martedì 27 febbraio 2018

Quando l’ansia fa bene alla memoria


L’ansia fa bene alla memoria, ma quando i livelli non sono eccessivi: altrimenti l’effetto è opposto.

L'ansia può fare bene alla memoria quando è in quantità moderate, diversamente ha l'effetto contrario. La conferma arriva dalla University of Waterloo che ha studiato gli effetti dell'ansia sulla memoria di 80 studenti ed ecco i risultati.

Ansia, memoria e stress. L'ansia, a seconda dei livelli, può aiutare le persone a ricordare meglio e più cose, addirittura può stimolarci a riportare alla memoria dettagli di eventi che avevamo dimenticato. Attenzione però, quando i livelli di ansia si innalzano e diventano troppo alti o si trasformano in pausa, la memoria viene influenzata e le persone iniziano ad associale elementi neutrali di un'esperienze ad un contesto negativo. Per questo, secondo gli esperti, le persone ansiose dovrebbero fare attenzione.

Lo studio. Per giungere a questa conclusione, gli esperti hanno preso in considerazione 80 studenti della University of Waterloo, di questi 64 erano femmine, alla metà dei quali sono state assegnate, casualmente, delle richieste più o meno stressanti. Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad un test utile a valutare i livelli di depressione, stress e ansia.

Risultati. Dai dati raccolti è emerso che i soggetti con molta ansia mostravano una maggior sensibilità alle influenze del contesto emozionale sulla loro memoria e ricordavano quindi meno. Insomma, le persone ansiose rischiano di modificare la loro percezione del contesto in cui si trovano perché influenzate dalle emozioni che provano.

Anche lo stress. L'ansia non è la sola a danneggiare la nostra memoria, a rendere difficile l'attività del cervello è anche lo stress cronico che, secondo gli scienziati: ‘ci mangia la memoria'. Per alleviare questo effetto, il consiglio degli esperto è quello di correre almeno 20 minuti al giorno.


articolo a cura di
Zeina Ayache

Dal Sito:scienze.fanpage.it

Depressione e ansia: alimenti indispensabili per combatterle


L'ansia e la depressione coinvolgono nel mondo sempre più persone. Diventano sempre più forti le idee secondo cui determinati alimenti favoriscono l'aiuto per queste malattie.

Depressione e ansia sono dei mali sempre più diffusi nel nostro secolo. Oltre a farmaci omeopatici e chimici, ed un supporto psicologico, anche l’alimentazione può essere un valido aiuto per combatterle. In particolare alcuni alimenti riducono stati d’ansia e disturbi depressivi, grazie ad alcuni principi attivi e a componenti che intervengono sul sistema nervoso centrale e sul cervello.

Tra i primi alimenti indispensabili troviamo i cereali integrali. Essi sono ricchi di minerali e vitamine, che apportano una riduzione delle infiammazioni cellulari, responsabili di scarsa risposta neuronale. Consumare cereali integrali aiuta a contrastare e migliorare l’attività dei vostri neurotrasmettitori. I cereali quindi oltre ad essere un alimento sano. ha un potente effetto su ansia, ed è un valido calmante.

Anche il consumo di pesceaiuta a ridurre ansia e attacchi di panico, in particolare merluzzo, salmone, sgombro o meglio in generale pesce azzurro. Alimenti ricchi di acidi ed omega 3.

Per una dieta equilibratama che migliori anche lo stato d’animo, è indispensabile il consumo di verdure. Gli ortaggi contengoni fibre, vitamine e minerali, che favoriscono un funzionameno neuronale corretto.

La frutta secca contiene elevato tasso di omega3, il suo consumo è consigliato nelle diete migliori. L’utilizzo di mandorle, nocciole, arachidi e noci, possono contribuire ad evitare gli stati ansiosi. In particolare aiutano lemandorle, che contengono ferro e grassi insaturi; bassi livello di ferro causano affatticamento al cervello e possono aumentare i livelli d’ansia
I mirtilli, sono considerati utili per alleviare stress, oltre ad essere un potente antiossidante. I ricercatori ritengono che i mirtilli, insieme alle pesche contengono sostanze che producono un effetto calmante (sedativo).

Questi sono solo alcuni degli alimenti che possono aiutare gli stati d’ansia e depressione, cibi consigliati sono anche: cioccolato fondente, bacche di Acai,radice di Maca, alghe marine. Importante è anche il giusto apporto d’acqua nel nostro organismo per evitare stati stress cronico e disidratazione, che provocano scompensi cellulari e quindi ansia. Inoltre qualsiasi cibo contenga magnesio e vitamina B12 può essere utile per gestire lo stress.

