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mercoledì 24 giugno 2020

Resilienza: affrontare le difficoltà e andare incontro al cambiamento


Il termine resilienza è un termine specifico che appartiene al campo della metallurgia e si riferisce alla capacità dei materiali che ne fanno parte, di resistere agli urti senza danneggiarsi, mantenendo le loro qualità adattive nonostante gli agenti esterni aggressivi.

In tal senso, potremmo pensare la resilienza in psicologia, sostanzialmente, come la capacità di saper trasformare un’esperienza dolorosa in un’esperienza positiva.

Il termine resilienza deriva dal verbo latino resilio, che significa rimbalzare, saltare indietro. Indica, in generale, l’essere resistenti e forti ai traumi, quindi la capacità di affrontare le avversità e superare le fratture che comportano.

Logicamente, il termine resiliente si estende sia ai singoli individui che ad un gruppo esteso di persone. Esso s’impiega spesso per indicare un soggetto in grado di dare uno slancio positivo alla propria vita, raggiungendo obbiettivi importanti, malgrado le circostanze; invece, se applichiamo il termine resilienza ad un gruppo di persone, esso indica la capacità di un gruppo sociale di far fronte collettivamente ad eventi traumatici o catastrofi naturali, adottando linee guida che consentano la sopravvivenza della comunità. In entrambi i casi, sicuramente, vengono utilizzate le abilità di ciascuno in una versione multi-tasking per poter dare un risultato ottimale alla situazione da affrontare.

L’uomo reagisce, in questi casi, attraverso una risposta adattativa, cioè lo stress, che consiste in un insieme di risposte sia psichiche che fisiche agli eventi.

Spesso, come sinonimo di resilienza, viene utilizzato il termine resistenza, ma in realtà viene impiegato in maniera impropria, poiché il primo si riferisce a una qualità aggiunta al proprio modo di vivere, ovvero trovare soluzioni agli squilibri, seppur non previsti, facendone una forza personale; invece si parla di resistenza, quando s’insiste su qualcosa che non ci porta ad un miglioramento, perciò ci arrochiamo a prendere le stesse strade per sentirsi rassicurati ma non per evolvere ed esplorare le proprie risorse. Proprio nel momento in cui attingiamo dalle risorse che non sapevamo di avere, si attivano le nostre capacità resilienti, tracciando un’alternativa a quella che si sarebbe rivelata il nostro unico dolore. In fin dei conti, nel corso del nostro ciclo di vita, gli eventi non sono sempre positivi, né essi sono compatibili con i nostri stati emotivi, né con le nostre situazioni di base.

I fattori che fanno parte delle persone resilienti, sono molteplici. Fra questi, potremo elencare:

l’ottimismo inteso come la capacità di prendere il lato buono di ogni cosa. Questa visione, favorisce il benessere individuale e difende dalla sofferenza perché dona lucidità;

l’autostima, indice di un’equilibrata considerazione del sé che consente di sopportare meglio le critiche, senza subirne gli effetti amari, riducendo la possibilità sviluppare sintomi depressivi;

l’inclinazione propositiva delle componenti quali il controllo, l’impegno e la sfida, ovvero la predisposizione a considerare i cambiamenti come opportunità piuttosto che come minacce;

le emozioni positive, ovvero la capacità di concentrarsi su ciò che si possiede anziché su quel che ci manca.

Allora, come possiamo fare per essere resilienti senza farci assorbire del tutto dalle avversità?

Dovremmo apprendere ogni giorno che questa abilità, pur essendo una capacità innata in alcune persone, va coltivata ogni giorno; si comprende che la quotidianità è un’arma a doppio taglio, la quale si rivela la nostra comfort zone ma, allo stesso tempo, un frame troppo rigido per far emergere le nostre vere competenze. Questa cornice è valida per tutti quegli eventi che comportano un trauma al soggetto, come i lutti e gli abbandoni, i quali richiedono un lavoro di elaborazione e di ristrutturazione del sé di enorme portata.

Migliorare la comunicazione, i nostri valori interpersonali e l’empatia può essere una risposta efficace per fronteggiare le situazioni ostili, perché la scelta è solo nostra, se apprendere una lezione definitiva, per allenare nuove strategie di coping o abbandonarci a noi stessi, per poi magari ritrovarci a fare le stesse domande. Per questo è importante avere una nostra guida, per non sprofondare in patologie più serie, come i disturbi d’ansia, il panico o la depressione.

Le angosce sono, in prima linea, delle spie che ci comunicano il senso d’inquietudine e la vita alternativa, forse più adatta alle nostre necessità in quel determinato momento. Questo segnale va ascoltato anche tramite l’educazione affettiva, il buon uso della lettura dei social media, che è possedere diverse chiavi di lettura, e non solamente leggere il punto di vista dello scrittore.

La resilienza va costruita proprio grazie alle diverse opportunità che ci offre la vita ma per impararla sulla nostra pelle ed insegnarla ai nostri figli, bisogna sempre che qualcuno ci dia il buon esempio.

 
Dal Sito: stateofmind.it 

sabato 13 giugno 2020

Nella vita si può fare di tutto, tranne arrendersi


Non importa quale percorso scegliamo, se quello più breve o più lungo. Non importa se la strada scelta attraversa una foresta, una montagna o se costeggia il mare. In tutte troveremo degli ostacoli, perché la vita è un percorso a zig-zag con periodi di calma, giornate di sole e bufere di neve. Nonostante ciò, non dovremo arrenderci, la nostra volontà è inflessibile e raramente ci tiriamo indietro. Perché nella vita si può fare di tutto, tranne arrendersi.

