mercoledì 30 gennaio 2019

L’albero che non sapeva chi era davvero


L'albero che non sapeva chi era è una bella storia che ci ricorda che ognuno di noi è unico. Non riconoscere questa verità e prendere gli altri come punto di riferimento può allontanarci dal nostro vero Io.

La storia de L’albero che non sapeva chi era racconta di un regno lontano nel quale viveva un giardiniere che amava il suo lavoro. Un giorno chiese al re il permesso di piantare il più bel giardino conosciuto sulla Terra. Avrebbe impiegato diverso tempo, ma il risultato ne sarebbe valso la pena. Era molto meticoloso e le piante da lui scelte avrebbero offerto uno spettacolo mai visto. Il re acconsentì entusiasta.

Con infinita pazienza, il giardiniere piantò uno a uno i semi, scegliendo per ognuno il posto migliore. Li innaffiò e nutrì ogni giorno. Sapeva che le piante sono esseri nobili e che rispondono sempre a chi le accudisce.

Passarono i mesi e alla fine iniziarono a crescere i primi gambi, le prime foglie. Il giardiniere era immensamente felice alla vista di quell’esplosione di vita. Dopo diverso tempo, fiorirono le rose, che riempirono di colore il giardino. Crebbero anche le margherite e i garofani. Poco tempo dopo, i meli iniziarono a dare i loro frutti e tutto l’ambiente si impregnò del loro aroma. Il giardino era rigoglioso, fatta eccezione per una pianta che non fioriva né dava frutti.

La pianticella cresceva più lentamente rispetto alle altre. Il giardiniere pensò che forse avrebbe impiegato più tempo a fiorire, ma che l’avrebbe comunque fatto. Dunque aspettò pazientemente, ma non notò alcun cambiamento. La storia racconta che trascorse più di un anno, ma la pianta si presentava quasi immutata rispetto all’inizio. Aveva uno stelo sempre più forte, foglie e rami, ma non appariva nessun fiore e ancor meno frutti.

Il rosaio, che era molto amichevole, volle dargli un consiglio. “Fissa il sole”, gli disse. “Io ho guardato il sole in faccia e vedi come sono fiorito. Credo che tu sia un rosaio e che ti manchi solo un po’ più di luce e di calore per fiorire”. La pianta lo ascoltò e da allora tutte le mattine guardava a lungo il sole. Cercava anche di stirarsi affinché i suoi raggi la raggiungessero meglio. Ma nulla. Dai suoi rami non spuntava nessun fiore.

Fu allora che intervenne il melo. “Il rosaio non sa quello che dice”, affermò. “In realtà tu sei come me, un melo. Hai solo bisogno di assorbire con maggiore intensità l’acqua. Vedrai che in poco tempo non solo fiorirai, ma darai anche dolci frutti. Ascolta quello che ti dico, so di cosa parlo”.

La pianta, che era ormai un piccolo albero, ascoltò attentamente il melo. Pensò che potesse avere ragione. Così, tutte le volte che lo innaffiavano, assorbiva più acqua possibile. Si sforzava molto, ma non gli dispiaceva. Voleva solo dare frutti. Ma più di questo, voleva capire chi era. Ed essere un melo lo attraeva.

Trascorse diverso tempo, ma nulla cambiò. L’albero che non sapeva chi era, continuava a non dare né rose né mele. E ciò lo riempiva di pena. Che razza di albero era se non era capace di infondere aroma e bellezza al giardino? Quale difetto aveva che lo rendeva incapace di essere chi era? In fondo, si sentiva inferiore a tutti. Un albero che non produce nulla, non serve a nulla, si ripeteva.

Si lasciò invadere dalla tristezza, finché un giorno non arrivò un gufo, il più saggio tra gli uccelli. Lo vide così afflitto che si posò su uno dei suoi rami e cercò di intavolare una conversazione. L’albero che non sapeva chi era gli raccontò i motivi della sua tristezza. Allora il gufo gli chiese il permesso di ispezionarlo con attenzione. L’albero acconsentì mentre tutte le piante osservavano incuriosite la scena.

Dopo averlo osservato dall’alto in basso, il gufo si posò di nuovo su uno dei suoi rami. “So cosa succede” disse, lasciando tutti in attesa di una spiegazione. “Non sei un rosaio, né un melo né nulla del genere. Sei una quercia e non devi fiorire né dare frutti come gli altri. Il tuo destino è crescere fino al cielo e divenire maestoso. Sarai nido per gli uccelli, rifugio per i viaggiatori e l’orgoglio di questo giardino”.

Le parole del gufo lasciarono tutti meravigliati. L’albero che non sapeva chi era capì che aveva sbagliato a voler essere come gli altri. Il rosaio e il melo si vergognarono un po’. Volevano aiutarlo, ma non era stato loro possibile perché il rosaio pensava come tale e così il melo. Impararono tutti la lezione. E fu così che quello divenne il giardino più bello della Terra, con la quercia come elemento fondamentale.

Dal Sito: lamentemeravigliosa.it

martedì 29 gennaio 2019

Paura

Paura
Un macigno schiaccia il tuo petto
Temi di star per morire
Cosa accade non sai

È una sensazione brutta
Un angoscia che ti assale
E ti annulla piano piano

Chiedi aiuto
Ma a chi?

In fondo non hai nulla
Se non paura
Angoscia
Incapacità di respirare …

E allora taci
Per paura di sentirti dire:
“sei la solita esagerata”
E preferisci tenere dentro

La gente non capisci cosa provi
E dopotutto come potrebbe?

Come può chi non ha mai avuto un aborto
Capire come una donna si sente
Il dolore straziante che porta dentro
Quando perde un figlio?

Come può chi non ha mai sofferto di depressione
Capire cosa prova chi ne soffre?

E come può chi non ha mai sofferto di attacchi di panico
Capire cos’è quel macigno che ti toglie il respiro?

Non prendiamocela con chi non comprende
Non può
E allora cosa fare?
Restiamo soli nel nostro dolore?
Certo che no
Ci alziamo e iniziamo a guardarci intorno
E ci accorgeremo che non siamo soli
Che gente che può comprenderci c’è

Parlare con qualcuno che può capire è importante
Si torna a respirare
È come condividere con altri quel macigno che ci sta schiacciando
Che non ci fa respirare

Ma fermiamoci a pensare
Perché nulla viene a caso
E se quella paura
Quei pianti
Quell’ostacolo …
Se è capitato un motivo c’è

Quale?
Questo sta ad ognuno di noi scoprirlo
Forse serve a renderci conto che non possiamo fare tutto da soli
Che abbiamo bisogno anche degli altri,
forse serve a farci fermare a pensare

siamo talmente presi dalla frenesia del quotidiano
che ci dimentichiamo che di vita ne abbiamo una
e che ogni istante che passa non torna più

sta a noi decidere se vivere oppure no
se lottare o arrendersi
se dare un senso alla nostra vita oppure no

non è facile
anzi è difficilissimo
ma se useremo la nostra arma segreta
tutto migliorerà

noi abbiamo un arma vincente
solo che spesso ce lo dimentichiamo
è in nostro possesso un arma che mette paura …

cos’è?!!!!!!
Ma il SORRISO ovviamente 

Una magia capace di farti superare anche quegli ostacoli
Che ora ti sembrano insuperabili
Ma dobbiamo volerlo

Può sembrarci impossibile
MA NON LO E’
Tutto è possibile se lo desideriamo e se ci crediamo
Con tutto il nostro cuore

Impariamo ad amarci per ciò che siamo
Con le nostre paure
Le nostre debolezze
Le nostre insicurezze
Con la nostra unicità

Amiamoci e il sorriso arriverà da se
Amiamoci e ameremo la vita

SORRIDIAMO ALLA VITA E LA VITA CI SORRIDERA’

IL PRIMO SORRISO INIZIO A DEDICARVELO IO :D

Paola Missinato

lunedì 28 gennaio 2019

DEPRESSIONE: IL MALE DELL’ANIMA

In Italia sono almeno un milione e mezzo di persone a soffrire di depressione, mentre il 10% della popolazione italiana, parliamo quindi di sei milioni di persone, hanno sofferto almeno una volta nella vita, di un episodio depressivo.

E’ quindi facilmente pensabile che il vocabolo “depressione” è conosciuto a grandi linee da tutti noi; ma vediamo di entrare nello specifico di quello che è stato popolarmente definito come “il male dell’anima”.

La depressione è un disturbo del tono dell’umore dove per quest’ultimo si intende quella funzione psichica fondamentale per l’adattamento al nostro mondo interno ed esterno. Questa funzione psichica è adattabile proprio nel senso che sa spostarsi verso l’alto durante situazioni positivi, contrariamente verso il basso durante situazioni negative: è per questo motivo che ci sentiamo felici se ci accade qualcosa di bello, viceversa ci sentiamo “giù di tono” o tristi in seguito ad una brutta notizia. Si può cominciare a parlare di depressione quando non v’è più il carattere flessibile del tono dell’umore, ma questo si fissa verso il basso in maniera cronica diventando non più influenzabile da fattori esterni positivi.

COME SI MANIFESTA LA DEPRESSIONE? ANALIZZIAMO LA SINTOMATOLOGIA:

Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno accompagna sensazioni di tristezza e vuoto

Impossibilità di provare piacere nelle attività che prima interessavano

Frequentemente si presenta anedonia, ovvero stanchezza, affaticamento e mancanza di energie

Variazioni importanti di peso: forti diminuzione o forte aumento di appetito durante tutta la giornata

Sentimenti di autosvalutazione e senso di colpa eccessivo

Agitazione o rallentamento psicomotorio

Disturbi del sonno: dorme di più o di meno rispetto a prima, si sveglia di notte non riuscendo più a riprender sonno, fa fatica ad addormentarsi

Difficoltà di concentrazione

Pensieri ricorrenti di morte

Pensieri ricorrenti sulla propria inutilità e negatività che possono portare ad un odio verso se stessi

La persona che soffre di depressione riconoscerà tra questi alcuni sintomi che egli prova sulla sua pelle quasi tutti i giorni per tutto il giorno, per almeno 15 giorni.

