sabato 26 settembre 2020

Covid-19, un aiuto dalla Mindfulness



La rapida diffusione del Covid-19 ha attirato l’attenzione dell’intera popolazione mondiale divenendo in poco tempo un’emergenza pubblica d’interesse internazionale. Sebbene attualmente il focus principale verta sui sintomi fisiologici, è necessario non trascurare la dimensione psicologica.

Alcuni lavori hanno infatti sottolineato i possibili effetti che tale fenomeno sta causando a livello psicopatologico, definendo come il lockdown e il distanziamento socialesiano due variabili estremamente importanti alla base dell’insorgenza o dell’aggravamento di sintomi psicologici.

Attualmente sono ancora pochi gli studi epidemiologici che delineano tale aspetto; tuttavia, considerando precedenti pandemie ed emergenze sanitarie, è possibile ipotizzare che nei prossimi mesi si possa assistere ad un aggravamento sintomatologico in persone che erano già affette da disturbi psicopatologici insorti precedentemente la diffusione del Covid-19 e ad un aumento del numero di persone affette da disturbi psicologici insorti durante il coronavirus.

Tra i disturbi che risultano essere principalmente implicati vi sono: il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), i disturbi d’ansia (dove la fobia sociale e l’ipocondria fanno da apripista) e i disturbi dell’umore (tra cui depressione maggiore e disturbi bipolari).

I sintomi più comuni includono: pensieri intrusivi e persistenti incentrati su eventi vissuti e/o osservati sui mass media, disturbi del sonno, difficoltà nella concentrazione e nella memorizzazione, iper-vigilanza e ipereccitazione, scoppi d’ira, perdita della motivazione, disregolazione dell’umore, evitamento di attività lavorative e luoghi, intorpidimento e abuso di sostanze nei casi più estremi.

In questo articolo vogliamo focalizzare l’attenzione su disturbi come ansia e depressione, in quanto estremamente diffusi in periodo pre-covid e quindi destinati ad aumentare esponenzialmente durante e post-covid.

Secondo quanto riportato dall’organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 2015 circa 300 milioni di persone in tutto il mondo erano affette da depressione e oltre il 21% della popolazione nel lifetime ha avuto sintomi depressivi. Allo stesso modo uno stesso numero di persone mostrava sintomi d’ansia.

A questi dati vanno inoltre aggiunte le problematiche correlate e le forme subcliniche, senza trascurare i costi che comportano per la sanità pubblica e l’impatto familiare e sociale. In aggiunta, ansia e depressione correlano con tentativi di suicidio, che contano circa 800.000 decessi l’anno.

Per queste ragioni risulta necessario intervenire in modo tempestivo con il fine di prevenire e curare sintomi depressivi ed ansiosi che possono essere insorti o aggravati dal Covid-19. Tra le tecniche d’intervento che negli ultimi anni stanno dimostrando risultati promettenti vi sono le pratiche meditative basate sulla Mindfulness.

Per Mindfulness si intende una naturale capacità della mente umana che può essere definita come consapevolezza dei propri stati interni. Essa è caratterizzata da uno stato di attenzione focalizzata (ovvero orientata verso uno specifico evento interno: come il pensiero, una parte del corpo o il respiro), rivolta al momento presente (che guarda all’esperienza che si sta vivendo nel qui ed ora) e non categorizzante (privo di catalogazioni e giudizi abituali).

In questo modo l’individuo che pratica Mindfulness acquisisce un maggiore controllo dell’attenzione, una migliore regolazione emotiva e auto-consapevolezza, quindi una nuova modalità di gestione del distress psicologico.

La pratica meditativa basata sulla Mindfulness richiede il raggiungimento di uno stato di calma e inattività comportamentale, da praticare solitamente in posizione seduta con gli occhi chiusi, in cui il soggetto adotta un tipo di concentrazione diretta ai contenuti che si presentano alla mente, tentando di mantenere un’attenzione focalizzata quando quest’ultima inizia a vagare, per mezzo di un’esplorazione attiva e curiosa.

Il soggetto diventa quindi una specie di spettatore di ciò che accade dentro al proprio corpo, delle sensazioni, dei pensieri e delle emozioni (per approfondimenti, i protocolli clinici più diffusi sono: Dialectical Behavior Therapy (DBT), Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) e l’Acceptance and commitment therapy (ACT).

L’impiego delle pratiche Mindfulness nei disturbi d’ansia e dell’umore ha ottenuto numerosi riscontri scientifici negli ultimi anni, trovando conferme anche in ambito clinico. Secondo una recente review di Rodrigues (2017), nella quale sono stati inclusi 16 studi, è stato dimostrato che la meditazione basata sulla consapevolezza è una strategia efficace per il trattamento dei disturbi dell’umore e dell’ansia.

Per queste ragioni riteniamo opportuno che tali pratiche vengano implementate in periodo peri-covid e post-covid per una prevenzione e cura di sintomi psicopatologici.

Il loro impiego è infatti estremamente flessibile in quanto, grazie all’estrema semplicità di applicazione, possono essere praticate da chiunque in qualsiasi momento, in quanto svincolate dalla cultura e dal contesto religioso, da stili cognitivi individuali e status sociale.

Esse potrebbero divenire uno strumento utile in ambito scolastico per l’acquisizione di strategie di coping e resilienza per una miglior gestione dello stress indotto dal coronavirus. Ma anche nella vita quotidiana in popolazioni adulte, in ambito geriatrico e gerontologico, così come in popolazioni a rischio (persone affette da patologie o vittime di violenza).

Infine, tali approcci trovano terreno fertile anche come supporto in ambito clinico ai caregivers, dove i correlati della patologia della persona cara implicano in certi casi un carico allostatico eccessivamente elevato. Inoltre, possono rivelarsi di aiuto anche al personale sanitario, oggi più che mai sottoposto a rischio di burnout.


Dal Sito: brainfactor.it

Fame nervosa: cause, rimedi e come combatterla


Ci sono giorni in cui scambiamo una fame normale (biologica) dalla fame nervosa. Questa rappresenta uno stimolo causato dalle forte emozioni come ansia,stress e periodi di forte pressione.

La fame nervosa è un problema molto comune e porta un soggetto a mangiare in modo eccessivo, in qualsiasi momento, anche se il fisico non necessita di alimentazione. Quando lo stress diventa un sintomo cronico, provoca nel corpo umano il rilascio di un ormone denominato cortisolo, prodotto dalle ghiandole surrenali, che ha le capacità di cambiare il comportamento alimentare di una persona.

Le nostre abitudini e il nostro comportamento possono essere influenzati dalle emozioni che proviamo ogni giorno: ansia, forte stress, tristezza e depressione tendono a far aumentare l’appetito e portano l’istinto umano a mangiare in modo eccessivo cibi ricchi di grassi.

Il cibo, a causa della fame nervosa, diventa il perfetto alleato per alleviare il forte stress. Tuttavia, la fame nervosa può provocare, anche di seguito, due tipologie di comportamenti ben differenti:

  • Aumento dell’assunzione di cibo;
  • Negazione della fame.

In preda alla fame nervosa è possibile mangiare in modo eccessivo, fino a “scoppiare”, e subito dopo cala la voglia di mangiare durante il pranzo o la cena. I diversi stati emotivi negativi attivano la fame nervosa, che a sua volta peggiora l’umore e si innesca un innesco che potrebbe creare un regime di alimentazione incontrollata.