Diceva Shakespeare che siamo come giardini e che la volontà è il giardiniere che si prende cura di noi. E questa è una grande verità. La psicologia della motivazione ci ricorda che nessun motore è così potente come l’energia che unisce emozioni, pensieri e comportamenti rivolti a uno stesso scopo.

Non esistono ostacoli che ci bloccano se agiamo con fiducia, ricordando quello che meritiamo. Ma ammettiamolo, non è sempre facile adottare questo approccio mentale. Spesso ci dimentichiamo dei nostri punti di forza e delle nostre risorse psicologiche.

A volte il destino ci sorprende con improvvise svolte, quelle in cui sentiamo di non avere più il controllo sulla nostra vita, in cui affiorano una moltitudine di paure. Come gestire queste situazioni? Come onorare quel dovere vitale di non arrendersi mai? Ne parliamo in questo articolo, perché, come già detto, nella vita si può fare di tutto, tranne arrendersi.

Nella vita si può fare di tutto, tranne arrendersi

Nel corso della vita, abbiamo tempo e opportunità quasi per tutto. Per essere felici o tristi. Ridere o cadere nella disperazione. Per amare e odiare, ammirare o diffidare.

Il passo nomade e la mente curiosa ci hanno portato in diversi luoghi, in paesi nuovi dove provare sensazioni inattese. Impariamo e disimpariamo. Correggiamo i nostri errori e ne facciamo di nuovi.

In questo scorrere di cicli e fasi della vita c’è sempre un compagno di viaggio che ci fa da copilota: la forza di volontà. Essa ci spinge a non arrenderci, afferra il timone nelle situazioni più difficili per mantenerci a galla. Tuttavia, come afferma questo studio condotto presso l’Università di Maastricht nei Paesi Bassi, la forza di volontà tende a indebolirsi.

Questa dimensione psicologica è strettamente legata alle emozioni. E, come è facile immaginare, l’umore non sempre è dalla nostra parte. Ci sono giorni in cui l’ansia diventa un peso insostenibile, così come il groviglio della tristezza e il labirinto della frustrazione.

In quei momenti è facile arrendersi, ripetersi che nulla è importante e che è meglio restare fermi farsi travolgere dalla tempesta. Ma non è certo la cosa migliore da fare. Non bisogna arrendersi in (quasi) nessun momento della vita.

Alimentare la forza di volontà che impedisce di arrendersi

Come afferma la American Psychological Association (APA), gran parte dei ricercatori definisce la forza di volontà come segue:

Capacità di impegnarsi per se stessi e per il proprio benessere.

L’abilità di disinnescare i pensieri inutili (come l’idea del fallimento) per dare forza, invece, a quelli che ci permettono di concentrarci su un obiettivo.

Strumento per imparare a gestire le emozioni. Capire in che modo ci bloccano le paure quando cerchiamo di superare un ostacolo o un’avversità.

È una risorsa che si esaurisce. Non siamo sempre motivati. È nostra responsabilità risvegliare e coltivare ogni giorno questa dimensione psicologica.

Pensare di farcela: il segreto dell’autoefficacia

Ripeterci che ce la faremo è il mantra più utile da utilizzare nei momenti difficili. Abbiamo sufficienti risorse interiori per riuscirci, per agire, per risolvere, per gestire. È vero che nessuno ci ha insegnato a essere forti, ma ci sono momenti in cui non c’è altra scelta che rialzarsi e farsi strada da soli.

Albert Bandura è stato il primo a parlare dell’importanza di lavorare sull’autoefficacia, ovvero sulla fiducia nelle nostre capacità di ottenere qualcosa, di migliorare noi stessi e avere successo. Lo stesso Banduraci ha fornito un chiaro esempio di come questa dimensione psicologica può aiutarci.

Immaginiamo di essere in una stanza dove c’è una sola via d’uscita: una porta vecchia e arrugginita chiusa a chiave. Abbiamo a disposizione cento chiavi, anch’esse vecchie e arrugginite, e tra tutte c’è proprio quella che ci permetterà di uscire.

L’autoefficacia è la certezza che prima o poi troveremo quella chiave. Potrebbe volerci del tempo e potremmo anche doverne provare 99 prima di trovare quella giusta. Ma, nonostante tutto, non ci arrendiamo…

Nella vita si può fare di tutto e le persone che non si arrendono profumano di speranza

A volte è necessario accettare la realtà. Ci sono momenti in cui arrendersi, fare un passo indietro o ritirarsi da certe battaglie non è solo la cosa più giusta; ma anche la più sana. Non ci sono dubbi. Nonostante ciò, nel 99% dei casi siamo obbligati ad andare avanti, a risvegliare il coraggio e la speranza in noi per non arrenderci.

Come si suol dire, la battaglia dall’esito peggiore è quella che non combattiamo. La vita ci regala momenti indimenticabili, ma in certi casi si può passare dalla quiete alla tempesta in una manciata di secondi. E in quei momenti, non c’è altra scelta che aprire l’ombrello della speranza e ballare sotto la pioggia aspettando l’abbraccio del sole del mattino.

Perché ci aspetta sempre un domani quando decidiamo di non arrenderci, quando osiamo e risvegliamo in noi il coraggio. Ricordiamolo.

Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

venerdì 12 giugno 2020

Resilienza: accettare sfide e produrre soluzioni creative




Equilibrio non è sempre mantenere le cose come stanno. Del resto, anche il funambolo, per non cadere, oscilla l’asta di continuo.

La vita mi ha insegnato molte cose, ma la più importante è stata la resilienza. Ci si chiede sempre se la resilienza si possa apprendere e come, ma soprattutto come e cosa possiamo imparare dalle persone resilienti. Sì, ma chi sono le persone resilienti? Secondo me le persone con disabilità sono persone resilienti. Ma prima di spiegarvi il perché, la questione rimane sempre la stessa: cercare una nuova definizione di “resilienza”. 

