La pet therapy oggi viene sempre più utilizzata nella cura dei bambini e degli anziani attraverso il coinvolgimento di animali.
Oggi la pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi. (Chiara Daldosso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO)
Pet therapy: che cos’è
Cani, cavalli, delfini e gatti possono aiutare molti pazienti a migliorare nelle aree emotive, sociali e comportamentali.
La comunicazione verbale tra terapeuta – di qualsiasi orientamento egli sia – e paziente, è il veicolo principale attraverso cui pensieri, emozioni e sofferenza trovano una forma condivisibile tra i 2. La pet therapy è una forma di terapia in cui il canale comunicativo più usato e sollecitato è quello dell’immediata espressione delle emozioni, in cui si attiva il sistema rettiliano, nel paziente come nell’animale.
La pet therapy in Italia viene riconosciuta come utilizzabile per la cura di anziani e bambini nel decreto ministeriale del 2003. Nel 2005 anche il comitato nazionale bioetico la riconosce.
Nel frattempo, nel 2004, nasce la ESAAT (European Society for Animal Assisted Therapy) che certifica la formazione degli operatori e definisce le linee guida del trattamento degli animaliimpegnati in tutte le attività di terapia, di assistenza e di educazione, affinchè venga sempre preservato il loro benessere.
In realtà gli animali sono impiegati nella cura di diverse patologie da molto più tempo ed oggi esistono molti tipi di quella che viene comunemente conosciuta come “pet therapy”.
Le origini della pet therapy
Da quando gli animali sono stati coinvolti nella cura di alcune patologie psicologiche e fisiche dell’uomo?
L’addomesticamento degli animali da parte dell’uomo ha origini molto antiche, ma solo all’inizio del XX secolo si capisce quanto la vicinanza degli animali possa sortire effetti positivi e terapeutici nella psiche umana ed in alcune patologie fisiche. Negli anni ’60 lo psichiatra infantile Boris Levinson nota gli effetti positivi della presenza del suo volpino nelle sedute con i suoi piccoli pazienti. Per primo conia il termine “pet therapy” e gli attribuisce valore scientifico attraverso i suoi studi.
Sulla scìa delle ipotesi di Levinson, negli USA si susseguono altre applicazioni: nella cura dei disturbi mentali e come “facilitatori di relazioni” per gli anziani.
Negli anni ’80, Erica Friedmann, osservando per un anno pazienti dimessi dall’ospedale a seguito di problemi cardiaci, rileva una correlazione tra la sopravvivenza dei pazienti ed il loro possesso di animali domestici. In ricerche successive, la Friedmann scopre che non è necessario il contatto tra paziente ed animale, ma che basta l’osservazione dell’animale per indurre nel paziente cardiopatico la diminuzione della pressione, la regolarizzazione del battito cardiaco e della respirazione, il rilassamento del tono muscolare e delle espressioni del viso.
Nel 1992, mentre la pet therapy inizia a diffondersi anche in italia, Holcomb mette a punto un protocollo terapeutico per pazienti anziani: ne risulta che il livello di depressione cala con l’esposizione dei pazienti a uccellini e conigli.
Oggi la pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi. Prima di addentrarci nel merito è bene fare un po’ di chiarezza terminologica.
La prima importante distinzione da farsi è tra le Animal Assisted Activities (AAA), ovvero tutte quelle attività che migliorano la qualità della vita delle persone con handicap fisici o psico-fisici, e le Animal Assisted Therapies (AAT), veri e propri percorsi di terapia, che affiancati ad altri più tradizionali, hanno l’obiettivo di migliorare lo stato fisico, sociale, emotivo e cognitivo dei pazienti.
Le AAT possono essere usate, ad esempio, in carcere, a scuola, con pazienti psichiatrici, con anziani, con pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico, con pazienti oncologici. Le sedute hanno fin dall’inizio un obiettivo terapeutico preciso e possono essere svolte in gruppo o individualmente. Dietro le quinte della progettazione di tali interventi vi sono quasi sempre equipe multidisciplinari composte da operatori specializzati, educatori, psicomotricisti, psicologi, medici, veterinari.
Da quando gli animali sono stati coinvolti nella cura di alcune patologie psicologiche e fisiche dell’uomo?
L’addomesticamento degli animali da parte dell’uomo ha origini molto antiche, ma solo all’inizio del XX secolo si capisce quanto la vicinanza degli animali possa sortire effetti positivi e terapeutici nella psiche umana ed in alcune patologie fisiche. Negli anni ’60 lo psichiatra infantile Boris Levinson nota gli effetti positivi della presenza del suo volpino nelle sedute con i suoi piccoli pazienti. Per primo conia il termine “pet therapy” e gli attribuisce valore scientifico attraverso i suoi studi.
Sulla scìa delle ipotesi di Levinson, negli USA si susseguono altre applicazioni: nella cura dei disturbi mentali e come “facilitatori di relazioni” per gli anziani.
