venerdì 21 settembre 2018

Vado in terapia. Voglio cambiare ma non ci riesco. Perché?


La resistenza al cambiamento è attribuibile a molteplici fattori, spesso non prevedibili. Alcuni fattori che possono ostacolare il cambiamento in un percorso di psicoterapia sono: il contributo del paziente, la personalità del terapeuta e l'alleanza terapeutica, la metodologia di intervento e altri fattori contestuali.
Un’iniziale resistenza al cambiamento in un percorso di psicoterapia è qualcosa di naturale, spesso i pazienti si dimostrano ambivalenti rispetto al loro desiderio di cambiare. Perché sia possibile avviare un reale processo di cambiamento, un buon terapeuta dovrà essere capace di comprendere e rispettare quest’ambivalenza ed accogliere con empatia e accettazione quanto portato dal paziente.

È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare.
(Carl Rogers)

Quando arriva questo fatidico momento, saremmo tutti pronti ad accoglierlo? Ad abbandonare vecchi schemi e buttarci in un abisso sconosciuto? Davvero richiediamo un cambiamento? O desideriamo sia l’altro a cambiare? E chi ci accompagnerà in questo, è in sempre in grado di poterci aiutare?
Rendere esaustivo il tema della resistenza al cambiamento in terapia psicologica appare alquanto illusorio. Ciò impone, in questa sede, il concentrarsi principalmente sul tema della resistenza ad esso, nel tentativo di porre un confine, seppur apparente, ad una trattazione tanto ampia.

Psicoterapia: quali fattori generano una resistenza al cambiamento?
Nel definire cosa si intende per resistenza al cambiamento, ci si imbatte in una definizione nella quale l’angoscia emotiva causata dalla possibilità di cambiamento assume il ruolo di cartina tornasole.
Come però sottolinea Bruno Bara (2007), la resistenza al cambiamento è attribuibile a molteplici fattori che non sono prevedibili. Alcuni fattori che potrebbero entrare in gioco in un percorso di psicoterapia e ostacolare il fluire del cambiamento sono: il contributo del paziente, la personalità del terapeuta e l’alleanza terapeutica, in aggiunta, la metodologia di intervento e altri fattori contestuali (eventi imminenti, cultura, rete sociale, etc.).
Prendendo in considerazione il contributo del paziente, Bara (2007) propone alcuni esempi di possibili impedimenti. Ad esempio, alcuni soggetti, pur essendo motivati al cambiamento, sembrano auto-boicottarsi, come avviene nella sindrome del sopravvissuto, non riconoscendosi il diritto né il permesso di poter cambiare. Altri tipi di difficoltà possono essere: le difficoltà cognitive, che portano la persona a non avere consapevolezza della necessità del cambiamento o di quanti già messi in atto; le difficoltà nel gestire la condivisione, nel definire i confini di sé e i problemi relazionali; la paura connessa al cambiamento che rende preferibile il persistere dello status quo; il non accogliere come evento possibile le ricadute, percependo come un fallimento il riproporsi di vecchi meccanismi e infine il dropout nel quale il paziente abbandona il trattamento per rifuggire nel suo passato.
Leiper (2001), distinguendo le diverse tipologie di crisi che possono avvenire in psicoterapia, sottolinea la presenza delle crisi intrinseche. Tali crisi si presenterebbero nel momento in cui il paziente percepisce una pressione emotiva suscitata dalla terapia; la sensazione di discontinuità nel senso di sé viene percepito come fonte minacciosa. Di conseguenza, nel tentativo di proteggere la propria identità, si potrebbero scatenare condizioni di agitazione, ansia, depressione o episodi psicotici.
Altri autori, come Hall e Duvan (2004), sottolineano che un ulteriore contributo apportato dal paziente potrebbe essere quello di percepire il cambiamento troppo difficile per le proprie risorse; di non avere conoscenze e strumenti adeguati a raggiungere il risultato prefissato, non essere sufficientemente motivato e spesso essere spaventato dal cambiamento stesso. Questi soggetti sembrerebbero avere una scarsa apertura al cambiamento.
Lorenzini e Sassaroli (2000) hanno sottolineato come l’essenza della patologia risieda nel blocco del processo di cambiamento, che solitamente si attiva al mancato raggiungimento di uno scopo a causa di una o più credenze che impediscono la modifica della strategia di perseguimento dello scopo e la rinuncia allo scopo stesso. Gli ostacoli consistono in credenze ben radicate che sembrano al paziente come immodificabili per scarsità di risorse personali, per abitudine o per mancanza di alternative alle credenze stesse.
Ulteriore fattore inerente al contributo apportato dal paziente potrebbe essere riconducibile alle teorie psicologiche naives (Lorenzini, Sassaroli, 2000) in quanto spesso contribuiscono a mantenere circoli viziosi che generano sofferenza e disagio. Attribuire ad esempio dei propri stati d’animo a fattori esterni deresponsabilizza il paziente, ed egli appare totalmente in balia degli altri.
Engle e Arkowitz (2006) evidenziano l’esistenza di schemi disadattivi frutto di strategie di coping messe in atto per raggirare la sofferenza data da essi. Tali stili di coping consistono sostanzialmente nell’evitamento (fuggire dalle situazioni attivanti) e la compensazione (tendenza ad assumere comportamenti tesi a ricercare ed ottenere approvazione). Evitamento e compensazione utilizzati in psicoterapia sarebbero fonte di resistenza. L’evitamento potrebbe tradursi in scarsa partecipazione e risposte dissociate, mentre la compensazione può definirsi con l’eccessivo legame e idealizzazione del terapeuta, come ad esempio spesso accade con il paziente dipendente.
Nel testo “Superare la resistenza: un approccio integrato della Teoria Razionale Emotiva Comportamentale” (2002), Ellis elenca le possibili cause della resistenza al cambiamento insite nella personalità dei pazienti. Egli evidenzia l’importanza del tenere in considerazione la gravità del disturbo, maggiore gravità corrisponderebbe ad una maggiore probabilità di resistenza. Ellis sottolinea come paura dello svelamento, bassa tolleranza alla frustrazione, autopunizione, sfiducia, pessimismo, mancanza di assunzione del rischio, perfezionismo, grandiosità, timore del cambiamento e spirito di ribellione si presentino nei diversi pazienti e siano elementi da tenere in considerazione come resistenza al cambiamento.

