giovedì 28 febbraio 2019

Ricordati di te… ora!

Non aspettare più qualcosa che arrivi dall’esterno e che abbia il potere di trasformare in meglio la tua vita. Sei tu e soltanto tu che puoi fare la differenza.

Noi non siamo qui per fare numero, noi siamo qui per fare la differenza e secondo il potenziale di autostima che vogliamo impegnare, possiamo farla per noi e per la nostra famiglia, ma anche per il pianeta stesso.

Cambiare modo di guardare le cose importanti che ci riguardano, comporta anche  la possibilità di ascoltarci di più e di rispondere da subito ed in maniera prioritaria alle nostre esigenze. Tu che leggi, sei disposta a credere che già oggi avresti tutto quello che chiedi, se ieri ci avessi creduto davvero? Certo, se lo avessi fatto in precedenza, saresti giunta dove volevi, avresti già quello che dicevi di volere, faresti già quello che dicevi di voler fare. Ma non è troppo tardi!

Anzi è proprio questo il momento di crederci ancora di più, basta alzarsi e riprovarci: smetti di dire che tutto è finito per colpa di qualcun altro o della crisi. Questo è un buon modo per continuare ad adagiarsie non far nulla, perché tanto è inutile.

Spesso ci accontentiamo di quello che non abbiamo, ma non di quello che abbiamo. Alzati e vola!!! Metà delle nostre ferite si rimarginerebbero immediatamente se avessimo voglia di capire che niente è davvero perduto. Si può nascere anche più volte nel corso della stessa vita, reinventarsi, cambiare luoghi, lavori, prospettive, rimettersi alla prova, attivare la capacità di uscire dalla zona comfort in cui però non eravamo neppure capaci di essere autosufficienti e misurarsi con le nostre reali possibilità… spesso non sperimentate.

Amati subito e comincia ad accettare il concetto che tu possa fornire, da ora a te stessa, quello che sembra mancarti. Solo tu sei in grado di farlo, perché tu sola sai che cosa è che ti manca. Solo tu puoi dargli un nome, riconoscere quel bisogno, inserirlo nelle priorità che hai e soddisfarlo.

Quella di cui sto parlando non è una vita che vedi di riflesso nelle vetrine in cui ti specchi, è la tua vita. Non sto parlando di una realtà virtuale a cui accedi collegandoti con uno schermo, non sei su “Second Life”, questa è la tua straordinaria occasione di vita. Come hai potuto in passato dimenticarti di te? Sei stata proprio tu che in certi casi hai aggiunto un “no” a tutti gli altri che in precedenza avevi ricevuto. Il tuo quello decisivo!

Quel no che ancora ti sembra di non sapere, di cui non vorresti nemmeno accorgerti, che fatichi a ricordare. L’unico “no”, invece, di cui non avresti dovuto tener conto, poiché il solo tristemente invalidante, quello che non avresti dovuto dirti mai. Ma forse lo intuivi che proprio quello sarebbe stato il no più potente, il più importante, il più apparentemente irrisolvibile, proprio perché tuo. Ed è forse in quel momento che tutto si è fermato.

Ma se infelicemente eri tu a dirti di no, a frenarti, ad impedirti l’accesso, a non autorizzarti al momento giusto, proprio per questo dovrebbe essere ora più facile invertire la rotta. Sarebbe una magia se tu volessi rimediare e se volessi smettere di restare chiusa in quella stanza.

Fermati un attimo e prova a pensare: oggi nel tuo cuore che stagione è? E’ ora che decidi tu che stagione è, non devi per forza lasciarlo fare ad un vecchio calendario che dice che è sempre inverno per te. Prova a sciogliere quell’inverno e a provare a liberarti dalla sensazione di non essere capace di prendere una vera decisione di trasformazione, senza farla seguire dai “ma” e dai “però”.

Esci dall’ordinarietà a cui ti eri uniformata, tu sei speciale, unica, irripetibile. Ricordati di te, che ci sei, che puoi contare su di te ogni volta che vuoi. Più ti ricorderai di farlo e più capirai che veramente ogni giorno non solo merita di essere celebrato, ma è proprio questo atteggiamento che potrà diventare un modo assolutamente fantastico di predisporti a vivere la tua esistenza, riempiendola di significati.

Che cosa è ad un passo, oggi, per te? Che cosa sta arrivando? Che cosa si allontana? Che cosa puoi lasciare andare per far posto al nuovo? Che cosa vuoi che si avvicini e che cosa vuoi che si allontani?

Pochezza, improvvisazione, inadeguatezza, la sensazione di non essere come gli altri, di aver sbagliato in più occasioni importanti, ti avevano lasciato una sottile e scarsa considerazione di te, che ti avevano candidato alla convinzione che le tue capacità fossero scarse e i tuoi progetti irrealizzabili. Quando ci si guarda dentro per costruire un passaggio da un equilibrio preesistente a uno nuovo da conquistare, si avverte una sorta di confusione che dirige l’attenzione verso cose che importanti non sono. La gente non capisce che può avere tutto e che tutto dipende da sé, che si decida di perdere o di vincere è la medesima cosa per l’Universo.

Quello che cambia e che crea la differenza è invece solo l’energia di chi ha scelto e la sua motivazione. Molti hanno difficoltà ad accettare che basta crederci per farcela e allora, non autorizzandosi a ricevere tutto, prendono i loro sogni e allo scopo di ridurli li smembrano dividendoli per dieci e accontentandosi di quello che resta. Ma c’è anche chi divide i propri sogni per cento o anche per mille e quindi si accontenta veramente di molto poco, in rapporto alle proprie possibilità.

Come hai potuto dimenticarti di te. Dove e quando è cominciato tutto ciò? Da quanto tempo? Hai abbandonato te stessa e poi soffrivi perché ti sembrava che tutti non vedessero l’ora di abbandonarti a loro volta, mentre eri solo tu che lo avevi fatto.

Eri come una “principessa addormentata” che di tanto in tanto si “baciava da sola” per non lasciarsi andare per sempre e per riprendere a vivere. Hai lasciato che gli altri occupassero i tuoi spazi e in certi casi li hai regalati cedendoli, fingendo di non essere interessata. Ma soprattutto ti sei allontanata da sola dalle occasioni che avrebbero potuto migliorare la tua situazione e dalla tua stessa attenzione, a volte con pretesti inconsistenti.

È nella nostra natura di uomini e donne mettersi alla prova, ma chi ha la capacità di generare una vita può anche trasformare la propria ogni volta che vuole.

Magari ci siamo convinti che quella persona che avevamo incontrato era così unica, che l’impegno per averla avrebbe giustificato la cessione del nostro potere, dell’ordine che avevamo dato alla nostra vita, ai nostri talenti, alle nostre idee e convinzioni.

Allora evitiamo di farlo ancora, da adesso ricordiamoci di noi senza rinunciare più a noi stessi e alle nostre possibilità!!!

Articolo di Gabriella Costa 

Sito web dell’autrice: www.ri-trovarsi.com – Riflessioni su Counseling Arte e Ben-Essere di Gabriella Costa ARTcounselor

Fonte: https://ri-trovarsi.com/2016/04/11/ricordati-di-te-ora/

via Conoscenze al Confine

Dal Sito: aprilamente

mercoledì 27 febbraio 2019

I disturbi del nostro corpo sono la risposta alle nostre emozioni



Spesso abbiamo dei dolori al corpo che non sappiamo da dove possano provenire: si pensa di aver preso un colpo d’aria, ma in realtà si trattano di veri e propri blocchi emotivi e il dolore è la risposta fisica a questa condizione perché coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.
I blocchi emotivi

L’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere sentite e vissute, trovano una via di scarico immediata nel corpo, ma imparando e riconoscendo questi malesseri psico-fisici, è possibile cercare di risolverli e riprendere la strada corretta delle nostre emozioni.

A seconda del punto del corpo che duole, esiste una risposta emotiva, e il dolore è curabile individuando la situazione o i sentimenti che ci bloccano.

Ad esempio, un dolore alle cosce indica che abbiamo paura di non soddisfare le richieste altrui, aspettative che non siamo in grado di portare a termine; le ginocchia doloranti sono sintomo di orgoglio ferito, mentre il dolore alla fronte indica che affrontiamo il mondo nella maniera sbagliata. Una cefalea può indicare il bisogno di allentare il controllo razionale e smettere di tenere sempre tutto sotto controllo, e indica inoltre il desiderio di lasciare spazio all’intuizione.

Le eruzioni cutanee possono rivelare che non si hanno chiari i propri confini e che per difendersi si cerca di tenere lontani gli altri o al contrario si ha voglia di tenerli più vicini quando non se ne ha la possibilità. Sintomi respiratori come asma, affanno, iperventilazione, respiro corto, possono indicare mancanza di gioia di vivere o paura di morire.