PERCHE’ SI SOFFRE DI DEPRESSIONE?

 E’ una domanda lecita da porsi, considerando anche il grande quantitativo di persone che purtroppo ha o ha avuto a che fare con questa problematica. Cerchiamo di individuare le cause.

Le numerose ricerche scientifiche a riguardo hanno individuato due cause principale che si troverebbero alla base di questo disturbo:

Il fattore biologico: ci si riferisce ad un intreccio di fattori quali quelli genetici(per cui si parla di familiarità del disturbo), neurobiologici (squilibri di alcuni neurotrasmettitori), neuroendocrini (legati ad anomalie del sistema ormonale).

Il fattore psicologico: i nostri vissuti, in maggior modo quelli infantili, possono condurre ad una maggiore vulnerabilità verso la malattia.

La vulnerabilità biologica e psicologica interagiscono tra loro, ma non necessariamente conducono all’insorgenza del disturbo: una persona vulnerabile potrebbe non imbattersi mai nell’insorgenza di questa malattia se non le capita un qualcosa (fattore ambientale) in grado di sviluppare il disturbo e se è sostenuta da relazioni supportive.

LA DEPRESSIONE SI CURA!

E’ vero abbiamo denominato la depressione come “il male dell’anima”,  ma dalla depressione se ne esce.

E’ innanzitutto fondamentale un buon inquadramento diagnostico che effettuerà un professionista, il quale in secondo luogo andrà a considerare tutte le cause coinvolte al fine di instaurare un’adeguata terapia per affiancare la persona in questo delicato percorso.

La persona che si accorge di avere una sintomatologia che riporta ad un quadro depressivo, o i familiari che vi sono attorno, è bene che si rivolga ad uno specialista del settore; lo Psicologo possiede gli strumenti adatti per affiancare il paziente in questa fase difficile al fine di giungere ad una guarigione.

Come?

La persona, durante la terapia, viene aiutata a prendere consapevolezza dei circoli viziosi che mantengono e tendono ad aggravare la malattia; attraverso l’acquisizione di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali, il paziente in questione può così uscire da quei circoli viziosi in modo graduale. Il Professionista presta particolare attenzione anche all’evitamento di ricadute attraverso specifici protocolli scientifici come lo Schema-Therapy e  il lavoro sul Benessere Psicologico.

Potrebbe esser preso in considerazione un aiuto anche farmacologico da unire all’ausilio psicologico nelle fasi critiche della malattia al fine di un più valido risultato.

Fondamentale è, quindi, ricorrere allo Psicologo qualora vi siano anche solo alcune delle sintomatologie sopraelencate e\o periodi o situazioni di vita che indicono alla persona pensieri negativi o momenti di forte tristezza; il professionista può così essere d’aiuto sia nella prevenzione che nella cura della malattia stessa.

Dal Sito: psicologolive.it 

giovedì 24 gennaio 2019

Ansia: 8 metodi per sconfiggerla in modo naturale

L’ansia è senza alcun dubbio una delle sensazioni più spiacevoli che si possano provare. Arriva all’improvviso, è invadente ed urla così forte da mettere in ombra tutto il resto. Chi la conosce sa bene come combatterla sia spesso difficile e stancante e come il solo pensiero che possa arrivare all’improvviso sia già di per se un motivo per stare in ansia. Un’ironia che poco diverte chi è costretto a farci i conti e che per questo motivo porta sempre più persone a far ricorso ai farmaci al fine di allontanarla o quanto meno darle meno potenza.
Se non si soffre di ansie particolarmente gravi, per le quali è sempre consigliabile rivolgersi ad un terapeuta al fine di decidere insieme come agire, si può tentare di allontanarla senza l’uso dei farmaci, a meno che questi non siano stati prescritti dal medico, caso in cui è bene non agire senza averlo prima consultato.
Ma come dire addio all’ansia?
Esistono diverse tecniche che secondo chi la vive tutti i giorni, se messe in pratica, possono dare un certo sollievo, rendendola meno forte quando si presenta e portandola ad essere sempre meno frequente.

Ansia: ecco come allontanarla senza l’uso dei farmaci

Mangiare in modo adeguato. Potrà sembrare strano ma spesso delle carenze nutrizionali possono portare l’organismo a scatenare episodi d’ansia che tendono a passare se si impara a mangiare gli alimenti giusti. Se pensi possa essere il tuo caso, prova ad inserire della vitamina B12 (chiedendo prima al tuo medico) e con acidi grassi buoni presenti, ad esempio, in mandorle e salmone.

Dormire bene. Anche la carenza di sonno può generare ansia e addirittura attacchi di panico. Il nostro organismo ha bisogno di dormire le giuste ore per potersi rigenerare e lo stesso vale anche per il cervello. Privarsi del sonno o dormire male porta ad una stanchezza di tipo mentale che in molti casi può generare ansia, specie se si è sotto stress.

Correre. Senti che sta per arrivare un attacco d’ansia? Prova ad andare a correre. In questo modo si scarica la tensione accumulata che spesso alimenta l’ansia. Correndo ci si stanca, si mette in moto l’adrenalina e si riesce a pensare in modo più lucido. A volte basta uscire e fare dieci minuti di corsa per vedere le cose da un altro punto di vista o per rendersi conto che si stava ingigantendo un determinato problema.

Fare yoga. Seguire delle sessioni di yoga, imparare ad ascoltare il proprio io e darsi magari alla meditazione sono tutti modi semplici ma efficaci per scacciare via l’ansia. Molto spesso, infatti, questa nasce da una disconnessione con noi stessi dovuta a paure spesso immotivate che ci portano a non voler vedere determinate cose. Se ci si sforza di accettare le cose come stanno, però, la paura di ciò che abbiamo davanti, inizia pian piano a scemare ed è qui che l’ansia perde potenza. Perché l’ansia si alimenta di paure senza le quali non ha più motivo di esistere.

Scrivere. Scrivere di se stessi per buttar giù tutto nero su bianco per molte persone equivale ad un modo per conoscersi meglio, per sfogarsi e per fare un auto analisi altrimenti impossibile. Certo, per alcuni potrebbe non funzionare ma vale la pena tentare perché chi ha scoperto la scrittura come mezzo per entrare in contatto con se stesso, giura di aver detto addio anche all’ansia.

Ascoltare la musica giusta. A volte anche della buona musica può fare la differenza. Basta trovare quella giusta, una cioè che non evochi ricordi malinconici ma che faccia sentire elettrici e gioiosi. Ballare sulle note che si amano può essere terapeutico e mettere a tacere l’ansia.

Parlare. Trovare una persona con cui parlare quando si sente montare l’ansia è senza alcun dubbio un ottimo modo per metterla a tacere. Appuntati mentalmente il nome delle amiche che vorresti sentire e che ti fanno star meglio quando ti senti giù. Servono persone pratiche ed ematiche che sappiano farti ragionare e che non diano alla tua ansia maggior potere. Chiamandole quando ti senti fuori fase potrà aiutarti a ritrovare rapidamente il tuo equilibrio.

Viaggiare. Sembrerà strano ma viaggiare è un modo come un altro per scacciare l’ansia. Ovviamente è meglio farlo con qualcuno e solo se il viaggio in se non è già una delle cose che crea ansia. In questo caso, il tutto andrebbe affrontato in modo diverso. Prova iniziando con una gita di un giorno da estendere poi in un week end. Se funziona, avrai trovato il tuo espediente personale per tenere a bada l’ansia.

Ovviamente si tratta di tecniche che non funzionano per tutti. In genere, infatti, per ognuno di noi ne vanno bene due o tre. L’ideale è tentare fin quando non si sente risuonare quella campanella interna che di avvisa che siamo sulla strada giusta.
Se si soffre di stadi ansiosi gravi, il consiglio è quello di mettere da parte il fai da te, scegliendo per prima cosa uno specialista al quale rivolgersi, in modo da risolvere il problema alla base. Il resto sarà un ottimo compendio per allenarsi durante la terapia e per confrontarsi in modo costruttivo con il terapista al fine di sentirsi meglio al più presto.
Ciò che conta è non aver paura di chiedere aiuto e non vergognarsi di provare ansia. Oltre ad essere molto più diffusa di quanto non si pensa è infatti qualcosa che non descrive la persona ma che, semplicemente, la limita. Motivo per cui è bene imparare a sconfiggerla presto.

Dal Sito: chedonna.it

martedì 22 gennaio 2019

Disturbo di panico e agorafobia


Il disturbo di panico è un disturbo d’ansia caratterizzato dalla regolare e frequente manifestazione di attacchi di panico.

L’attacco di panico è un episodio di ansia acuta, nel quale si verifica un repentino e incontrollato aumento della paura in risposta a qualcosa che viene percepito come un pericolo: tale paura insorge in modo improvviso e intenso, ma ha generalmente una durata molto breve. L’attacco di panico è spesso associato a altri disturbi d’ansia e da solo non viene considerato un disturbo, in quanto si tratta di un episodio circoscritto e transitorio, che chiunque potrebbe sperimentare almeno una volta nella vita. Si parla di Disturbo di Panico se gli attacchi di panico vengono sperimentati con una certa frequenza e in modo sistematico.

La diffusione del disturbo di panico

Negli Stati Uniti, il 2-3% della popolazione tra adulti e adolescenti soffre di disturbo di panico nell’arco di 12 mesi, mentre nei paesi asiatici, africani e latinoamericani le percentuali sono più basse (tra lo 0,1 e lo 0,8%). Per quanto riguarda il singolo episodio di attacco di panico, è stato stimato che il 30% della popolazione ne ha sofferto almeno una volta nella vita. Tale disturbo interessa maggiormente le donne, sono infatti il doppio rispetto agli uomini a soffrirne (Fonte: DSM-5).