Le caratteristiche del terapeuta
Abbandonare credenze apprese in un contesto in cui esse risultavano adattive e funzionali, confermate da anni e anni di esperienza e volgersi in un mondo imprevedibile senza aver una credenza migliore, farebbe desistere molti di noi. Ed è qui che interviene la psicoterapia con il suo aspetto relazionale.
La relazione tra paziente e terapeuta gioca un ruolo fondamentale nel processo di cambiamento così come ovviamente nella sua resistenza.
Oltre ai fattori inerenti al paziente, quali le aspettative di aiuto, la gravità dei sintomi, la capacità di affidarsi agli altri e al terapeuta, le esperienze passate con le figure di riferimento, la motivazione al cambiamento e gli schemi cognitivi, nell’influenzare l’alleanza terapeutica e condurre al cambiamento in psicoterapia intercorrono le caratteristiche del terapeuta.
I terapeuti devono focalizzare meno sull’analizzare le resistenze del paziente e più sull’analizzare le proprie. Infatti, ogni volta che i terapeuti diventano consapevoli di una resistenza del paziente, dovrebbero cercare la controresistenza prima di cercare di interpretare la resistenza del paziente. Spesso, quando il terapeuta ha superato la controresistenza, la resistenza del paziente sarà facile da risolvere. (Schoenewolf, 1993, p. 18)
Il terapeuta deve essere in grado di sintonizzarsi emotivamente con il paziente, esprimere empatia, essere in grado di cogliere e accogliere le rotture e rendere la propria personalità compatibile con quella del paziente. Il terapeuta deve porre attenzione al controtransfert, sentimenti innescati nel terapeuta in terapia a fronte di tal paziente. Un terapeuta potrebbe sentirsi frustrato e affaticato dinnanzi la distanza emotiva e l’atteggiamento formale di un paziente con Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità. Il paziente potrebbe mostrare una diffidenza falsamente compiacente, inducendo noia e fatica nel terapeuta che non cogliendone gli aspetti di utilità può portare ad una chiusura prematura della terapia (Giusti, 2014).
L’eccessiva adesione ai protocolli, la rigidità, la mancanza di autenticità e di capacità empatiche assieme alle aspettative negative del terapeuta sono catalogabili come errori del terapeuta che non agevolano il cambiamento in psicoterapia.
Fondamentale risulta essere il non riconoscere i propri errori. A volte potrebbe capitare di proporsi eccessivamente accudenti nei confronti dei pazienti, non riconoscendo così di star contrastando la promozione di un atteggiamento collaborativo e una maggiore autonomia del paziente stesso. Ulteriore errore risulta essere quella della collusione con il tema del paziente. Tale atteggiamento non aiuta il paziente a superare il proprio scoglio e a mettere in discussione la propria credenza disfunzionale. Il terapeuta rischia di non cogliere aspetti fondamentali oscurati dalle proprie credenze, fattori personali, presenza di eventi stressanti, insicurezza di sé e molteplici altre variabili che caratterizzano la persona al di sotto del ruolo professionale. Affinché si possa avere un successo della terapia risulterebbe necessario che il terapeuta sappia riconoscere i propri meccanismi di funzionamento (Giusti, 2014).
Ulteriore ostacolo potrebbe risultare la sensazione di non essere abbastanza formato per affrontare un caso “grave” e la relativa sensazione di impotenza e fallimento. Ciò potrebbe portare al burnout del terapeuta o uno stallo in terapia. Pensieri catastrofici nel terapeuta non aiutano il paziente, risulta così necessario riprendere in mano la situazione chiedendo supervisione e ritrovando il giusto equilibrio.