La stitichezza indica un attaccamento eccessivo ai beni materiali o la paura di esporre il proprio inconscio e le proprie emozioni, mentre la colite opprime chi non riesce a reprimere la propria rabbia e la propria aggressività, cosa che poi porta a sensi di colpa che somatizzano a livello intestinale. Anche le vaginiti e le cistiti possono essere sintomo di un’emotività fallata, ansia e irritabilità da una parte e remissione dall’altra. E per finire il dolore al petto o al cuore è sintomo di problematiche emotive basilari, relative agli affetti primari.

Sostanzialmente è dimostrato che se la nostra mente sta bene, allora anche il nostro corpo sta bene. Cercare di trovare pace, armonia ed equilibrio può essere quindi la strada giusta per guarire dai dolori psico-somatici.
La psicosomatica

Un esempio classico di questo processo è il risentimento, che covato in sé provoca seri malesseri, profondi e difficili da sradicare, fino a far risultare difficili le relazioni con la persona che ci ha offesi e a sfociare in malattie vere e proprie, come febbre o herpes. Di questa correlazione tra risentimento e malattie se ne è occupato Carsten Wrosch, dell’Università di Concordia (Canada), il quale ha stabilito che la rabbia porta ad avere problemi di cardiopatie ma non solo, ne viene coinvolto tutto il metabolismo, il sistema immunitario e le funzioni degli organi e si vanno a instaurare svariate malattie fisiche.

A seconda del punto del corpo che duole, esiste una risposta emotiva, e il dolore è curabile individuando la situazione o i sentimenti che ci bloccano. Un dolore al collo rispecchia quello che non diciamo, un dolore alle caviglie invece rappresenta la voglia di andare avanti o il desiderio di sfuggire alla realtà, un dolore allo stomaco è il classico sintomo del non “digerire” le situazioni che viviamo e la rabbia.

Se il dolore si manifesta sulla schiena di solito è legato alle preoccupazioni economiche o anche alla sensazione di mancanza di aiuto da parte di qualcuno, se il dolore si diffonde sulla parte alte della schiena e sulle spalle è invece sintomo di un lavoro che per noi è “troppo” pesante, di incarichi onerosi che non ci spettano.
Comprendere i doni ed i poteri nascosti dentro di te

Illumina il Tuo Lato Oscuro è un libro straordinario in cui Debbie Ford, famosa co-autrice di The Shadow Effect, ti invita a comprendere i doni e i poteri nascosti dentro di te: tutto l’amore e gli strumenti di cui hai bisogno saranno a tua disposizione una volta che ti sarai impegnato ad attraversare l’oscurità per entrare nella luce del tuo essere più magnifico.


Riprendi il tuo potere, la creatività, i sogni e la grandezza

Riconosci il tuo lato oscuro e impara ad amarlo, fallo diventare parte della tua vita e smetterai di soffrire, di nasconderti a te stesso e al resto del mondo.


Il sentiero verso l’illuminazione non comprende solo la ricerca del divino, ma anche la totale accettazione dell’ombra stessa: in questo suo profondo libro, Debbie Ford delinea in modo sistematico i passi che portano all’integrità e alla trasformazione.
Deepak Chopra, M.D., autore di Le sette leggi spirituali del successo

Devi imparare ad accettare che in te può esserci il santo e il cinico, il divino e il diabolico, il coraggioso e il codardo e che – spesso – desideri reprimere certi atteggiamenti, pensieri, comportamenti e sentimenti perché non sono ben accetti nell’ambiente in cui vivi.

Attraverso storie illuminanti ed esercitazioni pratiche, l’autrice mostra come riconciliarti con i tuoi impulsi più oscuri, trovare i doni che offrono e recuperare la tua interezza. Solo se riesci ad abbracciare ogni aspetto di te stesso puoi vivere in armonia e lasciare che la tua luce risplenda.
La psicosomatica della pelle

Lo stato della pelle è spesso spia di uno stato psicologico più o meno in equilibrio. Dalle prime fondamentali intuizioni di Anzieu qualche decennio fa, la psicosomatica è ormai diventata una scienza e la pelle uno dei suoi campi privilegiati di osservazione e di studio.

Il libro di Anna Zanardi, Psicosomatica della Pelle, è un viaggio nelle mille patologie della pelle analizzate alla luce delle ultime scoperte della psicosomatica. Traumi, ricordi dolorosi, alterazioni dell’equilibrio e del benessere interno, si traducono immediatamente in patologie specifiche a danno della pelle, nella quale viene “scritto”, a volte in maniera eloquente per uno specialista, il nostro passato: la pelle come uno specchio nel quale guardare al fondo di se stessi. Da questa convinzione nasce anche un rivoluzionario metodo terapeutico. Non più soltanto cure e trattamenti superficiali, ma l’occasione per trasformare la patologia della pelle in strumento per capire se stessi. E per imparare a stare meglio, ritrovare l’indispensabile equilibrio tra corpo e psiche. In altre parole, guarire.
La via della guarigione

Moltissimi specialisti hanno determinato e dimostrato ampiamente la relazione tra stato emozionale e disturbi del corpo. E’ quindi necessario prendere una certa coscienza in modo da seguire consapevolmente la cura più efficace per noi, ovviamente affiancata ad un percorso medico.

La guarigione inizia dalla nostra voglia di capire perché ci siamo ammalati e dalla forza di volontà nell’intraprendere un nuovo percorso di guarigione.

via Crescita Spirituale

Dal Sito: aprilamente

lunedì 25 febbraio 2019

Ansia o depressione? Distinguerle è fondamentale

Una persona su 5 soffre nel corso della sua vita di un disturbo dello stato d'animo. È importante sapere da cosa è affetta per poterla trattare adeguatamente curandola


Le depressioni e i disturbi d’ansia sono da alcuni decenni al centro del dibattito generale. La loro diffusione è notevole e in costante aumento, e si sa che una persona su cinque presenterà nel corso della vita un disturbo dello stato d’animo. Nei pazienti affetti da qualche patologia medica, si presenta nel 10-20% dei casi, con percentuali più elevate in caso di certe malattie, come quelle cardiovascolari, oncologiche o neurologiche.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che la depressione unipolare sarà la seconda causa di disabilità nel 2020. Un altro aspetto importante è che è sempre più chiara la sua influenza negativa nell’evoluzione di patologie fisiche, essendosi dimostrato che i pazienti depressivi hanno una mortalità (non solo attribuibile al suicidio) superiore a quella della popolazione in generale.

La depressione, un’epidemia sociale

I disturbi depressivi raggiungono un’incidenza annuale vicina al 5% della popolazione, con una prevalenza per tutta la via del 15%. L’età media dell’inizio della depressione nei vari studi si colloca per entrambi i sessi intorno ai 30 anni.

Tra i fattori socio-demografici spicca il sesso, essendo la prevalenza per i disturbi depressivi il doppio nella donna rispetto all’uomo, almeno nelle età medie. Il rischio di cronicità è superiore nella donna. Le differenze tra i sessi non hanno una causa chiara, ma intervengono senz’altro fattori socio-culturali (maggiore espressione di problematiche psichiche nella donna, doveri domestici e familiari) e biologici (ormonali). I separati e divorziati sono più inclini a soffrire di disturbi depressivi. Un’ampia rete di sostegno sociale sembra poi essere un chiaro fattore di protezione dalla depressione.

La depressione è un disturbo emotivo caratterizzato fondamentalmente da alterazioni dell’umore, tristezza, diminuzione dell’autostima, inibizione, affaticamento, insonnia, pensieri negativi, e ha come conseguenza la diminuzione dell’attività viale, ovvero impedisce di svolgere normalmente le attività della vita quotidiana.

La depressione e l’ansia sono considerate entità autonome nelle varie classificazioni diagnostiche attuali, ma nella pratica clinica spesso coesistono. La distinzione di questi quadri non è facile, visto che entrambi comportano disturbi del sonno, alterazioni dell’appetito, deficit di attenzione e concentrazione, stanchezza, astenia e irritabilità.

La depressione dello stato d’animo varia poco da un giorno all’altro, e in genere non risponde ai cambiamenti ambientali. Per questo, per la diagnosi di episodio depressivo è richiesta una durata di almeno due settimane, anche se si possono accettare periodi più brevi se i sintomi sono eccezionalmente gravi o hanno un brusco inizio.

Si raccomanda sempre di ricorrere a esperti in materia quando nella propria vita si percepiscono irregolarità emotive fuori dal comune, tenendo presente che la famiglia, gli amici e gli affetti sinceri sono rimedi molto efficaci nella cura di questa disfunzione.