I sintomi dell’attacco di panico

Un attacco di panico può manifestarsi a partire da uno stato di agitazione o da una situazione di tranquillità, rendendo l’imprevedibilità una caratteristica molto temuta da chi soffre di questo disturbo.

L’intensa agitazione è correlata da sintomi fisici (almeno quattro), che possono essere:

Palpitazioni, percezione di un aumento del battito cardiaco e tachicardia;

Sudorazione eccessiva;

Tremori di lieve o forte intensità;

Mancanza d’aria o sensazione di soffocare;

Dolore o fastidio al petto;

Nausea o disturbi addominali;

Sensazione di vertigine, instabilità, percezione di svenimento (di “avere la testa leggera”), confusione mentale;

Brividi o vampate di calore;

Sensazioni di formicolio o intorpidimento;

Sensazione di irrealtà (pensare che ciò che si vede o sente non sia reale) e di essere staccati da sé stessi.

Vi sono due pensieri ricorrenti che di solito accompagnano l’attacco di panico:

Paura di perdere il controllo o di “impazzire”;

Paura di stare per morire.

Affinché il disturbo di panicovenga riconosciuto tale, è necessario che l’attacco di panicosia accompagnato, per almeno un mese, da una costante preoccupazione della persona di avere un altro attacco e da significative modifiche del comportamento. La persona che soffre di attacchi di panico può arrivare infatti a limitare la vita quotidiana, evitando situazioni o luoghi percepiti come pericolosi e mettendo in atto strategie, spesso poco utili e controproducenti, per proteggersi da un eventuale attacco.

Va sottolineato che tale alterazione comportamentale non deve essere il risultato di effetti farmacologici, ma deve essere messa in atto dal soggetto allo scopo di scongiurare l’insorgenza di un attacco. Allo stesso modo, gli attacchi di panico non devono essere riconducibili a un’altra condizione medica o altri disturbi psicologici.

Come si manifesta l’attacco di panico

Il momento di inizio di un attacco di panico coincide con l’improvviso e crescente aumento della paura, che si amplifica fino a raggiungere il picco massimo in circa 10 minuti, indipendentemente dall’ansia esperita in precedenza. Si possono distinguere due tipi differenti di attacchi di panico: attesi/situazionali o inaspettati. In un attacco di panico atteso/situazionale la persona che ne è coinvolta riesce ad identificare l’elemento che lo ha scatenato, la fonte della paura, mentre nell’attacco di panico inaspettato l’individuo prova una forte paura senza riuscire a trovare una possibile spiegazione.

È tipico che la persona che sperimenta attacchi di panicosviluppi preoccupazioni in merito (1) alla possibilità che gli attacchi si verifichino di nuovo e (2) alle conseguenze degli attacchi stessi: paura di avere un infarto durante l’attacco, di impazzire, di avere danni alla salute. In particolare la percezione del battito cardiaco amplificato e accelerato è spesso molto preoccupante: i sintomi possono ricordare quelli dell’infarto, mentre la tachicardia nell’attacco di panico è innocua e tende a scomparire nel giro di qualche minuto. La persona che non è consapevole dei meccanismi psicofisiologici alla base dell’ansia nel momento in cui avverte la minima agitazione teme di avere un nuovo attacco di panico, e questo la porta a agitarsi ancora di più. È comune infatti che molti attacchi si siano manifestati proprio perché la persona che ne ha sofferto teme fortemente che l’episodio si ripresentasse: questa paura agita il soggetto tanto da scatenargli realmente un nuovo attacco, creando un vero e proprio circolo vizioso del panico.

Per quanto riguarda la frequenza degli attacchi di panico, possono presentarsi in serie molto diverse tra di loro: possono verificarsi attacchi a cadenza settimanale per alcuni mesi, oppure episodi giornalieri con pause di qualche mese che poi si ripresentano. Tra i sintomi elencati in precedenza, una stessa persona può manifestarne diversi nei vari attacchi: l’irregolarità e l’imprevedibilità del Disturbo di Panico infatti lo rende particolarmente temuto.

I comportamenti correlati al disturbo di panico

La conseguenza comportamentale di chi soffre di disturbo di panicoconsiste in una serie di evitamenti: solitamente si evitano i luoghi dove si ha avuto un attacco, le zone affollate dalle quali non si può uscire in fretta, gli spazi chiusi o sconosciuti, i mezzi pubblici, si evita di compiere sforzi fisici che potrebbero aumentare il battito cardiaco. Si attuano inoltre comportamenti volti a prevenire l’attacco di panico, chiamati “comportamenti protettivi”, quali ed esempio: portare con sé farmaci, muoversi solo in vicinanza di strutture mediche, stare sempre in compagnia di persone di fiducia che possano fornire aiuto all’occorrenza, tenere d’occhio le possibili vie di fuga e le uscite di sicurezza.

La diagnosi di disturbo di panico

Per una corretta diagnosi, il Disturbo di Panico non va confuso con altri disturbi dello spettro ansioso: se si sperimentano sintomi tipici dell’attacco di panico senza tuttavia avere un attacco vero e proprio, l’individuo è verosimilmente nella condizione di soffrire di un disturbo d’ansia con altra specificazione, ma non di un Disturbo di Panico.

Se la causa degli attacchi di panico è attribuibile ad una particolare condizione medica (ipertiroidismo, disfunzioni vestibolari, disturbi cardiopolmonari, ecc.) non è corretto parlare di Disturbo di Panico: gli attacchi insorgono come riflesso di un’altra patologia ed è necessario fare appropriati accertamenti.

Allo stesso modo gli effetti o l’intossicazione da sostanze stimolanti che attivano il sistema nervoso centrale come cocaina, anfetamine, caffeina e cannabis o astinenza da sostanze, come alcool e barbiturici, possono generare condizioni di forte agitazione ed essere responsabili di attacchi di panico; anche in questo caso la causa sono gli effetti delle sostanze stesse e non si tratta di un disturbo psicologico.

È da considerare con attenzione invece la condizione nella quale si verificano attacchi di panicoanche molto tempo dopo l’uso delle sostanze, quando gli effetti e le condizioni di intossicazione sono ormai estinte. In questo caso gli attacchi possono essere comparsi inizialmente in seguito agli effetti degli stupefacenti e poi essersi mantenuti nella persona grazie al circolo vizioso di agitazione, dando origine al Disturbo di Panico.

L’età media di insorgenza del disturbo si colloca tra i 20 e i 24 anni nella popolazione degli Stati Uniti. Più raramente è possibile osservare casi di attacchi di panico nell’infanzia o esordi attorno ai 45 anni. Se il disturbo non viene trattato si può protrarre per diversi anni, spesso con una diversi sintomi che cambiano nei differenti attacchi singoli. Una complicazione del disturbo tipica consiste nell’uso di sostanze con la funzione di autocura, allo scopo di tranquillizzarsi proteggendosi da ulteriori attacchi.

Le cause del disturbo di panico

Non si conosce tuttora un’unica causa responsabile del disturbo di panico, tuttavia sono stati identificati numerosi fattori di rischio, ad esempio il temperamento della persona, in particolare la sua tendenza ad avere un atteggiamento orientato al pessimismo e ad esperire emozioni negative. Anche la sensibilità all’ansia fornisce una buona predisposizione al verificarsi di attacchi di panico, rendendo l’individuo maggiormente predisposto al Disturbo di Panico. Storie di vita particolari e traumatiche, come essere stati vittime di abusi nell’infanzia, sono un potente fattore di rischio per gli attacchi di panico in età adulta, oppure eventi molto stressanti e destabilizzanti avvenuti poco prima del primo attacco (morte di familiari, problemi lavorativi e relazionali, incidenti). Infine l’iperventilazione (respirare intensamente, fornendo all’organismo più ossigeno del necessario), messa in atto solitamente dopo un intenso sforzo fisico o quando si trova in uno stato di agitazione, può facilitare di molto la comparsa dell’attacco di panico, così come fumare.

Costrutti psicopatologici del disturbo di panico e agorafobia

È comune che il Disturbo di Panico sia fortemente legato ad un’altra condizione psicopatologica: l’agorafobia. Questa è definita come una grande sensazione di disagio e timore di trovarsi in ampi spazi aperti o in ambienti non familiari, dai quali sarebbe difficile allontanarsi, uscire o trovare una via di fuga.

Chi soffre di agorafobia spesso si trova costretto tra le mura di casa, in quanto evita qualsiasi mezzo pubblico, gli spazi aperti (parcheggi, mercati, piazze, ecc.), gli spazi chiusi (teatri, cinema, ecc.), evita di stare in fila o in spazi affollati e di essere fuori casa da solo, con notevoli conseguenze a livello sociale e relazionale. Quando la persona che soffre di agorafobia si trova in una di queste situazioni (o in molte altre situazioni simili) avverte frequentemente i sintomi fisici e psicologici tipici dell’attacco di panico.

Nel Disturbo di Panico si può riscontrare l’adozione di stili di pensiero scarsamente utili, come il rimuginio, ovvero il continuo pensare e ripensare agli eventi negativi che potrebbero capitare, con l’obiettivo di prevederli, prevenirli e prepararsi a affrontarli. Sebbene risulti spesso incontrollabile e correlato a un aumento del disagio, il rimuginio viene visto dalla persona ansiosa come una valida arma contro i suoi sintomi. Dato che idee e preoccupazioni pervasive emergono nella mente in continuazione, rimuginando l’individuo ha l’impressione di potersi preparare ad affrontare la situazione e di sentirsi quindi maggiormente sicuro.