La rottura dell’allenza terapeutica
Ulteriore variabile da considerare come resistenza al cambiamento ed ostacolo alla psicoterapia qualora non fosse sufficientemente buona, è l’alleanza terapeutica.
Per alleanza terapeutica si intende quella serie di scambi tra paziente e terapeuta organizzati dal sistema motivazionale cooperativo e caratterizzato dall’esperienza della pariteticità nell’impegno verso un obiettivo condiviso. Le crisi e le rotture dell’alleanza vanno considerate come una diminuzione di scambi regolati dal sistema cooperativo (Liotti, Monticelli, 2014).
Le possibili rotture dell’alleanza terapeutica costituiscono fattori di resitenza al cambiamento nel paziente. Le fratture dell’alleanza rappresentano disaccordi circa gli obiettivi della terapia, nei compiti o problematiche relative al legame terapeuta-paziente. La relazione e una minore incidenza di fattori interpersonali negativi rappresenta un fattore affidabile del risultato terapeutico. Perciò la gestione e il superamento dei processi interpersonali negativi e la risoluzione delle rotture relazionali rappresentano il fondamento del cambiamento in psicoterapia.
Le rotture che si presentano a fronte di un’attivazione di un sistema relazionale mal adattivo offrono un’opportunità per la comprensione delle credenze, aspettative e valutazioni sulla propria persona che il paziente utilizza mettendo in atto cicli disfunzionali. Fondamentale per il terapeuta e per permettere un cambiamento, accorgersi di essere coinvolto in un ciclo disfunzionale, comprenderne il proprio contributo e quali azioni scegliere che permettano di uscirne (Liotti, Monticello, 2014).
Tra le tipologie di frattura dell’alleanza che possono interferire con la terapia ci sono la frattura da ritiro e le fratture da confronto. Nelle fratture da ritiro il paziente non parla di sé, intellettualizza, racconta aneddoti o di altri, mentre le fratture da confronto vedono il paziente esprimere rabbia, risentimento nei confronti della terapia o del terapeuta stesso.
A volte potrebbe capitare di intercorrere nella rottura “proprio sulla strada presa per evitarla”, come citato per il destino nel film “Il mio nome è Nessuno”. Il terapeuta potrebbe falsare la propria condotta, sforzarsi in atteggiamenti volti a voler evitare a tutti i costi la rottura, caricandosi di una non tollerabilità dell’idea della rottura stessa, portando inevitabilmente in un clima non collaborativo e rilassato che indurrà a tal esito. Accanto al non tollerare la rottura, il terapeuta potrebbe non coglierla, ignorarla e/o negarla, portando inevitabilmente ad un atteggiamento di resistenza del paziente e alla fine della psicoterapia (Giusti, 2014).
Ulteriore variabile che potrebbe indurre alla rottura potrebbe essere attribuire al paziente la totale la colpa di un cattivo esito o colpevolizzare se stessi, questo non porta ad istaurare una sufficientemente buona alleanza.
Infine tra le cause di una rottura possono esserci il non ascolto del paziente, il non adattamento degli interventi alle esigenze del paziente e in particolare il non gestire come un’opportunità terapeutica la rottura (Giusti, 2014).

L’importanza del colloquio motivazionale
Nel colloquio motivazionale la resistenza al cambiamento viene considerata come aspetto inevitabile e ricco di informazioni.
L’ambivalenza dà indicazioni sui desideri del paziente/cliente e i relativi timori di fallire o assumersi nuove responsabilità. Il terapeuta dovrà comprendere e rispettare i lati dell’ambivalenza, accogliere con empatia e accettazione.
Essere ascoltati in modo comprensivo e acritico quando si esternano i vantaggi di un problema può essere per il paziente un’esperienza significativa. Così la resistenza al cambiamento tenderà a ridursi, invece di ampliarsi (Arkowitz, 2016).
Come afferma Giusti (1987) “Proprio la capacità di utilizzare le resistenze al cambiamento a vantaggio del cambiamento stesso, distingue la psicoterapia dalle altre forme di scambio umano”.

Per concludere
Come rispondere dunque alle domande che ci siamo posti all’inizio di questa analisi relativamente alla possibilità di cambiare? Saremmo tutti pronti ad accoglierlo? Ad abbandonare vecchi schemi e buttarci in un abisso sconosciuto? Davvero richiediamo un cambiamento? O desideriamo sia l’altro a cambiare? E chi ci accompagnerà in questo, è in sempre in grado di poterci aiutare?.
Ciò che ci sentiamo di dire è che no, quando arriva il cambiamento non siamo tutti ugualmente disposti a coglierlo e ad accoglierlo. “Non posso cambiare”, “non voglio cambiare”, “sono gli altri che devono cambiare”, ”vorrei cambiare, ma per me è impossibile”, “cambiare mi spaventa” sono frasi ricorrenti. Non tutti riusciamo a metterci in gioco, non tutti riusciamo ad affidarci, ad abbandonare quegli schemi che ci sono stati utili e funzionali fino a quel momento, non tutti abbiamo bisogno degli stessi tempi. Non tutti selezioniamo il professionista migliore e pronto anche lui a mettersi in gioco.
Ma in tutti ci dovrebbe essere la speranza che il cambiamento sia possibile, ad ognuno il suo.

Dal Sito: 
stateofmind.it

Cherofobia, la paura di essere felici

Per qualcuno, l’idea di divertirsi e provare gioia è una prospettiva spaventosa. Succede quando si teme che scatti un meccanismo di compensazione per cui, quando ci si lascia andare, accada qualcosa di terribile.

Un periodo davvero fortunato, soddisfazioni sul lavoro, felicità in amore, coincidenze favorevoli. Se la maggior parte di noi non si augura altro, per qualcuno troppe circostanze positive, troppa gioia e troppo divertimento sono guardati, invece, con sospetto.

