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sabato 2 settembre 2017

La favola dell’uomo e della farfalla: quando aiutare non aiuta?



Quando una persona si ritrova alle strette, alle prese con qualche problema, di solito tendiamo a volerla aiutare. Soprattutto se è una persona vicina a noi, un familiare o amico. Tuttavia, molto spesso, l’aiuto che offriamo non è benefico: al contrario, spesso invece di essere necessario è del tutto inutile e dannoso.

Quando dobbiamo evitare di aiutare gli altri? Ve lo spieghiamo subito.

La favola dell’uomo e la farfalla

Una favola antica racconta che un uomo trovò il bozzolo di una farfalla lungo il sentiero che stava percorrendo. Pensò che per terra sarebbe stato al pericolo e lo portò a casa per proteggere quella piccola vita che stava per nascere. Il giorno dopo si rese conto che nel bozzolo c’era un minuscolo foro. Quindi si sedette a contemplarlo e vide che la farfalla stava lottando per uscire.

Lo sforzo del piccolissimo animale era enorme. Per quanto ci provasse una e un’altra volta, non riusciva a uscire dal bozzolo. A un certo punto, la farfalla sembrò rinunciare. Rimase immobile. Come se si fosse arresa.

Allora l’uomo, preoccupato per la sua sorte, prese un paio di forbici e tagliò delicatamente il bozzolo, da un lato all’altro. Voleva aiutare la farfalla a uscire. E ci riuscì! Finalmente l’insetto uscì. Eppure, quando lo fece, il suo corpo era infiammato e le sue ali troppo piccole, come se fossero piegate.

L’uomo attese, immaginando che fosse una fase passeggera. Pensò che presto la farfalla avrebbe spiegato le ali e spiccato il volo. Ma non andò così: l’animale continuò a trascinarsi senza riuscire a volare, e dopo poco morì.

L’uomo ignorava che quella lotta della farfalla per uscire dal bozzolo era una fase imprescindibile per rafforzare le sue ali. In quel processo, i fluidi del corpo dell’animale si spostano nelle ali, e in questo modo l’insetto si trasforma in una farfalla pronta per volare.
La ricompensa dopo lo sforzo

Come questa favola ci illustra, non sempre ciò che è facile ci porta vantaggio. Molto spesso dobbiamo superare delle difficoltà, che ci rendono più forti e ci aiutano. A volte, come nel caso della farfalla, ci salvano addirittura la vita.

Per questo dobbiamo vedere lo sforzo come una cosa positiva, che ci aiuta a superarci, e non come qualcosa che ci blocca e ci impedisce di avanzare. Nella vita dobbiamo passare per una serie di prove che ci rendono migliori, ci aiutano a progredire.

Pensate, per esempio, ai bambini. Se non permettiamo mai che il bambino cada quando sta imparando a camminare, se non smettiamo mai di sostenerlo, probabilmente non imparerà mai a camminare. Cadere non è negativo, è una metafora della vita. E i bambini si rialzano sempre dalle loro cadute, finché non riusciranno a non cadere più. Questa è la ricompensa per il loro sforzo, e dobbiamo permettere che le persone si rialzino da sole.
Quando aiutare non aiuta?

Come nella favola, a volte aiutare non aiuta, al contrario. Quando qualcuno sta attraversando un momento difficile e scoppia a piangere, la gente tende a precipitarsi a chiedere che cosa gli è successo (a volte perché sono sinceramente preoccupati, altre solo curiosi). Solo poche persone rimangono sedute, e non fanno niente. Qual è il comportamento migliore?

Quando stiamo male, abbiamo bisogno di un breve momento di solitudine con il nostro dolore. Questo non significa non avere nessuno, significa che chi abbiamo intorno rispetta i nostri spazi e permette che il dolore scorra. Sederci accanto a quell’amico, fratello o familiare senza dire nulla, accompagnando il suo dolore, rimanendo al suo fianco perché ci sia qualcuno quando avrà bisogno di un abbraccio, quando avrà bisogno di essere ascoltato: questa è la cosa giusta da fare.

Dobbiamo capire che ci sono momenti in cui dobbiamo essere presenti, ma che quella lotta non può essere portata a termine da nessun altro se non da chi sta soffrendo.

Superare gli ostacoli ci renderà più forti, sicuri di noi e fiduciosi. Quello sforzo avrà la sua ricompensa. Non cercate sempre la strada più facile, perché le cose migliori richiedono fatica. E solo noi possiamo percorrere quel cammino, nessuno può sostituirci in quest’impresa.

Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

venerdì 14 luglio 2017

Il Brutto Anatroccolo: il vissuto di diversità e la grazia dell’appartenenza


Il brutto anatroccolo è una fiaba con molti significati, tra cui la sofferenza insita nel vissuto di diversità e l'importanza di appartenere ad un gruppo.