Se si soffre di attacchi di panico e ansia, è assolutamente da evitare il caffè, che aumenta la frequenza cardiaca e le sensazioni generalizzate legate alla depressione e ansia. Evitare cibi ricchi di zucchero e additivi alimentari, e in ultimo alimenti amidacei come merendine, pasta, patate.

Dal Sito: news.fidelityhouse.eu

Depersonalizzazione e Derealizzazione:conoscerle per non temerle


Come diagnosticare e curare questi angosciosi e conturbanti stati emozionali. 

I sintomi da depersonalizzazione (DP) e de realizzazione(DR) sono molto angosciosi e temporaneamente invalidanti: spesso trasmettono ansia, insicurezza e reazioni di rifiuto alle persone vicine. Questi stati emozionali consistono in senso di irrealtà e di distacco dalle proprie sensazioni (depersonalizzazione) o dalla propria percezione globale della realtà esterna (derealizzazione); essi possono presentarsi singolarmente o possono coesistere nella medesima persona e nella medesima esperienza patologica; vengono generalmente descritti con forte angoscia e partecipazione e si accompagnano frequentemente a sintomi somatici:tachicardia, polipnea, sudorazione. Possono In un primo momento essere confusi con sintomi psicotici,ma questi pazienti conservano le funzioni critiche, non manifestano né deliri né allucinazioni e descrivono con precisione le proprie sensazioni: viene pertanto mantenuto il senso di realtà, il che consente di escludere i vari disturbi di tipo psicotico.(1)
Ma come si possono inquadrare questi singolari,angosciosi,conturbanti, invalidanti disturbi?

Il DSMV raccoglie entro l’insieme dei Disturbi Dissociativi una serie di disturbi pichici caratterizzati da una mancata integrazione tra coscienza, pensieri, identità, memoria, rappresentazione corporea .
Il Disturbo da Depersonalizzazione/ Derealizzazione è un tipo di disturbo dissociativo ed è caratterizzato da esperienze di irrealtà, distacco, dal sentirsi come osservatori esterni rispetto ai propri pensieri, sentimenti, sensazioni, rispetto al proprio corpo od alle proprie azioni; oppure, in alternativa od in associazione, da esperienze di irrealtà e distacco rispetto all'ambiente circostante ( le persone o gli oggetti vengono percepiti come irreali, onirici, nebbiosi, inanimati)i. Durante le esperienze di depersonalizzazione o derealizzazione l'esame di realtà rimane integro; il disturbo non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza e non è espressione di un altro disturbo mentale.



Spesso questi pazienti nella descrizione dei sintomi usano la espressione “come se…”: “mi sento come se il corpo non fosse più il mio come se io fossi un automa…, sento che la mia testa è confusa mi sembra di impazzire..., mi sembra che il mondo esterno non sia più lo stesso, come se fosse una copia del mondo reale…”(1) 
Questi stati patologici sono abbastanza frequenti della popolazione generale ; in una indagine USA su 1000 persone sane il 25% circa degli intervistati riferì di avere provato simili stati d'animo nell'anno precedente.(2) Talora i sintomi di depersonalizzazione e derealizzazione si ripresentano per mesi o per anni e si “strutturano” in tratti caratteriali costituendo così il Disturbo da Depersonalizzazione(DP) e Derealizzazione(DR) . Ricerche epidemiologiche effettuate in UK, Germania ed USA hanno riscontrato che questo disturbo cronico interessa circa il 1% della popolazione(3,4) ed il 5% dei pazienti psichiatrici seguiti nel territorio(5). Sintomi di DP e DR possono presentarsi transitoriamente nel corso di periodi di stress o di crisi psicosociali, ma più spesso interessano persone con problemi psichici o malattie neurologiche che costituiscono fattori di rischio per la cronicizzazione(6).

Diagnosi 

La diagnosi non è difficile se ascoltiamo il paziente con empatia(7) accogliendo e comprendendo la sua angoscia. È importante anzitutto valutare il suo senso di realtà ed escludere spunti deliranti ed allucinazioni per distinguere la depersonalizzazione e derealizzazione dai disturbi psicotici: in caso di difficoltà la Cambridge Depersonalisation Scale è uno strumento utile e preciso per arrivare ad una corretta diagnosi(7)
Il secondo passo sarà quello di valutare se i sintomi siano secondari a malattie internistiche ( es.disordini ormonali) malattie neurologiche (epilessia, deficit neuropsichici, neoplasie) malattie psichiatriche (es. ansia,attacchi di panico, disturbo post traumatico da stress) ed infine ad uso di sostanze (es.cannabis, ecstasy ecc): in tutti questi casi va trattata la condizione primaria. Se i disturbi da derealizzazione e depersonalizzazione non sono secondari ad altre affezioni e si presentano per settimane o mesi possiamo fare diagnosi di Disturbo da Derealizzazione Depersonalizzazione.