Ne parla il quotidiano inglese The Independent: le persone che hanno un’irrazionale avversione per la felicità soffrono di cherofobia. Non sono le attività divertenti a fare loro paura, ma il timore che se si lasciano andare, e si sentono felici e spensierate, allora accadrà qualcosa di terribile.
Oppure perderanno il controllo. Pensano che stato di serenità possa diventare una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie per prevenire pericoli e minacce. L’idea che esista un subdolo meccanismo di compensazione ha spesso origine da traumi ed esperienze negative.
Di cherofobia non si parla nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), ma alcuni esperti la classificano come una forma di ansia.
Ci sono alcuni sintomi ricorrenti, che accomunano le persone che hanno paura della felicità. Provano ansia quando sono invitati a partecipare a un evento sociale, si rifiutano di partecipare alle attività «divertenti», pensano che quando si è felici qualcosa di brutto debba per forza accadere.Ritengono che puntare alla felicità renda le persone peggiori e comporti uno spreco di tempo e di fatica, e che mostrarsi contenti sia pericoloso.
In un post pubblicato su Psychology Today, la psichiatra Carrie Barron spiega alcune possibili ragioni per cui le persone sviluppano la cherofobia. «Potrebbe sembrare strano che qualcuno tema le emozioni positive. Spesso succede quando, durante l’infanzia, si è creato un legame fra felicità e punizione. Se sei spaventato dal piacere, potrebbe essere perché, in passato, la punizione o l’umiliazione hanno distrutto la tua gioia. Adesso hai paura di sentirti felice perché temi che la bolla esploda di nuovo».
Gli introversi potrebbero avere più probabilità degli altri di sviluppare la cherofobia. In genere preferiscono svolgere le loro attività da soli o con una o due persone alla volta, e possono sentirsi intimiditi o a disagio in gruppo, nei luoghi rumorosi e troppo popolati. Anche i perfezionisti possono essere cherofobici, perché potrebbero essere convinti che la felicità sia un tratto tipico delle persone ingenue e superficiali.
Stephanie Yeboah, blogger che convive con la cherofobia, spiega che cosa significhi questa condizione: «In definitiva, è una sensazione di completa disperazione, che porta a sentirsi ansiosi o diffidenti all’idea di partecipare o fare cose per arrivare alla felicità, perché è come se si avesse la percezione netta che non durerà – ha detto -. La paura della felicità non significa necessariamente vivere sempre nella tristezza: nel mio caso la mia cherofobia è stata innescata o esacerbata da eventi traumatici, e anche cose positive come completare un compito difficile o conquistare un nuovo cliente mi mettono a disagio».
Risolvere questo problema non è semplice: «Non c’è molto che io possa fare – aggiunge Yeboah – perché non ci sono molte risorse specifiche contro la cherofobia: mi limito ad andare avanti e cercare di non pensarci».
Probabilmente la cherofobia è un meccanismo di difesa costruito dopo un conflitto o un trauma. Secondo Carrie Barron, può essere utile cercare di scavare nel proprio passato: trattamenti come la terapia cognitivo comportamentale sono utili per comprendere le cause del disturbo e cercare finalmente di annullare l’associazione negativa tra piacere e dolore.
Però non tutti devono necessariamente curare la loro cherofobia: alcune persone si sentono più sicure (e, paradossalmente, felici) quando evitano la felicità. A meno che il disturbo non interferisca con la qualità di vita o la possibilità di mantenere il posto di lavoro, potrebbe anche non esserci bisogno di alcun trattamento.
Dal Sito: vanityfair.it

mercoledì 19 settembre 2018

Come gestire l’ansia

Guida facile per capire come gestire l'ansia: esistono anche rimedi naturali da non sottovalutare, ecco cosa fare.


Per poter gestire l’ansia dobbiamo cercare di controllare la nostra mente e anche il nostro corpo, con tutta una serie di pratiche giornaliere da mettere in atto.
Chi vuole dunque capire come gestire l’ansia potrebbe seguire i seguenti consigli, dagli esperti:
1. Fate esercizio fisico, perché non fa bene solo all’organismo, ma anche alla nostra mente. Può ridurre l’ansia, lo stress e migliorare il nostro senso di benessere. Bastano pochi esercizi ogni giorno, da fare nei ritagli di tempo. Basterebbe anche solo una passeggiata!
2. Cercate di dormire bene. Qualità e quantità sono importanti. Gli esperti consigliano 8 ore di sonno a notte, creando una routine che ci permetta di andare a dormire sempre alla stessa ora e svegliarci sempre nello stesso momento. Attenzione anche ad altri fattori: mai andare a dormire subito dopo aver mangiato o utilizzato dispositivi elettronici o aver fatto sport; il letto deve essere confortevole; la camera non deve essere troppo calda o troppo fredda.
3. Evitare caffeina e alcol, in grado di aumentare il nostro livello di ansia e di stress. Attenzione anche ad alcune medicine per il mal di testa, al cioccolato, al tè.
4. Programmate un momento della giornata in cui pensare alle cose che non vanno. I medici consigliano di ritagliare un po’ di tempo ogni giorno per pensare a quello che non va e trovare magari una soluzione. Inutile pensarci tutto il giorno!
5. Impariamo a respirare! La respirazione aiuta il nostro cervello a calmarsi, inviando segnali di tranquillità, nei quali gli diciamo che va tutto bene. Senza dimenticare che dà anche una mano a rilassare il corpo!
Cosa non scrivere mai a lui in un messaggio
Per gestire l’ansia ci sono tutta una serie di terapie, trattamenti, consigli utili da seguire, ma lo sapete che anche dalla natura possono arrivare aiuti inaspettati. Esistono, infatti, dei rimedi naturali per ansia e attacchi di panico di cui abbiamo già parlato in un altro nostro articolo e che è sempre bene tenere come punto di riferimento per chi soffre di tutta una serie di disturbi che possono rendere difficile anche la quotidianità.
Non aspettiamo che l’ansia prenda il sopravvento, cerchiamo di agire, gestirla e reagire. E se necessario, anche con l’aiuto di un esperto!
Dal Sito: bigodino.it