Dal Sito: aleteia.org

Gli attacchi di panico

Quando meno ce lo aspettiamo, l’attacco di panico prorompe come uno tsunami dal nostro inconscio per inviarci un’infinità di segnali, per troppo tempo sopiti dalla nostra coscienza, così grande da farci provare un forte senso di angoscia e di confusione, tale da sconvolgerci anche a livello corporeo. Questa energia si scatena perché l’abbiamo tenuta troppo a tacere dentro di noi, allontanandoci dall’autentica fonte del nostro essere e, in tal modo, falsificando la nostra stessa esistenza. Col panico, il nostro inconscio si sta ribellando alla vita che ci sentiamo costretti a vivere, magari strutturata all’interno di un insieme di costrutti troppo rigidi ed ingessati, senza che noi ce ne accorgiamo minimamente. Spesso, quando tutto sembra essere perfetto nella nostra vita, arriva il panico per segnalarci che è arrivato il momento di cambiare rotta, anche se ci sentiamo impossibilitati a farlo, non trovando una via di uscita. Il panico arriva per segnalarci che il creativo che c’è in noi è sepolto, non ha più voce in capitolo, così ci siamo arenati in una secca della nostra esistenza in cui non c’è spazio per una libera navigazione sia dentro, che fuori di noi. Con un lavoro psicoterapico ci si inoltra nel nostro mondo interno, alla scoperta della nostra parte generativa. Tuttavia, per scoprire un nuovo mare interiore, dobbiamo anche scoprire dei nuovi modi di navigare, quindi dobbiamo anche riuscire, con l’aiuto dello psicoterapeuta, a trasformare il nostro rapporto con i nostri vecchi “capitani interni” che ci hanno sempre fatto da guida, senza che noi ce ne siamo accorti per nulla. Ecco perché, in un lavoro analitico, si ripercorre il passato, cercando di riattraversare il rapporto con le nostre figure di riferimento e cercando anche di fare riemergere determinate immagini o determinati aspetti relazionali che si sono sedimentati profondamente dentro di noi e che hanno contribuito a costruire nella nostra personalità una bussola che mira verso una direzione univoca e, per questo, paralizzante. Come si può intuire, il panico è allora una spinta potenzialmente sana che ci invita a ristabilire un contatto salutare col nostro mondo interiore, quindi ci stimola alla vita ed alla trasformazione sana della vita stessa, una trasformazione che non sia solo di superficie, ma di sostanza, affinché si realizzi la vera persona che c’è in ognuno di noi. 


Fabio Settipani. Psicologo - Psicoterapeuta

Dal Sito: alquamah.it 

La vita è troppo breve per sprecarla tra problemi e angosce, per stare male per gli altri

Il mio consiglio: fate ciò che desiderate, purché non svilisca o ferisca qualcuno.

È un vostro diritto e se qualcosa vi rende felice, fatela.

Non perdete tempo, non limitate la vostra vita o, peggio, non preoccupatevi di ciò che gli altri fanno o non fanno.

Sempre, quando mi sveglio prego.

La mia non è una vera e propria preghiera religiosa, ma una sorta di riflessione che esprime la mia gratitudine per le persone che sono nella mia vita, per i beni materiali che possiedo, per le situazioni che vivo durante la mia esistenza (quelle positive e anche quelle che inizialmente reputo negative) …

Capisco che le riflessioni sui nostri limiti e il nostro potenziale sono estremamente importanti per evolvere come esseri umani.

Ho imparato che la morte è una condizione dell’esistenza fondamentale.

Ho assistito alla nascita di molte persone, ma ne ho già perso molte altre.
Persone importanti (e lo sono tuttora) per me.

Imparare a rassegnarmi all’inevitabilità della morte è stato essenziale per sviluppare una certa capacità di recupero.

Trovando questa sorta di conforto per una perdita, mi sono resa conto di quanto sia limitata la nostra esistenza nelle sue caratteristiche biologiche.

Ogni essere umano è soggetto a sviluppare qualche malattia, a subire un incidente, a perdere qualcuno o a perdere la stessa vita.

Indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, politiche o economiche, tutti gli umani hanno questo aspetto in comune.

Dal momento in cui veniamo al mondo, la nostra unica certezza è che un giorno ce ne andremo (sembra essere un cliché, ma è la pura e “dura” verità).

Non ho una visione nichilista della vita, è una visione di comprensione e accettazione dei fatti esistenziali che credo dovremmo interpretare positivamente.

Sapere che tutti gli esseri umani sulla Terra non sono eterni deve risvegliarci la sete di vivere.

Vivere ogni secondo come se fosse unico, l’ultimo e non il contrario.

Pensare che ogni momento che viviamo è unico e fugace, ci insegna a dar valore alle piccole cose della vita.

Quei momenti in cui ci divertiamo mangiando un gelato con un amico, quella conversazione così interessante con il tuo vicino, quella dura giornata al lavoro seguita dalla lunga doccia rilassante ….

Il momento in cui riceviamo una bella notizia insperata, quando non vedi l’ora di uscire a festeggiare con i tuoi amici…

Il momento in cui siamo sul bus e mettiamo gli auricolari per ascoltare della buona musica, quello in cui ammiriamo il paesaggio fuori dal finestrino…

Sono tutti momenti unici, una pioggia di emozioni, di amore e di felicità.
Momenti che dovremmo apprezzare.

La vita è troppo breve per perdere tempo preoccupandosi di cose così meschine come l’egoismo, l’orgoglio o la paura del giudizio sociale.

Non fraintendetemi, ma quando voglio andare al panificio in pigiama e pantofole, ci vado.

Non fraintendetemi, ma quando ho voglia di camminare per strada cantando, lo faccio.

Non fraintendetemi , ma se voglio mandare 1000 messaggi a qualcuno solo per dirgli che mi manca, li mandi.

Non fraintendetemi, ma quando suona la mia musica preferita, inizio a ballare ovunque mi trovi.

Non fraintendetemi, ma sono nata per vivere e voglio comportarmi da essere umano vivo.

Non perdiamo tempo prezioso facendoci condizionare da sentimenti meschini, partecipando a pettegolezzi, stagnando nella negatività.

Lasciamo che la nostra luce interiore emani compassione e gioia.

Quando siamo felici rendiamo la vita delle persone intorno a noi, più felice e più luminosa.

Privilegiamo la compagnia di coloro che arricchiscono la nostra anima e, soprattutto, che apprezzano i piccoli momenti che rendono eterna l’ esistenza.

Non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo rendere migliore il nostro piccolo spazio qui sulla Terra.

Possiamo rendere la nostra vita più intensa, più semplice, sempre degna di essere vissuta!


Dal Sito: giornodopogiorno.org

Ansia: mille facce dello stesso disturbo


Ansia e società

L’ansia è una condizione molto diffusa e negli ultimi decenni le persone che ne soffrono sono in netto aumento, in relazione ai ritmi che la società ci impone per restare al passo con gli impegni quotidiani.

Quando parliamo con i nonni sembra che la non conoscano, tanto che credono bonariamente di risolvere con una camomilla e una carezza o con una lavata di testa per dare la spinta a superare le inutili paure.

Le generazioni precedenti avevano la certezza che il mestiere imparato da giovani sarebbe stato il lavoro di tutta la vita; dal punto di vista affettivo le famiglie erano numerose e si costruivano reti di protezione salde.

La generazione attuale si definisce “liquida” proprio per le incertezze economiche e le fragilità delle relazioni e questa instabilità innesca una serie di reazioni psicofisiche che sul lungo termine possono alterare il nostro benessere.

Cos’è l’ansia

Il termine deriva dal latino e significa «stretto» ed è questa la sensazione principale: costrizione, affanno, angoscia.

Spesso la si confonde con la paura e si fa un po’ di confusione: l’ansia non è collegata ad un pericolo imminente ma alla previsione di eventi futuri e dalle ipotetiche conseguenze, mentre la paura scatta davanti ad un pericolo immediato e reale.

Paura: si rompono i freni della macchina mentre siamo in auto;

Ansia: tra vent’anni potrei essere talmente vecchio da restare solo.

I sintomi fisici sono quelli di un grosso allarme, per cui l’organismo mette in atto tutti i parametri fisiologici della fuga: blocco del respiro per mantenere i muscoli tesi, aumento del battito cardiaco per apportare sangue ai tessuti, sudorazione come conseguenza della vasodilatazione causata dal battito accelerato, tremore per la troppa tensione muscolare, disturbi del sonno per la secrezione di adrenalina, bruciori di stomaco e crisi intestinali per gli spasmi muscolari, emicrania.