 

Terapia del disturbo di panico

La terapia per il disturbo di panico e agorafobia può essere di tipo farmacologico, psicoterapeutico o un’integrazione tra i due. La terapia farmacologica utilizza generalmente farmaci quali benzodiazepine e antidepressivi di nuova generazione. Questi farmaci sono in grado di controllare e ridurre lo stato di agitazione e ansia, tuttavia il loro effetto è correlato all’assunzione, quindi i sintomi tendono a ripresentarsi quando viene interrotta la terapia. La psicoterapia cognitivo-comportamentale lavora per aiutare la persona a analizzare i suoi processi cognitivi e a modificarli, offrendole strumenti per affrontare diversamente la sintomatologia ansiosa. I farmaci possono essere utili qualora l’individuo avverta stati di ansia talmente forti da non riuscire a lavorare in psicoterapia: in questo caso i farmaci vengono prescritti nella fase iniziale, per essere successivamente interrotti quando gli interventi cognitivi e comportamentali risultano sufficienti a arginare l’attivazione ansiosa. È piuttosto comune che la persona abbia timore di prendere i farmaci per paura di svilupparne una dipendenza, o che i loro effetti possano causare danni: tuttavia, se si seguono le indicazioni professionali del medico non ci sono rischi di questo genere.

La psicoterapia cognitiva nel disturbo di panico

La terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo di Panico e Agorafobia è stata riconosciuta come efficace e inserita nelle linee guida NICE (Fonte: National Institute for Health and Clinical Excelence, NICE, 2011) con i training di rilassamento. Gli interventi di self-help e i gruppi psicoeducativi sono condotti ugualmente secondo un orientamento di terapia cognitiva.

La terapia cognitiva-comportamentale opera analizzando i processi che si verificano durante l’esperienza del paziente: viene riconosciuto che la persona percepisce alcuni stimoli (spazi affollati, luoghi chiusi, mezzi pubblici, ecc.) o sensazioni interne (tachicardia, svenimento, ecc.) come pericolose e reagisce ad essi aumentando la sua agitazione, l’ansia. Quando il paziente si trova in uno stato ansiogeno, i sintomi sono amplificati e avvertiti ancora più pericolosi, fino a generare un attacco di panico, mantenendo il circolo vizioso nel quale si è trovato sino a questo momento. Per gestire e controllare tale meccanismo la terapia cognitivo comportamentale prevede:

Formulazione di un contratto terapeutico: definire gli obiettivi terapeutici condivisi da paziente e terapeuta

Psicoeducazione al disturbo: fornire al paziente informazioni su come funziona il disturbo di panico, su come insorge, si manifesta e si mantiene il panico

Ricostruzione della manifestazione iniziale e attuale del disturbo, attraverso l’individuazione di eventi specifici

Insegnamento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia

Individuazione delle interpretazioni erronee (ad esempio pensieri catastrofici) che portano all’attacco di panico e messa in discussione di tali interpretazioni

Esposizione graduale alle sensazioni e agli stimoli temuti ed evitati

Prevenzione delle ricadute.

Infine esistono interventi di psicoterapia cognitiva comportamentale di gruppo, che permette il confronto con persone che si trovano nella medesima situazione e condividono lo stesso disturbo, favorendo il superamento di difficoltà e incrementando le possibilità di successo dell’intervento.


Dal Sito: studicognitivi.it 


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Se penso che un problema è solo mio , rimane il mio problema.                              Se parlo con altri ,diventa speranza comune.... 

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Per frequentare i gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto Insieme Onlus, ansia, attacchi di panico e agorafobia, potete chiedere informazioni tramite email a info@insiemedap.it

La partecipazione ai gruppi Insieme Onlus, prevede un colloquio filtro iniziale, gratuito, con dei professionisti collegati alla nostra associazione.

All'interno di ogni gruppo viene tutelata la privacy di ogni partecipante ed è garantita la presenza di volontari con specifica formazione.

Perché credere in un gruppo di Auto-Mutuo-Aiuto?

- L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce l’Auto Mutuo Aiuto (A.M.A.) come l’insieme di tutte le misure adottate da figure non professioniste per promuovere, mantenere o recuperare la salute, intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità. 

- Ogni persona è portatrice di risorse.

In un gruppo di auto mutuo aiuto si incontrano persone che condividono uno stesso problema e che desiderano trovare strategie per migliorare la propria vita, lo scambio di esperienze e sentimenti è un valore assoluto, non esiste all’interno del gruppo chi aiuta e chi è aiutato, solo nello scambio alla pari è possibile trovare insieme la strada che porta al miglioramento.

La prima cosa da fare è avere la volontà di confrontarti con chi ha sofferto, o soffre dei tuoi stessi disagi; di venire allo scoperto senza vergogna.

L'auto mutuo aiuto: "persone unite da un’esperienza comune, dove condividere il proprio vissuto, incontrarsi, conoscersi e confrontarsi in uno spazio di scambio e reciproco sostegno, trovando così un luogo dove affrontare le proprie insicurezze ed esercitare le proprie risorse".


Associazione Insieme Onlus

www.insiemedap.it

Pagina Facebook: Ansia-Attacchi di panico-Agorafobia Associazione Insieme Onlus 


Gruppo chiuso Facebook: DAP attacchi di panico "Inarrestabile voglia di vivere"




Giornata dell’abbraccio, perché fa bene alla salute: perfetto contro ansia e malumore




Abbracciarsi fa bene allo spirito, poiché aiuta a migliorare l’umore, e al corpo, visto che migliora le condizioni del nostro cuore: la scienza ci svela quali siano gli effetti positivi degli abbracci e perché però non dobbiamo abbracciare chiunque. Non tutte le persone si sentono a loro agio con il contatto fisico che può provocare stress.

La giornata degli abbracci ci ricorda quanto sia importante entrare fisicamente in contatto, soprattutto, con le persone a cui vogliamo bene. Vediamo insieme come mai gli abbracci siano scientificamente un vero e proprio toccasana per il corpo e per la mente.


Abbracciarsi fa bene all’umore
Nel momento in cui ci abbracciamo, e quindi ci lasciamo fisicamente andare tra le braccia di qualcuno, nel nostro cervello viene rilasciata ossitocina, cioè l’ormone dell’amore che si dice stimoli anche l’istinto materno. Abbracciarci dunque ci aiuta a sentirci più felici e di buon umore.

Abbracciarsi fa bene al cuore
Studi scientifici hanno dimostrato che abbracciarsi non solo fa bene all’umore, ma anche al cuore poiché questo gesto aiuta a ridurre la pressione sanguigna e ad aumentare la frequenza del battito cardiaco. Abbracciarsi dunque ha benefici anche a livello di salute.

Abbracciarsi riduce i conflitti
I ricercatori hanno scoperto che, in caso di liti, abbracciarsi è un buon modo per ridurre i conflitti: come dicevamo, l’abbraccio rilascia ossitocina, che ci aiuta a tranquillizzarci ed essere più sereni. Abbracciamoci allora per ritrovare la pace. Gli stessi effetti benefici possiamo ottenerli offrendo un abbraccio a qualcuno che si trova in un momento di difficoltà.

Non tutti gli abbracci fanno bene all’umore
Abbiamo detto che gli abbracci fanno bene all’umore, ed è vero, però gli effetti migliori li otteniamo quando stringiamo tra le braccia qualcuno a cui vogliamo bene: la relazione con questa persona aiuta infatti il rilascio dell’ossitocina. Questo significa che non sempre gli abbracci siano un toccasana per noi, alcune persone infatti si sentono molto stressate quando devono entrare in contatto fisico con altre con cui non sono in intimità: insomma, per quanto oggi sia la giornata degli abbracci e, per quanto gli abbracci facciano bene all’umore, il consiglio è quello di non dispensarli a chiunque poiché l’effetto potrebbe essere il contrario.

Dal Sito: scienze.fanpage.it

lunedì 21 gennaio 2019

Lunedì 21 Gennaio 2019, è il “Blue Monday”: è davvero oggi il giorno più triste e deprimente dell’anno?




E’ davvero oggi, Lunedì 21 Gennaio 2019, il giorno più triste dell’anno? Il cosiddetto “Blue Monday“? Non proprio.

Cos’è il Blue Monday

A calcolare la data “critica” è stato Cliff Arnall, uno psicologo dell’Università di Cardiff, che tramite una complicata equazione (che considera numerose variabili tra cui il meteo, i sensi di colpa per i soldi spesi per i regali di Natale, il calo di motivazione dopo le Feste) ha stabilito che questo è proprio il giorno più triste dell’anno. C’è da dire però che l’università ha da tempo preso le distanze da Arnall, e nel corso degli anni è emerso come la formula originale fosse stata elaborata dall’agenzia di pubbliche relazioni londinese Porter Novelli: era l’inizio del 2005 quando la compagnia di viaggi Sky Travel decise di promuovere un’iniziativa per convincere i propri clienti che la loro eventuale tristezza aveva un fondamento scientifico, e che per questo la si poteva combattere con una bella vacanza. L’intera idea rientra nell’ambito della pseudoscienza, e l’equazione che ne è alla base viene ritenuta priva di alcun fondamento.

Già gennaio è da molti considerato come il mese più faticoso dell’anno, ma il terzo lunedì del mese la situazione peggiora, spiegava Arnall. A contribuire sarebbero una serie di influssi negativi: il tempo uggioso e il freddo, il fatto che Natale sia ormai solo un ricordo e la consapevolezza che i buoni propositi del nuovo anno sono, come sempre, una chimera. Inoltre stanno arrivando i conti delle spese di Natale e l’estate appare ancora lontana. Arnall aveva codificato tutto in una formula e messo tutto insieme: meteo, debiti (la differenza tra debito accumulato e la nostra capacità di pagare), giorni che ci separano dal Natale, giorni in cui già abbiamo “saltato” i buoni propositi di Capodanno, livello di motivazione. Il risultato è un senso di fallimento e di assoluta sfiducia nel superare gli eventi; a ciò si aggiunga il fatto che è pure lunedì, ovvero l’inizio della settimana lavorativa. Come superare tutto ciò? Arnall consigliava per esempio di guardare un film divertente, chiamare gli amici e mangiare insieme, magari contattando persone non frequentate da mesi o anni.

In ogni caso, gli psichiatri invitano a vivere anche la tristezza come un’emozione in qualche modo da rivalutare. ”Si gioca sicuramente sul giorno di questa particolare ‘ricorrenza’, infatti cadendo di lunedì le persone sono evidentemente di umore peggiore. Forse diverso sarebbe l’atteggiamento se il Blue Monday si celebrasse di sabato o domenica,” ha dichiarato il presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) Claudio Mencacci. ”Anche la tristezza è un’emozione, dunque viviamola come tale e questa giornata, in un certo senso, la rivaluta”.