Negli anni ’80, Erica Friedmann, osservando per un anno pazienti dimessi dall’ospedale a seguito di problemi cardiaci, rileva una correlazione tra la sopravvivenza dei pazienti ed il loro possesso di animali domestici. In ricerche successive, la Friedmann scopre che non è necessario il contatto tra paziente ed animale, ma che basta l’osservazione dell’animale per indurre nel paziente cardiopatico la diminuzione della pressione, la regolarizzazione del battito cardiaco e della respirazione, il rilassamento del tono muscolare e delle espressioni del viso.
Nel 1992, mentre la pet therapy inizia a diffondersi anche in italia, Holcomb mette a punto un protocollo terapeutico per pazienti anziani: ne risulta che il livello di depressione cala con l’esposizione dei pazienti a uccellini e conigli.
Oggi la pet therapy si sta espandendo molto anche in Italia, con metodi ed applicazioni a tipologie di pazienti molto diverse tra loro. Crescono anche gli studi scientifici internazionali sull’efficacia di questi interventi. Prima di addentrarci nel merito è bene fare un po’ di chiarezza terminologica.
La prima importante distinzione da farsi è tra le Animal Assisted Activities (AAA), ovvero tutte quelle attività che migliorano la qualità della vita delle persone con handicap fisici o psico-fisici, e le Animal Assisted Therapies (AAT), veri e propri percorsi di terapia, che affiancati ad altri più tradizionali, hanno l’obiettivo di migliorare lo stato fisico, sociale, emotivo e cognitivo dei pazienti.
Le AAT possono essere usate, ad esempio, in carcere, a scuola, con pazienti psichiatrici, con anziani, con pazienti affetti da disturbi dello spettro autistico, con pazienti oncologici. Le sedute hanno fin dall’inizio un obiettivo terapeutico preciso e possono essere svolte in gruppo o individualmente. Dietro le quinte della progettazione di tali interventi vi sono quasi sempre equipe multidisciplinari composte da operatori specializzati, educatori, psicomotricisti, psicologi, medici, veterinari.
Le esperienze di pet therapy in Italia
In italia, onlus come Frida’s Friends dal 2012 si occupano di portare le AAA e le AAT in diversi contesti, con diversi pazienti e diversi obiettivi. Dalle scuole primarie, in cui attraverso i cani si riescono a creare contesti di maggiore inclusione tra i pari per i bimbi con difficoltà, alla Casa Pediatrica dell’ Ospedale Fatebenefratelli di Milano. In questo contesto, per i bimbi con disabilità gravi viene svolto un lavoro di riabilitazione sensoriale, in cui l’obiettivo può essere che il bimbo percepisca il contatto del muso del cane su un arto, o riesca a muovere un piedino e sorridere grazie alla presenza del cane.
In questa come in altre situazioni meno gravi (le ospedalizzazioni, i deficit cognitivi, i prelievi ematici), i cani che intervengono sono selezionati e monitorati dagli operatori, ma mai addestrati a fare qualcosa di specifico. Ogni cane (ed ogni altro animale impiegato nelle pet therapy) ha un temperamento specifico ed un suo modo di entrare in relazione con le persone, e viene lasciato libero di agirlo in quel dato momento.
L’impiego dei cani in contesti terapeutici ed educativi è stato dimostrato essere un fattore facilitante il raggiungimento degli obiettivi proprio perchè l’animale viene percepito dai bambini come un operatore non giucante e non portatore delle aspettative che invece caratterizzano spesso gli adulti umani (Friesen, 2010).
Questi setting dalle dinamiche libere e non del tutto prevedibili hanno come risvolto della medaglia una grande difficoltà di standardizzazione. Mettere a punto dei protocolli può significare, per alcuni operatori, snaturare il tipo di attività.
Gli studi sull’efficacia della pet therapy
La conseguenza più immmediata è che sebbene la pet therapy nei reparti pediatrici degli ospedali sia sempre più diffusa, ci sono ancora relativamente pochi studi scientifici che ne dimostrano l’efficacia. Nella Casa Pediatrica del Fatebenefratelli si stanno iniziando a raccogliere dati.
Lo racconta la Dott.ssa Beatrice Garzotto, responsabile e coordinatrice dell’attività: le prime rilevazioni fatte con il saturimetro rivelano che quando i bambini affrontano il prelievo ematico con il cane accanto, si regolarizza il battito cardiaco, la pressione arteriosa si abbassa e c’è una maggior ossigenazione del sangue rispetto a quando i prelievi vengono affrontati in condizioni classiche, senza il cane. Sono tutti indicatori fisiologici associati al livello di ansia.
Buoni risultati in questa direzione sono già stati riportati da Kaminski, Pellino e Wish, che nel 2002 hanno osservato un campione di 70 bambini e hanno usato come dato anche il livello dell’umore osservato dai genitori nei figli ospedalizzati.