Fame nervosa tipologie

La fame nervosa è causata da diverse motivazioni ed emozioni, che comportano a stili di alimentazione totalmente differenti. Ecco i comportamenti di fame nervosa più comuni:

  • Mangiare per tristezza: il soggetto tende ad utilizzare il cibo come consolazione. Questa tipologia di fame nervosa tende a scomparire in pochi giorni se il soggetto non soffre di depressione.
  • Mangiare per ansia: le persone ansiose cercano diversi metodi per alleviare i sintomi dell’ansia e il cibo è uno di questi. Anche in questo caso, è molto raro che la fame nervosa provocata dall’ansia diventa cronica, tuttavia è possibile che il sintomo diventa cronico ed è necessario l’intervento di uno psicoterapeuta.
  • Mangiare per noia: considerata come la causa più comune della fame nervosa, la noia è in realtà una forma di mediazione emozionale nell’alimentazione. Il cibo, per molte persone, risulta essere l’unica soluzione che permette di interrompere la noia e riempire il tempo. In questo caso, è possibile incorrere ad una fame nervosa cronica ed è molto difficile individuare il problema.
  • Mangiare per solitudine: il cibo è utilizzato per compensare l’assenza di una persona con cui condividere le proprie emozioni, come un amico o un compagno. Questo comportamento causa, generalmente, un peggioramento della salute fisica e mentale e tende ad isolare il soggetto dalle relazioni sociali. In questo caso, è possibile riconoscere il problema e l’aiuto di un professionista è fondamentale.
  • Mangiare per rabbia: il cibo svolge due diverse funzioni, a seconda della situazione. Il soggetto può mangiare in modo eccessivo per scaricare la rabbia e sfogare le emozioni, oppure può mangiare per esprimere la propria rabbia.
  • Mangiare per soddisfazione: un comportamento comune per tutte quelle persone che non riescono a provare soddisfazioni in altre attività quotidiane, se non per il cibo. Generalmente queste persone abusano del cibo per migliorare la propria vita sociale e le relazioni con gli altri.

Come combattere la fame nervosa

Il rilascio del cortisolo in un corpo avviene molto rapidamente, per questo motivo una persona soggetta a fame nervosa ha delle voglie improvvise di cibo. La fame, in questo caso, viene considerata come un comportamento di difesa avviato dal nostro organismo per alleviare la forte tensione.

Ci sono tre modi per combattere la fame nervosa, da utilizzare quando i sintomi di questa patologia compaiono sempre più frequentemente:

  1. Richiedere la consulenza di uno psicologo/psicoterapeuta

Quando si ricorre al cibo come rimedio ai problemi e lo stress sembra non finire mai, uno psicologo è il professionista adatto ad aiutare una persona a combattere la patologia attraverso delle indicazioni che permettono di superarla. E’ fondamentale osservare e comprendere le emozioni che precedono la fame nervosa, imparare ad accoglierli e accettarli. 

  1. Seguire un regime alimentare adeguato

Alcuni alimenti permettono di gestire la fame nervosa e possono essere integrati in una dieta alimentare equilibrata. I cibi adatti da mangiare sono quelli ricchi di triptofano, ovvero un amminoacido indispensabile per la sintesi della serotonina. Questi alimenti stimolano il rilascio di serotonina (ormone del buonumore):

  • Cioccolato fondente;
  • Latte;
  • Mandorle;
  • Banane;
  • Noci;
  • Pesce;
  • Carne (tacchino);
  • Legumi;
  • Cereali integrali;
  • Frutta e verdura a foglia verde.
  1. Assumere degli integratori

Sono presenti numerosi integratori in commercio, senza zuccheri o conservanti, che permettono di limitare la voglia di mangiare cibi grassi in qualsiasi momento ed aiutano a rilassare corpo e mente.

Fame nervosa: i rimedi naturali

Ci sono numerosi rimedi naturali che aiutano a combattere la fame nervosa. Tra i rimedi più efficienti troviamo la rodiola rosea, un potente tonico-adattogeno che aumenta la produzione di energia cellulare e aiuta a resistere allo stress, alla stanchezza e migliora l’ansia.

Si tratta di una pianta erbacea molto utilizzata dai ragazzi e adulti che vogliono migliorare la salute generale ed alleviare il nervoso e lo stress provocati dagli eventi della vita quotidiana: gli estratti di rodiola rosea permettono di combattere il nervoso, la tachicardia, la stanchezza e la mancanza di concentrazione. 

Un’innovativa tecnica estrattiva permette di estrarre l’estratto di rodiola mantenendo ad elevate concentrazioni i principi attivi, per questo motivo il prodotto è totalmente naturale e non contiene alcol, zuccheri, glutine o coloranti.


Dal Sito: kontrokultura.it

Ansia e panico: nel 2020 aumentano le ricerche su Google





Il 2020 verrà ricordato nella memoria collettiva e nei libri di storia di tutto il mondo come l’anno della pandemia da coronavirus. Dal 9 marzo 2020 e per circa due mesi, l’intera Penisola è stata posta in regime obbligatorio di quarantena, con tutte le conseguenze che ne sono derivate. Certamente, la stasi economica frutto del lockdownresta il tema che maggiormente sta attirando le attenzioni dei media e dei cittadini, ma, accanto alla questione finanziaria, sono emerse significative problematiche legate anche alla perdita di benessere psico-emotivo, figlio del contesto ansiogeno e stressante cui ognuno di noi è stato sottoposto per oltre 90 giorni.

Nel 2020 aumentano i casi di ansia, panico e stress

Una cosa è certa: anche dal punto di vista psichico, il Covid-19 è destinato a lasciare una traccia che non si può cancellare tornando semplicemente alla normalità. Nei primi mesi del 2020, infatti, è stato attestato un significativo aumento dei casi di ansia, panico e stress. La cosa non sorprende più di tanto, specie se torniamo con i nostri ricordi a solo qualche mese fa, alle difficoltà di muoverci all’interno di un Paese paralizzato, in strade vuote, all’imposizione di tenerci distanti dagli altri esseri umani, all’obbligo di indossare la mascherina, evitando ogni forma di contatto non necessaria.

Aumenta l’ansia: le conferme di Google

A confermare il picco di casi in cui è stato accertato un aumento del carico di ansia da parte della cittadinanza mondiale, vi sono anche i dati relativi alle ricerche effettuate su Google dagli utenti di tutto il mondo, per distacco il primo motore di ricerca del pianeta. L’analisi mostra come le ricerche al cui interno erano contenute parole chiave come “attacchi di panico” o “attacchi di ansia” abbiano fatto segnare un incremento senza precedenti.

Lo studio dell’Università della California

In proposito, particolarmente degna di nota è stata la ricerca condotta da un’equipe dell’Università della California in collaborazione con i colleghi della Johns Hopkins University, del Barnard College e dell’Institute for Disease Modeling, pubblicata sulla rivista JAMA Internal Medicine. Lo studio ha preso in considerazione le ricerche effettuate sul motore di ricerca a partire dal gennaio 2004 e fino al maggio 2020 da parte della popolazione digitale degli Stati Uniti, evidenziando come il tema dello stress e dell’ansia non abbia mai fatto registrare un volume di ricerche tanto alto come quello emerso durante il periodo di diffusione del virus.

Il periodo peggiore tra marzo e aprile 2020

Durante i primi 58 giorni di pandemia negli USA, i ricercatori hanno messo in luce come le ricerche su questioni legate ad ansia e crisi di panico siano state pari a circa 3,4 milioni, con un incremento significativo registrato soprattutto nel periodo tra il 16 marzo e il 14 aprile, durante il quale è stato individuato un aumento del 17% di tali tipi di ricerche rispetto alla media degli ultimi 16 anni. In quell’intervallo di tempo, la cittadinanza a Stelle e Strisce si è dovuta misurare con l’inasprimento delle misure di distanziamento sociale, poi con il lockdown imposto a diversi stati dell’unione federale statunitense. Nel mentre, gli Stati Uniti avevano superato la Cina per numero di contagi e di decessi causati dalla pandemia.

Covid e ansia: una correlazione inevitabile

In realtà, i risultati della ricerca condotta dagli studiosi del polo californiano non sorprendono più di tanto: è ormai acclarato, infatti, che fenomeni come crisi d’ansia e di panico tendono a intensificarsi durante periodi particolarmente stressanti e duraturi, come è senza dubbio stata – ed è tuttora – la pandemia da coronavirus che dall’inizio dell’anno sta sconvolgendo l’intero pianeta.

Dal Sito: succodiweb.com 

Esaurimento psicologico, non avviene per debolezza ma per troppa forza



L’esaurimento psicologico non avviene per debolezza, ma per troppa forza, per la troppa sofferenza, per la troppa disponibilità. Il troppo stroppia e prima o poi è normale cadere nel baratro dell’esaurimento.

L’esaurimento psicologico è solitamente un processo lento, in cui ogni goccia si accumula senza che ce ne rendiamo conto. Il problema è che prima o poi si finisce per esplodere, spesso a causa di situazioni serie che abbiamo tollerato per troppo tempo.