«Giulia, ma come fai ad essere così resiliente? Qual è la tua forza, ti pieghi e non ti spezzi? Le persone resilienti sono quelle capaci di schivare i colpi della vita, quelle che in una corsa a ostacoli non li fanno cadere?». 

No, sbagliato. 

Le persone resilienti si spezzano, anche, si fanno livide e sbagliano anche loro una gara a ostacoli facendone cadere qualcuno… ma allora cosa fanno e cosa sanno fare?

«Giulia, come fai allora?».

Credo che si possa dire che la differenza è che, malgrado gli ostacoli caduti, esse arrivano sino alla fine della gara. Io credo che la resilienza sia un’arte, l’arte di saper accettare le sfide e produrre soluzione creative. La vita è una corsa a ostacoli, ma non come un gara, peggio! Gli ostacoli non sono messi su una pista in piano come nelle gare di atletica, ma sono collocati alle volte in salita e alla volte in discesa, e ogni tanto si presentano anche doppi. 

Ecco, questo accade per tutti. Nella mia vita, come nella vita di tutti, credo, c’è un momento nel quale questa corsa aumenta il suo livello di difficoltà. Quindi, ostacoli doppi e tripli, con doppia frequenza, tutta in salita e anche con un tempo serrato per vincere la corsa. A questo puntole opzioni sono duenon parteciparealla corsa o provare il tutto per tuttoe vincere questa gara. 

Io scelsi la seconda. Scelsi di provare a vincere. La mia gara? Nove mesi di ospedale, comprendere cosa mi fosse successo e rimettermi a vivere e riprendere la mia vita tra le mani e senza l’uso della gambe. Questa è stata una delle più grandi sfide che ho deciso di intraprendere nella mia vita, ma sono sicura che adesso chiunque stia leggendo abbia in mente la grande sfida della propria vita

Nonostante tali esempi, il grande mistero rimane come si può “allenare” la resilienza. Mettiamo subito una cosa nero su bianco: essere resilienti significa essere elastici. Significa essere dinamici. Significa abbracciare il cambiamento. Questa è la prima regola: anche se il cambiamento vi spaventa e vi fa paura, non congelatevi, non allarmatevi, non pensate che l’equilibrio sia mantenere l’equilibrio. Affrontare i cambiamenti, accoglierli e saperli gestire è davvero la base, a mio avviso, della resilienza. 

Ma come essere propositivi davanti a un cambiamento che spaventa? La risposta sta nella strategia: non bisogna visualizzare il cambiamento nella sua totalità e complessità, bensì dividerlo in tante piccole parti e comportamenti da effettuare. È importante iniziare anche solo da un piccolissimo gesto, ma farlo nel preciso momento in cui si sta vivendo, nel famoso qui e ora. 

Mio padre era un alpinista e credo che, senza volerlo, mi abbia insegnato di non pensare solo ad arrivare in cima; mi ripeteva: «Pensa solo al prossimo appiglio. Fattone uno, pensa e prendi tempo per decidere quale sarà quello dopo. Non guardare su, l’importante è l’appiglio che ti serve adesso, perché quello deve reggere tutto il peso per poter andare verso quello dopo». 

Nella vita è la stessa identica cosa: si deve fare un passo alla volta, un appiglio alla volta, perché se la presa, se l’appoggio non sono ben saldi, non riusciranno a reggere il passaggio successivo. E questo si impara con l’esperienza. Passo dopo passo, piccolo cambiamento dopo piccolo cambiamento, vedrete che a un certo punto avrete affrontato il cambiamento nella sua totalità, senza esservi congelati. 

Ora forse alcuni diranno: «Prima o poi arriverà un cambiamento ancora più grande da affrontare. Magari, in quello non riuscirò». Ecco, essere resilienti significa ricordarsi delle proprie capacità, significa essere consapevoli delle proprie risorse, di quelle attuali e di quelle passate. 

Quindi dovete guardare indietro e ricordarvi che quella esatta sensazione di non riuscire a farcela, di non essere abbastanza, di non essere bravi l’avete già provata e almeno una volta avete già sconfitto quella sensazione negativa. Magari vi ricorderete quel momento in particolare, quell’esame o un trasloco troppo impegnativo, un test di ammissione o di quanto eravate innamorati, di un colloquio di lavoro, un nuovo obiettivo più importante. 

La vita è fatta di sfidedove si alzano sempre di più il ritmo e gli ostacoli; le sensazioni e i compiti sembrano sempre più difficili. In realtà, però, cambiano le tematiche, non le nostre sensazioni: l’essere umano tende all’omeostasi ed è naturale quindi dire: «No, non cambio». Tuttavia, capirete che siete cambiati e che vi siete rinnovati mille volte, e che mille volte siete cresciuti e migliorati

Tutti abbiamo un po’ di resilienza, magari abbiamo bisogno solo di riflettere e di ricordare quella sensazione provata alla fine di una gara, quella frase che dice: «Ce l’ho fatta, hai visto?».


Dal Sito: psicologiacontemporanea.it


venerdì 8 maggio 2020

Dolore emotivo: Ciò che non ti uccide ti rende più forte



Il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati”disse Ernest Hemingway. Sfortunatamente, ci sono persone che non si riprendono mai dai colpi che la vita dà loro, non sono in grado di permettere che le loro ferite guariscano, e queste terminano condizionando sia il loro presente che il loro futuro.

Il dolore emotivo può diventare molto più resistente e intenso del dolore fisico. Purtroppo, ci hanno educato a evitare il dolore, invece che affrontarlo e usarlo come trampolino di lancio per la crescita. Pertanto, non è strano che quando affrontiamo situazioni che ci causano sofferenza, attiviamo delle strategie che ci fanno sentire ancora peggio e ritardano la guarigione emotiva.

