L’era della nomofobia: senza smartphone scatta il panico
Siamo drogati di polvere di bit. Nell'era della nomofobia, senza smartphone scatta il panico.
Nell’era più tecnologica di sempre – quella postmoderna – le conseguenze
legate all’iperconnessione degli individui sono sempre più gravi e
lapalissiani, a causa di una società caratterizzata da
sistemi di comunicazione interdigitali senza precedenti. Dunque, non
stupirà che in uno studio del 2008 condotto su un campione di 2.163
persone e commissionato dal britannico Post Office Ltd all’ente di
ricerca YouGov, sia stato coniato il termine inglese nomophobia. Il neologismo, sorto dall’abbreviazione “no-mobile-phone”, designa il terrore di rimanere sconnessi dalla rete
mobile. La ricerca ha rilevato che, in Gran Bretagna, il 53% dei possessori di smartphone manifesta stati d’ansia
quando non può usarlo (ad es. a causa della batteria scarica o del
credito in rosso oppure in assenza della copertura di rete). Nello
specifico, il 58% degli uomini e il 48% delle donne soffrono di questa
nuova forma di psicopatologia. Gli effetti generati da tale fobia sono
molto gravi, simili ad attacchi di panico: angoscia, respiro difficoltoso, vertigini, nausea, sudorazione, tremori, tachicardia e così via.
Nello specifico, i nomofobici cercano di evitare l’ansia ricorrendo ad una serie di comportamenti preventivi (ad es. portando sempre con sé un caricabatterie e tenendo perennemente il credito telefonico in attivo). Così, emerge che 6 ragazzi su 10 tra i 18 e i 29 anni non vanno a letto senza la compagnia confortante dello smartphone, una coperta di Linus gravemente dannosa per il riposo. Dal canto suo, la ricercatrice Francisca Lopez Torrecillas – professoressa presso l’Università di Granada – ha svolto uno studio su giovani tra i 18 e i 25 anni ed ha riscontrato che si tratta della fascia d’età più dipendente dallo smartphone. Per la dottoressa, le cause più evidenti sarebbero bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali. Secondo David Greenfield, professore di psichiatria all’Univeristà del Connecticut, la dipendenza da smartphone può influire sulla produzione della dopamina (il neurotrasmettirore del piacere e della ricompensa). Di conseguenza, ad esempio, all’apparire di una notifica di WhatsApp o Facebook il livello di dopamina tende a salire, nella speranza che si stia per vivere qualcosa di eccitante.
Per quanto concerne le ricerche italiane, due studiosi dell’Università di Genova – Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente – hanno proposto che la nomofobia venga inserita nel “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (DSM), punto di riferimento mondiale per psicologi e psichiatri. Bragazzi e Del Puente definiscono questa fobia come “guscio protettivo o scudo” e “come mezzo per evitare la comunicazione sociale”. Secondo i ricercatori, inoltre, “come in ogni forma di dipendenza, il primo sintomo è anche in questo caso la negazione” e ciò rende più difficile l’accettazione e la cura del disturbo.Ma la nomofobia non è l’unico concetto prezioso per analizzare le problematiche collegate alla società iperconnessa contemporanea. Negli ultimi anni, si fa un gran parlare anche di phubbing (termine nato dalla crasi di phone e snubbing, ossia snobbare, ignorare): l’atteggiamento sgarbato che induce a controllare continuamente lo smartphone alla ricerca di novità, isolandosi e trascurando la propria compagnia in carne ed ossa. Come si intuisce, si tratta di un neologismo profondamente connesso a quello di nomofobia e rappresenta uno degli effetti più dilaganti nella nostra vita quotidiana. Per combattere questo fenomeno è nato addirittura il sito www.stopphubbing.com, al fine di boicottare una tendenza emblematicamente riscontrabile nei ristoranti ed ai bar nelle uscite fra amici.
Inside Marketing.it
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