Perché avviene un esaurimento psicologico? Sicuramente non per debolezza, ma per troppa forza

L’esaurimento psicologico è uno stato di estrema stanchezza mentale ed emotiva, che è spesso accompagnata da una sensazione di mancanza di forza fisica.

E’ causato da un eccesso di risorse emotive e cognitive, in altre parole ci ritroviamo a dare di più. È spesso vissuto come una sorta di inerzia fisica e mentale, una sensazione di “pesantezza” che ci circonda giorno per giorno.

Le cause sono varie, seppure in molti casi la costante sia una sola: dare troppo e ricevere troppo poco. Appare infatti come un progetto che ci eccita ma che ci consuma e che non ci dà niente in cambio che possa bilanciare l’equilibrio.

In altri casi l’affaticamento mentale è causato da troppi cambiamenti in un tempo molto breve, sebbene questi siano positivi. Tuttavia, quando accade così rapidamente, non possiamo gestirli e ci sentiamo sopraffatti.

In questi casi, anche se apparentemente abbiamo tutto ciò che vogliamo, nella nostra mente abbiamo una sorta di sensore che ci dice che qualcosa sta fallendo.

I sintomi che dovrebbero metterci in allarme

– Perdita di energia: un esaurimento prima si riflette a livello fisico, privandoci dell’energia ancora prima di alzarci dal letto.

– Irritabilità: uno dei sintomi più evidenti dell’esaurimento psicologico è il nervosismo, che ci porta sulla difensiva nel momento in cui ci troviamo davanti a quella che per noi è una minaccia.

– Insonnia: pensieri irrisolti e preoccupazioni possono impedirci di dormire correttamente.

– Anedonia: ovvero l’impossibilità di godere dei momenti felici e dei piaceri della vita.

– Perdita di motivazione: quando sei estremamente esausto, semplicemente non trovi la motivazione per essere coinvolto in nuovi progetti o fare quelle cose di cui eri appassionato prima. Qualsiasi compito sembra titanico e sviluppi una profonda apatia nei confronti del mondo. Di solito appaiono anche sentimenti di disincanto, delusione e disperazione.

– Fallimenti di memoria: è probabile che dimenticarsi i messaggi, le chiavi o cosa abbiamo mangiato il giorno prima. Questo perché la nostra mente è troppo satura per continuare l’elaborazione e la memorizzazione delle informazioni a livello conscio.

– Lentezza di pensiero: l’esaurimento psicologico influisce anche sui processi cognitivi, quello che facevamo in ​​fretta, ci costa molto di più e a volte troviamo persino difficile dare un senso logico alle idee. nella tua mente o tenere traccia di un lungo discorso.


Dal Sito: giornodopogiorno.org

A volte non di cade per debolezza ma per essere stati troppo forti



Prima o poi tutti cadiamo nella vita, una caduta metaforica ovviamente, ma altrettanto dolorosa quanto una fisica. Ma perché cadiamo? Perché siamo deboli? Perché siamo incapaci di gestire una certa situazione? A volte si. Altre volte, invece, cadiamo perché abbiamo lottato talmente tanto a lungo da arrivare, ad un certo punto, a lasciarci andare ormai sfiniti.

Non ce ne dobbiamo fare una colpa. Non dobbiamo rimproverarci. Dobbiamo semplicemente accettare il fatto di essere umani e che non sempre essere forti a tutti i costi è una buona idea.

Cosa ci porta a cadere?

Potrà sembrare banale ma, il più delle volte, sono le altre persone la nostra principale debolezza. Spesso ci annulliamo per qualcun altro, cerchiamo di sostenere il peso dei loro problemi, oltre che dei nostri, e tentiamo di accontentarli in tutto. Dall’altra parte, però, non riscontriamo lo stesso appoggio, anzi, veniamo persino dati per scontati.  Ma non funziona così. La nostra vita non dovrebbe essere vissuta in funzione di qualcun altro. 

Altre volte è la nostra testardaggine a farci scivolare. Magari abbiamo represso le nostre emozioni per troppo tempo, emozioni come angoscia, ansia, rabbia. Ci siamo “bastati” per un periodo eccessivamente lungo, senza cercare il sostegno di nessuno nonostante, magari, quel nessuno abbia provato molte volte a tenderci la mano. La paura di affidarci a qualcun altro, di provare a non reggere tutto il peso del mondo sulle nostre spalle, ci porta ad isolarci e dire “ce la faccio da solo”. E anche questo atteggiamento è deleterio. Noi non dovremmo  mai essere soli. L’essere umano è una creatura sociale che ha bisogno dei suoi simili per vivere. 

Fare della debolezza la nostra vera forza

Non cadere, almeno una volta nella vita, è impossibile. Ma possiamo imparare da questa caduta. Possiamo trarne un insegnamento per evitare che succeda di nuovo. Ma come? Il primo suggerimento è quello di accogliere il dolore come se fosse un vecchio amico. Non reprimerlo, non soffocare le lacrime ma lasciale scorrere. Se senti il bisogno di piangere, fallo. Non pensare che ti rendano più debole, anzi, esternare le emozioni negative vuol dire affrontarle e non avere paura di loro.

E se la nostra debolezza dovesse essere una persona? In questo caso è più difficile perché, spesso, ci manca la volontà di dire no. La paura di offendere, allontanare o, peggio, perdere una persona a cui teniamo ci spinge  a soddisfarla in tutto e per tutto mettendo i suoi bisogni sopra ai nostri. Ma l’amore, oltre a dare, è anche ricevere e se questo scambio non c’è, il rapporto, diventa nocivo. A questo punto possiamo solo darvi dei consigli, dirvi di reagire e imparare a dire no, ma il resto deve venire da voi, siete solo voi a poter dire basta! Perché l’amore e l’affetto fanno girare il mondo, è vero, ma anche loro hanno dei limiti.

Infine, dovete ricordare un’ultima cosa, forse la più importante. Non siete meno forti se provate a chiedere aiuto. Non siete dei deboli se cominciate a condividere i vostri problemi o le vostre paure con qualcuno. Imparate a fidarvi, imparate a non pensare di essere soli e vedrete che, quando sentirete le gambe cedere, ci sarà qualcuno pronto a sostenervi e la caduta, dopotutto, non sarà poi così tanto dolorosa.


Dal Sito: aprilamente.info 

Ansia nella relazione sentimentale: le possibili cause




Perché una relazione sentimentale genera ansia? I motivi possono essere molti, ma spesso dipende dall’incompatibilità del carattere dei due partner.

A provare ansia in una relazione sentimentale è sempre il partner più insicuro, mentre l’altro partner, quello dei due che viene costantemente bombardato dalle insicurezze della persona ansiosa, si trova spesso a sentirsi vittima di un comportamento irrazionale e ingestibile.

Purtroppo questo conflitto continuo non fa bene a nessuna delle due persone coinvolte nella relazione e, ovviamente, non fa bene alla relazione. Ne consegue che, nel momento il rapporto sentimentale tra due persone comincia a essere caratterizzato dall’ansia, si sta avviando verso la fine.

motivi per cui uno dei due partner può sviluppare una forte ansia in merito alla relazione sono molti. Spesso però vengono intensificati, quando non addirittura generati, da alcuni comportamenti dell’altro membro della coppia.

Quando questo accade si genera purtroppo un circolo vizioso in cui l’ansia di uno dei partner aumenterà in maniera esponenziale, rendendo sempre più frequenti e più intensi i comportamenti dell’altro che generano ansia.

Come si fa a riconoscere questa situazione prima che diventi completamente ingestibile? E quali sono le strategie da adottare per evitarla o venirne fuori?

• Come si comporta chi prova ansia in una relazione sentimentale?



• Quando il partner è sfuggente, è quello sbagliato



• Cosa si fa quando in una coppia c’è un partner ansioso e un partner evitante?



Come si comporta chi prova ansia in una relazione sentimentale?

All’interno di un rapporto d’amore, l’ansia si genera nel momento in cui uno dei due partner teme che il suo amore non sia corrisposto o che la sua fiducia sia mal riposta.

Naturalmente questi sentimenti sono tipici delle persone insicure o che manifestano comportamenti ansiosi anche in altri ambiti della propria vita, come quello professionale.

La paura più grande, naturalmente, è quella di perdere l’amore del partner, cioè che la relazione finisca o peggio ancora che si verifichi un tradimento.