10 modi dannosi di affrontare il dolore emotivo

Il dolore emotivo genera di solito risposte diverse. Se non abbiamo sviluppato le nostre risorse psicologiche di coping, è probabile che agiremo automaticamente, ripetendo comportamenti che abbiamo imparato dai nostri genitori o da chi abbiamo vicino. In questi casi, è molto facile cadere in un ciclo di negatività in cui non troviamo l’uscita.

1. Fuga. Si traduce nel tentativo di allontanarsi con ogni mezzo dall’evento doloroso, dalla situazione che ci sta causando sofferenza. Ma dal momento che il dolore emotivo ha una grande componente soggettiva, non c’è posto al mondo in cui possiamo scappare da noi stessi, quindi questa strategia di evitamento di solito non è molto efficace.

2. Repressione. È un meccanismo di difesa che attiviamo quando crediamo di non essere in grado di affrontare il dolore emotivo. Consiste nel cercare di dimenticare gli eventi, in modo tale che non causino sofferenza. Il problema, ancora una volta, è che non possiamo semplicemente dimenticare perché quei contenuti rimarranno attivi, dal momento che non li abbiamo elaborati come parte della nostra narrativa di vita.

3. Negazione. Abbiamo scelto di ignorare la sofferenza, agendo come se non esistesse. Ogni volta che sentiamo una fitta di dolore diciamo a noi stessi che non sta succedendo nulla, che tutto sta andando bene. Ovviamente, negare la realtà non la farà scomparire.

4. Proiezione. In questo caso il dolore emotivo viene proiettato sugli altri. Quando mettiamo in azione questo meccanismo ci diciamo che noi stiamo bene, che sono gli altri a soffrire. Crediamo che non riconoscendo la sofferenza, questa scomparirà come per magia.

5. Regressione. Quando il dolore emotivo è molto forte, a volte ci rifugiamo in periodi precedenti della nostra vita, in cui ci sentiamo molto più a nostro agio e al sicuro. La nostalgia, e il bisogno di guardare indietro per sentirsi bene, indicano spesso che stiamo vivendo un presente che non ci piace. Tuttavia, per superare qualsiasi tipo di dolore emotivo è essenziale guardare avanti, non rimanere bloccati nel passato.

6. Isolamento. Più profonda è la ferita, più privato è il dolore. A volte non troviamo un modo per esprimere quella sofferenza, così finiamo per isolarci, viverlo in privato e permettergli di consumarci. Il problema è che l’isolamento genera solitudine e la solitudine innesca la depressione, introducendoci in un circolo vizioso che alimenta la sofferenza.

7. Razionalizzazione. Se crediamo di essere una persona profondamente razionale, che non può essere influenzata dalle emozioni, rifiuteremo il dolore emotivo e cercheremo delle cause razionali che possano confortarci. Il problema è che spesso questo processo porta all’autocolpevolizzazione, che genera problemi ancor maggiori a livello emotivo.

8. Spostamento. In questo caso cercheremo di trovare un colpevole fuori di noi, a cui possiamo attribuire la responsabilità del nostro dolore. Ma la verità è che la ricerca del capro espiatorio ci impedisce di assumere la nostra parte di responsabilità e imparare dall’esperienza. Pertanto, quel dolore sarà stato inutile.

9. Sostituzione. In questo caso, la strategia che scegliamo per affrontare il dolore emotivo è sostituire i pensieri che ci feriscono con altri, per evitare la sofferenza. All’inizio, non ci sarebbe nulla di sbagliato in questo, il problema si presenta quando la sostituzione dei pensieri viene fatta con l’obiettivo di negare l’evento o quando usiamo affermazioni ingenue come “stai molto bene, non succede assolutamente nulla”.

10. Ripetizione. È una delle peggiori strategie che possiamo usare per affrontare il dolore emotivo perché consiste nel ripassare, più e più volte, l’accaduto. La nostra mente si trasforma in un cinema in cui proiettiamo continuamente i fatti, cercando di ricostruire anche il più piccolo dettaglio nel tentativo di trovare consolazione o una spiegazione. Ovviamente, questa strategia non fa che alimentare il problema.

3 passi per superare il dolore emotivo

1. Il dolore non è tuo amico, ma neppure il tuo nemico

Il dolore è dentro di noi, non possiamo sfuggirgli, anche se è vero che in alcuni casi è conveniente allontanarsi dalla fonte che lo causa. Ma è sempre necessario fare un profondo lavoro interiore.

Negare il dolore non è il modo migliore per affrontare la sofferenza. Il dolore emotivo è un sintomo, il segno che qualcosa non va e dobbiamo “ripararlo”. Pertanto, il primo passo per superarlo è accettarne l’esistenza e imparare a conviverci finché poco a poco scomparirà.

Quando soffriamo un’esperienza traumatica le tracce dolorose rimangono impresse nel nostro cervello. I neuroscienziati dell’Università di Harvard chiesero a delle persone che avevano subito un trauma di ascoltare una descrizione dell’accaduto, nel frattempo veniva scannerizzato il loro cervello. Scoprirono così che quando le persone non erano in grado di voltare pagina, si attivavano soprattutto l’amigdala, il nucleo della paura e la corteccia visiva, il che significa che stavano rivivendo questi eventi in modo particolarmente intenso.

Al contrario, nelle persone che erano riuscite a superare il trauma, si attivò l’area di Broca, responsabile del linguaggio. Ciò significa che queste persone trasformarono l’evento doloroso in un’esperienza narrativa che incorporarono nella loro storia di vita, così da riuscire ad alleggerirlo, almeno in parte, del suo impatto emotivo.

