento per coltivare un sano egoismo, utile soprattutto alle persone che tendono ad essere sempre disponibili per gli altri e ad essere incastrate in relazioni a senso unico. In effetti, la solitudine ci permette anche di interrompere le relazioni vampirizzanti, di tagliare i rami secchi, ma soprattutto ci consente di recuperare e sanare la relazione con noi, perché se manchiamo a noi stessi, ci sentiremo soli anche in mezzo a 7 miliardi di persone.

Di certo, la solitudine ci insegna a prenderci per mano e a capire quanto ci siamo lasciati indietro, quanto poco amore ci siamo dati finora; magari i suoi doni potranno sembrarci difficili da accettare: pianti, sensazione di vuoto, silenzio,… Ma se accoglieremo questi aspetti senza aggrapparci a loro, vivendoli nel momento e permettendoci di lasciar scorrere le emozioni senza volerle trattenere, ci daremo la possibilità di liberarci, di liberare spazio dentro di noi e di capire con più chiarezza chi siamo e cosa vogliamo (o non vogliamo) dalla vita.





“La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti, o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. La solitudine cominciò con le esperienze dei miei primi sogni, e raggiunse il suo culmine al tempo in cui mi occupavo dell’inconscio. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando ogni individuo è memore della propria individualità e non si identifica con gli altri.”
(Carl G. Jung)

Un po’ di solitudine per ricaricare le batterie





La solitudine può rappresentare anche una pausa benefica per ricaricare le batterie prima di lanciarsi nel mondo, oppure per guarire gli aspetti della propria vita che ci hanno fatto soffrire. In entrambi i casi, possiamo sfruttare questo momento di ritiro come opportunità invece che come fatalità, e capire come trarre da questo periodo qualcosa di positivo per noi.

Forse questo momento funziona come un trampolino di lancio: prima la vita ci dà la possibilità di prepararci, di rimettere assieme i pezzi di noi che abbiamo sparpagliato in giro per relazioni che non avrebbero mai fiorito, di recuperare le forze e leccare le nostre ferite, per poi aprirci a relazioni, questa volta più sane? Può darsi. Sta di fatto che se avremmo sfruttato questo momento per entrare in contatto con il nostro sentire, saremo cambiati profondamente. E già questo basterà a cambiare la natura delle relazioni che si andrà a tessere poi in futuro.

È probabile che allora, avendo scoperto il potere salutare della sana solitudine, decideremo di coltivarla in modo equilibrato nella nostra vita anche se non saremo più soli. In effetti, ritagliarsi uno spazio vuoto può aiutarci a ritrovare il nostro centro ed evitarci di smarrirci, di farci violenza lasciandoci influenzare troppo dall’esterno, può essere utile per ritornare alla nostra fonte interiore per capire se stiamo ancora rispettando noi stessi e le nostre aspirazioni. Ma forse il motivo principale sarà semplicemente che dopo esserci ritrovati grazie al silenzio della solitudine, avremo la necessità di continuare a stare in nostra compagnia.

Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline Bio-Naturali
www.risorsedellanima.it

Dal Sito: eticamente.net 

Quando Ti Senti Smarrito, Ascolta Il Tuo Corpo: Lui Non Mente Mai




Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, lo stress è il male del XXI secolo; ci colpisce più delle generazioni precedenti, a tal punto che 9 italiani su 10 soffrono di stress cronico.

Se in passato si incontravano minacce reali alle quali era possibile reagire (o dalle quali poter scappare), mai come oggi siamo confrontati a minacce “virtuali”: spesso si tratta di pensieri nocivi (come quella paura irrazionale che possa accadere qualcosa di brutto alla persona che amiamo appena esce da casa), di cattive abitudini mentali (interpretiamo in modo errato la realtà intorno a noi in base ad alcuni filtri interiori con congruenti) oppure di pensieri pesanti che la nostra mente non riesce a lasciar andare. E tra una frustrazione sul lavoro e un colpo di nervosismo nel traffico, ci perdiamo il presente e rischiamo di fare ammalare il corpo.

Il problema è che se la nostra società si è evoluta e possiamo (razionalmente parlando) fare la differenza tra reale e virtuale, la nostra mente funziona ancora come in passato e innesca di fronte ad una minaccia presunta le stesse reazioni fisiologiche che in caso di minaccia reale: metterà il corpo nelle condizioni di lottare o scappare. Ma se obiettivamente  non c’è nulla da cui scappare, come potrebbe andare a finire?