Quando le persone portate a manifestare comportamenti ansiosi cominciano a convincersi che il partner le tradisca o che, peggio, abbia intenzione di tradirle, finiscono per diventare gelose e ossessive nel tentativo di controllare ogni spostamento e ogni azione del proprio compagno o della propria compagna.

Ovviamente ogni azione di controllo genera enormi picchi d’ansia: la persona che controlla sa perfettamente che sta violando la privacy dell’altro e sa anche che con ogni probabilità l’altro si arrabbierebbe moltissimo se dovesse scoprire di essere costantemente “monitorato” all’interno della propria relazione. Questi fattori ovviamente non fanno che aumentare l’ansia per il timore costante di essere scoperti mentre si controlla il partner.

Come se non bastasse, ad ogni atto di controllo il partner geloso sperimenterà il terrore di scoprire un effettivo tradimento e, quindi, proverà una fortissima ansia.

Questo carico emotivo negativodiventerà sempre più insostenibile nel corso del tempo e non farà altro che rendere sempre più complicata la relazione sentimentale tra i due partner.

Quando il partner è sfuggente, è quello sbagliato

Ogni volta che entriamo in una relazione sentimentale alcuni aspetti del nostro carattere vengono esaltati o esasperati mentre altri finiscono per essere messi in secondo piano.

Per questo motivo le persone si comportano in maniere molto diversa a seconda del partner che stanno frequentando in quel periodo. Una persona estremamente gelosa potrebbe trovare qualcuno che le faccia dimenticare la sua gelosia, una persona piuttosto timida potrebbe trovare un partner che riesca a farla uscire dal suo guscio e così via.

Purtroppo a venir fuori durante una relazione sono le parti peggiori di una persona, come le sue manie e le sue insicurezze più profonde.

Quando una persona ansiosa si innamora di una persona schiva e sfuggente si genera un corto circuito che genera comportamenti ansiosi sempre più frequenti i quali, a loro volta, genereranno comportamenti evitanti sempre più frequenti.

Le persone sfuggenti sono molto gelose della propria autonomia sia dal punto di vista pratico e logistico sia dal punto di vista strettamente emotivo e sentimentale.

Per questo motivo tendono a fornire informazioni molto scarse sui loro spostamenti, sui loro impegni quotidiani e addirittura sui propri progetti. 

Tendono anche a parlare poco o nulla di sé, preferendo parlare di argomenti neutri, leggeri e oggettivi, come il classico “parlare del tempo”.

Il problema è che molto spesso i comportamenti evitanti non nascondono nulla, non celano la voglia di tradire o il desiderio di rompere la relazione. Si tratta di abitudini che le persone evitanti hanno da sempre, che per loro non costituiscono affatto un problema ma una semplice normalità relazionale.

In genere le persone evitanti non amano il conflitto e, pertanto, hanno messo a punto varie strategie per evitarlo: la prima è semplicemente non rispondere nel momento in cui il partner tenta di generare un conflitto (arrivando alla classica situazione in cui uno dei due partner “litiga da solo”), la seconda è ignorare l’argomento che crea contrasto volontariamente, puntualmente, costantemente.

Inutile dire che queste strategie sono quanto di più dannoso possa esistere per la psicologia di una persona ansiosa, che ha bisogno di sviscerare tutti i conflitti nel tentativo di avere tutto perfettamente sotto controllo.

Cosa si fa quando in una coppia c’è un partner ansioso e un partner evitante?

Per quanto possa sembrare una banalità, l’unico modo per superare l’ansia nelle relazioni sentimentali è parlare apertamente dei problemi.

La situazione di empasse si sbloccherà unicamente nel momento in cui i due partner riusciranno a comprendere l’altro e le sue esigenze.

Le persone ansiose che sviluppano un attaccamento ansioso nei confronti del partner sono persone che non hanno mai affrontato (e quindi mai superato) i traumi infantili legati probabilmente a una sindrome dell’abbandono. Hanno bisogno di grande empatia e soprattutto di continue conferme da parte del partner.

Le persone evitanti hanno invece bisogno di molto spazio personale, sia a livello concreto sia a livello emotivo. Chi ha un partner evitante dovrebbe comprendere che non può pretendere messaggi romantici a tutte le ore, così come non può pretendere di conoscere tutti gli spostamenti del partner minuto per minuto come se la sua giornata fosse una telecronaca sportiva. Le persone evitanti hanno bisogno di sentirsi libere, assolutamente libere, come animali selvatici. Se riusciranno a convincersi che una relazione non comporta la fine della libertà personale, allora i partner evitanti diventeranno sempre più affettuosi e “vicini”, accorciando la distanza emotiva con l’altro poiché non si sentiranno più minacciati dalla sua presenza.

Dal Sito: chedonna.it

Come influisce l'ansia e la preoccupazione genitoriale sui ragazzi





Per nessuno è facile affrontare un cambiamento tantomeno per i bambini. Lo stesso vale per ragazzi e adulti. Cambia la concezione che si ha di sé e degli altri ma la situazione. Come si affronta una fase di passaggio della vita?

Ragazzi andrete a scuola a giorni alterni, la vostra classe sarà divisa in due gruppi. Ogni giorno un gruppo segue da scuola e l’altro gruppo da casa. Sarà così finché la indicazioni ministeriali non ci rassicureranno in base all’evolversi del virus”. Sono le parole di una professoressa del liceo scientifico di Nola (NA).

Annachiara piange, tra pochi giorni comincerà il primo anno del liceo scientifico,. Un nuovo percorso, un nuovo tratto di vita. Eppure mille dubbi e mille paure attanagliano la sua mente. “Come sarà? Come farò a fare amicizia con i miei nuovi compagni di classe? Ma questo incubo quando finisce?”.

Il rientro a scuola al tempo del COVID ha comportato molte novità per bambini, ragazzi, genitori e insegnanti. Cambiano le modalità di relazione (limiti al contatto fisico e alla condivisione di materiale). L’organizzazione degli spazi (aule, banchi singoli, percorsi, mensa in classe) e il modo di comunicare (uso della mascherina). Queste novità possono generare confusione e destabilizzazione nei bambiniperché distanti da ciò a cui si è abituati?

Interris.it ne ha parlato con la dottoressa Pamela Pace, psicologa e psicoterapeuta.

Tutto ciò che è accaduto dal mese di marzo ha creato uno scombussolamento generale. Ha comportato destabilizzazioni in vari ambiti e registri della quotidianità e, potrei dire della vita di ognuno. Tale rivoluzione è stata trasversale all’età, al genere e anche, in quanto pandemia, al luogo di residenza! Dai più piccoli ai più grandi, anche i giovani si sono trovati a fare i conti con tale imprevista e virulenta contingenza“.

Cosa rappresenta il cambiamento per i ragazzi? Quanto pesa?

“I bambini sono tendenzialmente dei grandi abitudinari. Più il loro ambiente, sia familiare sia esterno, è ordinato, a misura delle esigenze e delle risorse del loro specifico momento evolutivo, più anche il loro mondo interno, psichico/mentale, è disteso. Ciò li aiuta ad affrontare al meglio le difficoltà e a proseguire fiduciosi il loro delicato compito di costruzione della propria identità e della relazione con gli altri e il mondo. Il ripetersi delle varie attività quotidiane, con i peculiari arredi, il ritrovare ogni giorno luoghi e presenze familiari, è senz’altro rassicurante e anche contenitivo”.

Ciò che più incide sui ragazzi

“E’ quindi possibile che gli effetti di interruzione, disancoramento, sospensione dovuti al Corona virus, al lock down, abbiano pesato sui giovani, ovviamente nei diversi modi soggettivi. Ritengo che ciò che più incide in un figlio sia il discorso familiare sottostante, cioè la lettura e il senso che padre e madre danno a quanto accade. Come i genitori hanno affrontato la pandemia e stanno facendo conti con le tante difficoltà attuali, influenza i figli”.

La figura degli adulti che conta nella fase di crescita

“Anche la ripresa della scuola mette i bambini di fronte a vari cambiamenti che dovranno essere affrontati e a determinate regole che ognuno dovrà fare proprie. Ogni giovane ha le sue risorse, le fragilità e i suoi tempi di elaborazione. Quindi è importante che tali peculiarità soggettive vengano rispettate dagli adulti di riferimento. Maestre, insegnanti e anche i genitori possono essere un valido sostegno, soprattutto se disposti a fare da interprete e traduttore, ad ogni bambino, rispetto a ciò che di diverso e/o di faticoso, deve affrontare”.