Un circolo vizioso che si autoalimenta in un crescere di ipotesi: infarto, asma, ictus, pazzia.

Non solo ansia

I sintomi su elencati trasmettono al cervello che sta per succedere qualcosa di grave. Tuttavia, non essendoci reale pericolo, la mente cerca di dare una spiegazione logica ed è qui che l’ansia si traveste in mille modi: un malessere capace di cambiare abito di scena, aumentando ancor di più la paura perché non lo si riconosce.

-«Sono malato, avrò qualcosa di grave e devo fare tutti gli esami medici possibili»: disturbo d’ansia che si manifesta in ipocondria;

-«Penso e ripenso alla stessa cosa per trovare possibili soluzioni»: disturbo d’ansia che si manifesta in ossessione dei pensieri;

-«Ho un senso di vuoto mentale, calo di energia»: disturbo d’ansia che si manifesta in umore basso;

-«Mio figlio può farsi male, i genitori possono morire, io sono solo al mondo»: disturbo d’ansia che si manifesta in pensieri negativi;

-«A volte mi sento staccata dal corpo»: disturbo d’ansia che si manifesta con l’alterazione delle percezioni.

Alla base i sintomi sono sempre gli stessi: allarme e pericolo con attivazione di corpo e mente.

Cosa fare

Innanzitutto imparare a capire che l’ansia attiva la risposta del nostro organismo e non lo fa a caso: si tratta di un campanello d’allarme e ci sta dicendo che qualcosa non va come desideriamo, che forse la vita che conduciamo è frenetica o troppo ristretta, il lavoro non ci gratifica, il partner non è quello giusto e cosi via.

Il secondo passo da fare è prendere consapevolezza del nostro corpo, dopo tutti gli esami medici del caso ed escluse patologie organiche, comprendere come si manifesta il disturbo e appunto le molte facce che assume a seconda delle interpretazioni che il cervello ne da.

Volerne uscire da soli è un’ulteriore fatica. Sarebbe il caso di affidarsi ad uno specialista che possa prendere la nostra storia e leggerla insieme a noi per capire cosa non funziona, lavorando sul respiro e l’allentamento dei muscoli e staccare la spina.

Dott.ssa Sabrina Rodogno

Dal Sito: ilcorrieredellacitta.com

Quello che non dici si trasforma in dolore, malattia, sofferenza - Quando l’anima tace, il corpo paga

Non è mai semplice, ed è giusto sia così, affrontare il tema della malattia e della sofferenza in maniera banale.

Troppe sono le persone che hanno patito o patiscono per problematiche diverse e che non possono essere liquidate con affermazioni semplicistiche.

Se questo è vero e deve pertanto essere un punto di partenza, può però essere utile cercare di indagare il nesso presente tra un disturbo fisico e il malessere emotivo.

Diverse filosofie e filoni di pensiero hanno studiato ed espresso il proprio parere in merito.

Uno dei più antichi, quello della Qabbalah ebraica, dice:
“La tristezza chiude le porte del paradiso, la preghiera le apre, la gioia le abbatte.”

Se persino la moderna scienza medica ammette una connessione tra emozioni, pensiero, esperienza, è opportuno allora capire come possono crearsi squilibri, a livello fisico, quando i nostri pensieri ed il nostro stato d’animo imboccano e permangono in situazioni piene di negatività e malessere.

Se un problema gastrico può originare o aggravarsi per l’impossibilità a digerire determinate cose, a riuscire a metabolizzare certi eventi, così come problemi alla schiena possono acuirsi con il peggioramento delle condizioni economiche e la sensazione di mancanza di supporto, risulta evidente la relazione corpo, mente e psiche.

È innegabile che la nostra vita sia il riflesso, lo specchio della nostra condizione mentale.

Quando c’è equilibrio, pace, serenità, anche laddove gli eventi sembrano non volgere secondo i propri desideri, non si genera un nemico invisibile, subdolo: il rancore e il risentimento.

Un recente studio della Concordia University di Montreal ha evidenziato come un persistente stato di rancore ed insoddisfazione può incidere in maniera importante sulla salute fisica di una persona.

Quando nutrito per lungo tempo, il rancore può produrre diverse alterazioni biologiche, influenzare il metabolismo ed originare così stati di squilibrio che facilitano l’insorgere di malattie.

Forse non è un caso, allora, che l’antica preghiera ebraica usava, e lo fa tuttora, utilizzare dei piccoli filamenti con un astuccio appoggiati sulla fronte e legati dietro la nuca, con lo scopo preciso di connettere, legare i lobi frontali, sede del pensiero razionale con la nuca, la parte ove risiede l’amigdala, il posto delle emozioni primordiali e dove risiedono le nostre paure e le nostra emozioni più nascoste.

È fondamentale capire la connessione esistente tra emozioni, esperienze e capacità di azione del pensiero.

Se questo filtro viene a mancare, e quindi non risulta più possibile contrastare il flusso impetuoso della parte più segreta e nascosta della nostra psiche, ecco che la qualità delle nostre emozioni diventa l’ago della bilancia anche del nostro stato di salute.

Tenere tutto dentro se stessi, non avere confronti con qualcuno, rimuginare di continuo sulla propria condizione, soprattutto quando non brillante, significa alimentare quella condizione di base che incide anche sul sistema immunitario e sulla nostra naturale capacità di risposta alla malattia.

Dare voce quindi alle nostre emozioni, alle paure, ai disagi è fondamentale per la nostra salute fisica ed emotiva.
È un modo per volerci bene.

Dal Sito: giornodopogiorno.org

Vittimismo cronico: persone infelici che sanno solo lamentarsi e incolpare gli altri

Qualsiasi persona, in una particolare situazione della sua vita, ha dovuto assumere il ruolo della vittima. Il più delle volte, questo ruolo è assunto in base a fatti oggettivi che giustificano il fatto che potremmo sentirci più vulnerabili o indifesi.

Il vittimismo come personalità

Tuttavia, ci sono persone che mostrano di essere una vittima cronica: sono in uno stato permanente di lamentele e lamenti infondati. Questi individui si nascondono dietro il vittimismo, anche se alcuni di loro adottano questo atteggiamento inconsciamente. In questo modo si liberano da ogni responsabilità delle loro azioni e incolpano gli altri su ciò che accade.

Mantenuto per un lungo periodo di tempo, questo tipo di atteggiamento viene chiamato “vittimismo cronico” e può essere un vero e proprio disturbo di personalità. Questo accade perché la persona incolpa continuamente gli altri per le cose brutte che gli capitano.

Vittimismo e pessimismo vanno di pari passo

Questo modo di affrontare la vita può portare conseguenze più negative. Una delle conseguenze principali è la visione pessimistica della vita che conduce al vittimismo cronico perché crea un ambiente di disagio e sfiducia per la persona che si lamenta sempre di persone intorno a loro, si sentono trattati ingiustamente.

In molti casi, una persona mostra questa tendenza verso il vittimismo cronico solo per alimentare una serie di cattivi sentimenti, come la rabbia o il risentimento, che possono degenerare in un vittimismo aggressivo. La vittima aggressiva non solo dà la colpa agli altri e si lamenta di tutto, ma può anche adottare un comportamento aggressivo e violento, l’intolleranza e il disprezzo per l’integrità fisica e morale delle persone considerate colpevoli per qualche motivo.

Ma quali tratti della personalità e atteggiamenti ricorrenti hanno queste persone? Andiamo a conoscerli attraverso i seguenti punti.

Deforma sistematicamente la realtà

Le vittime croniche credono sinceramente che tutta la colpa di ciò che accade a loro è colpa delle altre persone; non assumono mai alcuna responsabilità per le loro azioni. Il problema di fondo è che vedono la realtà in modo distorto, con un locus di controllo esterno. Tendono a pensare che i momenti negativi dipendano da cause esterne alla loro volontà.

È anche vero che spesso inconsciamente esagerano in negativo,così tanto da cadere in un forte pessimismo che impedisce loro di vedere le cose positive nella vita.

Il lamento costante li rinforza

Credono che la loro situazione personale sia dovuta alle cattive azioni degli altri e alle circostanze, quindi non si sentono responsabili per tutto ciò che accade loro. Di conseguenza, trascorrono la giornata a lamentarsi, al punto che trovano un importante rinforzo al loro atteggiamento nelle lamentele, assumendo il ruolo di vittime e cercando di attirare l’attenzione su di loro.

Non sono in grado di chiedere aiuto a nessuno, si lamentano solo della loro sfortuna di imbattersi in situazioni indesiderabili. Questa non è altro che una ricerca inconscia di attenzione e protagonismo.