“Gli uomini non sono prigionieri dei loro destini, ma sono solo prigionieri delle loro menti.”
(Franklin D. Roosevelt)

Quando la mente si perde in un bicchiere d’acqua

Quando siamo di fronte ad un problema reale e dobbiamo agire in fretta, il corpo entra in una modalità che gli consente di concentrare tutta la sua energia in un’azione precisa: dopo la scarica di adrenalina e l’azione concreta (lotta o fuga), seguirà un attimo di rilassamento durante il quale l’organismo potrà recuperare le energie disperse.

Ma se siamo confrontati a problemi “virtuali”, come i loop mentali, le frustrazioni lavorative, i problemi economici, le preoccupazioni per il futuro, ecc., l’energia rilasciata dalla scarica di adrenalina non potrà essere usata per agire (o scappare), e quindi non ci sarà la fase di rilassamento. E finché ciò che ci stressa rimarrà ben presente, saremo sottoposti a continui rilasci di adrenalina, come se fossero delle piccole scosse elettriche. Se vogliamo evitare che queste subdole sedute di tortura durino settimane, mesi, anni, sarà utile apprendere a staccare la spina.

Se chiedi ad una persona dove si trova nel suo corpo, con grandi probabilità ti risponderà che è nella testa; e in parte è così: siamo talmente abituati a pensare che abbiamo dimenticato come abitare il nostro corpo, ormai diventato una sorta di accessorio ingombrante, un appendice, della nostra mente.

L’ironia vuole che senza il corpo non puoi vivere, ma senza i pensieri asfissianti della tua mente puoi benissimo farcela. Detto ciò, è doveroso fare una precisazione: mentre il risolvere problemi, creare, progettare qualcosa di nuovo, possono essere delle attività mentali positive, il perdersi in loop mentali o pensieri disfunzionali invece non lo è. La differenza sta in un concetto semplice: la concretizzazione.

Se le tue idee rimangono nell’etere e non ti portano da nessuna parte, non portano nulla di concreto che possa influenzare il piano materiale, con grande probabilità la tua mente ti sta prendendo in giro, oppure si è persa da qualche parte. Per riprendere il controllo della situazione, ti converrà dare ascolto al tuo corpo e scendere da lì su.

Ritrovarsi nel corpo, un esercizio di consapevolezza

Forse ti sta capitando ora: il tuo respiro è corto, le spalle sono contratte e la schiena è inarcata in avanti? Non è una posizione sana, né l’espressione di un organismo sereno e che sta bene. Riportare la tua attenzione sul corpo, sulla sua posizione, le tensioni muscolari, i piccoli fastidi, può aiutare a capire quale pensiero di sottofondo ti sta togliendo energia.

Potresti fare un esercizio di scanning corporeo per individuare meglio quale parte del tuo corpo è in sofferenza.

Lo scanning corporeo, un esercizio per dare voce al corpo

Poni la tua attenzione sulle tue sensazioni fisiche (non pensare il corpo, sentilo, percepiscilo) e risali lentamente dai piedi alla testa, passando per le gambe, il bacino, le braccia, ecc. Concentrati ogni volta sul percepire il corpo e sentire se la sensazione che ti rimanda è piacevole oppure no. Se ti accorgi di tenere involontariamente le spalle alzate, volontariamente riportale ad una posizione naturale. Fallo con pazienza e gentilezza verso te stesso.

Questo esercizio ti aiuta a ridare importanza al linguaggio corporeo e alle tue sensazioni fisiche e nello stesso tempo, ti permette di riprendere per un po’ le redini in mano. La tua mente dovrà aspettare che tu abbia finito di controllare che il tuo corpo stia bene prima di avere di nuovo la tua attenzione.

Noterai che, man mano che proseguirai con questa semplice pratica, ti sentirai più presente, più calmo e meno ansioso; le frustrazioni e i pensieri inutili avranno gradualmente meno importanza e porrai maggior attenzione nel trovare delle soluzioni concrete ai tuoi problemi invece di lasciare che la tua mente ti porti a spasso chi sa dove. Il tuo corpo è la tua ancora, usalo quando ti senti perso.

