martedì 7 agosto 2018

Hikikomori, storie di giovani che si auto-recludono



La parola, formata da Hiku "tirare" e "komoru" ritirarsi, è nata in Giappone per definire una sindrome che ha colpito centinaia di migliaia di ragazzi dalla fine degli anni '80

C’è un giorno in cui uscire dalla propria stanza diventa impossibile. Hiku "tirare" e "komoru" ritirarsi. Hikikomori è una parola nata in Giappone per definire una sindrome che ha colpito centinaia di migliaia di ragazzi dalla fine degli anni '80. Storie di reclusione volontaria: oggi in Italia si stimano 100 mila casi, in maggioranza sono maschi tra i 18 e i 28 anni. Si tratta di dati approssimativi raccolti dall'associazione HikikomoriItalia.it, che ha creato un sito dove i ragazzi comunicano tra loro attraverso una chat. Un punto d'incontro anche per i genitori, che nella maggior parte dei casi non sanno come affrontare il problema. Alcuni ragazzi ci hanno accolto nel loro mondo, raccontandoci il perché di questa scelta. Testimonianze raccolte da una zona di penombra, il colore oscuro di una quotidianità lenta, in cui leggere, disegnare, giocare, fagocitare serie tv, annebbia la linearità del tempo. Sensibilità ed intelligenza spiccano dalle loro storie: ansia e dolore, disinteresse e rifiuto per una società che crea disagio e fastidio come nel caso di Marco, il nome è di fantasia, milanese, che per 5 anni si è rinchiuso nella propria stanza.

La storia di Marco

"Avevo un lavoro, un vita normale, nel giro di qualche mese sentivo il bisogno di tornare a casa perché non mi trovavo bene insieme ad altra gente, posti affollati, un giorno mentre andavo al lavoro ho avuto una crisi di panico e da lì mi sono rinchiuso in casa. È iniziata una sorta di depressione, non volevo vedere nessuno, stavo a letto. Poi ho iniziato a guardare film, giocare con altre persone via internet. Avevo fermato la mia vita". Oggi Marco sta seguendo un percorso di recupero con la cooperativa Onlus Hikikomori di Milano. Gli anni passano in pochi metri quadri, la percezione del tempo svanisce, ed è necessario riabituarsi al mondo. I percorsi di recupero durano degli anni. I rapporti si interrompono, a poco a poco, con chiunque, anche con le famiglie il cui compito si riduce spesso a rimediare il cibo ed avvicinarlo ad una porta. La scuola diventa una pena, una prigione. Capita che episodi di bullismo siano all'origine di stati d'ansia, la prepotenza dei social media, l'esposizione eccessiva, suscitino un istinto opposto: rifugiarsi dove nessuno può entrare.

La testimonianza di Simone

Simone ha lasciato la scuola molto giovane, ha studiato da autodidatta. Durante le sue giornate disegna, eloquenti rappresentazioni del suo disagio: "Vieni visto in maniera sbagliata, magari perché stai più zitto del solito. Non do tutta la colpa ai compagni della mia brutta esperienza, principalmente la colpa è mia, ma anche i professori hanno fatto il loro. L'educazione, i modi di fare, tante cose che insieme colpiscono una persona. Quando ti travesti eviti dei giudizi, quindi sei quasi obbligato certe volte a doverti nascondere".

Supporto psicologico

E poi ci sono le aspettative, spesso troppo elevate dei genitori, che in Giappone arrivano a provocare casi di suicidio alle scuole elementari. "Vi è una tendenza a crescere il figlio in un ambiente protetto, dove il fallimento viene visto come catastrofe". Rita Subioli, psicologa dell’associazione Hikikomori delinea con precisione il fenomeno sempre più diffuso anche in Italia. Per aiutare questi ragazzi le psicologhe della cooperativa organizzano interventi a domicilio, perché se all’inizio rifugiarsi crea sollievo aprire quella porta può diventare un’impresa impossibile.

di Giorgia De Benetti

Dal Sito: tg24.sky.it

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