Attualmente nell'immaginario collettivo è ancora molto diffusa l'idea del ricorso allo psicologo come “ultima spiaggia”: spesso solo quando si avverte di aver esaurito tutti i tentativi di soluzione del problema e prevale la confusione mista all'incertezza, si affaccia nella nostra mente il pensiero di ricorrere all'aiuto di uno psicoterapeuta.
L'inizio di una psicoterapia, a volte viene erroneamente vissuto come la certificazione del passaggio da una condizione normale ad una condizione patologica, che necessita di una “cura”.
Questa convinzione fa riferimento ad un atteggiamento che tende ad assimilare la professionalità dello psicoterapeuta a quella del medico, circoscrivendo il suo ambito di competenza esclusivamente alla patologia.
Questo modo di pensare ha notevolmente favorito la difficoltà ad accettare gli aspetti della propria personalità che giudichiamo “anomali” solo perché non coincidono con la rappresentazione ideale alla quale cerchiamo di assomigliare, in altre parole, noi ci percepiamo diversi da come vorremmo essere e, da questa distanza tra il sé ideale e il sé reale, deriva una sensazione di inadeguatezza che spesso è alla base del disagio o della sofferenza.
Un'esperienza emozionale correttiva
Ad esempio, una persona che sta affrontando una separazione/divorzio, non necessariamente presenta disturbi psicopatologici, ma ciò non esclude che egli possa ugualmente aver bisogno di uno specialista che l'accompagni durante una fase significativa della sua storia personale, offrendogli l'opportunità di vivere “un'esperienza emozionale correttiva” (Alexander, 1946).
Vivere un'esperienza emozionale correttiva, significa avere uno spazio “protetto” (rapporto con il terapeuta), nel quale poter sperimentare modalità relazionali efficaci, che poi potranno essere utilizzate nell'affrontare le difficoltà che ciascuno di noi vive all'interno delle relazioni significative che accompagnano la propria storia.
Se è vero che si apprende dall'esperienza, perché il processo comunicativo possa dirsi terapeutico bisogna che il terapeuta si ponga per il cliente come opportunità di fare un'esperienza altra rispetto a quella (o quelle) che lo portarono ad imparare a stare al mondo ...male, troppo per potere,come si suol dire, andare avanti così.
Dire un'esperienza altra è come dire un'esperienza tale da permettere di imparare qualcos'altro rispetto a quello che è stato imparato fino ad oggi ai vari livelli sui quali ognuno di noi si dibatte per stare al mondo: quello cognitivo (io penso così perché...), quello emotivo (sento che ...provo questo perché...).
Ad esempio, un genitore che si rivolge allo psicologo non lo fa perché ha una psicopatologia, ma solo perché vive la frustrazione di un rapporto disfunzionale con il figlio e, desidera confrontasi con uno specialista che l'aiuti ad individuare quelle modalità che si sono rivelate inefficaci in una relazione così significativa come quella genitore/figlio.
Questi sono solo alcuni esempi della versatilità dell'intervento psicologico, che non ha alcuna relazione con una condizione psicopatologica, e quindi non va automaticamente associato alla presenza di un disturbo che necessita un intervento terapeutico.
La psicoterapia serve a diminuire la sofferenza?
Ci sono momenti nella nostra vita in cui sentiamo il bisogno di guardarci dentro e ristabilire un contatto con noi stessi, riprendere quel dialogo interiore che è stato interrotto dalla sofferenza.
Rivolgersi ad uno psicoterapeuta significa essere accompagnati in un viaggio di esplorazione nel nostro mondo interiore, incontrare la propria sofferenza che finalmente troverà uno spazio e un luogo in cui essere ascoltata, accettata, compresa e che,“illuminerà” quelle parti di noi di cui non siamo pienamente consapevoli e, grazie alle quali, è possibile trovare nuove chiavi di lettura della propria storia.