Il loro obiettivo è trovare colpevoli

Lo stato di vittima permanente è anche molto associato a un atteggiamento diffidente. Credono che gli altri siano sempre mossi dai propri interessi e agiscano in malafede contro di loro. Per questo motivo ispezionano al millimetro ogni dettaglio o gesto delle persone che li circondano cercando di scoprire qualche rimostranza, per quanto piccola o inesistente, per rafforzarsi nel loro ruolo di vittime.

Il ricatto emotivo è l’ultima delle strategie più utilizzate dalle vittime croniche. Quando conoscono bene le virtù e i difetti del loro “avversario”, non esitano a manipolare le loro emozioni per cercare di farla franca e mostrarsi vittima. Le vittime croniche hanno una grande capacità di riconoscere le emozioni e usano i dubbi e le debolezze delle altre persone a proprio vantaggio.

Dal Sito: leperlemigliori.com

giovedì 21 febbraio 2019

Si chiama stanchezza emotiva ed è la peggiore che esista

Viene chiamata stanchezza emotiva ed è la peggiore che esista, più pericolosa dell’esaurimento fisico.

È più facile riposare un corpo dolorante che calmare un’anima esausta.

La vita non è mai stata facile, ma sembra che le cose siano peggiorate di recente, almeno un decennio da quanto è possibile apprendere dalle statistiche.

È doverosa una premessa quando si parla di stanchezza o esaurimento emotivo legato alle numerose patologie che connotano questo stato.

Non bisogna confonderlo con il fenomeno chiamato ” Burnout” , ovvero quello stato di sovraccarico emotivo che lascia spazio a fenomeni di vuoto e vero e proprio distacco emozionale.

In questa casistica, sempre secondo le statistiche ufficiali, rientrano quelle persone che svolgono principalmente lavori di contatto in situazioni particolarmente critiche, come ad esempio vigili del fuoco, chirurghi in zone con continue emergenze, assistenti sociali, psichiatri in strutture con pazienti particolarmente difficili.

Professioni definite di aiuto e di contatto nelle quali, causa una prolungata e perdurante fase di stress, si genera quello che viene definito il burnout, cioè un distacco, repentino, del coinvolgimento emotivo che, per paradosso, in situazioni di assoluta emergenza, è un aiuto anche per l’operatore stesso.

Fuori da questi contesti il fenomeno, seppur in forme diverse e per cause che andremo ad esaminare, è comunque presente.

Una ricerca della Michigan State University ha addirittura esaminato le relazioni tra forme di esaurimento emotivo e atteggiamenti durante le ore di lavoro in normali uffici.

L’indagine ha coinvolto 125 impiegati di cinque compagnie operanti nel settore dell’informatica che sono stati seguiti per tre settimane con 4 monitoraggi quotidiani.

L’indagine aveva lo scopo di misurare i cali di concentrazione e di rendimento causati da problematiche esterne, sia di tipo familiare, ma anche di natura personale come spostamento dell’orario della palestra piuttosto che l’anticipo del massaggio pomeridiano.

Questioni cioè profondamente differenti dall’attivita di un vigile del fuoco che lotta contro il tempo per salvare vite umane.

Da quanto emerge, lo stress e le reazioni sembrano coincidere. Un segnale non solo preoccupante, ma indicatore anche della scala dei valori o delle gerarchie che oramai fanno parte del nostro stile di vita.

L’esigenza, diventata regola, di essere ricchi, belli, aitanti e sorridenti, sta producendo questo fenomeno con maggiore frequenza.

Correre come forsennati dall’ufficio alla palestra, dal parrucchiere alla festa di compleanno del figlio dove, non si deve essere semplicemente un genitore che festeggia, ma una sorta di star holliwoodiana in passerella, finisce per esaurire psiche e capacità emotiva.

Non solo diventiamo preoccupati e a volte ossessionati di ciò che è là fuori, ma dimentichiamo di ascoltare il ritmo della nostra anima, del nostro cuore.

Perché, e questo è il punto sul quale riflettere.
Pare che cuore e anima siano come passati di moda, vestigia medievali dove un sorriso ed un abbraccio valevano oro.

Occorre allora una pausa, soprattutto una riflessione. Non solo per dare tregua alla psiche ed al vortice di aspettative ed emozioni, ma soprattutto per capire se questo modo di vivere sia non solamente quello più sano ma, anche quello più giusto.

Più dignitoso, più umano.

Dal Sito: giornodopogiorno.org

Le persone altamente sensibili

Spesso hanno la difficoltà a lasciare scorrere via i pensieri e le emozioni negative, provano molto frequentemente stati di tensione o ansia; tendono ad essere eccessivamente critici con se stessi e temono il rifiuto.

Come spesso accade, scrivo i miei articoli su suggerimento e su richiesta specifiche. In questo caso mi è stato chiesto di porre l’attenzione su un argomento molto dibattuto, le persone altamente sensibili.

Prima di tutto, chi sono? “sono soggetti più introversi degli altri, amano stare da soli e grazie alla loro capacità di captare sfumature e sottigliezze che gli altri non avvertono, le persone altamente sensibili spesso apportano al loro lavoro e alle relazioni una visione ottimista e tanta umanità. Di solito sono coscienti, creativi e minuziosi, ma in una cultura aggressiva, i cui valori di base sono la durezza, l’estroversione e la repressione delle emozioni più delicate, possono sentirsi come cittadini di seconda classe. A volte si lasciano coinvolgere talmente tanto e captano con tale intensità il senso di ciò che succede attorno a loro, che hanno bisogno di staccare la spina e di isolarsi in misura maggiore rispetto alle altre persone “ ( definizione di Elaine Aron, studiosa dei soggetti altamente sensibili).

Le Persone Altamente Sensibili di solito sembrano rientrare in un determinato stereotipo, sono dotate di intuito e grande empatia. Sembrano godere della solitudine, ma allo stesso tempo mostrano una grande connessione emotiva con gli altri. Le Persone Altamente Sensibili mantengono una visione della realtà molto più sensata rispetto a tutte le altre persone, infatti interiorizzano aspetti a cui la gente sprovvista di grande sensibilità non presta la minima attenzione.

Quali sono le caratteristiche delle persone altamente sensibili?

Sono persone molto intuitive, hanno la capacità di leggere tra le righe ciò che sta succedendo, nonostante non ci sia di base nulla a sostenere tali ipotesi. Percepiscono i dettagli con facilità, sono emotivamente molto perspicaci. Sono molto empatici e possegono grande abilità nello stabilire relazioni con gli altri. Sono soggetti che sono capaci di trasmettere sentimenti facilmente, provano emozioni forti e le trasmettono. Stanno bene anche da soli, sono persone più introverse rispetto agli altri, perché a causa della loro ipersensibilità, è probabile che l’ambiente che li circonda venga percepito come più complicato e difficile da affrontare. Sono generosi, aiutano molto gli altri e spesso si trovano a porre gli altri prima di se stessi. Per la loro sensibilità, piangono e ridono con facilità, oltre che ad essere pensatori attenti, a volte fin troppo introspettivi, che si pongono dubbi e si mettono molto in discussione.

Sebbene ci siano molti aspetti positivi nell’essere una persona sensibile, ci sono anche tratti che influenzano negativamente la salute, la felicità, il successo, e che spesso complicano le relazioni interpersonali. Nello specifico, le persone altamente sensibili spesso hanno la difficoltà a lasciare scorrere via i pensieri e le emozioni negative, provano molto frequentemente stati di tensione o ansia; tendono ad essere eccessivamente critici con se stessi quando non si sentono all’altezza delle proprie aspettative; temono il rifiuto, anche in situazioni relativamente poco importanti; hanno la tendenza a confrontarsi con gli altri per essere rassicurati, provando spesso rabbia per le situazioni della vita che sembrano ingiuste, irritanti o fastidiose. Nei confronti dell’ ”altro” questi soggetti si preoccupano continuamente di ciò che gli altri stanno pensando e si sentono frequentemente feriti dagli altri. Per timore, nascondono spesso i propri sentimenti negativi, tenendo dentro di sé la gran parte delle emozioni negative. Fanno inoltre fatica a gestire i risconti negativi dati dagli altri, anche se tali potrebbero essere costruttivi, sentendosi spesso in difficoltà nelle relazioni, preoccupandosi eccessivamente dell' approvazione altrui.

In conclusione, sperando di aver risposto al quesito di chi sono le persone altamente sensibili concludo con una riflessione: per coloro che vivono, lavorano o hanno a che fare con individui altamente sensibili, sono necessarie attitudini comunicative efficaci per favorire relazioni positive e costruttive. Queste persone, uniche e irripetibili come ciascuno di noi, sono persone più fragili che necessitano di essere ascoltate, sentite nelle loro emozioni ed accudire.