Perché – secondo la scienza – tutte noi dovremmo scrivere un diario






Il modo perfetto per poter combattere ansia e 
stress: scrivere un diario fa bene al nostro benessere psico-fisico. Ecco perché! Avere un diario personale, o meglio “segreto”, potrebbe essere quasi una salvezza per noi. Mettere nero su bianco parole che non osiamo mai dire ad alta voce è un ottimo modo per liberarsi e ridurre lo stress che si accumula nella quotidianità. Ma scrivere un diario con soli emozioni positive potrebbe diventare la nostra cura contro ansia e stress. Ad affermarlo è uno studio pubblicato sul British Journal of Health Psychology in cui gli autori hanno voluto esaminare 71 partecipanti, tra i 19 e i 77 anni. Ecco come si è svolta la ricerca…

I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi. Il primo gruppo, composto da 37 persone, ha dovuto scrivere per 3 giorni consecutivi le esperienze più belle della vita per 20 minuti al giorno. Il secondo gruppo, invece, ha dovuto semplicemente raccontare la propria giornata o parlare di argomenti abbastanza neutri e semplici.

Al termine dei giorni, sono stati calcolati i livelli di ansia e stress di tutti i partecipanti: chi ha scritto solo emozioni positive ha riscontrato livelli di ansia inferiori rispetto a chi ha parlato di argomenti neutri. Secondo gli esperti, quindi, scrivere un diario aiuta molto a combattere lo stress e a ridurre i livelli di ansia che ci accompagnano in alcuni periodi della nostra vita. Avere un diario, inoltre, è gratuito e occorrono solo 20 minuti al giorno per poter ritrovare il proprio benessere psico-fisico e allontanare lo stress. L’importante è mettere nero su bianco solo le emozioni positive e, quindi, gli eventi più belli della nostra vita e scrivere quali sono stati i momenti più felici e sereni che abbiamo vissuto fino a quel momento. Ogni tanto ricordarsi delle cose belle e mettere da parte la negatività può essere solo che un bene. 

Dal Sito: 
donnaglamour.it




lunedì 17 settembre 2018

Depressione: come prevenire e curare la malattia del secolo





I consigli per affrontare la depressione, dai rimedi naturali alla terapia farmacologica.

Combattere la depressione non è facile. Lo sa il 4,5% della popolazione mondiale, vale a dire più di 330 milioni di persone. Si tratta di un disturbo dell’umoreche porta chi ne soffre ad uno stato emotivo molto basso e alla perdita di interesse o piacere nei confronti di attività che precedentemente interessavano o davano piacere. La depressione è uno stato di malinconia e tristezza che si protrae nel tempo ed è fortemente invalidante.

Depressione: la diagnosi

Per una diagnosi di disturbo depressivo devono essere presenti i seguenti elementi:
  • Variazione del peso, sia diminuzione (in assenza di dieta) sia aumento;
  • Diminuzione dell’appetito;
  • Insonnia o disturbi del sonno;
  • Mancanza di energia;
  • Difficoltà a concentrarsi e a pensare;
  • Bassa autostima o odio verso sé stessi;
  • Pensieri ricorrenti di suicidio.

Depressione: prevenzione e cura del disturbo

Avere uno stile di vita sano ed equilibrato aiuta a contrastare i sintomi della depressione. È importante mangiare bene, fare esercizio fisico quotidiano in modo da produrre endorfine, utili per il nostro organismo a sentirsi meglio. Bisogna evitare le situazioni e le persone che ci fanno stare maleo ci mettono in uno stato emotivo ansioso, mentre è indicato circondarsi di persone che ci fanno sentire a nostro agio e fare regolarmente attività che ci possono distrarre dai brutti pensieri.
Inoltre, il British Medical Journal Case Reports ha recentemente pubblicato uno studio secondo il quale nuotare regolarmente in acqua fredda può dare ottimi risultati nella lotta contro il disturbo depressivo maggiore, l’ansia e gli attacchi di panico. 
I medici, in ogni caso, ritengono che la migliore cura per la depressione, ad oggi, consista in un connubio di elementi: l’osservazione di quanto descritto finora, un percorso psicologico adeguato e una personale ed efficace terapia farmacologica. L’uso di antidepressivi, infatti, può variare in misura considerevole in base allo stato psicofisico e alla forma di disturbo diagnosticato.
Dal Sito: 
kontrokultura.it

mercoledì 12 settembre 2018

LADY GAGA: LA BATTAGLIA CONTRO ANSIA E DEPRESSIONE






croniche... il dolore ai nervi non è uno scherzo" 

ha detto Lady Gaga nel corso di una lunga intervista, in cui ha parlato della sua battaglia contro la fibromialgia.