Secondo uno studio dell’Università di Glasgow che ha preso in esame i dati di 150mila persone, le donne sperimentano cambiamenti dell’umore con i cambi di stagione, inclusi più sintomi depressivi in inverno. Per la ricerca, pubblicata su Journal of Affective Disorders, raggiungono il picco in questa stagione umore basso, stanchezza e anedonia (l’incapacità di provare piacere da attività che di solito si trovano divertenti).

Le scuse di Arnall 13 anni dopo

Dopo 13 anni dalla sua identificazione, lo scorso anno, il dottor Cliff Arnall, ha chiesto scusa per aver reso il mese di gennaio più deprimente. Secondo quanto riportato da alcuni giornali britannici, Arnall ha spiegato che il sentimento ormai legato al ‘Blue Monday‘ dal 2005 non è mai stato nelle sue intenzioni: “Se si tratta di intraprendere una nuova carriera, incontrare nuovi amici, dedicarsi a un nuovo hobby o prenotare una nuova avventura, gennaio e’ davvero un grande momento per prendere queste grandi decisioni per l’anno a venire“.


Arnall ha spiegato che la sua formulazione intendeva ispirare le persone ad agire e prendere decisioni audaci sulla vita, piuttosto che enfatizzare la tristezza di un giorno senza gioia durante l’anno.
I consigli del mental coach


Per affrontare nel modo migliore il teorico Blue Monday e in generale la vita con rinnovato ottimismo, “è necessario stilare una lista dei 10 obiettivi principali che si vogliono raggiungere nelle diverse aree della propria vita e vedere se stessi in quella nuova condizione” – ha spiegato Roberto Re, noto formatore e mental coach. “Nello specifico – continua Re -questo processo ha lo scopo di creare un focus positivo personale orientato ai risultati che aiuta di conseguenza a entrare nello stato d’animo ottimistico”.


Il decalogo da seguire quindi è il seguente:

1. Darsi degli obiettivi: i “vorrei” devono diventare dei “voglio”, i propositi devono trasformarsi in qualcosa che “voglio fare entro quella data”, bisogna avere una scadenza, una progettualità.

2. Usare equilibrio: “Non bisogna porsi un obiettivo solo su una determinata sfera, ma ci si deve concentrare su varie aree della propria vita, sia sul personale che sul professionale. Avere più obiettivi non crea squilibri ed aiuta a restare mentalmente aperti”.

3. Essere concreti: non serve dire “quest’anno vorrei stare meglio”, è meglio essere concreti e dire “voglio perdere cinque chili”, oppure “voglio andare in palestra tre volte alla settimana”. Il nostro cervello per realizzare qualcosa ha bisogno di visualizzarla in maniera precisa.

4. Non esagerare: un obiettivo deve essere oggettivamente raggiungibile, non ha senso dire “Quest’anno voglio diventare miliardario”. “Non bisogna volere tutto e subito e soprattutto non si deve mai sopravvalutare quello che si può fare in un anno e sottovalutare quello che si può fare in cinque o dieci anni”.

5. Scegliere con ambizione: “L’obiettivo ti deve motivare, deve farti star bene e allo stesso tempo deve spingerti ad agire. Insomma: deve essere ambizioso. Qualcosa che ti fa sognare e ti fa sentire meglio”.

6. Non temere la paura: “La paura è normale, siamo esseri umani, arriva ogni volta che ci lanciamo in un cambiamento. L’importante è non mancare di coraggio e accettare la paura andando avanti!”.

7. Tracciare la rotta: “Se un obiettivo è concreto ci sono dei passi per raggiungerlo. Alcuni obiettivi si possono raggiungere subito, altri non si ottengono dall’oggi al domani”.

8. Monitorare mensilmente: “La pianificazione implica monitorare di volta in volta, controllare a che punto siamo arrivare. Quanto più spesso si monitora, tanto più spesso si monitora sulla rotta giusta”.

9. Premiare i risultati positivi: “A ogni risultato raggiunto è giusto premiarsi, non bisogna darlo per scontato ma bisogna dirsi un “bravo!”, sentirsi soddisfatti”.

10. Associare piacere al risultato: “Pensare di raggiungere un risultato deve darmi delle sensazioni positive. Così come quando siamo stanchi, affaticati o abbiamo meno voglia, pensare al piacere che ci darà l’obiettivo finale ci aiuterà a sopportare la fatica e il sacrificio”.


Dal Sito: www.meteoweb.eu









Fa’ quello di cui hai paura



Ogni volta che affiora una paura, ricorda sempre di non scappare, perché non è così che la si risolve. Entraci! Se hai paura del buio, entra nel buio della notte: è l’unico modo per superarla è il solo modo per trascendere la paura. Entra nel buio, nulla è più importante di questo. Aspetta, siediti da solo e lascia che il buio faccia il suo lavoro. Se hai paura, trema. Permetti al tremito di manifestarsi, ma dì alla notte: “Fa’ quello che vuoi. Io sono qui”. Nel giro di pochi minuti vedrai che tutto si acquieta: il buio non è più oscuro, è diventato luminoso. Ti piacerà, lo potrai toccare: il silenzio vellutato, la vastità, la musica. Riuscirai ad apprezzarlo e ti dirai: “Com'ero stupido ad aver paura di un’esperienza così bella!”. Ogni volta che è presente la paura, non sfuggirla, altrimenti ti arenerai e il tuo essere non potrà mai crescere in quella dimensione. In realtà, devi prendere spunti dalla paura: sono quelle le direzioni in cui devi viaggiare. La paura è solo una sfida, ti chiama: “Vieni!”. Nella vita incontrerai molti spazi spaventosi: accogli la sfida ed entraci; non sfuggire mai, e non essere un codardo. Un giorno, nascosti dietro ogni paura, troverai dei tesori. È così che diventerai multidimensionale. E ricorda, tutto ciò che è vivo ti metterà paura. Le cose morte non fanno paura, perché non nascondono alcuna sfida.


Tratto dal libro:Il benessere emotivo di Osho

domenica 20 gennaio 2019

Giorgia, la depressione e la salvezza: “Per rinascere devi morire”


“Per rinascere devi morire. Quindi c’è sempre una sofferenza nel cambiamento o nel rialzarsi ma quella sofferenza è preziosa perché ti dà la linfa”. Così la cantautrice romana, in un’intervista rilasciata a Tg2000 in cui ha parlato anche dell’uscita del dvd album Oronero Live. “Ho avuto momenti in cui volevo lasciarmi andare, in cui non speravo di farcela. Invece poi la vita è magica, la vita e il cielo, sono energie superiori. Ti senti dare quasi dei calci nel sedere e senti una voce che ti dice ‘devi vivere’, perché sei qua, devi farlo”.

Non lo cita espressamente ma il riferimento è alla perdita del compagno Alex Baroni, morto nel 2002 in un incidente stradale. Un dolore di cui la musicista ha spesso parlato e che è stato lo spunto anche di canzoni come Per sempre, Gocce di memoria, Marzo. “Ognuno ha i suoi pusher di energia che può essere un lavoro, può essere un amore – ha detto – Nel mio caso io in realtà da quando sono diventata mamma ho ripreso tutta una serie di emozioni, entusiasmo, voglia, che nel mio lavoro cominciavo a sentire poco rispetto a quando avevo vent’anni. Ogni mamma è una macchina. Io direi proprio che ogni donna è una macchina”.

“Credere nella luce delle idee”, ha proseguito Giorgia è “un credere nella capacità dell’umanità di essere buona, di essere sana e di essere salva. Forse questo è un tempo in cui ci vuole molta forza e molto coraggio per avere fiducia nell’altro, però la fiducia come la fede sono esercizi che si fanno nei momenti difficili. È anche un grande atto di volontà. La fede è anche una scelta, è scegliere di vedere le cose notando che esiste anche una parte sana e salva e su quella bisogna fare leva e forza”.


Dal Sito: ellepi.it

sabato 19 gennaio 2019

Perché andare dallo psicologo è ancora una vergogna in Italia?


Secondo un sondaggio dell’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) il 70% degli italiani considera inutile andare dallo psicologo.

Permane la resistenza granitica del “bisogna farcela da soli”, l’errata convinzione che parlarne con amici e familiari sia lo stesso, o addirittura lo stereotipo dello psicologo-strizzacervelli utile solo per i “pazzi”.

In Italia, la psicologia ha storicamente fatto fatica a prendere piede. Basti pensare che i primi due corsi di laurea, a Roma e a Padova, vennero inaugurati soltanto nel 1971, e bisognò attendere il 1989 per l’istituzione di un Ordine, nonostante l’incoraggiante fermento di inizio secolo, quando Roma nel 1905 ospitò il V Congresso Internazionale di Psicologia, che riunì i luminari di tutto il mondo.

Per capire la ritrosia degli italiani nei confronti della figura dello psicologo è innanzitutto necessario analizzare le statistiche che riguardano chi ha invece intrapreso una terapia.

Da un’indagine fatta dall’Enpap (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi) sulle prestazioni psicologiche, è interessare notare come la propensione a rivolgersi a uno psicologo aumenti con il crescere del titolo di studio: il 14,8% dei laureati contro il 7,4% dei diplomati alla scuola media superiore, e solo l’1,2% di coloro che hanno la licenza elementare.

L’analisi di questi dati comunque non è di facile interpretazione. Inizialmente verrebbe spontaneo concentrarsi sulla questione economica.

Eppure andare dallo psicologo non vuol dire per forza sborsare cifre esorbitanti a ogni seduta: ci sono diverse alternative allo studio privato, come recarsi alla Asl, in ospedale o in un consultorio, ottenendo servizi di qualità alla portata di tutti.