Se in futuro sentirai di perderti nei tuoi pensieri o di essere talmente fossilizzato nella modalità “pilota automatico” da non riuscire più a concentrarti su un pensiero costruttivo senza perdere il filo, svolgi la tua attenzione su ciò che percepisce il corpo in quel momento, e vedrai che con pazienza e gentilezza, la tua mente ti riconsegnerà docilmente le redini. Col tempo e la pratica, capirai che non è la tua mente ad avere il reale controllo della tua vita, anche se per molto tempo te lo avrà lasciato credere, e che pure il tuo corpo ha molto da insegnarti se gliene lascerai l’opportunità.

Dal Sito: eticamente.net 

Manda via lo stress con una risata: il tuo cervello ti ringrazierà





Ridere
 fa bene alla salute, allontana lo stress e aiuta a vivere meglio. A confermarlo sono stati diversi studi nel corso degli anni. L’umorismo, infatti, rende il cervello più forte e lo aiuta ad affrontare meglio le situazioni difficili e stressanti. Uno studio recente condotto nell’University of North Carolina dallo psicologo Arnold Cann ha dimostrato che gli individui con una scarsa propensione all’allegria e un atteggiamento mentale non favorevole a cogliere l’umorismo hanno una minore capacità di sopportare il dolore e lo stress.

Da quanto è emerso, il buonumore e l’allegria contrastano la perdita di neuroni nell’ippocampo e nelle aree cerebrali sensibili allo stress. Le risate, però, per essere benefiche devono essere naturali e spontanee. Solo così si verifica una riduzione della tensione e dello stress, percependo una sensazione del tutto liberatoria. Ridere, infatti, come l’attività fisica, libera endorfine, che hanno un effetto benefico sul nostro cervello.

Ridere, inoltre, favorisce la creatività in quanto aiuta il cervello a liberarsi da ragionamenti razionali. I pensieri fissi portano a sviluppare ansia, invece, quando si ride e si è allegre, si riesce a vedere i problemi sotto un altro punto di vista, trovando soluzioni creative e alternative.

Anche la memoria migliora quando si ride e si è allegri. Ciò, infatti, è dovuto al fatto che quando si ride i livelli di cortisolo diminuiscono considerevolmente aumentando, di conseguenza, le nostre capacità di memorizzazione. Un’ottima tecnica per aiutare gli studenti alle prese con gli esami.

Oltre a far bene all’umore, ridere “di cuore” riduce il rischio di infarto, scioglie i muscoli, regola il respiro, stimola le difese naturali e limita le infezioni.

La risata è quindi un vero e proprio farmaco, una terapia che fa bene a tutti, grandi e bambini, uomini e donne, tanto che in diversi ospedali, da anni ormai, è stata inserita per aiutare tantissimi pazienti. LaTerapia del Sorriso si basa, infatti, sugli effetti positivi, sia a livello psicologico che biologico.

Per stare bene, allontanare lo stress e migliorare le nostre capacità intellettive non ti resta, allora, che farti una bella e sana risata. Di sicuro i benefici non tarderanno ad arrivare.

Dal Sito: dilei.it

sabato 14 dicembre 2019

L’immensa paura che colpisce 1 donna su 10 la Tocofobia


L’immensa paura che colpisce 1 donna su 10 ha un nome ed è relativa alla paura del parto e del rimanere incinta| La Tocofobia: ne è affetta un numero consistente di donne in stato interessante, come si sviluppa e come rimediare

La nascita di un figlio è un evento, per le donne, importantissimo, l’unico che davvero cambierà la vita per sempre. Il passaggio da essere una cosa sola a due è un qualcosa di meraviglioso che accompagna la donna per il resto della sua vita e che non si può spiegare se non ci si passa. Si dice, quando una donna è incinta, essere in stato interessante o in dolce attesa. E di questo ne siamo sicure ma, per molte donne, l’attesa, o meglio, il parto, può diventare un ostacolo insormontabile, una vera e propria fobia che gli psicologi chiamano con il nome di Tocofobia! Ne è affetta una fetta consistente di donne in gravidanza e, spesso, non si conoscono le cause o i sintomi, o il perché questa fobia arrivi! Infatti, la tocofobia è spesso un problema sotto-diagnosticato e può non giungere all’attenzione del medico; in realtà, questa condizione è sorprendentemente comune e si stima che colpisca 1 donna su 10.

Scopriamo dunque, anzitutto cos’è, come comportarsi con essa riconoscendone i sintomi e come uscirne. Perché, alla fine di tutto, la ricompensa è abbracciare una nuova vita, vostro figlio!

Tocofobia | La paura del parto, cos’è?