La malattia, secondo Miss Germanotta, sarebbe legata ad un trauma sessuale che risale alla sua adolescenza.
L’aggressione subita quando aveva 19 anni da parte di un produttore musicale, infatti, avrebbe profondamente segnato la vita della popstar.

Lo stupro, spiega l’artista, avrebbe dato origine alla sua lotta con la fibromialgia. "Ho passato cose orribili di cui oggi posso ridere, ma solo perché sono stata sottoposta a terapia mentale e fisica per poter guarire durante gli anni" ha aggiunto la 32enne.


"Sono così irritata dalle persone che non credono che la fibromialgia sia reale", ha poi sottolineato Gaga. "Per me, e penso per molti altri, è davvero un ciclone di ansia, depressione post traumatica e panico, che manda il sistema nervoso in overdrive, e di conseguenza si ha un dolore ai nervi"...


Lady Gaga ha provato a spiegare ciò che prova, dicendo di sentirsi come a bordo di un "ottovolante": "Mi sento stordita. Sai quella sensazione quando sei sulle montagne russe e stai per scendere da un pendio davvero ripido? Quella paura e il vuoto nello stomaco? Il mio diaframma si blocca. Poi ho difficoltà a respirare, e tutto il mio corpo va in uno spasmo. E inizio a piangere " ha dichiarato la cantante.


La Redazione di R101

Dal Sito: 
r101.it

giovedì 6 settembre 2018

Attacchi di panico in gravidanza: cause e rimedi






Gli attacchi di panico nel corso di una gravidanza possono rappresentare un grande problema. Essi possono complicare una delle fasi più delicate per la vita di una donna, ovvero quella che coincide con la gravidanza. L’importanza che la gravidanza assume dal punto di vista emotivo e psicologico per una donna, non è assolutamente da sottovalutare.

Tutto il periodo gestazionale è caratterizzato da una serie di cambiamenti che richiedono l’assunzione di nuove responsabiltà. Essi possono così trasformare quella che all’inizio è normale ansia in veri e propri attacchi di panico. Come superarli
Innanzitutto è bene riconoscerne la sintomatologia. Essi possono manifestarsi con fame d’aria, tremori, palpitazioni, sensazione di sbandamento, tachicardia, brevi perdite di coscienza, depersonalizzazione, improvvisi pianti. L’ansia in gravidanza è normale che ci sia, ed è ancor più naturale che tale sensazione accresca verso il termine della gravidanza per l’avvicinarsi progressivo del momento del parto. Le manifestazioni prima descritte possono allarmare e spaventare.
Gli attacchi di panico costituiscono un esperienza angosciante, e spaventosa per chi la vive. Soprattutto per una donna in gravidanza tali avvenimenti possono assumere una connotazione ancora più drammatica del solito. Ciò è più che comprensibile se si considera che la donna che vive una gravidanza, oltre a temere per la propria incolumità, si preoccupa per la salute del proprio bambino.

Ansia in gravidanza

In genere gli attacchi di panico durante la gravidanza si manifestano con una considerevole apprensione per il proprio stato di salute. In tali circostanze, infatti, si creano delle proiezioni su quello che potrebbe accadere a se stesse ed al proprio bambino. Il periodo della gravidanza è caratterizzato da una forte mutevolezza di sensazioni e fasi psicologiche.
L’umore cambia più facilmente del solito ed è sottoposto a sbalzi che possono essere determinati da condizioni soggettive, pensieri negativi, e questo è dovuto anche ai rapidi cambiamenti ormonali che sono molto poco presenti nell’arco dei primi mesi di gravidanza ma che possono causare successivamente stanchezza, mal di testa e senso nausea.
I primi tre mesi della gestazione sono particolarmente delicati e gli effetti subiti, appena descritti, non consentono di godere la bellezza di questo momento, anzi molte interruzioni di gravidanza si anno proprio in questo trimestre. In questo periodo è frequente soffrire di ansia, corrispondente alla difficoltà nel percepire i movimenti del bambino. Per questo motivo è frequente anche avere un episodio di attacco di panico e forte ansia durante la gravidanza.
Quando si hanno ansie per il bambino e l’esito della gravidanza è sempre bene chiedere un confronto con professionisti che hanno la possibilità di rassicurare sia la mamma ma anche il papà, che vive indirettamente questo stato d’animo sentendosi poco d’aiuto. Anche se questo non è assolutamente vero: è molto importante avere un contesto familiare rilassato. Per chi sta intorno alla gestante è importante mostrarsi non giudicante nei confronti delle paure che la donna può avere in gravidanza, anche se sembrano fobie, non razionali e infondate.
Dunque è importante mostrare comprensione, favorire l’armonia e la tranquillità quanto più possibile e richiedere il parere e l’aiuto di professionisti e non di pareri incompetenti che potrebbero solo peggiorare lo stato d’animo della gestante.
Dal Sito: 
passionemamma.it

sabato 1 settembre 2018

Tecniche di rilassamento: 5 modi efficaci per rilassarsi







La società attuale è sempre più dominata dallo stress, dall'ansia (che in alcuni casi si trasforma in veri e propri attacchi di panico) e dall'angoscia.