I nuclei di significato contenuti nella fiaba de Il brutto anatroccolo sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questafiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”.

La fiaba de Il brutto anatroccolo

Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. […] Fate come l’anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. […] In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

La storia del brutto anatroccolo, piccolo cigno nato – per errore – in una comunità di anatre, è una fiaba capace di evocare significati profondi. Nella rilettura di Clarissa Pinkola Estés, lo sfortunato protagonista diviene simbolo delle sofferenze legate alla costruzione di una sana immagine di sé, alle relazioni, alle tante forme di dipendenza declinata al femminile.

Il brutto anatroccolo, vittima innocente di uno scherzo del destino, è destinato a pagare duramente per la sua diversità subendo la derisione, lo scherno, le umiliazioni, fino all’esilio dalla comunità natìa. La stessa madre, che inizialmente tenta di proteggerlo da torti e violenze, finirà per allontanarlo. Nel suo peregrinare alla ricerca di qualcuno che lo accolga, il brutto anatroccolo cercherà riparo presso esseri umani, altri animali e altri luoghi: ogni volta, i suoi sforzi si tradurranno in dolorosi fallimenti. Viaggerà a lungo, rischiando più volte di morire, fino a ritrovarsi, per caso e con notevole stupore, accolto con affetto dai suoi simili, i maestosi cigni.

I significati contenuti nella fiaba

I nuclei di significato contenuti nella fiaba sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. (Pinkola Estés, 1993)

Altro aspetto estremamente significativo è la complessità della figura materna. Una madre che, dapprima, prova a difendere il suo piccolo dagli attacchi, ma finisce per adattarsi al volere del branco. Siamo quindi di fronte ad una madre psichicamente divisa, ambivalente. Da un lato il desiderio di proteggere suo figlio, dall’altro la spinta all’autoconservazione. Nelle culture punitive, puntualizza l’autrice, non è una situazione inusuale per una donna. Si tratti di un figlio reale o simbolico (l’arte, la creatività, gli ideali politici, l’amore) sono tante le donne morte psichicamente e spiritualmente nel tentativo di proteggere il “figlio non autorizzato” dalla società. Talvolta sono state addirittura bruciate, assassinate o impiccate, come punizione per aver sfidato le regole sociali e per aver protetto o occultato la loro “creatura socialmente inaccettabile”.

“Non cedete. Troverete la vostra strada. […] Questo è dunque il lavoro finale della persona in esilio che si ritrova: accettare la propria individualità, l’identità specifica, ma anche accettare la propria bellezza… la forma della propria anima”
(C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

E come non soffermarsi sulla costante ricerca di amore nei posti sbagliati? Un comportamento che porta il brutto anatroccolo a rischiare più volte la propria vita, per il semplice fatto di “bussare alle porte sbagliate”. Del resto, “è difficile immaginare come una persona possa riconoscere la porta giusta, se non ne ha ancora mai trovata una” (Pinkola Estés). Riferendosi in particolare al mondo femminile, l’autrice evidenzia l’assonanza con quella straziante ricerca di amore, a volte ripetuta in modo ostinato ed inconsapevole, che comporta l’acuirsi della ferita originaria, anziché lenirla. Una necessità di riempire il vuoto interiore con le cose più disponibili o facilmente reperibili: le “medicine sbagliate” (Pinkola Estes) che per alcune donne sono rappresentate da compagnie pericolose, per altre da eccessi malsani, per altre ancora da quegli amori che non riconoscono né accettano i talenti, le doti, i limiti della propria compagna.

Ulteriore aspetto sostanziale è la condizione di “orfano di madre” che l’anatroccolo si ritroverà a subire. Privo degli adeguati insegnamenti materni, procederà nella sua vita per prove ed errori, poiché il suo istinto non sarà stato affinato e risvegliato da una madre amorevole. Allo stesso modo, la donna orfana di madre apprenderà, secondo l’autrice, provando e compiendo innumerevoli errori, poiché le manca quel medesimo “istinto” che, sebbene insito nella natura, solo una madre amorevole potrebbe risvegliare.

“Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riusciti, probabilmente avete avuto fortuna. Potete essere in esilio, ma vi siete protetti l’anima. […] È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell’affinità di cui si ha bisogno. Non è mai un errore cercarla.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

Tra le diverse sottolineature dell’autrice, vi è quella sul valore dell’esilio. L’anatroccolo vaga, rischia la morte, non permane nella comunità a lui ostile, né si adagia: decide di cercare. Qualcosa in lui riesce a temprarsi durante quell’esilio che, sebbene imposto e fortemente doloroso, permetterà all’anatroccolo di riscoprirsi, alla fine, più forte e addirittura molto più bello. Allo stesso modo, come suggerisce la Estés, è preferibile proteggere la propria anima, esiliandosi rispetto a chi non ci accetta, piuttosto che restare in un luogo cui non si appartiene.