Come abbiamo accennato, la gravidanza è un evento magico per molte donne e nonostante molte vivano questa condizione come un momento di gioia e come un’occasione per festeggiare, per molte altre la gravidanza e il parto sono fonte di ansia, oppure possono scatenare un mix di sensazioni. Per altre, questi eventi celano un vero terrore non solo di partorire, ma anche di rimanere incinte. Questo fenomeno è conosciuto come tocofobia.

Questa patologica paura condiziona molte donne, che eviteranno di rimanere incinte per il terrore che scatena in loro l’idea di affrontare una gravidanza e, in particolare, un parto. Nulla a che vedere con la fobia di essere madri, pur pianificando il cesareo dal principio per evitare il parto vaginale. In qualche caso, questo disturbo fobico è conseguenza delle implicazioni psicologiche e sociali correlate alla nascita di un bambino. Altre volte, la tocofobia può dipendere dall’idea di non riuscire a sopportare il dolore del travaglio.

La paura del parto può essere influenzata da esperienze traumatiche del passato (manovre ostetriche invasive, distacco placentare, taglio cesareo d’emergenza, aborti o gravidanze extra-uterine ecc.) e dall’ascolto di testimonianze di nascite difficili o complicate.

Di cosa ha paura la donna che soffre di Tocofobia

Nello specifico, la donna che soffre di tocofobia può avere paura ed essere terrorizzata da:

Travaglio e dolore ad esso associato: in qualche caso, la paura del parto è influenzata dall’idea di soffrire o riportare lesioni al tratto genitale; altre volte, questa forma di fobia è scatenata dal pensiero di ferire il bambino o provocarne addirittura la morte;

Dall’evento nascita vero e proprio: alcune donne sono terrorizzate dalla venuta al mondo di un bambino, fino ad arrivare ad evitarla, nonostante abbiano il desiderio di diventare madri. In tal caso, la tocofobia può essere enfatizzata dalle implicazioni psicologiche e sociali che conseguono alla nascita di un figlio.

Le donne che hanno paura di partorire naturalmente sono convinte di non riuscire ad affrontare i dolori del travaglio e/o di morire durante il parto.

Il riconoscimento della tocofobia e la stretta collaborazione tra le figure che assistono la gestante nel corso dei nove mesi di gravidanza (ostetrici, ginecologi e altri medici specialisti) contribuiscono a ridurne la gravità ed a garantire un trattamento efficace.

I sintomi della Tocofobia nelle donne

La paura del parto (tacofobia) può avere effetti negativi che vanno ben al di là del parto in sé. Così, richiedendo un cesareo programmato aumentano anche le probabilità che il parto si trasformi in un evento traumatico, così come la possibilità che insorgano problemi nel legame tra madre e figlio. La tocofobia è un disturbo d’ansia che condizione inevitabilmente la vita di chi ne soffre. Ciò che differenzia il disturbo fobico dalle solite angosce sperimentate dalle future mamme (che sono normali pensieri durante l’ultimo trimestre di gravidanza) è l’entità con cui si manifesta la paura del parto: alcune donne pensano che moriranno, altre immaginano un dolore insopportabile. La tocofobia è, dunque, una paura estrema.

Sintomi più comuni sono:

il disturbo del sonno,

gli attacchi di panico,

comportamenti elusivi,

ansia e depressione

l’idea di un bambino che cresce al loro interno risulta, per queste donne, profondamente inquietante.

la tocofobia può indurre la donna a sentirsi dissociata dal suo corpo durante l’esperienza del parto.

paura del parto per via vaginale

Difficoltà a concentrarsi sul lavoro o sulle attività quotidiane;

Incubi;

Pianto;

Svalutazione o riduzione dell’autostima;

Agitazione e nervosismo

Due forme diverse di Tocofobia

Esistono, all’interno della patologia, due forme diverse di tocofobia. Quella primaria e quella secondaria.

La tocofobia primaria

Si verifica nelle donne che affrontano il loro primo parto. In genere, la paura del parto è presente ancor prima del concepimento e può comportare la rinuncia a diventare genitore. È una paura particolarmente comune nelle donne, nelle adolescenti o nelle bambine che hanno subito abusi sessuali. A tal proposito, possono scatenarsi sintomi durante gli esami medici legati alla gravidanza a causa dell’insorgere di flashback relativi al trauma scatenante.