A volte durante la nostra vita ci sono delle “battute d'arresto”, momenti in cui avvertiamo una “dissonanza” tra la nostra esperienza interiore e le situazioni che ci troviamo ad affrontare nella vita. Ad esempio una persona pur credendo delle proprie capacità non si sente sufficientemente considerata dai familiari o dai colleghi sul luogo di lavoro e ciò, inevitabilmente, si ripercuote sulla sua autostima, generando un abbassamento del tono dell'umore associato ad una sensazione di inadeguatezza.
Perché chiedere aiuto ad uno psicologo?
Chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta non vuol dire ammettere la sconfitta definitiva, delegando all'altro il compito di risolvere il problema, ma al contrario, avere l'umiltà di mettersi in discussione, assumendosi la responsabilità di orientare consapevolmente il proprio processo di crescita personale.
Significa darsi l'opportunità di incontrare i propri limiti, riconoscerli e individuare le risorse necessarie ad affrontare in modo proattivo le situazioni che creano difficoltà e rendono faticosa l'espressione delle potenzialità individuali.
La psicoterapia è un percorso durante il quale, inevitabilmente, emergono le contraddizioni che appartengono ad ognuno di noi, ma che spesso non riusciamo ad decodificare chiaramente nel momento in cui le stiamo vivendo.
Ognuno di noi ha una rappresentazione mentale di sé più o meno definita, ma in realtà siamo in continua evoluzione, ed è per questo che anche in condizioni sfavorevoli, tendiamo alla naturale espressione della nostra individualità, non a caso sono proprio le condizioni peggiori a rendere le esperienze straordinarie.
Le leggende metropolitane sulla psicoterapia
Nell'immaginario collettivo esistono tuttavia delle “false credenze” che riguardano la decisione di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per migliorare il proprio benessere interiore, una di queste è il timore di diventare dipendente da lui per il resto della nostra vita.
Al contrario, uno degli obiettivi principali della psicoterapia, è favorire il recupero della fiducia nelle risorse personali e nella capacità di utilizzarle per riconquistare la piena autonomia nell'affrontare situazioni stressanti in modo funzionale.
Psicoterapia: ma quanto mi costi?
Un altro pregiudizio molto diffuso è quello relativo ai costi elevati della psicoterapia, pregiudizio derivante dall'iniziale diffusione della psicoanalisi che prevedeva almeno tre sedute settimanali e si prolungava a volte anche per più di un decennio.
Attualmente, con il diffondersi di altri approcci psicoterapeutici e il proliferare di ricerche scientifiche che hanno individuato i fattori di efficacia dell'intervento psicoterapeutico, si è verificato un profondo cambiamento in questo scenario; infatti oramai da molti anni si è verificata un'inversione di tendenza che ha condotto ad un ridimensionamento generale sia della frequenza delle sedute (quasi sempre a cadenza settimanale), sia della durata complessiva della psicoterapia, che è prevedibile soltanto in alcuni orientamenti psicoterapeutici, ma non può certo prolungarsi per un decennio.
D'altro canto, bisogna rilevare il costo, non solo economico, dell'effetto dello stress e delle varie somatizzazioni (ad es. disturbi psicosomatici come alcune reazioni allergiche), determinate da piccoli o grandi “terremoti” emozionali e dalle conseguenti ripercussioni sulla salute fisica, sulla produttività e sulle nostre relazioni interpersonali.
Psicologo o amico?
Un altra convinzione molto diffusa è:”gli amici e i familiari sono gli unici che possono aiutarmi, perché loro mi vogliono bene”.
A tal proposito, non bisogna confondere il sostegno che può essere offerto da un amico che simpatizza identificandosi con noi, dal ruolo svolto da uno psicoterapeuta che entra in empatia con le nostre emozioni, in altri termini, egli è in grado di sentirle come se fossero le proprie, senza dimenticare che non appartengono a lui, quindi non cede alla tentazione di sostituirsi a noi, offrendo indicazioni e suggerimenti sul modo di risolvere i nostri problemi.
Al contrario, il compito del terapeuta è quello di facilitare un processo di autoconsapevolezza che ci consenta di riprenderci il nostro potere personale e di esercitarlo proprio in quelle situazioni in cui, in passato, abbiamo sperimentato un senso di inadeguatezza.