Terapia 

I sintomi da DP-DR secondari ad altre affezioni vengono trattati curando anzitutto la malattia di base. Gli stati transitori di DP-DR sono abbastanza frequenti in condizioni di stress e tendono a risolversi spontaneamente trattando l'ansia, accogliendo il paziente e comprendendo la sua profonda angoscia.
In questi casi una valutazione ed un eventuale trattamento psichiatrico del paziente e talora della sua famiglia potrà evitare recidive e cronicizzazioni. I disturbi cronici da DP DR sono invece di pertinenza specialistica: gli psicofarmaci hanno solo azione sintomatica e non aiutano il paziente a guarire. L'unica terapia che si sia dimostrata efficace è la Terapia Cognitivo-Comportamentale ( Cognitive-Behavior Therapy-CBT)(9) somministrata da terapeuti esperti e per adeguati periodi di tempo. Nei paesi più avanzati del nostro le associazioni dei pazienti svolgono un ruolo essenziale nel trattamento di questi disturbi.

Conclusioni 

I disturbi da depersonalizzazione e derealizzazione sono angosciosi e spesso invalidanti. 
Le persone che ne sono affette in genere manifestano notevole sofferenza e mettono in difficoltà anche i medici che ne devono gestire le angosce mantenendo la lucidità necessaria ad una corretta diagnosi e ad una adeguata terapia. 
Dal punto di vista diagnostico è molto importante diagnosticarli precocemente e distinguere questi disturbi dalle psicosi; dal punto di vista terapeutico è molto importante l'atteggiamento accogliente e comprensivo del medico mentre i farmaci hanno spesso un ruolo sintomatico. Nella maggioranza dei casi tali disturbi si risolvono nell'arco di settimane o mesi. Talora tuttavia essi si protraggono nel tempo e si strutturano in tratti caratteriali rendendo necessaria una terapia cognitivo-comportamentale condotta da terapeuti esperti per lunghi periodi di tempo.

Riccardo De Gobbi

Dal Sito: www.pillole.org

venerdì 23 febbraio 2018

Depressione invernale fra sonnolenza e mancanza di entusiasmo. Riconoscerla e curarla


Un disturbo che riguarda il 2-8% della popolazione, più diffuso tra le donne e che spesso si manifesta come iper-sonno ed estrema necessità di carboidrati 

PER MOLTI l'umore cambia in funzione delle stagioni. Anzi per alcuni è un vero e proprio disturbo, di depressione. Il più diffuso è quello che comunemente viene definito "depressione invernale" - si fa avanti puntualmente tra autunno e inverno e si allontana con l'inizio della primavera. Tra i sintomi più comuni si riscontra mancanza di energia, maggiore necessità di dormire e minore entusiasmo nelle attività che fino a poco prima ne davano. Ne soffre il 2-8% della popolazione, soprattutto Canada, Danimarca e Svezia, dove i molti affetti può addirittura essere difficile lavorare. Ma i sintomi non si fermano qui. Vediamo quali sono gli altri.

·CHE SIGNIFICA SOFFIRE DI SAD (DISORDINE AFFETTIVO STAGIONALE)
Non soltanto sintomi legati alla depressione, ma anche estremo bisogno di carboidrati - aumenta spesso il peso corporeo – un sintomo opposto al consueto identikit di chi soffre di depressione che ha fatto ritenere erroneamente il Sad (disordine affettivo stagionale) una versione più leggera della depressione, ma non è così. In realtà è una versione diversa della stessa 'malattia'. "Le persone che soffrono di Sad stanno male proprio come chi è affetto dal disturbo depressivo (propriamente detto) - spiega Brenda McMahon, ricercatrice di psichiatria all'università di Copenhagen -. Possono presentare episodi depressivi non stagionali, ma l'innesco stagionale è la causa più comune. È importante però ricordare che questa condizione è uno spettro: ci sono molte persone che hanno quello che noi chiamiamo sub-sindrome". A soffrire di questa sub-sindrome è il 10-15% della popolazione, che presenta molti dei sintomi depressivi seppur il disturbo non è clinicamente riscontrato. Di depressione invernale ne soffre soprattutto il sesso femminile – l'80% del totale degli affetti - in età adulta. E alcuni studi ne stanno ricercando le ragioni.