L’errore di fondo è la considerazione che si ha dello psicologo, da un lato visto come una figura inutile, dall’altro come una sorta di stregone. Lo psicologo cammina con il paziente, ma non lo porta sulle spalle e nemmeno si sostituisce a lui. Non ha dunque la bacchetta magica, né la pretesa di prevedere il futuro e dispensare soluzioni immediate o una guarigione passiva. Allo stesso tempo, non è una figura che sostituisce quella di un amico o di un semplice confidente, ma è un professionista, e come tale indirizza il paziente in un percorso ragionato che tocca nel profondo l’individuo. Sfogarsi con una persona a noi cara implica un coinvolgimento emotivo, mentre lo psicologo offre strumenti e strategie per imbastire un lavoro vero e proprio su noi stessi, mantenendo le giuste distanze, mentre un amico tenderà sempre a prendere le nostre parti, a giustificarci solo per consolarci e vederci felici, oppure in caso contrario a metterci in crisi in modo non sempre costruttivo, rischiando di ferirci. Nell’ambiente della psicologia gira da tempo un paragone azzeccato: lo psicologo è come un contagocce. Il nome stesso può trarre in inganno, perché le gocce in realtà le contiamo noi, però facilita a separare una goccia dall’altra e ci aiuta a dosarle nel modo più utile possibile.

Quando un essere umano ha un problema fisico gli viene naturale rivolgersi a un medico. Quando il problema è psicologico, invece, non avviene lo stesso: un po’ perché permane l’istinto di non aprirsi e non mostrare le proprie debolezze, l’autodifesa che non consente di parlarne con uno specialista; un po’ per i falsi miti che ammantano la professione dello psicologo. Jean Piaget, uno dei più importanti studiosi di psicologia infantile nel Novecento, diceva: “Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere psicologi”; chi supporta pensieri del genere, però, di solito non conosce il vero ruolo dello psicologo ed è rimasto al cliché della chaise longue. Se in Italia una percentuale così estesa di persone considera lo psicologo alla stregua di un ciarlatano che intende soltanto rubare i soldi ad alcuni disperati creduloni in difficoltà, è perché domina un’ignoranza diffusa sul mondo della psicologia e della psicanalisi che nutre una forte presunzione di base, figlia di tutti i pregiudizi.

Per prima cosa esistono diverse branche che si occupano della psiche degli individui, come la psicologia applicata, la psicologia clinica, la psicoterapia e il counseling. La psicologia applicata si occupa dei problemi che sorgono nella vita pratica, valutando i tratti della personalità del paziente e intervenendo su una riabilitazione e risocializzazione. La psicologia clinica, come suggerisce il nome, è legata invece al lavoro dello psicologo in ambito clinico, principalmente ospedali e ambulatori. La psicoterapia, ovvero la “cura dell’anima”, è il percorso teso a rimuovere i disagi emotivi e comportamentali attraverso l’individuazione e la limatura di un disturbo strutturale della personalità. Il counseling è invece più simile a un atto di orientamento per sviluppare le potenzialità del paziente attraverso un lavoro motivazionale.

Inoltre, non per forza la scelta di intraprendere un percorso su se stessi è collegata a un trauma da superare o a una condizione emotiva in frantumi: spesso chi va dallo psicologo lo fa per una crescita personale, per la ricerca personale e di un proprio equilibrio, decidendo di affidarsi a una persona competente. Chi vuole diventare psicologo deve infatti completare un percorso molto lungo e impegnativo: i cinque anni del percorso di laurea, il tirocinio obbligatorio (che va dalle 500 alle 1000 ore), l’esame di Stato, l’iscrizione all’Albo e infine la specializzazione attraverso vari corsi di formazione. Se qualcuno ipotizza un guadagno facile e smisurato, deve ricredersi davanti ai numeri dell’Enpap: in Italia, su 55mila professionisti attivi, soltanto un terzo raggiunge i 20mila euro annui, mentre più di quindicimila psicologi non raggiungono i 5mila euro annui – che vuol dire circa 400 euro al mese, quando va bene.

Nonostante le prospettive economiche non siano molto allettanti, facendo un confronto con il resto d’Europa, è possibile notare la crescita del numero degli psicologi (e non dei pazienti) in Italia. Secondo un report della Commissione europea, nel nostro Paese ci sono 156 psicologi ogni 100mila abitanti. Una cifra elevata, considerando che in Francia sono soltanto 84 e in Germania 109. Il problema però è che in Italia, anche se i professionisti sono tanti, le prestazioni psicologiche sono in numero ridotto rispetto a questi Paesi. Una ricerca della Società Italiana di Psichiatria parla di 17 milioni di italiani con problemi di salute mentale. Tra questi, solo una percentuale che va dall’8 al 16% decide di incontrare un professionista, e si riduce alla forbice 2-9% il numero di chi segue un trattamento che comprende sia psicoterapia che farmaci (che comunque non possono essere prescritti dallo psicologo, ma solo dallo psichiatra). Allargando il discorso all’Europa, secondo l’Oms i casi di problemi psicologici riguardano 165 milioni di persone. Se sono ancora relativamente pochi gli italiani che si affidano a uno psicologo, i francesi non si fanno scrupoli e il 33% si è rivolto almeno una volta a una figura di questo tipo.

Il problema del sovraffollamento di psicologi in Italia è così urgente da aver spinto Mario Sellini, segretario generale Aupi (Associazione unitaria psicologi italiani), a lanciare un vero e proprio appello ai maturandi. Ha infatti dichiarato: “Non vogliamo una società di illusi. Evitiamo il lungo calvario che molti affrontano per iniziare questa professione, raggiungendo comunque risultati scarsissimi e rischiando un futuro di disoccupazione. Non vi è dubbio che la società odierna abbia fame di psicologia, ma non di uno psicologo ogni 600 abitanti”. I dati Aupi sono chiari: soltanto la metà degli psicologi italiani è iscritta all’Enpap – la cassa di previdenza della categoria. Quindi l’altra metà naviga nel mare dei lavori discontinui, se non della vera e propria disoccupazione.

Il blocco che sta alla base della scelta di andare dallo psicologo, di iniziare questo percorso interiore, è forse da ricondursi al timore di conoscere davvero se stessi. Non è tanto il giudizio di un estraneo a rappresentare l’argine – anche perché uno psicologo non dà giudizi – piuttosto è la paura di un giudizio personale, nostro e di nessun altro, ad attivare i freni di difesa. Scoprire nuove parti di sé, non sempre positive, può apparire come un grande ostacolo che non tutti hanno la voglia di affrontare. Fare i conti con la propria vera natura può essere destabilizzante, ma il cambiamento nasce solo da lì.

Dobbiamo farci la ragione che non c’è niente di cui vergognarsi nel rivolgersi a una figura specializzata per migliorarci e liberarci da pattern psicologici ed emotivi che spesso ci impediscono di trovare una nostra serena realizzazione e di vivere in sintonia con l’ambiente che ci circonda. Dovrebbe sembrarci strano il contrario. Ma in questo periodo sembra che il nostro Paese abbia la tendenza a ragionare al contrario. Quella che la diffusa opinione comune collega alle donne sul punto di una crisi di nervi o a individui traumatizzati con la personalità in frantumi, è una scelta che richiede invece grande coraggio, e che non tutti, una volta esternato l’opinionismo aggressivo e poco informato, sono pronti a compiere. Mettere in crisi le proprie certezze non è facile, ma è l’unico modo per evolversi e contribuire a cambiare l’ambiente che ci circonda con più consapevolezza. Non si può cambiare la società senza aver prima cambiato noi stessi.

DI MATTIA MADONIA 

Dal Sito: thevision.com




giovedì 17 gennaio 2019

L'ansia non è una scelta - Smettila di dirmi di calmarmi

L’ansia no, non è una scelta e dovresti smetterla di dirmi di calmarmi. Non mi calmo. Non scelgo io di farlo o non farlo.

Non è come svegliarsi un giorno e decidere di “sorridere, prendere un caffè e affrontare la routine”.

Mi dispiace deluderti, ma l’ansia non è qualcosa che posso semplicemente “spegnere”.

L’ansia non è qualcosa che posso scegliere di avere il lunedì o non avere la domenica.

L’ansia non è una decisione. Non è una qualcosa di volontario che vogliamo avere nella nostra vita, giorno dopo giorno.

Non è una scelta!

Alcuni giorni siamo forse meno ansiosi…

Ci illudiamo anche. Di essere liberi. E che forse, solo forse, scomparirà.

Ma all’improvviso, quando meno ce lo aspettiamo, appare negli angoli più bui della nostra mente.

Ci esplode dentro, magari in un momento in cui ci sentiamo a nostro agio. Come un fuoco divampa ancora e ancora. Senza preavviso.

Non possiamo semplicemente “scegliere di essere felici”. Non possiamo semplicemente “rilassarci”.

L’ansia non ha un pulsante “pausa” nelle nostre menti. La depressione non ha un pulsante “power off” nel nostro cervello.

Dicendo semplicemente “rilassati”, stai minimizzando la nostra malattia.

Stai minimizzando il significato che ha nella nostra vita quotidiana.

Stai dicendo che l’ansia non è qualcosa da prendere sul serio, una vera “malattia” e non è qualcosa di cui preoccuparsi veramente.

Diresti a qualcuno con una gamba rotta di smettere di esagerare e “continua a camminare”?

Diresti a qualsiasi altro malato “sorridi e lascia che accada? ”

Io non la penso così!

Quindi, per favore:

Smettila di dirmi di dormire quando non so come.

Smettila di dirmi di ascoltare musica per sentirmi felice.

Smettila di dirmi che non ho nulla a cui pensare mentre i pensieri stanno invece facendo a pugni nella mia testa.

Smettila di giudicarmi, di credere di sapere come mi sento quando è evidente che non ne hai la mia idea.

Dovresti per un giorno almeno, indossare le mie scarpe, vivere nella mia mente.

Non puoi sapere cosa succede dentro il mio cervello ogni secondo del giorno.