A quest’ultimo aspetto si collega naturalmente quello che appare il nucleo vitale della fiaba, la scoperta dello stato di grazia dell’appartenenza: l’approdo finale dell’anatroccolo nella sua comunità naturale sembra rinvigorire tutto il suo essere, colmandolo di nuove energie e di slancio vitale, in una sorta di “riappropriazione del sé” che pone l’animo in una condizione di rinascita, di gioia e di vitalità. Le stesse, sottolinea l’autrice, che si avvertono quando si sperimenta l’appartenenza, la condivisione naturale tra esseri affini. E “non è mai un errore cercarla”, pur nelle condizioni più difficili ed aspre, anche rischiando ciò che si possiede. Perché è valore fondante del nostro stesso Essere e del Vivere pienamente, quel sentire di essere accolti e di appartenere.

di Stefania Esposito

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/il-brutto-anatroccolo-significato/


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/il-brutto-anatroccolo-significato/

mercoledì 8 marzo 2017

La mia favola...





C'era una volta una principessa triste che si era dimenticata cosa significasse vivere, non mangiava più, non usciva più, non parlava più con nessuno e non riusciva nemmeno a prendersi cura di se stessa. 

Era diventata una piccola insignificante larva anche difficile da accudire per chi gli stava vicino.
I giorni passavano in fretta e la principessa non trovava nulla per cui valesse la pena tirare fuori quella forza necessaria per poter di nuovo tornare a sorridere.
Passò l'inverno chiusa in casa, tutti intorno a lei le ripetevano che fuori c'era la sua vita che l'aspettava, passò la primavera e a malapena la principessa riusciva ad affacciarsi dalla finestra per vedere i fiori sbocciare.
Arrivò l'estate, calda, troppo calda per lei, e il suo corpo iniziava a cedere.
Un bel giorno alla sua porta bussò un ragazzino, biondo con gli occhi azzurri. Con un viso solare e felice. 
No! Cosa avete capito non era il principe azzurro!
Lui si avvicinò, appoggiandosi alla porta, chiese alla principessa:
" Ciao principessa sono venuto a chiederti se volevi uscire a fare una passeggiata".
La principessa, sbalordita, malconcia e in pigiama, rispose: 
"Ciao, no, io non esco da casa da oltre due stagioni, come puoi pensare che io possa oltre passare questa porta?? Ho paura!"
Il ragazzo con una certa insistenza di nuovo: 
"principessa, devi farti bella, truccarti, metterti il tuo vestito più bello e devi uscire con me!"
"Accidenti, insistente il tipo qui, ma che vuole da me?" 
la principessa borbottava arrabbiata dentro di se, ma il ragazzo non faceva un passo, era sempre fermo li con un braccio appoggiato alla porta e non si muoveva di un millimetro.
Ad un certo punto con voce sostenuta la principessa urlo: 
"Io non esco, ho paura, non mi vesto, non mi trucco, non voglio fare un bel nulla! E poi perché dovrei uscire con te?"
Il ragazzo sorrise vedendola cosi arrabbiata, dopodiché la fece affacciare dalla porta e le disse:
"principessa, io non sono venuto per aiutare te ma, sono venuto perché sono io ad avere bisogno di te, la vedi quella li fuori, è la mia carrozza, purtroppo si è fermata e, visto che Dio non mi ha donato del tutto l'uso delle gambe, è il mio unico e indispensabile mezzo per muovermi. Guardandoti dalla finestra ho pensato che eri la persona adatta per aiutarmi, eri li senza far nulla, guardavi il soffitto, quindi mi sono chiesto perché no, sarebbe bello passeggiare insieme e farmi spingere la carrozza da lei."
La principessa smarrita completamente, i sensi di colpa che la divoravano "Come ho fatto a non capirlo? Ma come è possibile un ragazzino cosi bello, solare, come è possibile? E ora cosa faccio? Non mi posso rifiutare! Lo devo aiutare, mi devo vestire, lavare, truccare! Ho un aspetto di uno zombie non posso uscire così!" 
E la sua mente, i suoi pensieri pian piano iniziarono ad andare altrove, a quel ragazzino biondo con gli occhi azzurri che non poteva correre come tutti i ragazzini normali.
Si preparò, si affacciò dalla porta e il ragazzino le disse: 
"Sei pronta a portarmi a fare una passeggiata? Non farmi fare brutta figura principessa, guida bene la mia carrozza!"
Da quel preciso istante dentro alla testa della principessa scattò qualcosa di immenso, qualcosa di magico, 
quella "inarrestabile voglia di vivere". 
Il suo angelo biondo con gli occhi azzurri gli aveva aperto la via, quella via chiamato "dono", 
il grande dono della vita, da amare con tutte le sue sfaccettature.

Eli ღ ღ ღ