A fronte di valori fisiologici immutati come la pressione sanguigna o il ritmo respiratorio, la presenza del cane può però far diminuire significativamente il livello del dolore percepito da bambini tra i 3 ed i 17 anni, in contesti ospedalieri e in alcuni momenti in cui il dolore è particolarmente forte (Braun, Stangler, Narveson, Pettingell, 2009).
Più nello specifico, secondo Sobo, Eng e Kassity-Krich, il fattore cognitivo sarebbe quello maggiormente influenzato: i pensieri negativi relativi al dolore percepito verrebbero affiancati e sostituiti da pensieri confortanti relativi all’essere in piacevole compagnia ed al sentirsi in un contesto più vicino a casa.
I pazienti ospedalizzati che ricevono pet-therapy avvertono anche un maggior livello di energia ed un abbassamento del livello di fatica, secondo lo studio di Bulette Coakley e Mahoney (2009).
Oltre ai cani, anche i cavalli, anch’essi animali che in natura vivono in branco e che quindi sono particolarmente abituati a relazionarsi con gli altri, sono sempre più spesso protagonisti di interventi a scopi terapeutici o educativi.
All’Ospedale Niguarda di Milano è attivo da anni il centro di riabilitazione equestre per persone con disabilità. Altri progetti, più propriamente ascrivibili nell’ambito AAT, partiranno al Fatebenefratelli con un pony che visiterà i bambini nel cortile ed in corsia.
Altri ancora, rivolti a pazienti psichiatrici e a donne con cancro al seno sono portati avanti dal Fienile Animato, un centro in provincia di Milano, in cui vengono impiegati cavalli e cani, talvolta insieme.
Alcune peculiarità metodologiche dell’approccio, che prevede setting in piccolo gruppo o individuali, sono che contrariamente a quanto avviene con i cani ad esempio, non vi è quasi mai contatto fisico tra paziente e cavallo. Inoltre il paziente entra in un’area erbosa in cui il cavallo (al massimo con capezza e longe) viene lasciato libero di pascolare ed, eventualmente, di cibarsi. Quest’ultimo aspetto in particolare è rilevante perchè consente al cavallo di “cedere” alla distrazione del cibo: un elemento molto significativo rispetto a quanto può rimandare l’animale in termini di dinamica relazionale, così come l’eventuale forte attivazione (corsa, imbizzarimento, ..).
Nel momento in cui il paziente entra nel perimetro del cavallo, dopo essere stato opportunamente preparato dal professionista, entra in relazione in maniera diretta e non mediata con il grande animale erbivoro. Entrambi possono provare le somatic experiencies della fuga, dell’attacco o del congelamento. Il terapeuta, al termine della seduta, aiuta il paziente a decifrare l’esperienza vissuta, accoglie le emozioni riportate e lo supporta nell’attribuzione di significato relativamente agli obiettivi terapeutici.
La presenza di un cane nei percorsi di supporto psicologico a donne con diagnosi di cancro al seno si è dimostrata favorire la comunicazione con i professionisti e quindi la partecipazione ed il coinvolgimento nella terapia, nello studio di White, Quinn, Garland, Dirkse, Wiebe, Hermann e Carlson (2015).
Le ultime tendenze in ambito di AAT ci dicono che da qualche tempo si sta facendo strada negli USA come in Europa, la Green Care: fattorie e contesti agricoli e rurali vengono usati nei programmi di promozione della salute fisica e mentale. In quest’ottica sono compresi non solo gli animali che abitualmente popolano le fattorie, ma anche la vegetazione ed il paesaggio stesso.
In tal senso uno studio fatto da Berget, Ekeberg e Braastad (2008) su un campione di 90 pazienti psichiatrici (schizofrenici, disordini affettivi, ansia e disturbi di personalità) usando la pet therapycon animali da fattoria, ha dimostrato un buon risultato in termini di aumento dell’auto-efficacia percepita e delle abilità di coping.
Conclusioni
In conclusione, in Italia non si è ancora giunti ad una regolamentazione chiara e unica per tutte le regioni. Di fatto queste attività non vengono riconosciute come terapie e quindi nella maggior parte dei casi non godono di finanziamenti degli enti sanitari pubblici, ma vengono portate avanti dalle onlus e da associazioni di volontariato.
Anche in merito alla dimostrabilità scientifica dell’efficacia ci sono ancora molti passi avanti da fare, ma meta-studi come quello di Nimer e Lundahl del 2007, che hanno considerato 250 ricerche, hanno rilevato che le AAT influenzano significativamente i risultati in 4 aree: le sindromi dello spettro autistico, le difficoltà fisiche, i problemi di comportamento ed il benessere emotivo. Le caratteristiche specifiche dei partecipanti e degli studi invece non si sono dimostrate significative.
Dal Sito: www.stateofmind.it