Non lo sai cosa si prova ad essere tormentato da una nuvola scura che ti accompagna continuamente.

E non sai cosa si prova ad avere paura della tua stessa vita, a essere costantemente in preda al panico e ad essere costantemente assillato da “cosa accadrà se”.

Quindi, prima di dire altre sciocchezze pensando di farmi rilassare, ricorda: l’ansia è un problema serio. La depressione lo è.

Sono malattie.

Non sono una visione della vita.
Non sono un palcoscenico dove esibirsi.
Non sono un grido di attenzione.

Credimi!

Se potessimo, ci rilasseremmo, staremmo bene, fermeremmo i nostri pensieri prima di entrare in un territorio pericoloso.

Credimi, se ne avessimo la possibilità, lo faremmo il prima possibile.

Dal Sito: giornodopogiorno.org

domenica 13 gennaio 2019

A new life - Storie di Panico


"Le vostre storie, il vostro coraggio, la vostra forza."


Dalla depressione alla psicosi.

Dalla psicosi al dap. 

 
Dal dap al semi-autocontrollo.

Ciao, eccomi qui a raccontare la mia storia. Una storia tra tante. Spero di poter aiutare qualcuno perché, come vedrete, da caso disperato sono diventata una persona con tanta voglia di vivere.
Il mio primo trauma l’ho avuto a pochi mesi. Sono la quarta figlia nata dopo 9 anni dal terzo. Ero super coccolata. Ogni giorno mio padre e i miei fratelli al rientro da lavoro e da scuola facevano la fila per giocarmi, coccolarmi. Ero una bambina felice, ridevo sempre! Un giorno mia madre dovette andare in ospedale per un lungo periodo e non sapendo dove lasciarmi mi portò con sé. Io ero al reparto nursery assieme ad altri bambini. Io essendo sana e non avendo problemi le infermiere mi lasciavano da sola. Io piangevo sempre, sgambettavo con le gambine talmente forte che mi svestivo da sola dalla tutina. Al reparto mi chiamarono “la bandita”. Tornata a casa non ero più la bambina di una volta, non ridevo più e, nonostante tutti continuassero a giocarmi e coccolarmi, avevo sempre un velo di tristezza. Cresciuta, ricordo una delle mie sorelle mi faceva sempre il solletico… per farmi ridere! Arrivata alla maturità ho avuto un altro trauma che non sto qui a raccontare, troppo privato. Avevo già dei sintomi che non riuscivo a decifrare, mi sentivo osservata e la testa spesso era confusa. Vivevo questo disagio in estremo silenzio, cercando di non far capire nulla. A distanza di oltre venti anni posso dire che mi comportavo stranamente. Ed eccomi all’università, ennesimo trauma! Anche questa volta non mi va di raccontarlo. Avevo immagazzinato tutto, ma esternamente continuavo a vivere la vita di sempre magari con qualche scelta sbagliata. Esattamente come una bandita. Al secondo anno di università muore mio padre, il mio pilastro e io letteralmente crollo in un baratro. All’inizio mi diagnosticarono la depressione maggiore, ma col passare del tempo anche psicosi. Ad esempio se accendevo la tv, avevo l’istinto di spaccarla perché convinta che per mezzo della tv mi spiassero. In tutto questo caos ho continuato a fare gli esami all’università anche se a rilento. La mia psichiatra si chiedeva come facessi, mi diceva che ero brava. A un certo punto però ho voluto lasciare l’università, non ero più in grado di vivere con coinquiline estranee e poi perché io volevo solo stare a letto. Tornata a casa mi sono rinchiusa nella mia stanza. Mia madre poverina per spronarmi me ne diceva di tutti i colori. Allora io pur di non sentirla decisi di riprendere l’università, ma avevo solo cambiato stanza e letto. Non feci esami per parecchio tempo, anche mentendo. Ma una cosa continuavo a fare, sforzandomi all’estremo, facevo psicoterapia in una città diversa da dove stavo. Costringermi a viaggiare, a raccontarmi era come costringermi a riprendere la mia vita in mano. Col tempo però i miei problemi aumentarono perché credo di averle avute tutte: fobia sociale, tremolio dovuto ai medicinali, insonnia, crisi di pianto e psicosi a non finire. In tutto questo incontrai un bravo ragazzo con il quale sono stata 8 anni. Ricordo che lui mi voleva veramente bene, cercava di aiutarmi in qualsiasi modo (mi regalò una dispensa sul marketing di sé, mi regalò dei puzzle che abbiamo costruito insieme, mi portava in giro all’aperto, a conoscere luoghi), ma io non mi fidavo di lui (se andavamo in un bar a bere qualcosa, io scambiavo i bicchieri perché imputavo tutti i miei malesseri a qualcosa di esterno da me, tipo un malocchio o una fattura) e lui nonostante ciò cercava sempre di tranquillizzarmi. Il periodo in cui mi sono laureata è coinciso con la morte di mia nipote, la mia nipote preferita. Esattamente dopo un anno il mio ragazzo mi lascia e qui che decisi per la prima volta di farla finita (la prima di tre volte). Mi salvò proprio il mio oramai ex ragazzo. Ero caduta così in basso che per forza di cose dovevo per forza rialzarmi, piano piano… Mi diedero dei diversi medicinali. All’inizio stavo bene, ma non ho mai accettato di assumere i medicinali perché non sopportavo gli effetti collaterali, come tremolio e aumento del peso. Facevo di testa mia e di conseguenza con forti ricadute. Nel frattempo cominciai a provare a lavorare, ma cominciarono anche altre mie fobie: paura di non farcela, paura di giudizi, paura dell’altro, il mio corpo si surriscaldava, iniziavo a sudare, a tremare ad avere paura della paura… ed ecco il maledetto dap! Se i farmaci mi curavano dalla psicosi, io ero capace di inventarmi nuovi disturbi. Ho cambiato diversi lavori, ma li abbandonavo tutti. Stabilita a casa e con la collaborazione della mia famiglia ho passato un lungo periodo di tranquillità a casa, dove oltre alla psicoterapia con una nuova psicologa (quella che mi ha aiutata veramente), a tanta musica (anche la musica può essere una terapia) e a tanta lettura ho cominciato ad avere la forza e la gioia di vivere. L’anno scorso mi si ripresenta l’opportunità di un nuovo lavoro, questa volta nel pubblico, una supplenza annuale in una scuola. Tra tante difficoltà e con tutte le mie paure ho portato a termine il mio lavoro. Questa estate credo di avere avuto una ricaduta per lo sforzo e l’impegno di tutto l’anno, ma sono comunque contenta perché finalmente mi sono misurata con un lavoro, a vivere da sola. 

Adesso aspetto, anche se con ansia, una nuova chiamata, nel frattempo mi coccolo e imparo a autocontrollarmi. 

Anonima 


Dal gruppo Facebook DAP attacchi di panico "Inarrestabile voglia di vivere  e dalla Pagina Ansia-Attacchi di panico-Agorafobia Associazione Insieme Onlus 

A new life - Storie di Panico La storia di Alessia



"Le vostre storie, il vostro coraggio, la vostra forza."

Ciao a tutti sono Alessia e ho 28 anni. Soffro di ansia e attacchi di panico da quando ne avevo 18.
Il fattore scatenante? All'epoca avevo un fidanzatino già da tre anni, ma la madre e la sorella non mi facevano sentire accolta pertanto ogni volta che venivo invitata da loro non mi sentivo a mio agio. Una sera, dopo una cena sempre da loro, ho cominciato ad avere respiro corto, gambe tremolanti, mal di stomaco ed infine a casa mia ho vomitato.
Ora i sintomi sono rimasti sempre gli stessi (il fidanzato grazie al cielo no) e ogni volta che mi capita qualcosa di bello o di brutto provo sempre le stesse cose e la maggior parte delle volte vomito. Eh sì, ho sempre sfogato col vomito. Ho molte paure ormai, paura di un nuovo lavoro (ogni volta che vado devo sempre prendere le gocce per paura di sentirmi male e perché ci parto proprio da casa già col mal di stomaco e i tremori), avevo l'ansia e stavo a terra piegata sulle ginocchia due giorni prima del matrimonio, ho vomitato appena ho partorito la mia bambina e molte volte avevo paura anche di andare sotto casa a fare la spesa.
Che dire, ormai sono dieci anni che mi sta rovinando la vita. Spero che qualcuno legga la mia storia e possa aiutarmi, magari qualcuno che si sente esattamente come me.
Vi ringrazio per avermi ascoltata.

Alessia


Dal gruppo Facebook DAP attacchi di panico "Inarrestabile voglia di vivere" e la Pagina Ansia-Attacchi di panico-Agorafobia Associazione Insieme Onlus 






venerdì 11 gennaio 2019

A new life - Storie di Panico La Storia di Maria


"Le vostre storie, il vostro coraggio, la vostra forza."

Ho letto le storie di molte persone.

E per la prima volta non mi sono sentita sola.

Ho 23 anni e il mio primo attacco di panico è arrivato il 24 ottobre del 2017.

Era una sera come le altre, io, amici e una macchina.

È successo tutto all’improvviso.

Una forte scossa al braccio sinistro, la vista annebbiata, le foglie in quel momento tremavano meno di quanto stessi tremando io, la paura di perdere il controllo, l’aria in quel momento non bastava, eppure stavo in piedi, lì in mezzo al nulla.

Ad un tratto il cuore me lo sentivo fuori dal petto e così la paura di non rivedere più la mia famiglia, i miei amici, le cose che ancora una ragazza di 23 anni deve scoprire. Ero in piedi, ma le gambe non mi reggevano e così mi sono seduta.

Avevo paura di perdere il controllo, avevo paura di svenire e ad un tratto, così senza pensare ho bisbigliato ad un’amica “Ti prego, di a tutti, sopratutto a mamma e papà che li voglio bene”.

Nel frattempo è arrivata l’ambulanza e io continuavo a non capire cosa mi stesse succedendo.

È stata tutta una corsa.

Da quel posto in mezzo al nulla fino all’ospedale.