I genitori sono la principale categoria soggetta a forti crisi di panico e paura, come fare per non trasmettere questi stati d’animo ai propri figli?

“Non ritengo si possa definire i genitori, né la genitorialità il paradigma delle crisi di panico e di paura. Viceversa penso che tali vissuti emotivi siano costitutivi della natura umana: che si sia padre e madre oppure no. E’ senz’altro possibile che la nascita di un figlio e la conseguente responsabilità di crescerlo ed educarlo, possano generare ansie e timori”.

“Tuttavia esistono soggetti più ansiosi e apprensivi e altri meno e, innanzitutto, padre e madre sono due individui unici e diversi, così come il loro bambino. Certo non è un compito facile e spensierato crescere dei figli: ogni età, ogni conquista verso l’autonomia, implicano, per i genitori, il dover fare i conti con l’ignoto, con ciò che non si conosce. Padre e madre si assumono la responsabilità di aprire il proprio figlio alla vita, educarlo a diventare coraggioso e fiducioso e ad amare gli altri e il mondo. Tale impegno può in itinere generare ansie e timori. É comunque necessario e produttivo che queste ultime non siano così invadenti da fare del figlio il ricettacolo di un eccesso emotivo, per il piccolo sempre difficile da gestire”.

Crescita dei figli e ansia genitoriale

“Un genitore in grado di controllare e regolare il proprio stato emotivo, riuscirà ad evitare appunto un sovraccarico al figlio. Tuttavia l’amore di una madre e di un padre si manifestano anche in una quota di libertà che donano al figlio, anche in un momento incerto, difficile e delicato come quello attuale, accettando di essere confortanti e supportanti per come riescono. Il genitore perfetto non esiste!”.

Dal Sito: interris.it 

Non puoi vivere il presente guardando al passato



Quando una fase della nostra vita finisce: che siano porte, cicli, pagine di vita, dobbiamo accettarlo. Rifiutare l’evidenza delle cose significa privarci della gioia, della possibilità di essere felici. Occorre .guarda avanti, perché è lì che stiamo andando.

Non si può vivere il presente guardando al passato con rimpianto né vivere il nostro tempo chiedendoci continuamente: “Perché ?”

I legami possono finire e i sentimenti cambiare, allora dobbiamo imparare a lasciar andare. Le esperienze negative servono a non farci commettere gli stessi errori ma tenerle a mente per essere maturi ad affrontare nuovi incontri che ci porteranno ad una felicità più autentica che guarirà le nostre ferite emotive. Non serve essere tristi ricordando il tempo perduto e le ore sprecate, perché non le recupereremo più.

Il tempo è uno dei nostri beni più preziosi, perché. Il tempo è vita!

Ricordare il passato è normale, ma provare nostalgia di un certo barlume di bene vissuto è sbagliato, perché ci impedisce di vivere il presente e di godere appieno tutto ciò che di bello e di buono abbiamo.

Vivere nel passato ci condanna all’infelicità perché ci isola dagli altri facendoci vivere in un buio profondo, mentre la vita è luce, calore, armonia, pace, relazione… è libertà, perciò è necessario essere pronti a dare il benvenuto a tutto ciò che arriverà…

Se qualcuno o qualcosa non ci rende felici; non ci aiuta a crescere; non ci offre sicurezza né pace; non ci arricchisce come esseri umani; non ci sostiene; non rispetta i nostri sogni… liberiamoci!!!

Se ci trattiene per i suoi fini; se ci fa soffrire… … lasciamo andare!!!.

Certamente è di gran lunga un vantaggio liberarsi e lasciare andare, che vivere con ciò che oggi non si ha più.


Dal Sito: aprilamente.info 

Abbraccia le tue paure



L’uomo coraggioso non è colui che non ha paura, ma colui che conquista quella paura.
Nelson Mandela

La paura è una delle emozioni fondamentali per gli esseri viventi, mette in guardia dai pericoli e spinge alla sopravvivenza. Alla nascita abbiamo solo due tipi di paura: i rumori forti e le cadute. Man mano che cresciamo, e sperimentiamo e accumuliamo esperienze, a queste paure se ne aggiungono altre. In verità l’essere umano è bravissimo nello sviluppare paure, l’ignoto sembra essere un generatore di paure inesauribile.

Per riuscire a superare le tue paure è importante riconoscere la paura e sentirla. Smetti di notare la paura che stai vivendo e metti una distanza tra te e l’oggetto della tua paura. Invece di dirti “Ho paura”, dì “Sento paura”.

Sentire la paura è fondamentale per superarla. Non combatterla. Se cerchi di combatterla sperimenterai una paura maggiore. Siediti invece con il tuo disagio. Cerca di pensare attivamente a quello che ti spaventa e senti la paura. In questo modo incredibilmente la tua paura potrebbe cominciare a placarsi.

Quando ti siedi con le tue paure, immagina esiti positivi. Di solito quando abbiamo paura, tendiamo a vedere tutto negativo, si tratta di un approccio irrazionale che non ti fa bene. Prova, invece, ad immaginare l’esito più positivo possibile.

Ricorri alla mindfulness, riporta la tua mente al tempo presente, al qui e ora: concentrati sul respiro, se la tua mente divaga, riportala tua attenzione sul respiro. Torna al tuo respiro ogni volta. Ciò che conta non è quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi.

Sostituisci l’immagine della tua paura con una nuova immagine. Molte delle nostre paure hanno immagini mentali. Se lavori sostituendo quelle immagini con altre positive, crei nuove associazioni.

Usa l’Emotional Freedom Technique(EFT) o Tapping Therapy. È una tecnica che consiste nel toccare 9 punti di digitopressione del corpo per liberare le emozioni negativa.

Affronta le tue paure, è importante riuscirci. La paura non si basa quasi mai sulla realtà, ma sull’immaginazione. In inglese paura si dice “fear”, acronimo di False Experiences Appearing Real (esperienze ingannevoli che sembrano reali). La paura è una convinzione. Il 99% delle cose che temiamo non avverrà mai.

Ralph Waldo Emerson scriveva:

“Fai la cosa che temi e la morte della paura è certa.”

Se fai e rifai la cosa che temi, alla fine la paura perderà tutto il suo potere.


Dal Sito: aprilamente.info 

venerdì 18 settembre 2020

Evitamento: definizione e caratteristiche, trattamento in psicoterapia


L’evitamento è una strategia comportamentale messa in atto allo scopo di sottrarsi dall’esposizione a situazioni, persone, eventi temuti, cioè che suscitano emozioni considerate negative per chi le sperimenta.

L’evitamento è un comportamento adattivo nella misura in cui permette di allontanarsi da una situazione di pericolo o di minaccia reale. Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006). In questo caso l’evitamento perde il suo valore adattivo e diventa un vero e proprio meccanismo di difesa utilizzato per proteggersi da uno stato mentale o da un esperienza considerata intollerabile, e quindi da evitare in qualunque modo.

L’evitamento può riferirsi a situazioni esterne ma anche a stati interni (pensieri, emozioni, sensazioni).



Evitamento: cos’è e come si manifesta

L’evitamento è una strategia comportamentale messa in atto per riuscire a gestire al meglio le emozioni. Lo scopo, dunque, è sottrarsi dall’esporsi a situazioni, persone, eventi temuti per evitare di affrontare l’emozione negativa che ne deriva.

L’evitamento, perciò, è un meccanismo difensivo, o strategia di fronteggiamento, dei problemi, tipica dei disturbi d’ansia. Infatti, uno dei sintomi caratteristici di molti disturbi d’ansia è proprio l’evitare di entrare in contatto con la situazione o con la cosa temuta. Di fronte a una minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme, l’individuo evita il affrontarlo. Le fobie sono un esempio clinico calzante che coinvolge massicciamente questo meccanismo. Se si avesse la fobia dei rettili, chiaramente, sarebbero evitate tutte le situazioni che includono i rettili. Nei casi più gravi la fobia può essere scatenata addirittura dalla vista di un serpente raffigurato in un libro o una rivista.