Non a caso, è proprio quando il coinvolgimento emotivo è molto intenso, abbiamo bisogno di qualcuno in grado di fare da “specchio” alla nostra sofferenza, tollerandone l'intensità e mantenendo la “giusta distanza”, accompagnandoci attraverso la qualità della sua presenza nel percorso di crescita personale che è alla base di qualsiasi processo di cambiamento.
Il timore di essere giudicati dal terapeuta
Ancora una volta la notevole diffusione della psicanalisi ha determinato una costante generalizzazione nell'immaginario collettivo che ha prodotto lo stereotipo di un rapporto “sbilanciato” tra terapeuta e cliente dove il potere sta tutto nelle “mani” del terapeuta e che si manifesta attraverso la sua interpretazione dell'esperienza del paziente.
Al contrario, la psicoterapia è un processo relazionale che si basa sulla collaborazione paritaria, il cui obiettivo non è la valutazione della personalità, lo specialista infatti, deve essere in grado di sospendere il giudizio nei confronti del cliente che, a sua volta, dovrebbe avvertire tale atteggiamento non giudicante e sentirsi dunque libero di esprimere il suo vissuto senza farsi condizionare dal timore di essere giudicato dal suo terapeuta.
Se la psicoterapia è efficace, promuove la fiducia in sé stessi, quindi rende inutili l'utilizzo di “maschere” per nascondere agli altri i nostri pensieri o sentimenti, l'autenticità diventa quindi una condizione indispensabile ad orientare le scelte e i comportamenti in sintonia con la propria personalità.
Che succede se provo sentimenti negativi verso il terapeuta?
Tali sentimenti sono una parte fondamentale del processo terapeutico e possono essere un utile “strumento” per la comprensione di sé stessi. E' importante che il cliente non reprima i sentimenti negativi dentro di sé, ma si senta libero di condividerli con il terapeuta, sicuro che egli sarà in grado di tollerarli, offrendogli l'opportunità di sperimentare modalità di gestione della conflittualità alternative e non distruttive.
E' fondamentale che la persona possa avvertire da parte del terapeuta la capacità di contenere tali vissuti negativi, in questo modo, l'alleanza terapeutica ne verrà inevitabilmente rinforzata.
La relazione terapeutica si costruisce a partire da una domanda di cambiamento, accettare l'incognita e la sfida del viaggio alla scoperta del nostro mondo interiore, implica un atto di fiducia verso chi ci accompagnerà e in seguito verso sé stessi.
L'Approccio centrato sulla Persona
Ed è stato proprio il desiderio di accettare l'incognita e la sfida di questo viaggio che mi ha indotto a scegliere l’Approccio Centrato sulla Persona in quanto più aderente alla mia concezione di psicoterapia, come progetto volto a restituire il potere personale del cliente ed a favorirne la piena autorealizzazione.
Questo orientamento psicoterapeutico nato negli anni '40 negli Stati Uniti dal lavoro di Carl Rogers, rientra nell'area della Psicologia Umanistica, è un orientamento nel quale non si utilizzano strategie e metodi, nel senso comune della parola, proprio perché si utilizza il modo di essere del terapeuta, la sua capacità di entrare in relazione con l'altro e di comprendere come viene percepito dal cliente, al fine di facilitare il cambiamento; solo se il terapeuta riesce ad instaurare un autentico clima di accettazione, consentirà alla persona di esplorare gli aspetti di sé che maggiormente lo spaventano, o di cui si vergogna, o che svaluta. L’accettazione positiva incondizionata del cliente da parte del terapeuta determina l’abbassamento delle difese che permette al cliente di rimettere in discussione alcuni aspetti di sé, promuovendo un processo di crescita personale.
Il primo colloquio
Solitamente offro alla persona la possibilità di fare un primo colloquio durante il quale ascolto il suo vissuto relativo al “qui ed ora” ovvero partendo da quella che è l'esperienza attuale e dalle difficoltà che la persona incontra, facendo emergere i suoi bisogni e le sue aspettative riguardo al percorso psicoterapeutico.