Dopo varie analisi il referto, stavo bene, era un attacco di panico.

Era la prima volta che questo “mostriciattolo” (perché così bisogna definirlo, dato che arriva così, come arrivano i mostri nei film dell’orrore) entrava nella mia vita.

Da quel giorno la mia vita è completamente cambiata.

Ho iniziato ad assumere farmaci, ho iniziato un percorso psicologico per capire cosa avesse scatenato ciò.

Ad oggi è ancora una continua lotta.

Ci sono giorni tranquilli e giorni che ti chiedi perché determinate cose devono succedere.

Sono una persona che non si lamenta di questo problema. Perché sono a conoscenza che esistono delle vere e proprio malattie con cui la gente lotta ogni santissimo giorno.

Sono sicura che , prima o poi, chiunque sia entrato in contatto con questo mostriciattolo ne uscirà.

Ci vuole solo tanta pazienza e soprattutto tanta volontà.

Perché l’ansia, il panico si devono e si possono combattere e annientare!!!

Oggi, a distanza di un anno e mezzo dall’inizio la situazione sembrava migliorata, ma in questi ultimi mesi il mio amico mostriciattolo è tornato, con una forza assidua, una forza più forte di quanto io potessi immaginare.

Una sera tutto mi sembrava diverso, mi si è irrigidito il collo, un mal di testa indescrivibile.

Non riuscivo a mettere “a fuoco” ciò che mi circondava.

Eppure sapevo dov’ero.

Il mio cuore ha iniziato a battere talmente forte che sembrava che mi uscisse dal petto.

Mi sembrava di avere un fuoco che ardeva apposto del petto.

Le mani tremavano e con esse anche le mie braccia e le mie gambe.

Il respiro aumentava e non riuscivo a calmarmi.

Ho chiamato la persona che più mi capisce, dato che anche quest’ultima soffre di ciò, per poter capire se non stessi avendo un attacco di cuore.

Sono state le due ore più lunghe della mia vita.

Ho avuto la sensazione di morire, una sensazione che può capire solo chi ne soffre, è qualcosa che non si può spiegare.

Sono entrata nel circolo della paura. Ho paura di tutto. Ho paura che mi possa succedere qualcosa di brutto da un momento ad un altro.

Mi presento, sono Maria e la mia storia è una delle tante.


Dal gruppo Facebook: DAP attacchi di panico "Inarrestabile voglia di vivere" e la Pagina: Ansia-Attacchi di panico-Agorafobia Associazione Insieme Onlus 

A new life - Storie di Panico La storia di Valentinaa

"Le vostre storie, il vostro coraggio, la vostra forza."


Ciao a tutti sono Valentina ho 35 anni e tutto è iniziato un lunedì mattina di circa 4 mesi fa...

Non lo dimenticherò mai quel lunedì mi sono alzata ho fatto il caffè e sono andata a prepararmi per andare a lavoro tutto normale fin qui, come ogni mattina ma, senza nessun preavviso ho iniziato a sentirmi strana, senza forza, la testa leggera e il cuore ha iniziato a battere come se volesse uscirmi dal petto. Ho iniziato a spaventarmi e così il peggioramento, mi sono dovuta sdraiare per terra con i piedi poggiati contro il muro per riuscire a respirare meglio ma nn passava, mi sentivo svenire e ha iniziato a farmi male il petto quindi sono corsa in ospedale in preda al panico..."Ecco ho un infarto... Sto per morire" questo era l'unico pensiero. Al pronto soccorso dopo varie analisi mi hanno detto che non avevo nulla di grave e forse era solo reflusso e mi hanno dato da fare esami per la tiroide, cosa che ho fatto già il giorno dopo ma i risultati non mostravano nulla, secondo i medici stavo bene ma io nn stavo bene...

Da lì è iniziata la mia lotta giornaliera con la tachicardia e un senso di pesantezza al petto tutti i giorni dalla mattina alla sera.
Dopo due settimane un altro butto attacco che questa volta mi ha paralizzato le mani, di nuovo in ospedale e da lì la diagnosi...
"Lei soffre di attacchi di panico".

L'ansia non mi lasciava, in un mese ho perso 5 chili (il che non è stato piacevole essendo già magra di mio), sembravo solo ancor più malata, ho smesso di fare palestra, non riuscivo a lavorare e la vita di coppia...meglio non parlarne.

Ora sono in cura da uno psichiatra che mi sta facendo prendere un ansiolitico mattina e sera, visto che non dormivo nemmeno più.

Per fortuna questi farmaci mi hanno ridato il sonno e ho ricominciato a mangiare ma ancora non riesco a vivere un giorno completamente in tranquillità, verso sera ancora ho l'ansia che mi fa compagnia sul divano a volte il cuore va a farsi una corsetta e la testa decide che il paese delle meraviglie esiste ma, tutto sommato, mi sento meglio ho ripreso a lavorare e sono ritornata ad allenarmi, ancora non ho ripreso peso ma ci sto lavorando.

Ho capito che questa malattia ti logora e ti mangia dentro spero di uscirne al più presto e dico a chi come me ancora ci è dentro...possiamo vincere possiamo essere più forti dobbiamo riprenderci la nostra vita.

Grazie a tutti 

Valentina 


Dal Gruppo Facebook DAP attacchi di panico "Inarrestabile voglia di vivere" e la Pagina Ansia-Attacchi di Panico-Agorafobia Associazione Insieme Onlus



giovedì 10 gennaio 2019

Gigi Buffon e la depressione: ‘Se non l’avessi condivisa forse non ne sarei uscito’


L’ex capitano della Nazionale ha raccontato del suo periodo più buio, quando non riusciva a giocare a causa degli attacchi di panico, delle manganellate subìte quando giocava nel Parma e dell’odio (non solo) razziale negli stadi

“Se non avessi condiviso l’esperienza con la depressione con altre persone, forse non ne sarei uscito. Ebbi la lucidità di capire che quel momento rappresentava uno spartiacque tra l’arrendersi e fare i conti con le debolezze che abbiamo tutti. Non ho mai avuto paura di mostrarle”, lo racconta candidamente Gigi Buffon, portierone attualmente in forza al Paris Saint-Germain ma ex capitano di Juventus e Nazionale (per non parlare del Parma, dove tutto è cominciato). L’estremo difensore ha raccontato del suo momento più difficile, quando non riusciva nemmeno a giocare: “Avevo avuto un attacco di panico. Non ero in grado di sostenere la gara”, ricorda il compagno di Ilaria D’Amico. E conferma che, vent’anni fa, persino lui s’è preso le manganellate della polizia: “Oggi non commetterei più quelle leggerezze”.

Gigi Buffon tra onnipotenza e droga

Eppure qualche difetto e qualche scheletro nell’armadio li ha persino Buffon, se ripensa soprattutto alla sua giovinezza: “Covavo una sensazione di onnipotenza e invincibilità. Mi sentivo indistruttibile, pensavo di poter eccedere, di fare quel che volevo…“. Un giovanotto esuberante, il Gianluigi teenager, dunque. Al punto che fece perdere le staffe a Nevio Scala come mai nessun altro: “Si girò verso di me e mi guardò come nessun altro ha mai più fatto. Era furibondo e aveva tutte le ragioni” confida il numero uno nel corso di una intervista concessa a Vanity Fair.  Tuttavia l’ex capitano della Juventus ha saputo dribblare – per quanto sia portiere – una tentazione che invece spesso inganna molti ragazzi: “Non drogarsi, non doparsi, non cercare altro fuori da te sono principi che i miei genitori mi hanno passato presto (…) Ho forse fatto un tiro di canna fatto da ragazzo”.

Gigi Buffon: l’odio negli stadi e le manganellate a vent’anni

E dire che Gianluigi Buffon ha persino preso delle manganellate dalla polizia. “È una storia che risale a vent’anni fa”, ammette lui. “Dopo una partita diedi un passaggio a un tifoso del Parma. Al casello c’era un posto di blocco della polizia. Appena vide le luci blu, lui si dileguò. A confronto con loro rimasi solo io. Oggi, ovviamente, non commetterei più quelle leggerezze ma riconosco ancora quel ragazzo capace di slanci di solidarietà nei confronti di un amico. Anche di un amico che sbaglia” racconta il portierone del Paris Saint-Germain. Che sui recenti cori razzisti sentiti a Milano nei confronti del giocatore del Napoli Kalidou Koulibaly commenta: “L’odio è un vento osceno, da qualunque parte spiri. Non solo in uno stadio. Perché ho il forte sospetto che il calcio, in tutto questo, reciti soltanto da pretesto“.

Gigi Buffon e la lotta contro la depressione

Oltre al razzismo, c’è un’altra questione molto spinosa che spesso e volentieri è trattata come un tabù nel mondo del calcio e più in generale dello sport professionistico, ossia le questioni legate alla pressione emotiva e psicologica e in particolare all’ansia da prestazione, fino ad arrivare alla depressione vera e propria. Ne ha sofferto anche Gigi: “Per qualche mese, ogni cosa perse di senso. Mi pareva che agli altri non interessassi io ma solo il campione che incarnavo. Che tutti chiedessero di Buffon e nessuno di Gigi. Fu un momento complicatissimo. Avevo 25 anni, cavalcavo l’onda del successo e della notorietà”. Il problema fu talmente grave che l’estremo difensore rinuncò addirittura a giocare una partita: “Avevo avuto un attacco di panico. Non ero in grado di sostenere la gara”, ricorda lui. “Se non avessi condiviso quell’esperienza, quella nebbia e quella confusione con altre persone, forse non ne sarei uscito. Ebbi la lucidità di capire che quel momento rappresentava uno spartiacque tra l’arrendersi e fare i conti con le debolezze che abbiamo tutti. Non ho mai avuto paura di mostrarle né di piangere” ha aggiunto poi Buffon. Che rivela anche come si vede tra dieci anni: “Spero di essere in piedi. Se ripenso al ragazzino che ero e ai sogni che avevo, non commuovermi è impossibile“, conclude.


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