·I SISTEMI BIOLOGICI COINVOLTI NELLA 'DEPRESSIONE STAGIONALE'
Tra i neurotrasmettitori coinvolti nella depressione invernale, spicca la serotonina, quello che regola la felicità, l'ansia, dunque l'umore. Alcune analisi condotte su animali (roditori, in particolare) rivelano che la luce solare gioca un ruolo fondamentale nella regolazione dei livelli di serotonina. D'inverno, dunque, quando la luce è più carente, questo sistema di regolazione risulta essere meno attivo. Il che si traduce, specialmente negli individui più suscettibili, ad aumentare la probabilità di un episodio depressivo. Per quanto riguarda la discrepanza tra i due sessi nel Sad, i ricercatori chiamano in causa lo stesso neurotrasmettitore: "C'è una stretta connessione tra l'estradiolo, il principale ormone sessuale femminile e il trasportatore della serotonina – sostiene McMahon -. E crediamo che i livelli fluttuanti di estradiolo in determinate fasi, come la pubertà o il post parto, possono influire sulla produzione di serotonina". Ma se questo disturbo sembra essere maggiormente diffuso quanto più ci si allontana dall'Equatore, l'Islanda rappresenta l'eccezione: "Gli islandesi sembrano essere geneticamente protetti dal Sad - spiega Robert Levitan, docente della University of Toronto -. Quando si spostano in luoghi che hanno elevati tassi di Sad, come il Canada, i loro tassi sono comunque molto inferiori rispetto ai coetanei". Il motivo? La risposta è nuovamente serotonina – anzi nello specifico è legato alle varianti di un gene che controlla il trasportatore di questa: gli individui meno soggetti a Sad hanno una variante che induce un aumento della produzione di serotonina durante l'inverno.

·ESISTE UNA TERAPIA?
Ma esiste una cura per affrontare questa patologia? Sì, anzi più di una. Tra queste la terapia luminosa – mezzi che producono luce artificiale che stimolano in questo modo la produzione dei neurotrasmettitori del cervello, come appunto serotonina. Ma per chi ha un disturbo più grave la terapia della luce non è sufficiente – va quindi combinata con la terapia antidepressiva. E la 'terapia del triptofano', che può essere somministrata come trattamento aggiuntivo: il triptofano è un aminoacido che viene convertito in serotonina dal nostro corpo.


Dal Sito: www.repubblica.it 

Stress a scuola e l’ansia di non sentirsi mai all’altezza


E’ un fenomeno nuovo anche per chi si trova da anni a vivere, ogni giorno, con gli adolescenti ed i giovani. Ma che riguarda anzitutto i bambini, dall’età prescolare.


Parlo di situazioni di stress, di ansia, di panico, con varie patologie che aggravano, poi, la situazione.

Un fenomeno in crescita che va studiato, per le giuste contromisure.

Bambini ed adolescenti, cioè, dalla vita apparentemente normale, ma che, prima o poi, manifestano varie forme di disagio, di insofferenza, se non di vero e proprio dolore psicofisico.

Pensiamo qui, per parlare dei bambini, alla ricerca di sempre nuovi stimoli da parte dei genitori, come se dovessero sempre e solo primeggiare su tutto, in una logica di auto-realizzazione individuale come unico senso della vita, sostanza di un valore della vita improntato solo alla mera competitività. Per poi ritrovarsi, quando succede, incapaci di reagire anche ad una piccola delusione, ad una apparente sconfitta, ad un risultato atteso ma lontano da venire.

Ai bambini, in poche parole, vengono chieste tante cose, oltre alla scuola e al gioco per il gioco: penso qui ai troppi corsi e corsetti che riempiono i loro pomeriggi ed i fine settimana. Viene chiesto, in sostanza, di essere i più intelligenti, i più capaci, i più abili in tutto.

A questi bambini, e ai loro genitori, credo sia giusto augurare di incontrare dei veri “maestri”, che li aiutino a sperimentare il senso del limite, il valore delle relazioni e della condivisione, il gusto anche di un po’ di noia, di momenti di “lentezza” che facciano da controcanto alla frenesia odierna.

Potranno così crescere senza sentirsi continuamente in ansia, rispetto alle aspettative proprie e dei propri genitori.

Auguro a loro, cioè, di sperimentare la quiete, in un contesto di reciproco e libero ascolto. Senza, magari, rifugiarsi e nascondersi nei mille interstizi del web, per il timore di non essere all’altezza.