La tocofobia primaria può essere:

Sintomo di una depressione in corso;

Conseguenza di abusi sessuali subiti durante l’infanzia

 

La tocofobia secondaria

Si manifesta nelle donne che sono (state) già madri o che hanno vissuto una precedente gravidanza senza sintomi del problema. Può manifestarsi a seguito di un precedente parto traumatico, di cure per la fertilità non andate a buon fine, aborti spontanei, morte del feto, e nelle donne che non hanno mai partorito naturalmente per via vaginale.

In altri casi di tocofobia, il parto è stato regolare, ma viene percepito dalla donna come una violenza al suo corpo, tanto da portare ad un disturbo da stress post-traumatico, con conseguenze di depressione post-parto.

La tocofobia secondaria può presentarsi anche in seguito al rifiuto di poter scegliere la modalità di espletare il parto (es. con taglio cesareo o, se naturale, con anestesia peridurale).

Quali sono le cause dell’insorgenza della patologia?

Una delle possibili cause dell’insorgenza della patologie nelle donne incinte è la testimonianza trasmessa: cioè, la narrazione di parti particolarmente dolorosi. Sono state annoverate possibili cause come la precedenza esistenza di disturbi quali l’ansia o la depressione.

In generale, in tutti i casi compare una paura irrazionale di non saper gestire adeguatamente il dolore, perdita di controllo, mancanza di fiducia nel personale medico e un terrore esagerato per la propria vita o per quella del nascituro.

La tocofobia interessa molte donne che affrontano da sole l’imbarazzo e il parto. Si stima un’incidenza che oscilla tra il 2% e il 15% delle donne affette da tocofobia, 1 donna su 10 ne è affetta. La tocofobia colpisce un numero limitato di persone e va ben oltre le normali preoccupazioni che possono scaturire in una fase così importante come l’arrivo di un bambino. Ciononostante, in caso di timori irrazionali associati alla tocofobia, conviene affidarsi a un professionista per poter gestire i sintomi e affrontare in modo sano e positivo la gravidanza e il parto.

L’aspetto particolare è che questa fobia non è esclusiva delle donne. Anche molti uomini ne soffrono. Si sentono profondamente agitati dinnanzi all’incertezza del decorso della gravidanza e del parto delle proprie compagne. Questi uomini temono il momento del parto e cosa potrebbe succedere alla propria partner e al loro futuro figlio.

Conseguenze della Patologia

La tocofobia può avere gravi effetti negativi a breve ed a lungo termine (durante i 9 mesi di gravidanza e  anche dopo il parto), sia sulla futura mamma, che sul bambino.

Lo stato ansioso della madre può ripercuotersi al momento del travaglio prolungandolo ulteriormente. Dopo il parto, invece, la donna può percepire il proprio corpo come un fallimento per aver reso necessaria un’episiotomia o manifestare conseguenze come l’incontinenza fecale o il prolasso esacerbato da un parto strumentale.

In mancanza di un percorso terapeutico che permetta di superare il disturbo, inoltre, la tocofobia potrebbe:

Presentarsi con caratteristiche peggiori nelle gestazioni successive;

Condizionare le donne al punto da spingerle ad evitare una gravidanza, rinunciando quindi ad avere un bambino desiderato, mediante:

L’adozione di una contraccezione rigida;

L’astensione dai rapporti sessuali;

La richiesta di una sterilizzazione permanente, come l’isterectomia.

La tocofobia può avere, quindi, un impatto negativo sul rapporto coniugale e familiare.

Come uscirne | Il trattamento terapeutico giusto

La psicoterapia e la terapia cognitivo-comportamentale sembrano funzionare bene in questi casi. La diagnosi precoce è fondamentale per comprendere i motivi alla base del proprio disagio ed inquadrare il problema all’interno della storia di vita della paziente, identificandone il significato e quantificandone la portata, quindi offrendo una possibilità di intervento adeguato.

Il corretto riconoscimento e la gestione della tocofobia con un percorso di psicoterapia permette di dare alla paziente la possibilità di affrontare e superare il problema. Mentre, la mancanza del trattamento predispone, invece, chi soffre di questa fobia al rischio di continuare ad evitare di intraprendere altre gravidanze, necessitare di un parto cesareo programmato ecc.

La terapia conglitivo-comportamentale è un  percorso insegna al soggetto ad affrontare e gestire i pensieri negativi e limitanti associati alla propria paura, attraverso l’esposizione graduale agli stimoli fobici. In questo modo, la persona affetta dal disturbo viene esposto alle situazioni temute con la possibilità di apprendere delle tecniche di autocontrollo capaci di ridurre l’ansia e la paura. A seconda della gravità del quadro clinico, poi, possono essere indicate altre diverse opzioni terapeutiche e tecniche di rilassamento (quali training autogeno, esercizi di respirazione, yoga, rilassamento progressivo ecc.), anche in combinazione tra loro.