I motivi possono essere molti e spesso il consiglio è quello di intraprendere una psicoterapia per cercare di essere più lucidi ed affrontare le difficoltà con meno patos. Tuttavia, ormai, sono stati dimostrati anche i numerosi benefici che si possono trarre da alcune tecniche di rilassamento.Sempre più persone sono stressate e insonni a causa dell'ansia; per cercare di stare meglio e rilassarsi è possibile mettere in pratica, comodamente da casa, una di queste tecniche

Nonostante non vadano a sostituirsi alle cure specialistiche possono calmare e diminuire i diversi effetti che spesso derivano dall'agitazione, quali mal di testainsonniatachicardia e senso di oppressione.

Noi vi illustreremo i 5 modi più efficaci per rilassarsi standosene comodamente a casa!

La musicoterapia
  1. La musica associata ad esercizi di respirazione in cui si usa la voce come forma di sfogo, è una delle tecniche di rilassamento che si possono utilizzare dentro e fuori casa per calmarsi.
    Per esempio la musicoterapia aiuta molto quando si è in macchina,in mezzo al traffico, per abbassare i livelli di stress.
  2. La respirazione controllata
    Nella respirazione controllata si mette in pratica un esercizio yoga: per 10 minuti bisogna chiudere gli occhi e fare dei respiri profondi a bocca chiusa a cui far seguire un'espirazione a bocca aperta. Mentre si inspira bisogna pensare alle preoccupazioni, quando si butta fuori l'aria, invece è necessario visualizzare le ansie che escono dal nostro corpo e dalla nostra mente.
  3. Il training autogeno
    Una delle tecniche di rilassamento più utilizzate è il training autogenoche alterna esercizi di rilassamento muscolare a momenti di respirazione e visualizzazione.
    Sono necessari 15 minuti al giorno, da ripetere anche 2 o 3 volte nella stessa giornata se i livelli di tensione sono alti: gli esercizi vanno eseguiti ad occhi chiusi, sdraiati o seduti in una posizione comoda. All'inizio possono essere utili i video disponibili su internet per capire la modalità di svolgimento, poi una volta imparate le basi si può procedere in modo libero.
  4. La meditazione
    Pare che riuscire a ritagliarsi 20 minuti al giorno (10 la mattina e 10 la sera) per meditare aiuti non solo ad alleviare stress e tensioni ma anche ad abbassare il battito cardiaco, e a favorire il sonno.
    Ci sono diverse tecniche ed esercizi per imparare ed andrebbero imparate da maestri specializzati; tuttavia possono essere utili anche le diverse app da scaricare sul telefonino.
    Un esercizio che consigliamo è quello del “fiore di ciliegio”; bisogna sedersi e rilassare muscoli e articolazioni concentrandosi sul battito cardiaco. Poi mentre si respira bisogna visualizzare questa scena: ci si trova lungo un fiume, si osserva un ramo di ciliegio ed intorno c'è una nebbia sottile che fa cadere le gocce di umidità nel fiume. Il ritmo con cui cadono è lo stesso del battito del cuore.
  5. Il rilassamento muscolare progressivo
    Infine un'altra delle tecniche di rilassamento utile è quella basata sulla contrazione e sul rilascio di alcuni muscoli. Bisogna sdraiarsi sul pavimento, con le braccia lungo il corpo e le gambe un po' aperte. Piano piano si contraggono e poi rilasciano le dita dei piedi, le gambe, i glutei, il bacino, gli addominali, le braccia e le mani fino ad arrivare a labbra, occhi e fronte.
Di Bianca Fracas - PsicoSessuologa,

Dal Sito: 
amando.it

Agorafobia, la paura degli spazi aperti (ma non solo): cos’è e come affrontarla





Agorafobia: scopriamo insieme tutto sulla paura degli spazi aperti. Che in realtà nasconde timori molto più profondi e radicati. Cause, sintomi e terapie.
L’agorafobia è considerata comunemente come la paura degli spazi aperti. Chi ne soffre, però, sa che la situazione non è così “semplice”. Si tratta infatti di una fobia complessa, con profonde motivazioni psicologiche.
Scopriamo insieme di cosa si tratta, come si manifesta e come possiamo affrontarla.

Agorafobia: cos’è

Il termine agorafobia deriva dal greco ἀγορά (agorà), che vuol dire piazza, e –fobia, paura. Ecco perché spesso colleghiamo questo disturbo al timore ossessivo per gli spazi aperti, come succede durante l’attraversamento di una piazza.
In realtà si tratta di una patologia più complessa. L’agorafobia è infatti strettamente correlata agli attacchi di panico. Chi ne è vittima può avvertire quindi la paura di trovarsi in situazioni di panico da cui non è possibile fuggire o in cui chiedere aiuto.
È la paura di provare panico e non poter scappare via o di non poter ricevere aiuto. Può manifestarsi quindi uscendo di casa da soli, quando si è in mezzo a una folla o in fila, viaggiando in automobile o con i mezzi pubblici.
L’agorafobia è quindi strettamente correlata alla solitudine e alle situazioni di costrizione, dove il movimento è limitato, e non solo quindi agli spazi aperti.
Solo raramente il disturbo si presenta in assenza di attacchi di panico. In questo caso, è scatenato da altri timori irrazionali. Per esempio, la paura di essere vittima di un attacco terroristico, oppure essere contagiati da una grave malattia infettiva. Più semplicemente, l’agorafobia può essere provocata dalla paura di compiere azioni che ci metterebbero in ridicolo di fronte agli altri.