All’inizio, l’idea è quella di prendere atto del dolore, come potremmo prendere atto del resto delle cose che ci circondano, ma cercando di non drammatizzare ancora di più. Per esempio: “provo dolore, ne sono consapevole ed è una risposta normale che svanirà con il passare dei giorni”. Certo, non si tratta di accettare solo quel dolore, ma anche tutti i sentimenti che porta con sé, dalla rabbia alla frustrazione.

2. Accettazione radicale: a mali estremi, rimedi estremi

Lo psicologo William James scrisse: “accettare ciò che è accaduto è il primo passo per superare le conseguenze di qualsiasi disgrazia”. Se continuiamo a rimuginare sull’accaduto, non potremo mai voltare pagina.

Tara Brach ci propone di praticare l’accettazione radicale, che consiste in “riconoscere chiaramente ciò che proviamo nel presente così da poter affrontare quell’esperienza con compassione”. Questo significa accettare tutto ciò che ci accade nella vita senza opporre resistenza. Non significa rassegnarsi, ma assumere che certe cose sono successe e non possiamo cambiarle, invece di emettere continuamente giudizi di valore che ci immergono in un ciclo di negatività, come ad esempio: “non doveva andare così”, “non è giusto” o “perché proprio a me?”

Quando accettiamo un evento, per quanto doloroso, riusciamo a capire che questo evento fa parte del passato e che ciò che condiziona il nostro presente sono i pensieri e le emozioni che stiamo alimentando. Certo, non è facile, l’accettazione non arriva in un colpo solo, è un processo che richiede un arduo lavoro psicologico.

Mentre accetti che l’accaduto appartiene al passato, il tuo cervello lo elaborerà finché non riuscirai a “sconnetterlo” dal tuo presente. Quando accetti che non puoi cambiare quello che è successo, il cervello smetterà di cercare soluzioni, il che significa che smetterai di rimuginare e rivivere l’esperienza dolorosa nella tua mente.

3. Ricomporre i pezzi rotti che il dolore lascia dietro di sé

L’avversità colpisce tutti, siamo noi che dobbiamo imparare non solo a sopravvivere, ma anche ad uscire rafforzati dall’esperienza. Essere dei sopravvissuti che trascinano con sé il dolore emotivo può diventare un vero incubo.

Ci sono persone che hanno la capacità innata di ricomporre i pezzi rotti, sono persone resilienti che dispongono di risorse straordinarie per il recupero emotivo. Altri devono sviluppare quelle abilità. Secondo lo psicologo Guy Winch, “la perdita e il trauma possono fare a pezzi la nostra vita, devastare le nostre relazioni e sovvertire la nostra stessa identità”, ma è necessario ricomporre quei pezzi.

In realtà, le esperienze traumatiche che lasciano dietro di sé una grande sofferenza sono così dolorose, tra le altre ragioni, perché fanno a pezzi le nostre convinzioni rispetto al mondo, facendoci notare che non è un posto così sicuro come pensavamo. Questa scoperta può essere piuttosto destabilizzante, perché non si tratta solo di riprendersi dal colpo subito, ma ci rende consapevoli che la vita può infliggerci colpi ancor più dolorosi.

Per curare la ferita abbiamo bisogno di tempo e di un profondo lavoro introspettivo. Infatti, molto spesso non si tratta di rimettere i pezzi rotti al loro posto, come faremmo con un vaso rotto, ma trovare nuovi modi di far combaciare quei pezzi. Questo significa che potresti trovare un nuovo significato della vita, capire in che modo questa esperienza ti ha reso più forte o addirittura sentirti incoraggiato a intraprendere nuovi progetti. Se usi il dolore come un’opportunità per crescere, invece di vederlo solo come una fastidiosa pietra sul tuo cammino, non sarà stato invano.

lunedì 23 settembre 2019

Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica possibilità che hai 



Bob Marley disse: “non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai”. E non sbagliava, perché la verità è che non sappiamo mai fino a dove posiamo arrivare e quanto possiamo crescere, fino a quando non abbiamo la necessità di metterci alla prova.

Le avversità ti rafforzano

Uno studio condotto da psicologi del King’s College Hospital di Londra e ilRoyal Mardesen Hospital di Sutton ha analizzato come le donne con diagnosi di cancro al seno rispondevano alla malattia. Hanno così individuato cinque diverse attitudini: spirito combattivo, fatalismo, disperazione, preoccupazione ansiosa e negazione.

Questi psicologi hanno scoperto che quando le condizioni cliniche iniziali erano simili, le donne che affrontavano la malattia con un senso d’impotenza, disperazione e fatalismo avevano un decorso peggiore. Al contrario, chi aveva uno spirito combattivo e un atteggiamento resiliente aveva anche una prognosi migliore.

Hanno inoltre scoperto che chi aveva subito traumi importanti in passato e li aveva superati era più propensa a risolvere eventuali problemi che sorgessero in futuro. Questo non solo perché la sofferenza la aveva resa più forte, ma anche perché gli aveva insegnato ad avere fiducia nelle proprie capacità, gli diceva che poteva andare avanti.

A questo proposito Ernest Hemingway disse: “Il mondo spezza tutti e poi molti sono forti proprio nei punti spezzati”. Di fronte alle avversità, possiamo crollare e lamentarci di ciò che è successo o possiamo approffittare della situazione per uscirne rafforzarti.

Uno studio più recente realizzato dalle università di Buffalo e della California, conferma che ciò che non ci uccide ci rende più forti. Questi psicologi hanno analizzato come 2.398 persone di età compresa tra i 18 ei 101 anni affrontavano le situazioni di stress e gli eventi traumatici della loro vita.

Scoprirono così che coloro che avevano vissuto degli eventi negativi durante la vita avevano una migliore salute mentale e un maggiore benessere rispetto alle persone che avevano a che fare con i problemi attuali ma non avevano avuto problemi seri in passato.