Dal Sito: www.tecnicadellascuola.it

Fobia sociale: paura del giudizio altrui


Si tratta di un disturbo d'ansia causato dalla paura di essere giudicato negativo in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un'attività

La Fobia Sociale è la paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali l’individuo è esposto a persone non famigliari o al possibile giudizio da parte degli altri, per il timore di mostrare sintomi d’ansia o di poter agire in modo goffo, imbarazzante.

Si tratta di un disturbo d’ansia causato dalla paura di essere giudicato negativo in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un’attività. Insorge solitamente in età giovanile, nella tarda adolescenza, quando le interazioni con il gruppo sociale e in generale le relazioni extra famigliari iniziano a far parte della vita. Questi pazienti provano un profondo disagio emotivo se devono parlare in pubblico, scrivere o mangiare di fronte ad estranei. Possono sperimentare ansia e profondo imbarazzo nel rimanere in spazi chiusi, dove ci sono tante persone e a sostenere o comunicare i loro punti di vista in una conversazione o arapportarsi con un superiore, e persone dell’altro sesso, cosi come parlare in classe o in una riunione.

Il timore centrale della fobia sociale è quello di essere giudicati ansiosi, deboli, impacciati, sciocchi o inadeguati. Questo timore può essere tanto forte da produrre sensazioni di disagio che si manifestano con sintomi neurovegetativi come palpitazioni, tremore, rossore, sudorazione, vampate di calore, che possono provocare veri e propri attacchi di panico. E’ sempre presente una notevole ansia anticipatoria, cioè uno stato di tensione sia psicologica che fisica legata al pensiero di una futura situazione temuta. Il concetto del timore del giudizio degli altri è il nucleo centrale della fobia sociale, elemento fondamentale sia nell’eziologia che nel mantenimento del disturbo e della sintomatologia fobica. Per evitare di vivere questi momenti d’imbarazzo e forte preoccupazione i pazienti affetti da Ansia Sociale mettono in atto condotte di evitamento che possono interferire  con il funzionamento sociale e gli obiettivi lavorativi che a loro volta influenzano negativamente il decorso, favorendo la cronicizzazione della malattia.

Questi soggetti vivono un timore esagerato rispetto al fatto che gli altri si accorgano della loro ansia e sono molto sensibili, e a loro volta critici verso se stessi e si auto percepiscono come deboli, incompetenti e ridicoli, mentre l’altro è visto come abile, superiore e competente. Come tutti i Disturbi d’Ansia, la Fobia Sociale  riconosce un’inclinazione famigliare a sviluppare la malattia. Questo non solo per una predisposizione generica ma anche perché il nostro modo di percepire noi stessi e gli altri deriva dall’osservazione dei nostri genitori e di come agiscono e dalle interazioni che stabilizzano con loro. I bambini che crescono con genitori estremante riservati e con pochi amici, faranno più fatica a sviluppare sicurezza di sé e atteggiamenti estroversi verso il prossimo. A volte, le figure genitoriali di questi pazienti sono riferite come molto rigide, poco accoglienti e gratificanti e particolarmente inclini alla critica, stile che genera ansia da prestazione e limita lo sviluppo di un senso di sé competente e apprezzatile.

La fobia sociale ha solitamente un decorso cronico. Molti pazienti affetti da tale patologia possono sviluppare depressione maggiore, essi, infatti, sperimentano vissuti di inadeguatezza ed inferiorità e hanno difficoltà a condurre una vita sociale soddisfacente. Un’altra complicanza frequente è l’abuso di alcolici e di farmaci che vengono assunti per alleviare l’ansia nelle situazioni di esposizione sociale. Altri soggetti possono invece possono sviluppare un profondo isolamento e forte dipendenza da qualche figura famigliare. Il trattamento si basa sulla terapia integrata farmacologica e psicoterapica con obiettivo di prendere consapevolezza e imparare a riconoscere le dinamiche interpersonali che hanno influenzato cosi profondamente la propria immagine di sé e generato un cosi forte timore dell’altro.

Dott.ssa Daniela Lazzarotti

Dal Sito: www.riviera24.it

giovedì 22 febbraio 2018

Disturbo Borderline di Personalità



Che cos’e’ il disturbo Borderline

Il disturbo borderline di personalità (DBP) è un disturbo di personalità caratterizzato da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Questi elementi si rinforzano reciprocamente, generando notevole sofferenza e comportamenti problematici. Ne consegue che le persone con questo disturbo, pur essendo dotate di molte risorse personali e sociali, realizzano con difficoltà e a fatica i propri obiettivi.
Tra i disturbi di personalità, il disturbo borderline è quello che giunge più comunemente all’osservazione clinica. Colpisce il 2% della popolazione, più frequentemente il sesso femminile. L’esordio avviene in adolescenza o nella prima età adulta.
Come si manifesta