D.ssa Ernestina Fiore Psicologa Psicoterapeuta

Dal Sito: targatocn.it 


Psicologia: paura di restare soli per 7 italiani su 10

Sette italiani su dieci hanno paura di rimanere soli. Ecco cosa emerge da un nuovo sondaggio.


Avete paura di rimanere soli? Purtroppo si tratta di una sensazione comune a sette italiani su 10. Per la maggior parte delle persone è molto importante avere una relazione, purché non sia a distanza, in quanto considerata “troppo difficile da gestire”. A renderlo noto è il nuovo sondaggio recentemente condotto da Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico), che ha preso in esame un campione di circa 700 uomini e donne tra 18 e 60 anni di età.

Gli esperti spiegano che al giorno d’oggi le relazioni (in generale, e non solo quelle di coppia) sono sempre più dominate da un certo grado di “esasperazione per l'apparenza e l'esteriorità”. 

Le relazioni, anche quelle che dovrebbero essere profonde e radicate, stanno subendo dei cambiamenti e stanno diventando sempre più superficiali. Questo scenario spesso terrorizza le coppie, sempre più distanti e schiacciate da ritmi e pressioni insostenibili, con l'eventualità di una rottura. Il troppo lavoro, i rapporti a distanza, la cura dei figli, sono solo alcuni dei possibili pesi che possono mettere alla prova una relazione. Un rapporto che ha sempre meno tempo per sé. In più oggi lo stare soli spaventa più di ieri poiché, dominati dall'incertezza, avere qualcuno accanto assume un significato di maggiore stabilità.


Dal sondaggio è emerso dunque che il 76% dei partecipanti ha paura di restare solo, il 68% ha difficoltà a vivere un rapporto a distanza, il 74% ritiene molto importante avere una relazione e il 64% si sente molto a disagio durante la sera di San Valentino.

Dal Sito: benessereblog.it


lunedì 18 febbraio 2019

PERCHÉ LA FOBIA SOCIALE È IL MALE DEL NOSTRO TEMPO

La malattia mentale e i disturbi della personalità sono diventati in meno di un secolo la vera emergenza sanitaria del pianeta, soprattutto nei Paesi industrializzati. Secondo un report dell’Organizzazione mondiale della sanità, entro il 2030 la depressione sarà la malattia più diffusa a livello globale, davanti a cancro e patologie cardiocircolatorie. In Italia, terra diffidente e scettica, l’accettazione della malattia mentale risulta il più duro degli ostacoli, e spesso si tende a sottovalutare i campanelli d’allarme senza consultare uno specialista. Così i genitori possono scambiare la depressione del figlio adolescente per una banale malinconia tipica di un’”età difficile”, o un bipolare può pensare di essere semplicemente “un po’ lunatico” e in preda a sbalzi d’umore. In tanti pensano di essere solo molto timidi, e ignorano di essere vittima di un disturbo noto in psichiatria come fobia sociale. 

I tanti che si affidano all’autodiagnosi per via della paura di farsi visitare da un professionista contribuiscono a generare difficoltà nella raccolta di dati certi sul numero di persone alle prese con la fobia sociale. Secondo gli studi più attendibili, in Italia la percentuale di persone che ne soffre varia tra il 3% e il 13%, una forbice dovuta al sottobosco di patologie non rilevate, casi non analizzati e persone che ignorano il disturbo. Un sociofobico si sente a disagio nel relazionarsi con gli altri, nel parlare faccia a faccia, nel mangiare se osservato, nel fare qualcosa davanti a un pubblico che potrebbe giudicarlo. La patologia e i suoi sintomi sono influenzati dal giudizio che si ha di se stessi, in grado di provocare ansia, attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi e depressione.

Quando si parla di fobia sociale, il manifestarsi dei sintomi è anticipato da quella che viene chiamata ansia anticipatoria: il sociofobico cade in preda all’ansia o al panico ancora prima di uscire di casa. Se ha un appuntamento di lavoro, ad esempio, l’ansia anticipatoria può presentarsi giorni prima, ingigantendo le paure del sociofobico fino a portarlo in uno stato di blocco. Dopo l’evento traumatico scatta l’evitamento, un meccanismo messo in campo per evitare di doversi ritrovare nuovamente in una condizione di ansia ancicipatoria, che porta chi soffre di fobia sociale a procrastinare all’infinito, cercando un escamotage per scongiurare un’altra situazione percepita come pericolosa o dolorosa. Nei casi più gravi l’evitamento può portare alla chiusura sociale. Evitare di esporsi a determinate situazioni significa fuggire dall’incubo delle reazioni incontrollate, come arrossire, balbettare, tremare o sudare. Nascondendosi dalla società, il sociofobico si allontana da quel processo che lo porta a sentirsi continuamente sotto esame, permettendogli di raggiungere una sensazione di protezione assoluta. Questo però, lo porta a rinunciare ai rapporti sentimentali, lavorativi e di amicizia, sostituiti con un palliativo, spesso trovato nel mondo virtuale.  



L’illusione di creare una second life attraverso Internet e i social network non risolve il problema, ma ne allontana le conseguenze. Dietro uno schermo si annullano quelle condizioni che scatenano l’ansia del sociofobico: viene annullato il contatto visivo, c’è una latenza nel botta e rispostadella conversazione scritta che consente di valutare le parole da usare, e soprattutto le sue reazioni non vengono percepite dall’interlocutore. La barriera dello schermo del cellulare o del computer permette di instaurare rapporti con una sicurezza del tutto inedita rispetto alla vita reale, sviluppando un’immagine di sé stessi non vincolata ai propri limiti e alla realtà. È la simulazione di un’esistenza, la proiezione di quello che si vorrebbe essere e non si è, ma allo stesso tempo le conseguenze emotive sono reali: è possibile provare gioia ed empatia, innamorarsi, confrontarsi in rete con persone afflitte dallo stesso disturbo.

Per il sociofobico, abituarsi ai crismi della conversazione online è un modo per evitare i rapporti reali, ma finisce per ingigantire le difficoltà da cui vuole scappare. Chiudersi nel proprio guscio, rinunciando al contatto con il mondo, mettendosi al riparo dagli agenti esterni, è la condanna che si autoinfligge il sociofobico, spesso male interpretata da chi non conosce questa patologia. Un errore comune è il parallelismo tra sociofobico e sociopatico, due termini estremamente diversi ma spesso trattati come sinonimi. Un sociopatico nutre disprezzo per gli obblighi sociali, è insensibile ai sentimenti degli altri fino a rasentare la misantropia, incolpa il prossimo dei suoi problemi, vive in conflitto con il mondo esterno ed è refrattario a qualsiasi norma legata alla collettività. Un sociofobico, invece, conosce bene le norme sociali e ne è intimorito; non prova odio per gli altri ma per sé stesso in relazione alla sua incapacità di rapportarsi con loro. Entrambi i disturbi possono spingere all’autoesilio dalla società, ma le cause scatenanti sono diverse. Un sociofobico che scappa dalla società non è l’uomo che Ernst Jünger, nel suo Trattato del ribelle, chiama Der Waldgang, ovvero colui che si ritira nella selva per opporre una resistenza spirituale al cinismo del mondo. Semmai fugge dalle sue paure perché non è in grado di affrontarle, e quindi fugge da sé stesso.

La sociofobia potrebbe riguardare il 10% della popolazione italiana, ma gli studi sul disturbo sono ancora limitati e spesso contraddittori. Uno di questi, pubblicatodall’Università svedese di Uppsala su Jama Psychiatry, ribalta le teorie precedentemente elaborate. Si pensava infatti che la carenza di serotonina fosse una delle cause scatenanti della fobia sociale, innescata da un processo chimico molto simile a quello della depressione. La ricerca ha invece messo in luce come i malati di fobia sociale producano troppa serotonina nell’amigdala, la ghiandola del cervello collegata alle emozioni e alla paura. La scienza è alle prese con un disturbo relativamente giovane e sconosciuto, esploso con l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni e il suo impatto sulla società. 