Le persone che avevano vissuto gravi avversità in passato, mostravano meno angoscia, non avevano sintomi di stress post-traumatico e mostravano una maggiore soddisfazione nella vita. Inoltre gestivano anche meglio i problemi del presente.

Non v’è dubbio che le avversità rappresentano delle ottime lezioni di vita. Da un lato, ci permettono di testare le nostre risorse e, dall’altro, ci infondono fiducia. Quando abbiamo toccato il fondo, la fiducia che possiamo risalire è essenziale per continuare a lottare.

La regola del 40%

I Navy Seal (reparti speciali della marina statunitense) sono famosi per la loro preparazione fisica piuttosto impegnativa, che spesso li porta fino al limite della loro forza. Secondo loro, siamo in grado di sopportare molto di più di quanto pensiamo e andare oltre a ciò che ci proponiamo.

Questi soldati sostengono che quando la nostra mente dice “basta” in realtà abbiamo raggiunto solo il 40% della nostra capacità. Pertanto, quando crediamo che non possiamo più proseguire e siamo pronti a gettare la spugna, abbiamo ancora un ampio margine di possibilità: il 60% in più.

Naturalmente, queste cifre sono indicative, la cosa più importante è il messaggio alla base: in certe situazioni, quando stiamo per abbandonare tutto, ciò che ci ferma e demotiva non è la mancanza di energia, ma solo un blocco mentale.

La regola del 40% è uno strumento molto utile quando ci troviamo in situazioni difficili perché ci aiuta a superare i nostri limiti e cambiare prospettiva, ci dice che possiamo fare un passo in più, e poi un altro e un altro ancora…

Newt Gingrich, un politico americano, non poteva riassumerlo meglio: “la perseveranza è il duro lavoro che fai dopo esserti stancato del duro lavoro che hai già fatto”.

Naturalmente, questo non significa che dobbiamo cercare le avversità o resistere stoicamente contro venti e maree, ma quando i problemi bussano alla nostra porta, dobbiamo essere pronti ad imparare la lezione e, soprattutto, sapere che possiamo contare sulle nostre forze.

venerdì 19 luglio 2019

Sii come il fiore di loto: rinasci ogni giorno e affronta le avversità




La natura è così appassionante da darci le risposte più inattese quando crediamo che non possano esistere al di fuori della nostra mente, della nostra speranza e del nostro desiderio di andare avanti. Lungi dal mostrare una realtà monotona e prevedibile, ogni angolo in cui la natura sboccia con libertà ci lascia un nuovo insegnamento su cosa significhi abitare questo mondo.


No solo è generosa nei confronti della scienza, ma anche dei nostri sensi e della nostra spiritualità. Lo è al punto che nella grande varietà di manifestazioni, specie e fenomeni che produce ci imbattiamo in autentiche lezioni su come affrontare la vita. Autentiche teorie psicologiche senza controllo delle variabili né analisi di affidabilità o validità, ma che racchiudono un messaggio la cui bellezza e il cui significato sono indiscutibili.

Tra tutti i fenomeni infiniti e curiosi della natura si trova quello del fiore di loto. Un fenomeno sui generis che si traduce in un’appassionante metafora sulla vita e sulle avversità che affrontiamo ogni giorno.

Il fiore di loto

Il fiore di loto è simile ad una ninfea che affonda le sue radici nel fango e nel pantano di lagune e laghi. Il fiore di loto possiede i semi con maggiore longevità e resistenza: può resistere fino a 30 secoli prima di fiorire senza perdere la sua fertilità.

Il fiore di loto è il simbolo della purezza e della bellezza che può sorgere da un terreno fangoso.

Questo bel fiore emerge dal fango e si nutre di esso in paludi o habitat pantanosi e quando fiorisce, si eleva sulle sue foglie. Di notte i petali si chiudono e il fiore si immerge sott’acqua. Si chiude per sprofondare, ma all’alba si innalza di nuovo sull’acqua sporca, intatto e senza resti di impurità grazie alla disposizione dei suoi petali a forma di spirale.

Il fiore di loto presenta una peculiarità: è l’unico fiore ad essere frutto allo stesso tempo: il frutto ha la forma di un cono rovesciato e si trova al suo interno. Quando il fiore è chiuso, è inodore, ma quando si apre, il suo aroma ricorda quello del giacinto. Molti considerano il suo aroma ipnotico, capace di alterare gli stati di coscienza.

Mitologie sul fiore di loto

Il grande fascino di questo fiore lo ha portato ad essere un simbolo fondamentale per molteplici civilizzazioni lungo il corso della storia. Il fiore di loto è considerato sacro ed è uno dei simboli più antichi al quale sono stati attribuiti diversi significati nei vari paesi orientali, tuttavia troviamo molteplici riferimenti ad esso anche nel mondo occidentale.

Nella mitologia greca, i lotofagi erano un mitico popolo che gli antichi identificavano con gli abitanti di una popolazione del nordest dell’Africa. La leggenda racconta che una bella dea si perse in un bosco fino a raggiungere un luogo nel quale abbondava il fango, denominato loto, nel quale si immerse.

Questo spazio era stato creato dalle divinità per gli esseri il cui destino era stato avverso. Tuttavia, la giovane lottò per migliaia di anni fino a risalire trasformatasi in un bel fiore di loto che simbolizzava il trionfo della perseveranza dinanzi alle situazioni avverse.

In ambito buddista il loto funge da sedile o trono per Buddha o i Buddha ed indica una nascita divina. Nel mondo cristiano, il fiore di loto vien sostituito dal giglio bianco, simbolo di fertilità e purezza. Tradizionalmente, infatti, l’Arcangelo Gabriele viene rappresentato con in mano il giglio dell’annunciazione per la Vergine Maria.