Tra le caratteristiche principali di chi presenta il disturbo borderline figura l’instabilità emotiva, che si manifesta con marcati e repentini cambiamenti dell’umore: queste persone possono oscillare rapidamente, ad esempio, tra la serenità e la forte tristezza, tra l’intensa rabbia e il senso di colpa. A volte emozioni contrastanti sono presenti contemporaneamente, tanto da creare caos nel soggetto e nelle persone a lui vicine.
Queste “tempeste emotive” si scatenano soprattutto in risposta ad eventi relazionali spiacevoli, come, ad esempio, un rifiuto, una critica o una semplice disattenzione da parte degli altri. La reazione emotiva di chi ha questo disturbo è molto più immediata, marcata e duratura rispetto a quella delle altre persone (vulnerabilità emotiva), per cui gestire le proprie emozioni diventa più difficile (disregolazione emotiva).
Nel tentativo di controllare i propri picchi emotivi, le persone con disturbo borderline di personalità ricorrono all’azione impulsivamente, agiscono senza riflettere. L’impulsività si può esprimere con esplosioni di rabbia, litigi violenti fino alla rissa, abuso di sostanze, abbuffate di cibo, gioco d’azzardo, promiscuità sessuale, spese sconsiderate. Possono anche manifestarsi, a volte anche in modo ricorrente, atti autolesivi (es. procurarsi dei tagli sul corpo con delle lamette o delle bruciature con dei mozziconi di sigaretta, ingerire dosi eccessive di psicofarmaci) o tentativi di suicidio.
Un’altra caratteristica importante di chi ha questo disturbo è la difficoltà a riflettere sulle proprie esperienze, sui propri stati d’animo e sui propri rapporti interpersonali in modo coerente e lineare. Le conversazioni di queste persone appaiono in genere ricche di episodi, scene e personaggi, ma prive di un filo conduttore evidente. In altri casi, invece, sembra che stiano raccontando “tutto ed il contrario di tutto”: il loro punto di vista su sé stessi o sulle altre persone risulta contraddittorio.
I soggetti con disturbo borderline presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione (es. possono dividere il genere umano in “totalmente buoni” e “totalmente cattivi”). I rapporti iniziano generalmente con l’idea che l’altro, il partner o un amico, sia perfetto, completamente e costantemente protettivo, affidabile, disponibile, buono. Ma è sufficiente un errore, una critica o una disattenzione, che l’altro venga catalogato repentinamente nel modo opposto: minaccioso, ingannevole, disonesto, malevolo. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline, generando ulteriore caos.
Tutte queste difficoltà incidono drammaticamente sulla stima di sé, per cui i soggetti con questo disturbo si percepiscono, contemporaneamente, sbagliati e fragili. Espressioni come “Non valgo niente!”, “Sono un bluff!”, “Sono inconsistente!”, “Sono orribile!” compaiono frequentemente nei loro pensieri. Trascorrono la maggior parte del tempo a cercare di correggere questi presunti difetti, trattandosi con severità e pretendendo da se stessi cambiamenti impossibili: è una battaglia già persa in partenza, che conferma la loro iniziale percezione di essere sbagliati.
In questo contesto, a volte l’altro è sentito come giudicante e come se fosse un nemico da cui difendersi. In questi momenti queste persone si sentono fragili, facilmente feribili ed esposte, senza possibilità di difesa e di aiuto, ad un mondo potenzialmente minaccioso e pericoloso. Soprattutto in situazioni di stress, questi soggetti possono presentare degli episodi di ideazione paranoide durante i quali pensano che gli altri abbiano intenzioni malevole e ostili verso di loro. In altri casi, invece, rispondono allo stress con delle crisi dissociative durante le quali perdono transitoriamente le capacità critiche ed il senso di sé. In questi casi, l’emozione dominante è la paura, a cui spesso si associa una sensazione di assoluta solitudine e di totale abbandono da parte degli altri.
A volte riescono a sottrarsi alle forti pressioni cui sono sottoposti distaccandosi da tutto e da tutti: entrano in uno stato di vuoto nel quale avvertono una penosa mancanza di scopi. Si tratta di una condizione pericolosa, in quanto in questi stati sono frequenti le tendenze all’azione, come le abbuffate di cibo, l’abuso di sostanze stupefacenti, gli atti autolesivi e i tentativi di suicidio.
Come capire se si soffre di disturbo borderline di personalità

