venerdì 27 ottobre 2017

Depressione: per uscirne bisogna chiedere aiuto


Ho imparato che condividere con gli altri la tristezza, il bisogno, il dolore significa che alcuni si allontaneranno, ma che un infinito numero di persone si manifesteranno a te. Simona Vinci, autrice di "Parla, mia paura", racconta come è riuscita a sconfiggere depressione e attacchi di panico

Siamo sedute nella sala d’attesa di un reparto di un grande ospedale pubblico dell’Emilia Romagna, la mia Regione. Talmente grande, questo edificio, che nonostante le piantine a caratteri cubitali posizionate in ogni dove su grandi tabelloni plastificati, nonostante le frecce colorate con i numeri e le lettere che indicano i vari reparti e ambulatori e le direzioni per ascensori e bagni e corridoi, ci si perde lo stesso. E il senso dell’orientamento se ne va a farsi un giro fuori dalla tua testa e dal tuo corpo, come succede a volte dentro gli aeroporti giganteschi delle metropoli, quando magari sei all’altro capo del mondo, da sola, e non sei sicura che saprai spiegarti nella lingua giusta. Hai paura a chiedere indicazioni, il tempo stringe, vorresti uscire a fumare, ma non si può più e giunti a questo punto, se tu cercassi disperatamente un’uscita rischieresti di non riuscire a raggiungere mai più il terminal giusto e di perdere l’aereo.
Scrivere mi ha salvato

Ma oggi, qui, non succede niente di tutto questo, siamo in due e lei, in questo posto, si orienta abbastanza bene perché ci è già stata tante volte. Non siamo amiche intime o, almeno, non lo siamo ancora nel momento in cui io sposto la sedia azzurra per mettermi davanti a lei, all’altezza del suo sguardo, e raccogliere la paura che proviamo entrambe, per motivi simili e diversi, e provare a scioglierla dentro le parole che ci diciamo. Si dice a volte che le parole non servano, che siano i gesti, e quelli soli, a fare la differenza. Io non ci ho mai creduto. Sarà perché scrivo, e le parole sono il pane e l’acqua della mia vita da sempre. Sarà perché ho visto e sentito fiorire e nascere sentimenti sul concime delle parole. Sarà perché le parole mi hanno salvato la vita, sempre. Nei momenti più difficili, quelli in cui mi è capitato, come spesso capita, a tutte e tutti, di trovarsi in quello che appare come un vicolo cieco: prima o dopo, una parola è riuscita a intrufolarsi e a raggiungermi.

Ho cercato lo sguardo di un altro

Qualcuno ha paura di amare, qualcuno di perdere le persone che ama, di essere abbandonato, ferito, di non essere all’altezza di ciò che gli viene richiesto, paura di non essere abbastanza intelligente, abbastanza bravo, paura di non farcela a corrispondere alle aspettative degli altri, del mondo.

Quanta gente schiacciata, distrutta e ammutolita dalle paure.

Lo sono stata anche io, ho sofferto di depressione e attacchi di panico. Mi sono dibattuta in una ragnatela appiccicosa e tagliente senza trovare la forza di chiedere aiuto. Avevo tachicardia, lampi visivi, senso di soffocamento e paura di impazzire, come se il corpo stesse per esplodere. Mi accadeva di giorno (e questo mi impediva di vivere una vita normale) ma anche di notte, quando ero a letto, all’improvviso.

Volevo farcela da sola, liberarmi da sola, o sola o niente. Guai, mi dicevo, a chiedere aiuto! Guai, a mostrare la tua ferita o gli altri se ne approfitteranno. E poi, che umiliazione, mostrarsi deboli, bisognosi, piagnucolosi e malfermi come bambini che chiamano la mamma per un graffio. Eppure, un giorno è successo, un giorno che non ce la facevo più ho alzato lo sguardo a cercare gli occhi di qualcuno. Un giorno non ho potuto far altro che quello: alzare lo sguardo, incontrare un paio di occhi e chiedere: mi aiuti? Da quel momento, molto è cambiato. Sono cambiata io.
Ho imparato a mostrare le mie ferite

Piano piano ho imparato che potevo rischiare di mostrare la mia vulnerabilità, che non tutti, questo è ovvio, l’avrebbero compresa, che non tutti mi sarebbero stati accanto, non tutti sarebbero diventati amici o alleati, ma non tutti non vuole dire appunto nessuno, vuol dire, qualcuno sì, qualcuno no.

A dire il vero, molti, sì. Ho imparato che condividere con gli altri anche la tristezza, anche il bisogno, anche il dolore significa che alcuni si allontaneranno, impauriti o annoiati, ma che un infinito numero di persone delle quali non avresti sospettato l’esistenza e la disponibilità, si manifesteranno a te.

Non c’è bisogno di pretendere. Bisogna solo trovare la forza di aprire una finestra, un cancello, una porta e uscire. Bisogna prendere una sedia azzurra e sedersi di fronte a quella che diventerà un’amica per ascoltare il suo dolore e farla partecipe del tuo. Quello che accadrà sarà diverso, per ognuna e per ognuno, ma, quasi sicuramente, almeno una risata dopo le lacrime arriverà, e quella risata se è vero che non cancellerà l’amarezza, le sconfitte, la rabbia e la paura, le accoglierà però in uno spazio differente. Una sala d’aspetto asettica di un grande ospedale pubblico potrà trasformarsi in un intimo salottino con la luce soffusa, i fiori sul tavolo, uno spazio amichevole abitato dalle parole e accudito dalla reciproca attenzione.

di Simona Vinci, scrittrice

Dal Sito: www.donnamoderna.com

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