In qualunque caso, gli studi eseguiti sull’efficacia di questi trattamenti sono scarsi, sebbene sembrino essere prova di una notevole diminuzione della paura nei pazienti, prima e dopo il parto. La medicina, oggigiorno, suggerisce un intervento con approccio multidisciplinare, che preveda un sostegno psicologico e ostetrico.

La mancanza di una corretta preparazione al parto, può contribuire ad accentuare la gravità della tocofobia. Quando esistono dei fattori che possono predisporre all’insorgenza del problema, quindi, è importante agire a livello di prevenzione, dedicando tempo alla comunicazione, soprattutto per quanto concerne l’esperienza della nascita del proprio bambino. In questo senso, frequentare un  corso di preparazione al parto può essere utile a ridurre l’ansia.

Il riconoscimento del disturbo nel primo trimestre di gravidanza è sufficiente, nella maggior parte dei casi, per intervenire con un breve periodo di psicoterapia, per sciogliere i conflitti interiori correlati al vissuto. Questo percorso ha l’obiettivo di indurre la paziente a razionalizzare la propria fobia, cercando di concentrarsi sulla possibilità di reagire ai pensieri ansiogeni e affrontare, così, il parto con serenità.



(Fonte: Mypersonaltrainer)

Dal Sito: chedonna.it 


Storie d’amore: lei soffre di attacchi di panico, lui la aiuta così


Questa è la bellissima storia d’amore tra una ragazza che soffre di attacchi di panico ed il suo lui che ha pensato bene di aiutarla con un regalo molto speciale.

Alcuni psicologi sostengono che il male mentale del secolo non sia più la depressione, ma l’ansia e tutto ciò che da essa deriva. Una sua conseguenza molto famosa e soprattutto molto fastidiosa sono gli attacchi di panico. Chi non li ha non può capire, oppure capisce soltanto un po’ di quello che è tutto un mondo. Chi li ha sa che vivere la vita quotidiana è difficile, e anche una semplice attività che prima si faceva semplicemente diventa un’ardua impresa, come andare al supermercato, all’università, a lavoro, mangiare una pizza o uscire per negozi. Il male del secolo può essere curato con una terapia adeguata, ed è meglio evitare i farmaci dato che con molta costanza e volontà è possibile tornare quelli di prima o perlomeno attutire il problema. Molto importante per chi soffre di attacchi di panico è avere le persone che ama al suo fianco, le quali devono supportarlo ed aiutarlo in ogni modo possibile. La storia che vogliamo raccontarvi oggi è davvero bellissima e non solo perché parla di amore tra due ragazzi, ma parla dell’amore di qualità.

Emergenza attacchi di panico: come aiutare il partner in difficoltà


Vogliamo parlarvi di una ragazza il cui nome è Denisha Bracey  che su Instagram ha voluto raccontare questa fantastica storia.

Li è fidanzata con un ragazzo che ha la sua stessa età, il cui nome è  Riley Rankin.

La loro storia è questa: hanno vissuto per un anno in Germania, per poi dividersi poiché Denisha, a causa dei suoi attacchi di panico, voleva ritornare in  Canada dalla sua famiglia.

Il ragazzo non l’ha lasciata andare ed ha deciso di aiutarla a modo suo. Così, in occasione del loro secondo anniversario, che è avvenuto nel luglio 2019, Riley non ha regalato alla sua belle rose o diamanti, ma qualcosa di più.

La ragazza, almeno da quanto sappiamo, non ne ha voluto sapere di prendere medicine per i suoi attacchi di panico, e quindi il ragazzo di è ispirato a questo.

In pratica ha comprato delle capsule tipiche dei medicinali e le ha riempite con delle particolare pillole.

Queste pillole erano 60 messaggi d’amore, che la ragazza può aprire e leggere quando starà male ed allietare quel momento bruttissimo in cui si verifica il suo attacco di panico.

Purtroppo, la salute mentale ancora oggi è troppo sottovalutata ma ha la stessa importanza di quella fisica, ed episodi come questi se non permettono di capire a pieno cosa vive una persona con gli attacchi di panico, può almeno sensibilizzare.

Dal sito: notizieora.it