L’assenza di un protocollo medico ufficiale per la fobia sociale, si traduce in una scarsa uniformità nella diagnosi e nella tolleranza del disturbo. Nella cultura orientale, l’isolamento è accettato in diverse sue forme, tanto che il manuale Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (testo di riferimento della comunità psichiatrica mondiale) è stato aggiornato di recente per evidenziare come la fobia sociale venga diagnosticata con minor frequenza nei pazienti dell’Asia orientale. Alla base di questa distinzione c’è un una differenza tra le due culture: nel mondo occidentale l’imbarazzo o la vergogna sono percepiti in modo diverso rispetto a quello orientale, in cui vengono interpretati come segni di rispetto e dignità sociale. Nella cultura tradizionale orientale, isolarsi dal mondo non è considerato un’anomalia, anche se i numeri di questo fenomeno hanno messo le autorità in allarme, soprattutto in Giappone. Per queste ragioni, è sbagliato esportare nel mondo occidentale fenomeni che non ci appartengono: quando si parla di hikikomori, la sua immagine si riduce a una persona che vive davanti al computer, senza mai uscire dalla sua stanza. Una semplificazione evidente anche negli articoli sugli “hikikomoriitaliani”, in cui il fenomeno è descritto come un disturbo generazionale a livello globale. In realtà, il Giappone ha solo anticipato di alcuni anni le problematiche che ora hanno investito anche l’Occidente: una società iper-tecnologica (e in questo il Giappone non è secondo a nessuno), che isola l’individuo e trasforma l’universo virtuale in una gabbia mascherata da valvola di sfogo, creando un esercito di avatar senza nome e senza vita sociale.

Nascondersi dietro uno schermo è il risultato di una società che si autoesclude, di un virus che degenera nella parola social, allontanandosi dal suo significato per diventare anti-social, farmaco e veleno per il sociofobico. Kafka scriveva: “La mia paura è la mia essenza, e probabilmente la parte migliore di me stesso”. Per chi soffre di fobia sociale la paura è un limite. L’unico rimedio è affrontarla con il sostegno di uno specialista, per accettarla e imparare a conviverci senza doverla considerare una debolezza. Forse è la paura, la paura che ci fa tremare e arrossire, l’unica cosa che un giorno ci distinguerà dalle macchine.

DI MATTIA MADONIA

Dal Sito: thevision.com

Attacchi di panico e disturbi d’ansia. 8 frasi che chi ne soffre vorrebbe dire alle persone care

Molte persone hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’attacco di panico. Pochi secondi (o nei peggiori dei casi qualche minuto) possono essere in grado di sconvolgere una persona.

In una scala da 1 a 10 (dove 10 rappresenta le persone con il valore più alto di ansia), una persona con ansia generalizzata potrebbe posizionarsi tra il 5 e il 7, a seconda della sua attuale situazione di vita. Quando una persona supera questo valore fino a raggiungere un 8 o un 9, sperimenta quelli che sono noti come attacchi di panico.

Queste sono esperienze di ansia molto intense, che restano impresse nella memoria per molto tempo. La mente ed il corpo sono assaliti dalla percezione profonda delle paure umane più intense: la malattia, la follia, la morte. Questa esperienza così intensa e negativa raramente lascia le persone indifferenti anche a distanza di tempo. Molte settimane dopo ancora resta la “paura della paura“, che rende difficile la vita quotidiana, e quasi impossibili le attività che un tempo erano molto semplici.

L’attacco di panico inoltre arriva in modo improvviso e comporta non solo sintomi fisici ma anche sensazioni in grado di terrorizzare. Si tratta di sensazioni che le persone che non hanno mai provato un attacco di panico difficilmente possono capire.

Perchè la paura degli attacchi di panico aumenta l’intensità dei sintomi?

Gli attacchi di panico si auto-alimentano per colpa di pensiero di tipo catastrofico del tipo “Questa situazione potrebbe uccidermi” e generalmente includono alcune delle seguenti sensazioni o esperienze:

Dolori al petto

Nausea / crampi allo stomaco

Sensazione di vertigini o instabilità

Sensazione di irrealtà o di estraneità dal proprio corpo

Brividi o vampate di calore

Batticuore

Sensazione di respiro corto o asfissia

Parestesia (torpore o sensazione di formicolio)

Sudorazione

Tremore

Sensazione di soffocamento

Una volta che abbiamo avuto il nostro primo attacco di panico, immediatamente temiamo che capiti di nuovo e iniziamo a evitare le situazioni che potrebbero provocarne uno. La paura della paura entra in gioco, e il loop dell’ansia parte.

I pensieri più comuni tra chi soffre di attacchi di panico

Il noto sito Bored-Panda ha proposto a tutti i suoi lettori che soffrono di attacchi di panico di inviare le frasi che vorrebbero dire ai propri amici, partner e familiari per trasmettere i sentimenti più difficili da condividere. Ecco, tradotte in italiano, quelle più votate:

Non so mai quando verrà a prendermi, ma quando lo farà, per favore, supportami. (Dani H.)

Lo so che a te può apparire del tutto incomprensibile, ma per me è spaventosamente reale. (Page J.)

Lasciami il mio spazio ma, per favore, non dimenticarti di me. (Vickie B.)

Mi dispiace molto rifiutare un invito. Mi dispiace quando la mia ansia la paghi anche tu. (Melissa K.)

Quando non riesco a fare qualcosa nessuno ci soffre più di me, per favore cerca di capirlo. (Lindsey H.)

Soprattutto quando le cose vanno nella maniera migliore io sono sempre in attesa di qualcosa di orribile che potrebbe succedere. (Lindsay B.)

Per favore non dirmi che le cose che mi fanno paura sono sciocche. (Carla E.)

Non ti chiedo di risolvere il problema, ti chiedo di amarmi per come sono. (Carole O.)

La buona notizia però è che  esistono oggi delle strategie cognitivo-comportamentali che possono aiutare chi soffre a superare queste paure. Il primo passo importante verso la guarigione è quello di non sentirsi “strani” o “malati”.

DI ERNESTA-ZANOTTI 

Dal Sito: psicoterapista.it 

Ansia e iperventilazione: ecco cosa fare quando ti manca il respiro

Sei agitato e ti manca il respiro?  Accade perché le condizioni di tensione, stress o ansia influenzano la respirazione, accelerandola. E quando il respiro diventa “troppo rapido”, possono scatenarsi altri sintomi. Ecco i consigli pratici per riconoscerli e imparare a gestire la respirazione.

Sai di quanta aria hai bisogno?

La respirazione è una forma di alimentazione: respiriamo per alimentarci, per immagazzinare il carburante necessario per sopravvivere.

Ma quanta aria ti serve veramente?

In una situazione di normalità, in cui non si è sottoposti a particolari sforzi fisici o stress emotivi, i cicli respiratori sono compresi tra i 10 e i 12 al minuto e permettono di accumulare circa 4 – 6 litri d’aria nei polmoni.

Ansia, stress o panico possono causare un aumento del ritmo respiratorio anche in una condizione di riposo.

Quindi se sei in tensione, il numero dei cicli respiratori supera i 15 al minuto e la quantità di litri d’aria nei polmoni aumenta. Ecco che allora ti “manca il respiro”.

Quando ti manca il respiro: l’iperventilazione

L’aumento del ritmo respiratorio può arrivare fino all’iperventilazione.

È una condizione caratterizzata da un’importante riduzione della quantità di anidride carbonica nel sangue.

Può verificarsi occasionalmente come risposta a situazioni particolarmente ansiogene, oppure come fenomeno frequente scatenato da stress, ansia o depressione.

Quando sei in iperventilazione, indipendentemente dal fattore scatenante, non solo ti manca il respiro, ma provi una sensazione di malessere, simile a quella che sperimenti dopo aver gonfiato rapidamente un palloncino o un materassino da spiaggia.

Può capitare che con l’aumento della respirazione tipico dell’iperventilazione compaiano altri sintomi fisici come ad esempio:

dolori toracici

formicolio agli arti

giramento di testa

nausea

senso di svenimento e di vertigine.

E c’è di più. Spesso sono proprio questi sintomi ad aumentare l’ansia e la sensazione di panico.

Perché se manca il fiato aumenta la sensazione di ansia?

Perché il fiato corto tipico dell’iperventilazione coincide con una respirazione toracica, che sfrutta cioè soltanto la parte alta dei polmoni.

In questa situazione, la quantità di anidride carbonica nel sangue si riduce notevolmente con conseguenze negative sulla circolazione sanguigna e sull’ossigenazione del cervello.

Quando il cervello è poco ossigenatola capacità di concentrarsi e di memorizzare si riduce. Parallelamente, aumentano i livelli di alcuni ormoni specifici he hanno un effetto negativo sullo stato emotivo della persona.

Durante l’iperventilazione si crea un vero e proprio circolo vizioso: l’ansia e il panico aumentano la frequenza del respiro e questa, a sua volta, alimentare ulteriormente ansia e panico.

Allora, che fare?

Esistono delle semplici tecniche che permettono di risintonizzare il respiro e placare l’ansia.

Ti manca il respiro? Ecco cosa può aiutarti

Esiste una tecnica di respirazione semplice e utilizzabile in modo rapido in situazioni differente, che richiede solo l’uso della mani come sistema di rilevamento del modo corretto o scorretto di respirare.