Le cause dei disturbi di panico

Come accennato, l’agorafobia è una complicazione del disturbo di panico, che ne sarebbe quindi causa: l’agorafobico evita ogni situazione in cui sa che potrebbe scatenarsi il panico.
È complesso individuare una causa singola per cui si manifestano i disturbi di panico. Questi sono ricondotti quindi a fattori sia biologici che psicologici.
Alcuni esperti sostengono che il disturbo di panico sia correlato alla reazione chiamata “combatti o fuggi”. È una reazione di difesa automatica che l’organismo mette in atto di fronte a stress o pericolo. In chi soffre di disturbi di panico, la reazione “combatti o fuggi” si attiverebbe anche in assenza di una ragione oggettiva di pericolo.
Altre teorie tirano invece in ballo degli squilibri nei livelli dei neurotrasmettitori o il malfunzionamento di alcune parti del cervello, responsabili della sensazione di paura. Anche una alterata cognizione dello spazio, la capacità di individuare la propria posizione relativa nello spazio, è citata come causa per questo tipo di disturbi.
Per l’agorafobia, incidono anche altri fattori:
  • Traumi infantili
  • Eventi stressanti (lutto, divorzio, disoccupazione)
  • Malattie di tipo psicologico: depressione, anoressia, bulimia
  • Abuso di alcol e droghe
  • Relazioni poco soddisfacenti

I sintomi

I  sintomi dell’agorafobia possono essere di diversa natura: fisici, cognitivi, comportamentali. Scopriamoli tutti, a cominciare dai primi:
  • Tachicardia
  • Iperventilazione o dispnea
  • Sensazione di caldo e sudorazione abbondante
  • Dolore al petto
  • Difficoltà a deglutire
  • Diarrea
  • Tremore
  • Vertigini
  • Ronzio o fischio nelle orecchie
  • Formicolii
  • Sensazione di mancamento/svenimento
Tra i disturbi cognitivi, invece, individuiamo:
  • Derealizzazione (la realtà sembra irreale)
  • Depersonalizzazione (sensazione di essere fuori dal proprio corpo)
  • Paura di avere un attacco di panico
  • Paura di sentirsi in imbarazzo, apparire ingenui o stupidi
  • Paura di essere in pericolo di vita: timore cioè che un attacco di panico provochi infarto, arresto cardiaco, difficoltà di respirazione
  • Paura di perdere il controllo in pubblico
  • Paura di attirare l’attenzione degli altri
  • Sentirsi incapaci di agire/sopravvivere senza l’aiuto di qualcun altro
Infine, i disturbi comportamentali, che si riducono essenzialmente alla paura di uscire di casa, da soli, e di ritrovarsi in ambienti affollati.

Agorafobia: come superarla

Secondo alcune teorie, provare a combattere l’agorafobia sarebbe controproducente. Se infatti come abbiamo visto il panico è scatenato dalla risposta ancestrale di fronte al pericolo (“combatti o scappa”), combattere contro la fobia finirebbe per alimentarla e rafforzarla. 
Quando ci troviamo di fronte a un “attacco”, possiamo provare ad accoglierlo. Provarlo, sentirlo profondamente, ascoltarlo. Saranno gli stessi sintomi a farci capire cosa fare, cosa cambiare in noi stessi per riportare quella reazione fisiologica nei limiti della normalità.
Sforzarsi, provare a mettere a tacere quella voce interiore che ci porta al panico, o peggio ancora mettersi volontariamente in situazioni che scatenano l’agorafobia per affrontarla, porta solo a dare maggior forza alla paura. Meglio quindi sarebbe accettare di provare questo disagio e avere pazienza, in attesa che i sintomi passino.
Anche l’Istituto Superiore di Sanità offre una serie di strategie da attuare per affrontare il disturbo sul lungo periodo. Sono tre le fasi previste, da attuare progressivamente, valutandone gli eventuali benefici:
  • Prima fase: informarsi sulla malattia e sulle tecniche di auto-aiuto che possono alleviare i sintomi (più avanti ne vedremo alcune)
  • Seconda fase: iscriversi a un programma di auto-aiuto accreditato dalle istituzioni
  • Terza fase: terapia cognitivo-comportamentale

Agorafobia: come affrontarla con le tecniche di auto-aiuto

L’ISS suggerisce una serie di tecniche di auto-aiuto da attuare in presenza di un attacco di panico.
  • Restare fermi: resistere all’impulso di scappare via;
  • Concentrarsi: puntare l’attenzione su oggetti reali e visibili, poco minacciosi. Un esempio: le lancette di un orologio;
  • Attenzione al respiro: inspirare ed espirare lentamente e profondamente, contando fino a tre;
  • Parlare” con la paura: analizzarla e capire cosa la provoca, provando a convincersi che non è reale;
  • Immaginare: concentrarsi su un’immagine, un luogo, una situazione, che faccia sentire calmi e rilassati;
  • Non lottare: come abbiamo visto, combattere i sintomi peggiora le cose. Meglio ricordare a se stessi che un attacco di panico non deriva da un pericolo reale.
Anche lo stile di vita è importante. Per affrontare l’agorafobia, possiamo prenderci cura del nostro corpo: esercizio fisico costante, dieta sana, non assumere droghe o alcol, evitare bevande con caffeina o simili (caffè, tè, coca-cola, etc.).
Dal Sito: 
ambientebio.it