Inoltre, l’evitamento, sebbene fornisca un momentaneo sollievo, non fa altro che confermare ripetutamente la necessità di evitare. Quindi, ogni volta che un ansioso evita, conferma a se stesso di non poter fare a meno di evitare e ciò dà luogo a un circolo vizioso che renderà più probabile in futuro l’evitamento di altre situazioni affini.

Il valore adattivo dell’evitamento

La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare ai professionisti che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.

Tuttavia l’evitamento è una strategia molto diffusa e a tutti sarà capitato di mettere in atto un comportamento evitante. Esso, infatti, non ha solo una connotazione negativa ma ha anche una sua funzionalità: permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.

L’evitamento perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006).

Quando temiamo le conseguenze di una decisione e di un’azione, o se non ci sentiamo competenti, la soluzione migliore diventa non cercare soluzioni: più lo scenario immaginato è catastrofico, più eviteremo le conseguenze negative che si disegnano nella nostra mente.

Tuttavia, il rischio del circolo vizioso di cui sopra, è sempre dietro l’angolo: più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo rinforza l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, quando evitiamo, l’ansia diminuirà e, a questa riduzione, si assocerà un immediato senso di sollievo che ci porti a credere nell’effettiva efficacia dell’evitare, dato che l’emozione negativa si è, appunto, momentaneamente abbassata.



L’evitamento esperenziale

L’ evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali. Lo scopo ultimo dell’evitamento esistenziale è fuggire, razionalizzando o ignorando.

E’ fondamentale indagare col paziente quali siano le aree della sua vita in cui presenta uncomportamento evitante. A volte tali comportamenti si palesano nel corso di una seduta: rispondere con rabbia al terapeuta, arrivare in ritardo o anche una risata durante il racconto di un evento doloroso.

L’evitamento esperenziale nella prospettiva dell’ACT

Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienzialenell’ACT (acceptance e commitment therapy) viene chiamatoAccettazione. Spesso malintepretato, lo si può definire in altri termini simili e meno ambigui come lasciare spazio o aprirsi all’esperienza.

Ma a cosa lasciare spazio? Secondo la prospettiva dell’ACT si deve lasciar spazio alle emozioni negative, ai pensieri catastrofici e ai ricordi dolorosi. Il percorso è senza dubbio difficile, ma comunque più funzionale dell’evitare. Assumere un atteggiamento di apertura, di accettazione verso la propria esperienza richiede sforzo, tempo e anche sofferenza.

Tuttavia, lasciare spazio a ciò che cerchiamo di evitare, ci consente di imparare:

• a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi



• accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza informativa che meritano



• indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.



L’evitamento nella depressione e le strategie di intervento in psicoterapia cognitiva

La sintomatologia depressiva conduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo e ad una significativa compromissione delle altre aree importanti della vita, la cui intensità varia in relazione al livello di gravità del disturbo.

In riferimento alle ripercussioni che tale disturbo dell’umore genera nella vita quotidiana del soggetto, assume rilevanza evidenziare la connessione tra la difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane e la presenza di comportamenti di evitamento, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.

Chi è depresso manifesta una notevole difficoltà nello svolgimento delle abituali attività quotidiane, causata dalla presenza dei sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici caratteristici del disturbo, i quali possono alimentare ulteriormente la visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di sé, la sfiducia nelle proprie capacità e le conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

In conseguenza di ciò, spesso la persona mette in atto istintivamente alcuni tipici comportamenti di evitamento, che conducono ad abbandonare o ridurre notevolmente gli impegni quotidiani e le attività piacevoli consuete, diminuendo in questo modo la possibilità di interrompere le ruminazioni negative e sperimentare un seppur breve stato mentale positivo.

Ad esempio, la presenza di sintomi quali la difficoltà di concentrazione, di memoria, l’indecisione, mancanza di interesse o energia, etc. può condurre la persona a considerarsi incapace di affrontare e gestire autonomamente le occupazioni quotidiane consuete (es. lavorare, studiare, fare la spesa, preparare da mangiare, svolgere faccende domestiche, etc.), oppure a sopravvalutare irrealisticamente le difficoltà insite in esse. A causa di tale convinzione il depresso può iniziare ad evitarle, a rimandarle, o a delegarle a qualcuno, diventando in tal modo eccessivamente dipendente dagli altri.

Apatia e disinteresse posso indurre il depresso a evitare il contatto con altre persone e ridurre al minimo il dialogo con familiari e amici. In altri casi, sono la vergogna, il senso di inferiorità o di colpa per il disturbo, il sentirsi diverso dalla persona che era precedentemente,
 che spingono all’evitamento e all’isolamento dagli altri, lasciandolo in balia di processi ruminativi che ne aggravano la condizione.

Questi comportamenti di evitamento, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere (in quanto sottraggono la persona allo sforzo di fare ciò che le risulta difficile e faticoso, o che non ha più voglia di fare), in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente. La persona giunge a percepirsi maggiormente come incapace, fallita, senza speranza, a rafforzare l’idea di non essere più in grado di svolgere le attività precedentemente attuate, aggravando in tal modo la valutazione negativa di se stessa e della propria vita attuale e la sfiducia verso il futuro.

In ambito clinico è risaputo come ilquadro sintomatologico depressivoconduce il paziente ad un calo del funzionamento sociale e lavorativo, oltre che alla compromissione di altre aree importanti di vita. La difficoltà sperimentata dalla persona nello svolgimento delle abituali attività quotidiane causa spesso la presenza di comportamenti di evitamento, i quali creano un circolo vizioso e contribuiscono al persistere ed all’aggravarsi dello stato di sofferenza.

La persona depressa trascorre dunque molto tempo isolata e inattiva, accompagnata solo da lunghe rimuginazioni depressive. Tale stato di evitamento porta a un aggravamento ulteriore della sfiducia nelle proprie capacità, della visione negativa, globale e assolutistica, che la persona ha di se stessa e delle conseguenti intense emozioni di tristezza e angoscia provate.

Avviene allora, a conferma della teoria del circolo vizioso sopra descritto, che tali comportamenti di evitamento, pur dando l’illusione di alleviare momentaneamente il malessere, in realtà conducono ad un graduale aggravamento del disturbo in quanto provocano una profonda ricaduta sull’autostima del paziente.

A fronte di tale quadro sintomatico, e a fronte delle cognizioni disfunzionali tipiche della persona depressa(visione negativa di Sé, del mondo e del futuro), l’intervento psicoterapeutico rispetto al Disturbo Depressivo Maggiore si focalizza soprattutto sull’attenta valutazione e correzione delle cognizioni attraverso cui il soggetto costruisce l’interpretazione, la spiegazione, l’anticipazione degli eventi passati, presenti o futuri, la valutazione di se stesso e della sua vita, aiutando la persona a individuare e modificare le convinzioni disfunzionali che contribuiscono a creare, mantenere ed esacerbare la sofferenza emotiva.

Parallelamente a ciò, per ridurre la strategia di evitamento, si inserisce l’intervento terapeutico rispetto al comportamento quotidiano del paziente, attuando in maniera graduale specifici cambiamenti e procedendo in direzione inversa rispetto alla tendenza all’inattività e all’isolamento sociale indotta dal disturbo. E’ necessario dunque attuare una progressiva riattivazione a livello comportamentale, che gradualmente consentirà alla persona di trarre sollievo e distrazione dalle rimuginazioni negative.

In tale direzione, il cambiamento dei comportamenti depressivi di evitamento consente di giungere a cambiamenti cognitivi, ovvero sul piano dei pensieri, della visione di se stesso e delle proprie capacità, della propria vita attuale e del proprio futuro.

Dal punto di vista psicoterapeutico è inoltre possibile trattare con successo gli evitamenti attraverso un programma di esposizione graduale durante il quale il soggetto gradatamente prova a scardinare il circolo vizioso che si è creato, e a entrare in contatto con le situazioni ansiogene in modo da farle diventare normali e accettabili (questo è vero soprattutto nel caso delle fobie)

Evitamento nei disturbi d’ansia

Tipico dei disturbi d’ansia è proprio l’evitare di entrare in contatto con la situazione o con la cosa temuta. Di fronte a una minaccia, reale o immaginaria, che produce una reazione di allarme, l’individuo evita di affrontarla. Le fobie sono un esempio clinico calzante che coinvolge massicciamente questo meccanismo.