Se ti trovi in una situazione di ansia o panico e ti accorgi di essere in affanno, fai così.

Siediti e appoggia i palmi delle mani uno all’altezza del petto, l’altro all’altezza della pancia.

Se la mano appoggiata sul petto si muove più rapidamente rispetto a quella che si trova sulla pancia, allora i tuoi cicli respiratori sono troppo rapidi.

Sposta il respiro dal torace alla pancia, rallentando il ritmo e monitorando la lunghezza dei cicli respiratori in modo che siano di circa 6 secondi.

Prosegui fino a che la mano sulla pancia si muove più rapidamente di quella sul petto. A questo punto, il respiro sarà tornato regolare.

Questa tecnica respiratoria così semplice e basilare può avere un effetto positivo sull’ansia e sugli altri sintomi associati all’iperventilazione.

Gestire la respirazione: ecco perché è importante

Sono molte, frequenti e inattese le situazioni emotivamente intense in cui il ritmo del nostro respiro si altera, accrescendo la sensazione di ansia.

Ecco perché imparare a concentrarsi sul respiro, ascoltandolo e sintonizzandolo, può avere un effetto importante nel placare il vissuto ansioso e i suoi sintomi fisiologici.

Sappi che non esiste un’unica tecnica respiratoria, ma molte strategie differenti che vengono incontro ai bisogni di ciascuno. Esse non hanno lo scopo di modificare totalmente la nostra respirazione, ma di migliorarla in base alle nostre esigenze.

Dal Sito: vivavoceinstitute.com

Lili Reinhart ha ripreso la terapia contro ansia e depressione con un messaggio di self-love per tutti

Lili Reinhart, sulle sue stories di Instagram ha rivelato di avere ripreso la sua terapia contro ansia e depressione e ha mandato un messaggio di self-love a tutti i suoi follower. God job, Lili.

Lili Reinhart, che nella serie tv Riverdale recita le parti della dolce e tenace Betty Cooper, l'altro giorno sulle stories di Instagram ha rivelato di avere ricominciato la terapia contro l'ansia e la depressione, e, soprattutto, ha ricordato a tutti quanto sia importante chiedere aiuto a qualsiasi età e senza vergognarsi di quello che gli altri potrebbero pensare.

L'attrice ha scritto:

"Promemoria amichevole per chiunque abbia bisogno di ascoltarlo: la terapia non è mai qualcosa di cui vergognarsi. Tutti possono trarre beneficio dal parlare con un terapeuta. Non importa quanti anni si hanno o se si pensa di essere troppo "orgogliosi" [NdR. per chiedere aiuto]".

E ha continuato:

"Siamo tutti umani e lottiamo. Non soffrite in silenzio".

Per concludere ha scritto:

"Non mi sento in imbarazzo a chiedere aiuto. Ho 22 anni, ho ansia e depressione e oggi ho ricominciato la terapia. Per me inizia il viaggio verso l'amore per me stessa".

Da qualche tempo le star stanno puntando i riflettori sui problemi di ansia e depressione che riguardano molte persone e che loro stessi hanno vissuto in prima persona. L'obiettivo per tutti è riuscire ad abbattere i tabù che ancora caratterizzano questi disturbi. Ryan Reynolds ha parlato della sua ansia e di come nel tempo sia cominciando a gestirla anche grazie all'ironia, la sua personale exit strategy. Emma Stone ha rivelato di avere cominciato a recitare per tenere a bada l'ansia. Ghemon, il rapper che si è esibito a Sanremo con Rose Viola, ha apertamente dichiarato di avere sofferto di depressione e di essersi sottoposto a terapia. Ha raccontato questa storia, e molte altre, nel suo libro.

Lili Reinhart ha aggiunto la sua esperienza a quella di altre celeb e ha voluto sottolineare come la terapia debba essere percepita come una normale strada per proseguire verso la ricerca della propria felicità e dell'amore verso se stesse che è il primo passo per stare bene.

Questa rivelazione su Instagram, che poi è anche un consiglio per i suoi follower, si aggiunge al fatto che la star, che da un po' di tempo fa coppia con Cole Sprouse, suo collega in Riverdale, ha sempre utilizzato i social per raccontare non solo la sua vita sul set o sul red carpet, ma anche quella da normaleragazza che vive giorno per giorno.

In un'intervista a ET Online aveva detto:

"Cerco di [essere sincera] perché non sto facendo uno show. Non sto cercando di apparire perfetta... la mia vita in generale non è estremamente affascinante. Faccio un sacco di cose davvero fantastiche e affascinanti, ma non è quello che accade giorno per giorno. Sui social mi piace farmi vedere nel mio habitat naturale: mentre sono nel mio letto o mangio".

Good job, Lili!

Dal Sito: cosmopolitan.it


Ansia adattiva e ansia patologica

Quando il segnale che ottimizza le nostre risorse diviene un ostacolo al nostro benessere

L’ansia è come una sedia a dondolo: sei sempre in movimento ma non avanzi di un passo.
Jodi Picout

Io non ingrasso di un grammo perché la mia ansia funziona da aerobica.
Woody Allen

Secondo gli studiosi l’ansia è un’eredità dei nostri antenati preistorici ai quali era necessaria per prevenire eventuali pericoli di un mondo ostile.

È uno stato d’animo che comporta un’attivazione nell’organismo di fronte a una situazione che viene percepita soggettivamente come pericolosa. L’ansia coinvolge mente e corpo.
I nostri muscoli si contraggono per prepararci fisicamente all’attacco o alla fuga, il respiro si fa corto e veloce e la mente si concentra sulla situazione di pericolo da affrontare.

Dobbiamo distinguere tra un’ansia primaria, sintomatica, che ha un effetto disorganizzante e ci impedisce di affrontare le situazioni in maniera efficace e lucida; e un’ansia adattiva che ci mette in guardia rispetto a segnali di pericolo presenti o futuri e ci aiuta a concentrarci su difficoltà e compiti importanti senza, però, paralizzare la nostra capacità di pensare e prendere decisioni.

Una certa dose di ansia, quindi, può essere utile nell’affrontare la vita quotidiana e nel migliorare la nostra performance ad un compito. Si pensi, ad esempio, a quando si studia per un esame. Una certa quota di ansia permette un’attivazione psichica che ci aiuta a restare concentrati sul compito e a dare priorità allo studio. A volte, però, il meccanismo che sostiene l’ansia adattiva può bloccarsi, quindi può svilupparsi una reazione eccessiva, sintomatica, rispetto ad uno stimolo esterno o interno. Nell’esempio dell’esame da preparare potremmo avere uno studente talmente in ansia che sviluppa una difficoltà a concentrarsi o che, al momento dell’esame, di fronte all’insegnante non riesce a ricordare ciò che ha studiato.

L’ansia patologica si può strutturare in diverse organizzazioni cliniche che chiamiamo disturbi d’ansia. Essi sono: disturbo da attacchi di panico, fobie, disturbo ossessivo -compulsivo, disturbo post – traumatico da stress e disturbo d’ansia generalizzato.

Si parla di disturbi d’ansia quando il disagio diventa significativo per persistenza, intensità e frequenza. Gli stati d’ansia generano cambiamenti molto intensi nel corpo proprio perché l’ansia segnala un pericolo. In risposta a tale segnale o ad una situazione avvertita come critica, c’è un’intensa attivazione psicofisica e un surplus di lavoro per cuore, polmoni e rene. Quando si sperimenta ansia con molta frequenza e intensità c’è il rischio di alterare la normale funzionalità di questi organi.

I disturbi d’ansia danno luogo a sintomi di tipo cognitivo, fisici e comportamentali.
Tra i sintomi cognitivi abbiamo: sensazione di vuoto mentale; induzione di immagini, pensieri e ricordi negativi; sensazione di essere osservati e di stare al centro dell’attenzione.

Tra i sintomi comportamentali abbiamo: comportamenti evitanti, il paziente rifugge la situazione o lo stimolo che ritiene pericoloso; comportamenti di dipendenza dai familiari e dai farmaci, ansiolitici; comportamenti anassertivi e di sottomissione.

Tra i sintomi fisici abbiamo: tensione; tremore; sudore; palpitazione; nausea e disturbi gastrici; vertigini; formicolii; derealizzazione, sensazione di irrealtà; depersonalizzazione, sentirsi distaccati da se stessi.

Quando l’ansia è disadattiva e sfocia in uno di questi disturbi è necessario l’intervento psicoterapico che avrà la funzione non di cancellare l’ansia, perché in alcune situazioni è necessaria e adattiva, ma di aiutare a gestirla e a ricalibrare il meccanismo naturale che sta alla base della sua regolazione.


Dal Sito: expartibus.it