In sintesi, i soggetti affetti dal disturbo borderline di personalità presentano disregolazione emotiva ed affettiva con improvvisi attacchi di rabbia, ansie intense ed episodiche, sentimenti di vuoto, instabilità nella percezione di sé e degli altri e comportamenti impulsivi.
Alcuni di questi sintomi si possono ritrovare anche in altre patologie, per cui, per ricevere una diagnosi seria ed accurata, è necessario rivolgersi a persone qualificate.
E’ possibile, comunque, fare delle precisazioni che possono aiutare a distinguere questa categoria diagnostica da altre ad essa assimilabili.
Il disturbo borderline di personalità ha delle caratteristiche in comune con i disturbi dell’umore, in particolare con il disturbo bipolare. Entrambi i disturbi, infatti, presentano degli stati intensi di euforia e di depressione. Il disturbo borderline, tuttavia, è caratterizzato da una disregolazione emotiva pervasiva e da oscillazioni dell’umore dipendenti dal contesto, in particolare dalle relazioni interpersonali. Nel disturbo bipolare, invece, le oscillazioni dell’umore si presentano in modo ciclico ed indipendente dal contesto. Una corretta diagnosi è ulteriormente complicata dal fatto che circa il 50% dei pazienti borderline manifesta anche un disturbo dell’umore (depressione e disturbo bipolare).
Il disturbo borderline di personalità, inoltre, può essere confuso con il disturbo dissociativo dell’identità, con cui ha in comune un senso di confusione riguardo alla propria identità e le rapide fluttuazioni tra tipi completamente diversi di umore e comportamenti. Nel disturbo borderline, tuttavia, le alterazioni dell’identità non si aggregano in distinte personalità con diversi nomi, età, preferenze, ricordi e amnesie per eventi passati, come avviene nel disturbo dissociativo dell’identità.
Bisogna anche differenziare il disturbo borderline di personalità da altri disturbi di personalità con caratteristiche simili, in particolare il disturbo dipendente di personalità e il disturbo istrionico di personalità, con i quali ha in comune il timore dell’abbandono da parte delle persone significative, il senso di vuoto e l’idea di essere sbagliato. Un’ultima distinzione va fatta tra il disturbo borderline e la schizofrenia. I due disturbi hanno in comune alcuni sintomi psicotici, ma nel disturbo borderline questi risultano temporanei e dipendenti dallo stato del paziente o dal contesto. I soggetti borderline, infine, hanno un funzionamento personale e sociale maggiore rispetto alle persone affette da schizofrenia.
Cause

La letteratura è concorde nell’indicare come fattori di rischio del disturbo borderline di personalità due aspetti che interagirebbero tra loro potenziandosi reciprocamente:
un’infanzia trascorsa in un ambiente invalidante, cioè un contesto in cui il soggetto può essere stato esposto a svalutazione dei propri stati mentali (pensieri, emozioni e sensazioni fisiche), interazioni caotiche ed inappropriate, espressioni emotive intense, carenze di cure, maltrattamenti e abusi sessuali;
fattori genetico-temperamentali, che predisporrebbero il soggetto allo sviluppo della disregolazione emotiva.
Conseguenze

Tra le conseguenze principali di questo disturbo figurano l’instabilità nei rapporti interpersonali, lo scarso rendimento lavorativo nonostante le capacità del soggetto, l’abuso di alcool e di droghe e, in casi estremi, il ricorso ad atti autolesivi e suicidari.
Differenti tipi di trattamento