L’evitamento è una strategia di fronteggiamento del problema che si rivela efficace solo temporaneamente, infatti il sottrarsi al confronto con ciò che si teme, non fa altro che confermare ripetutamente la necessità di evitare: ogni volta che evitiamo ci priviamo dell’esperienza di riuscire a far fronte alla situazione temuta, confermando a noi stessi che evitarla è l’unica cosa che possiamo fare nel presente e nel futuro. Questo oltre a rinforzare i timori e la strategia disfunzionale di fronteggiamento, l’evitamento appunto, aumenta anche la probabilità che in futuro altre circostanze simili diventeranno oggetto di evitamento a loro volta, ampliando il campo delle esperienze a cui sottrarsi per paura.

Dal punto di vista psicoterapeutico è possibile trattare con successo gli evitamenti attraverso un programma di esposizione graduale durante il quale il soggetto gradatamente prova a scardinare il circolo vizioso che si è creato, e a entrare in contatto con le situazioni ansiogene in modo da percepirle progressivamente come sempre più normali e accettabili.

Evitamento nel disturbo d’ansia sociale

Il disturbo d’ansia sociale, o fobia sociale, è un disturbo caratterizzato una marcata sensibilità verso il giudizio altrui: la principale paura è il divenire oggetto di scherno o di valutazioni negative da parte degli altri; sono inoltre presenti sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità con un impatto altamente negativo sull’autostima.

L’evitamento delle situazioni sociali è dunque la strategia comportamentale più utilizzata dalle persone con questo disturbo e più i comportamenti di evitamento si generalizzano, maggiormente il disturbo diventa invalidante. Inoltre l ‘evitamento comportamentalerinforza il ritiro sociale e impedisce di contrastare le rappresentazioni maladattive schematiche che a loro volta sostengono il disturbo. Altri meccanismi di mantenimento possono essere prevalenti: bias attenzionali a segnali di rifiuto o meccanismi di rimuginio metacognitivo che mantengono nella mente il focus su rappresentazioni di umiliazione, derisione e rifiuto.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT)  del disturbo d’ansia sociale si concentra su: (1) ridurre il timore del giudizio e il bisogno di riconoscimento, (2) controllare il rimuginio anticipatorio sulle proprie prestazioni, (3) ridurre il timore di mostrare ansia, (4) ridurre i comportamenti di controllo dell’ansia.

L’evitamento nel disturbo evitante di personalità

nel disturbo evitante di personalità, l’evitamento della relazione con l’altro è massicciamente sostenuto da un complesso quadro di timori e convinzioni che investono sia la sfera della relazione che l’idea di sé: il timore delle critiche, la paura della disapprovazione e dell’esclusione e, soprattutto, la radicata convinzione di valere poco.

Nel disturbo evitante di personalità la paura di non risultare adeguati è tanto forte e la prospettiva di un rifiuto talmente dolorosa che si preferisce l’isolamento e l’evitamento del confronto con gli altri.

Il senso di sicurezza così raggiunto è pagato a caro prezzo: questa condizione di solitudine, infatti, è vissuta con profonda tristezza e senso di estraneità.

Chi soffre di questo disturbo tende quindi, per la convinzione di non essere attraente e di non avere argomenti interessanti da condividere con gli altri, a non instaurare nuove relazioni sociali all’infuori di quelle consuete con i familiari e gli amici più stretti; spesso rinuncia anche alla possibilità di fare carriera per evitare il confronto con gli altri. Lo stile di vita di chi soffre di disturbo evitante di personalità tende ad essere monotono e solitario, condizione che finforza il sentimento di non appartenenza: quando però il soggetto cerca di cambiare questa situazione si scontra con la sua paura di un giudizio negativo e del rifiuto.

Evitamento nella Fobia sociale VS evitamento nel disturbo evitante di personalità

La fobia sociale ha diverse caratteristiche in comune anche con il disturbo evitante di personalitàIn entrambi i casi la persona presenta evitamento delle situazioni sociali, bassa autostima ed estrema sensibilità ai giudizi negativi. I due disturbi, tuttavia, sembrano differire per il fatto che la persona con disturbo evitante ha un timore pervasivo in tutte le situazioni sociali e relazionali, mentre chi soffre di fobia sociale ha paure più specificamente correlate alla prestazione sociale, quindi se deve esporsi a fare un compito in pubblico. Questa distinzione, comunque, non permette di differenziare facilmente il disturbo evitante di personalità e la fobia sociale generalizzata. Secondo alcuni esperti, infatti, queste due diagnosi sarebbero sovrapponibili, in altre parole sarebbe possibile che si stanno utilizzando due differenti categorie diagnostiche per lo stesso disturbo. Altri autori, invece, sostengono che ci sono delle differenze tra queste due patologie. Dai risultati di una ricerca, infatti, risulta che le persone con disturbo evitante di personalità, rispetto a chi ha la fobia sociale generalizzata, presentano una maggiore sensibilità interpersonale e più scarse abilità sociali. Secondo altri autori, inoltre, i due disturbi sarebbero distinguibili in base a ciò che attiva il senso di inadeguatezza e l’ansia: i soggetti con fobia sociale di solito si sentono inadeguati quando devono svolgere delle prestazioni agli occhi di altre persone, mentre quelli con disturbo evitante si percepiscono inadeguati soprattutto quando, nel relazionarsi agli altri, avvertono un forte senso di estraneità e di non appartenenza.

Disturbo evitante di personalità e regolazione emotiva

Secondo Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo (https://www.stateofmind.it/2013/10/disturbo-evitante-personalita-emozioni/) la conoscenza sul disturbo evitante di personalità (DEP)si è approfondita solo negli ultimi anni. Appare sempre più evidente che il disturbo evitante di personalità sia un disturbo diffuso, grave, co-occorrente con numerosi disturbi sintomatici e comportamentali – quali disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi alimentari, abuso di sostanze e alcool – e per il quale mancano modelli di trattamento di provata efficacia.

Significativi passi avanti nella conoscenza dell’evitante riguardano l’importanza che hanno i problemi nella conoscenza e regolazione delle emozioni in questi pazienti. Sembra consolidato il dato che la difficoltà a identificare i propri affetti è un aspetto tipico del DEP. Studi recenti portano dati specifici.

I pazienti con disturbo evitante di personalità, confrontati con quelli con disturbo borderline, mostrano peggiore consapevolezza delle proprie emozioni e minore capacità di esprimerle concettualmente.

La difficoltà nel riconoscimento era particolarmente marcata per le emozioni di interesse e disprezzo (Johanssen et al., 2013). La carenza nell’identificare l’interesse è coerente con l’idea che in questi pazienti ci sia un’inibizione del sistema esploratorio, che li porta ad essere riluttanti a muoversi in ambienti (sociali) ignoti.

Altri due studi condotti a Indianapolis e Roma hanno raccolto dati che illustrano ulteriormente le caratteristiche di scarsa conoscenza e regolazione emozionale nel DEP.

In sintesi, tratti evitanti in pazienti che abusano di sostanze sembrano associati da una combinazione di scarsa consapevolezza degli affetti e insufficienti strategie di regolazione del comportamento sociale basate su una conoscenza adeguata sugli stati mentali.

In termini semplici: se un paziente non ha buona consapevolezza degli affetti ma adotta strategie funzionali, del tipo “quando sono teso faccio esercizio fisico e mi calmo” difficilmente avrà tratti evitanti. Se invece ha scarsa consapevolezza degli affetti, non riesce a dire meglio di “sono teso” e non ha buona mastery “quando sono teso non so che fare, sono nervoso, irritabile” probabilmente avrà aspetti evitanti (Lysaker et al., in stampa). Questo può aprire la strada all’uso di sostanze come modalità maladattiva di regolazione degli affetti.

I pazienti con DEP inoltre, sembrano avere una tendenza peculiare ad inibire le proprie emozioni, molto più che in altri disturbi del cluster C e in modo opposto a pazienti con disturbo borderline di personalità (Popolo et al., proposto per la pubblicazione).

Nel complesso sembra che approfondire la conoscenza sugli aspetti disfunzionali nella conoscenza e regolazione degli affetti permetterà di conoscere ulteriormente i meccanismi che sostengono il DEP con la speranza di trattare più efficacemente sia il disturbo stesso che i disturbi sintomatici e comportamentali ad esso associati.