I primi colloqui sono molto importanti perché consentono ad entrambi (terapeuta e cliente) di valutare se esistono i presupposti per la costruzione di un'alleanza terapeutica, in fondo si tratta di una scelta reciproca che non si basa tanto sulla competenza del terapeuta riguardo al problema specifico del cliente, quanto piuttosto sulla capacità del terapeuta di promuovere un processo di cambiamento che coinvolga attivamente il cliente in un percorso di crescita personale.
Solitamente io consiglio al cliente di non decidere al termine del primo colloquio se proseguire o meno il rapporto professionale, poiché ritengo sia importante concedersi un tempo minimo per lasciar “sedimentare” dentro di sé le emozioni, a volte molto intense scaturite durante il colloquio e, lasciar affiorare eventuali sensazioni positive o negative legate alla propria esperienza.
La responsabilità della scelta
In questo modo già dalla prima seduta la persona viene invitata ad assumersi la responsabilità della propria scelta e a focalizzare la sua attenzione sul carattere di unicità che caratterizza la relazione tra “quel terapeuta” e “quella persona”.
Si tratta infatti di una scelta reciproca e significativa nella quale entrambi sono chiamati ad essere onesti: il terapeuta deve chiedersi “posso entrare in relazione con questa persona in modo autentico e non giudicante in modo da facilitare un processo di cambiamento?”, al tempo stesso il cliente potrà interrogarsi “questa persona è riuscita a facilitare la comprensione dei miei stati d'animo? Come mi sono sentito durante il colloquio? Sento che questa persona è entrata in relazione empatica con me?”.
Oltre al sollievo provato nel constatare che i propri vissuti personali sono compresi da qualcuno che li ascolta, il soggetto inizia a cambiare il suo modo di affrontare la vita. Una persona scopre nuovi aspetti della sua personalità, riesce ad individuare nuove chiavi di lettura della propria esperienza, sperimenta sulla “sua pelle” la capacità di accedere alle proprie risorse interiori e di utilizzarle per assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Decidere di dare ascolto al proprio malessere vuol dire affrontare la sofferenza in modo costruttivo, evitando che con il passare del tempo possa consolidarsi originando una patologia vera e propria.
Imparare ad essere se stessi
Concludo questo articolo con le parole di una cliente che descrive la sua esperienza durante la psicoterapia: “La fatica più grande: affidarmi ad un'altra persona (…) ma la salvezza è stata proprio quella. Abbandonarmi e scoprire il sollievo di non annegare (…) di non precipitare nel vuoto della pazzia, perché uno sguardo altro mi sosteneva (…) dare voce a tutte le parti di me, dare a tutte una dignità e diritto di esistere con la loro verità. Ho scoperto che non volevo perderne neppure una, in tutte mi sono riconosciuta” (Kopp, 1975, pp. 26)
La relazione terapeutica si costruisce all'interno di un processo comunicativo caratterizzato da una speciale mancanza: manca l'oggetto della comunicazione, quello di cui si parla, quello a cui si accenna, quello che si cerca di comprendere.
Attraverso il crearsi tra terapeuta e cliente di una dimensione relazionale tale da correggere gli effetti di altre esperienze disfunzionali avute nella sua vita. Si tratta dunque di un processo in cui la comprensione reciproca- il comprendersi – si pone come condizione indispensabile per comprendere il problema che motiva la domanda in terapia
E' un'esperienza che cura l'esperienza.
Dr.ssa Sabrina Camplone
dal sito: www.medicitalia.it
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Alexander F., French T. M.et al.(1946),Psychoanalytic Therapy: Principles and Application, Ronald Press, New York.
O'Leary C., (1999), Counseling alla coppia e alla famiglia, Erikson,Trento.
Kopp S. (1975),Se incontri il Budda per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma.
Watzlawick P., Beavin e Jakson, (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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O'Leary C., (1999), Counseling alla coppia e alla famiglia, Erikson,Trento.
Kopp S. (1975),Se incontri il Budda per la strada uccidilo, Astrolabio, Roma.
Watzlawick P., Beavin e Jakson, (1971), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.