Il fiore di loto e il suo significato in psicologia

Il fiore di loto simboleggia il potere della resistenza psicologica in quanto capacità di trasformare le avversità in potenzialità. Suzanne C. Kobasa, psicologa presso l’Università di Chicago, ha condotto diverse ricerche grazie alle quali è stato possibile individuare che le persone resistenti presentano alcune caratteristiche comuni. Di solito sono persone che si impegnano molto, che possiedono controllo e propense alla sfida.

“Le persone più belle che ho incontrato sono quelle che hanno conosciuto la sconfitta, la sofferenza, la lotta, la perdita e hanno trovato il loro modo di risalire dalle profondità”

– Elisabeth Kubler Ross-

In seguito, questa definizione è stata riconcettualizzata con il termine resilienza, ovvero l’essenza della persona resistente. La resilienza di solito viene definita come la capacità degli individui di non cedere ai momenti di dolore emotivo e alle grandi avversità.

Il fiore di loto è una magnifica metafora delle persone capaci di piegare il dolore e dispiegarlo poi sotto forma di serenità, autocontrollo e persistenza.

via La Mente Meravigliosa


Dal sito: aprilamente.info 

lunedì 24 giugno 2019

Il mito della fenice e il fantastico potere della resilienza



Nel suo libro “Simboli della trasformazione”, Carl Gustav Jung scrive che l’essere umano e la fenice hanno molte cose in comune. Questa emblematica creatura di fuoco, in grado di risorgere maestosamente dalle ceneri della sua stessa distruzione, simboleggia anche il potere della resilienza, l’ineguagliabile abilità di rinascere molto più forti, coraggiosi e luminosi.

Se esiste un mito alla base di quasi tutte le dottrine, culture e leggende dei nostri paesi, è senza dubbio quello che fa riferimento alla fenice. Si narra che le sue lacrime fossero curative, che avesse una grande resistenza fisica, che fosse in grado di controllare il fuoco e che possedesse una saggezza infinita. Secondo Jung, era in sostanza uno degli archetipi di maggiore considerazione, perché nel suo fuoco erano contenute la creazione e la distruzione, la vita e la morte…

“L’uomo che si alza è ancora più forte di quello che non è mai caduto”

Analogamente, è interessante sapere che, sia nella poesia araba sia nella cultura greco-romana e persino in gran parte del patrimonio storico orientale, vi sono precoci riferimenti alla sua mitologia. In Cina, ad esempio, la Fenice (o la Feng Huang) simboleggia non solo la più alta espressione di integrità, potere e prosperità, ma anche il concetto di yin e yang, questa dualità che armonizza tutto ciò che accade nell’universo.

Vale comunque la pena ricordare che le prime testimonianze culturali e religiose che ruotano attorno a questa figura provengono dall’Antico Egitto, dove, a sua volta, prende forma quest’immagine che oggi associamo alla resilienza. Ogni dettaglio, sfumatura e simbolo che caratterizza questo mito ci offre senza dubbio un ottimo spunto sul quale riflettere.
La fenice e il potere di risorgere dalle proprie ceneri

Viktor Frankl, neuropsichiatra e fondatore della logoterapia, sopravvisse alla tortura dei campi di concentramento. Proprio come ha spiegato egli stesso in molti dei suoi libri, un’esperienza traumatica è sempre negativa, ma la reazione alla stessa è strettamente connessa alla persona che la vive. Sta a noi scegliere se rialzarci e riprendere in mano la nostra vita risorgendo dalle ceneri in un trionfo senza eguali; o, al contrario, limitarci a vegetare e abbatterci…

Questa ammirevole capacità di rinascita, di riprendere fiato, ritrovare la voglia di andare avanti e le forze per farlo, a partire dalle nostre sventure e dai cocci rotti che ci portiamo dentro, prima di tutto attraversa un periodo davvero buio, certamente comune a molti: la “morte”. Quando affrontiamo un momento traumatico, “moriamo un po’”, abbandoniamo una parte di noi stessi che non tornerà più, che non sarà più uguale.

Carl Gustav Jung, infatti, stabilisce la nostra similitudine con la fenice perché anche questa fantastica creatura muore, anch’essa permette che si verifichino le condizioni necessarie per morire, perché sa che dai suoi stessi resti risorgerà una versione di sé molto più forte.

Fra tutti i miti su questa figura, quello egizio ci offre, come abbiamo detto prima, ottimi spunti su cui soffermarci per

comprendere meglio la relazione fra la fenice e la resilienza. Vediamoli a seguire.

La fenice in Egitto

Nei suoi testi, Ovidio spiegava che in Egitto la fenice moriva e rinasceva una volta ogni 500 anni. Gli egizi identificavano questo maestoso airone con Bennu, un uccello associato alle piene del Nilo, al sole e alla morte. Secondo quanto spiegavano, la fenice era nata sotto all’albero del bene e del male, sapeva che era necessario rinascere periodicamente per acquisire maggiore saggezza e, con questo obiettivo, seguiva un processo molto meticoloso.

Volava per tutto l’Egitto per costruirsi un nido con gli elementi più raffinati: bastoncini di cannella, di quercia, nardo e mirra. Sistematasi nel suo nido, intonava una delle melodie più aggraziate che gli egizi avessero mai udito per poi lasciare che le fiamme la consumassero del tutto. Tre giorni dopo, la fenice rinasceva piena di forza e potere, prendeva il suo nido e lo lasciava a Eliopoli, nel tempio del sole, per iniziare così un nuovo ciclo che fosse una fonte d’ispirazione per il popolo egiziano.