Evitamento e psicoterapia

Il disturbo evitante di personalitàrichiede trattamento psicoterapeutico specifico dal momento che è un disturbo diffuso, con compromissione significativa del funzionamento sintomatico e associato a sintomi psicologici rilevanti. Una comprensione accurata del disturbo evitante di personalità deve includere i problemi di questi pazienti nella consapevolezza, accettazione e regolazione delle emozioni. Questi pazienti sono alessitimici e tendono ad evitare o sopprimere le proprie emozioni. In alternativa si disregolano, sorgente possibile dell’associazione con abuso di sostanze e alcool.

Secondo Giancarlo Dimaggio (https://www.stateofmind.it/2015/03/disturbo-evitante-dipersonalita-psicoterapia/) il paziente con disturbo evitante di personalità ha prima bisogno di capire cosa lo fa soffrire, quali schemi interpersonalilo portano a stare male e ad evitare le situazioni. Poi in un clima di costante e attenta regolazione della relazione terapeutica possono provare ad esporsi. Di solito l’esposizione non ha successo a breve termine e aumenta il dolore psicologico (il che è normale), però grazie all’esposizione aumenta la consapevolezza dei problemi e il clinico può usare la conoscenza in seduta per favorire operazioni di distanza critica. Quando i pazienti hanno acquisito maggiore consapevolezza di essere guidati da schemi interpersonali maladattivi che non sono necessariamente veri possono trovare più semplice esporsi a situazioni sociali temute.

Ritengo discutibile il beneficio del training assertivo, almeno in fase precoce. Per esempio in uno studio di Alden del 1989 la parte dello skills training non contribuiva all’efficacia della terapia. La terapia di gruppo in fase iniziale di trattamento può essere impegnativa e non di particolare efficacia, traduco dalla review di Matusievicz e colleghi.

non ci sono dati che supportino l’efficacia della CBT breve di gruppo nel ridurre sintomi del disturbo evitante, ansia, depressione e comportamenti sintomatici come pure il funzionamento sociale complessivo. Benché la ristrutturazione cognitiva e gli skills training siano associati con miglioramenti in terapia, questi non sembrano migliorare l’outcome dell’esposizione graduale; molti pazienti continuano a mostrare problemi significativi dopo la CBT di gruppo; trattamenti di più lunga durata potrebbero essere necessari per cambiare pattern cognitivi e comportamentali di lunga durata.

La terapia di gruppo è particolarmente difficile per pazienti che hanno difficoltà a decodificare gli stati mentali propri e altrui, e al contrario di quanto suggerito in questo articolo non c’è ragione per considerarla un trattamento di prima scelta. Sull’uso dei farmaci nei disturbi di personalità a parte il borderline non c’è letteratura conclusiva, quindi non c’è motivo di raccomandare gli ansiolitici come trattamento di prima scelta e l’uso degli antidepressivi dovrebbe essere accuratamente valutato.

Studi interessanti vengono dallo Ullevaal project a Oslo e lì si è visto che pazienti con scarse capacità di mentalizzazione potevano rispondere meglio al trattamento ambulatoriale che a quello intensivo di gruppo, probabilmente perché per loro il gruppo poteva essere troppo difficile (Arnevik et al., 2009; Gullestad et al., 2012; 2013).

Trattare l’evitamento con l’esposizione

L’esposizione, ossia quella tecnica che propone alle persone d’affrontare ciò che più temono coll’aiuto di un terapeuta, può essere definita come “qualunque metodo che porta una persona ad affrontare dal vivo o in immaginazione uno stimolo generalmente evitato o affrontato facendosi scudo con comportamenti protettivi”. Tecnica tradizionalmente associata alla terapia cognitivo-comportamentale, viene in realtà utilizzata in moltissime forme di psicoterapia, in particolare per il trattamento dei disturbi d’ansia, ma anche dell’ipocondria, del disturbo dell’immagine corporea e dei disturbi dell’alimentazione. Sul piano pratico consiste nello stabilire con il paziente graduali step per affrontare l’evento o la situazione temuti, in modo da confrontarsi con le paure temute in diversi contesti, solitamente da quello meno ansiogeno al più spaventoso.

Le tecniche di esposizione sono efficacemente utilizzate anche nel trattamento del disturbo post traumatico da stress, di cui l’evitamento è un aspetto sintomatologico importante.

Il Trattamento di Esposizione Prolungata https://www.stateofmind.it/2016/03/trattamento-di-esposizione-prolungata-per-il-ptsd-con-edna-foa-copenaghen/

era applicata già negli anni 80 ai disturbi d’ ansia con il nome di Teoria dell’elaborazione emotiva (Foa et al, 1986) e solo successivamente è stata applicata al disturbo da stress post traumatico (Foa et al, 1989).

Il protocollo di Esposizione Prolungata per il PTSD prevede dalle 10 alle 14 sedute di 90 minuti ciascuna e si presenta come trattamento specidico per il disturbo da stress post traumatico e non per la terapia del trauma in generale.

L’esposizione immaginativa si presenta come l’elemento maggiormente caratterizzante e specifico dell’intervento terapeutico: il paziente ripercorre all’episodio traumatico raccontando l’evento e successivamente il terapeuta lo aiuta, mediante domande, ad elaborare il materiale traumatico.

Successivamente i singoli hot spots (frammenti del ricordo più attivanti) vengono ripetuti in modo ricorsivo. In tal senso il Trattamento di Esposizione Prolungata interviene sulle componenti disturbo da stress post traumatico sia sull’aspetto sintomatologico (es. flashback, incubi, ipererousal, perdita della dimensione presente) che sulle frequenti cognizioni irrealistiche (es. il mondo è cattivo, io sono incapace di affrontare lo stress legato all’evento traumatico e io sono colpevole) e sulla componente emozionale (legata a vissuti di paura, colpa, vergogna, rabbia ecc) utilizzando due componenti della processazione dei ricordi dolorosi, quali l’ Activasion e la Correttive Information.

Evitamento VS accettazzione: l’ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY

nell’act l’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.

L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione della rabbia.

Che sia rivolto all’interno della nostra esperienza psichica o all’esterno, la natura e la funzione dell’evitamento esperienziale non cambia: lo scopo è fuggire, razionalizzando, ignorando, iperspiegando. Cercando con tutte le forze di allontanare ciò che per noi è doloroso e che riteniamo insopportabile.

Possiamo, quindi, evitare pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni (anche piacevoli, ad esempio entrare in contatto con l’intimità) ma anche situazioni esterne.

E’ fondamentale comprendere insieme al paziente quali siano le aree della sua esperienza in cui presenta un repertorio e modalità di fare esperienza che siano ristretti, ripetitivi, ricorsivi e che portino alla formazioni di circoli viziosi dannosi.

Anche durante la terapia, e nella relazione terapeutica, è possibile osservare alcuni comportamenti del paziente che facciamo pensare ad una messa in atto dell’evitamento. Vediamone alcuni. Rispondere in modo aggressivo ad un intervento del terapeuta, arrivare in ritardo alla seduta, attivare l‘accudimento del terapeuta tramite una richiesta di aiuto disfunzionale e allarmante. Altre situazioni di evitamento esperienziale potrebbero essere le risate durante un racconto doloroso e sofferente, non lasciare mai spazio agli aspetti negativi e dolorosi degli episodi narrati oppure cambiare in modo repentino argomento mentre in seduta si stanno affrontando temi importanti per il paziente.

Come si può vedere da questi esempi, tutti questi comportamenti sono accumunati dallo scopo di evitare pensieri, emozioni, immagini e ricordi dolorosi che sarebbe opportuno affrontare. Il tutto con l’aspettativa e la convinzione che controllando questi aspetti si possa soffrire meno. Presto ci si accorge che, come ben scrive Hayes: “the control is the problem, not the solution” (“il controllo non è la soluzione, ma il problema”).

Quale alternativa, quindi, all’evitamento esperienziale?

Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”.

Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorni la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi.ollo è il Problema, non la Soluzione.

Per quanto difficile tale processo possa essere, l’alternativa sembra più dannosa: versare tutto nel pentolone bucato del dimenticatoio non funziona e non fa altro che aggiungere dolore e sofferenza al dolore già normalmente presente nelle vite di tutti gli esseri umani.

Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’ACT) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.

In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.




Dal Sito: stateofmind.it