La resilienza e il “nido” della nostra trasformazione

Come abbiamo potuto vedere, il mito egizio della fenice è una storia bellissima. Tuttavia, analizziamone adesso qualche dettaglio. Soffermiamoci, per esempio, sul modo in cui la fenice costruisce il suo nido. Cerca i materiali più ricchi della sua terra: delicati e resistenti allo stesso tempo, capaci di aiutarla nella sua trasformazione, nella sua ascesa.

Se ci pensiamo bene, questo processo è molto simile a quello che dà forma alla dimensione psicologica della resilienza. Perché anche noi cerchiamo questi elementi magici con i quali costruire un nido ben resistente nel quale raccogliere tutte le nostre forze.

L’essere umano deve spiegare le ali per sorvolare il suo universo interiore in cerca dei ramoscelli della sua autostima, del fiore della sua motivazione, della resina della sua dignità, della terra dei suoi sogni e dell’acqua tiepida del suo amor proprio…

Tutte queste componenti lo aiuteranno nella sua ascesa, ma non prima di essere consapevole del fatto che ci sarà una fine; una parte di noi stessi se ne andrà, si trasformerà in cenere, nei resti di un passato che non tornerà mai più.

Tuttavia, queste ceneri non verranno portate via dal vento, anzi. Faranno parte di noi per formare un essere che rinasce dal fuoco molto più forte, più grande, più saggio… Un individuo che potrebbe essere fonte di ispirazione per gli altri ma che, prima di tutto, ci permetterà di andare avanti a testa alta e con le ali ben aperte.

via La Mente Meravigliosa

Dal Sito: aprilamente.info 

martedì 27 novembre 2018

Il cambiamento e la via di fuga



Sii come la fonte che trabocca e non come la cisterna che racchiude sempre la stessa acqua.
Paulo Coelho

L’acqua stagnante in breve tempo diventa torrida e fetida, così la nostra vita, se bloccata, andrà incontro allo stesso processo.
Lasciarsi andare ai mutamenti, senza opporre resistenza, sarebbe la naturale strada da seguire. Come l’acqua di un ruscello viaggia verso il suo percorso, fino a diventare fiume e poi mare, così noi, in continuo movimento, dovremmo evolvere verso nuove conoscenze e nuove esperienze.

Ma quali sono gli ostacoli che diventano così insormontabili da non permetterci di proseguire lungo il nostro cammino?
– La paura del cambiamento
– La mancanza di fiducia nelle nostre potenzialità.
– La paura del nuovo.
– L’attaccamento alle abitudini, anche se dannose.

Ogni cambiamento ha un simbolismo iniziatico: si deve prima “morire”, lasciando il passato per entrare in una nuova vita.

La metafora del bruco, avvolto dapprima nel bozzolo, che lo protegge come un utero materno, e poi la trasformazione in una farfalla, che vola libera, posandosi di fiore in fiore, rende bene l’idea della trasformazione, processo naturale, a cui noi tutti siamo invitati a seguire.


Ci deliziamo nella bellezza della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza.
Maya Angelou

Per cambiare bisogna attraversare delle sofferenze, non esiste un cambiamento indolore. Là dove la nostra resistenza diventa incancrenita, fino a diventare ciechi e sordi al richiamo di un equilibrio, il mal d’essere ci renderà ancora più aspri e deboli.

Il disagio è un sintomo che a lungo andare può diventare un vero disturbo. L’ansia, l’insoddisfazione, l’apatia, la depressione, gli attacchi di panico, non sono altro che dei segnali che ci stanno avvertendo che il nostro organismo si sta ammalando, che bisogna trovare una via di fuga.

Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare la barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio.
Henri Laborit – Elogio della fuga

La prima causa dell’angoscia è l’impossibilità di realizzare l’azione gratificante, e sottrarsi a una sofferenza con la fuga o con la lotta è anch’esso un modo di gratificazione, di sfuggire all’angoscia.
Henri Laborit

Nel film ‘Mon oncle d’Amerique’, che consiglio di vedere, è narrata la vita di tre personaggi e la loro quotidianità e disagio, ed ognuno si muove secondo la teoria di Henri Laborit, tra scelta di cambiamento o assenza di fuga. Ognuno dei tre, in base al proprio libero arbitrio, alla propria scelta avrà un risultato: la salvezza nella fuga, la malattia per mancanza di fuga.

Attraverso degli esperimenti con i ratti, Henri Laborit, dimostrò che in condizioni di estremo stress, cioè in situazioni in cui l’animale non può lottare, né fuggire per evitare una situazione spiacevole, i ratti somatizzano fino a produrre ulcere, cosa che non avviene se possono fuggire o sfogare l’aggressività combattendo.

Alla luce di tutto questo chiediamoci se il costo da pagare, in termine di salute, mentale e fisica, non sia abbastanza alto.

Ognuno è chiamato a dover rivedere il proprio programma di vita su questa Terra, a fare il bilancio di ciò che si è vissuto, di come si è vissuto e del grado di soddisfazione o insoddisfazione rispetto ai propri desideri.

Secondo il manuale di Epitteto, una sola zona ci appartiene, ed è l’unica zona che ci permette di poter agire: i nostri pensieri, le nostre decisioni.

Se imparassimo ad usare questo grande potere che ci appartiene, il libero arbitrio, potremmo essere davvero protagonisti della nostra vita.
Impariamo a ritrovarci, a riconoscerci, ad amarci per ciò che siamo, a mutare là dove duole, dove la sofferenza si insinua creando il nostro disagio, il mal di vivere.

Non tutte le prigioni hanno le sbarre, spesso non ci accorgiamo di essere prigionieri ed evadere é più difficile. Sono i nostri preconcetti ed automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte della creatività.


Mentre cerchiamo di capire, il tempo passa e la vita con lui.
Henri Laborit



Dal Sito: expartibus.it