Il disturbo borderline di personalità è tra i disturbi più studiati. Il trattamento raccomandato dagli esperti per la cura di questo disturbo è la psicoterapia, eventualmente affiancata dalla farmacoterapia. Orientamenti terapeutici diversi hanno realizzato diversi tipi di terapie per la cura specifica del disturbo borderline. Attualmente risultano maggiormente efficaci i trattamenti che includono terapie diverse e intensive.
La terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan è un trattamento ad orientamento cognitivo-comportamentale integrato. Secondo la Linehan, la principale difficoltà di chi ha il disturbo borderline è quella di gestire le proprie intense emozioni (disregolazione emotiva). Obiettivi peculiari di questa terapia sono la riduzione dei comportamenti suicidari e dei comportamenti che interferiscono sia con la terapia, che con la qualità della vita del paziente. Questi obiettivi, unitamente alle modalità di cura e alle regole da rispettare, vengono definiti da terapeuta e paziente in uno speciale accordo (contratto terapeutico). Il trattamento della Linehan prevede due ore a settimana di terapia individuale e due o tre ore a settimana di incontri di gruppo (gruppi di skills training e di mindfulness). Negli incontri di gruppo vengono potenziate quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle sue intense emozioni negative. Tale trattamento sembra essere particolarmente indicato per le persone che presentano atti autolesivi e suicidari.
La schema-focused therapy (SFT) di Jeffrey Young è un trattamento che integra l’approccio cognitivo-comportamentale con approcci basati sulle relazioni oggettuali e sulla Gestalt.
Secondo quest’approccio, nel paziente borderline sarebbero attivi degli schemi disadattavi precoci e delle strategie di padroneggiamento delle difficoltà che darebbero origine ad altri specifici schemi (es. Bambino abbandonato, Bambino arrabbiato e impulsivo, Genitore punitivo). Questo tipo di terapia mira, in particolare, al cambiamento degli schemi disfunzionali, alla regolazione emotiva e allo sviluppo di relazioni sane per il paziente.
La terapia centrata sul transfert (TFP) di Clarkin, Yeomans e Kernberg è una terapia di stampo psicoanalitico. Il suo obiettivo principale è quello di aiutare il paziente a riconoscere, a partire dalla relazione col terapeuta, le rappresentazioni di Sé e dell’altro non integrate (es. dire della stessa persona, a distanza di pochi minuti: “E’ la persona più buona della Terra!” e “E’proprio un infame!”) e a integrarle (es. “E’ una persona disponibile, anche se stavolta mi ha risposto male”). Il contratto tra terapeuta e paziente impegna quest’ultimo a ricorrere anche ad ulteriori risorse terapeutiche (es. terapia farmacologica, periodi di ricovero) nel caso in cui manifestasse comportamenti che minacciano la sua salute e il prosieguo della terapia. Questo trattamento è strutturato in due sedute di terapia individuale a settimana, per la durata di circa due anni.
Il trattamento basato sulla mentalizzazione di Bateman e Fonagy, di derivazione psicodinamica, è stato applicato finora solo su pazienti in strutture di semiricovero (day hospital). Secondo gli autori, la difficoltà principale di chi soffre di disturbo bordeline è quella di mentalizzazione, che consiste nella capacità di rappresentarsi gli stati mentali propri e altrui, di spiegarsi il comportamento e di prevederlo. Questa terapia, dunque, è volta all’incremento della capacità di mentalizzazione dei pazienti. Il trattamento consiste in tre ore a settimana sia di terapia individuale, che di terapia di gruppo analitica e in un’ora a settimana di terapia espressiva e psicodramma. A questi incontri vanno aggiunti quelli per il controllo della terapia farmacologia e quelli mensili con il gestore del caso.
Altre terapie per la cura del disturbo borderline, con prove di efficacia inferiori rispetto alle terapie già menzionate, sono la terapia cognitiva per i disturbi di personalità di Beck e Freeman e la terapia cognitivo-analitica di Ryle.
La terapia cognitiva per i disturbi di personalità (CTPD) di Beck e Freeman è un trattamento cognitivo-comportamentale che si focalizza sul riconoscimento e sulla messa in discussione delle credenze disfunzionali su di Sé, sugli altri e sul mondo. Queste credenze sarebbero generate da distorsioni della realtà (distorsioni cognitive) e costituirebbero gli schemi cognitivi (strutture cognitive di base che permettono di organizzare l’esperienza ed il comportamento). Nel trattamento del disturbo borderline di personalità, il paziente viene aiutato ad individuare e modificare, in particolare, una distorsione cognitiva (pensiero dicotomico) in base alla quale classifica le esperienze solo in due categorie che si escludono a vicenda (es. buono/cattivo). Questo tipo di trattamento dura circa un anno e prevede sedute a cadenza settimanale.
La terapia cognitivo-analitica di Ryle è un trattamento che integra l’orientamento cognitivo con quello psicoanalitico. Si basa sulla ricostruzione e sul padroneggiamento delle immagini di sé e dell’altro e delle loro transizioni. Questo protocollo risulta indicato per quei pazienti le cui difficoltà principali riguardano il disturbo dell’identità e delle relazioni, piuttosto che i disturbi del comportamento. Si tratta di un trattamento breve (24 sedute e 4 incontri di follow-up) e altamente strutturato.
La terapia farmacologica attualmente viene utilizzata come supporto alla psicoterapia, per il trattamento dei sintomi del paziente. La sintomatologia di questi pazienti può essere suddivisa in tre grandi aree. Nella prima e nella seconda area vengono incluse rispettivamente le difficoltà di regolazione delle proprie emozioni e dell’impulsività, sintomi che sembrano rispondere molto bene agli antidepressivi di nuova generazione. Nel caso di rabbia molto intensa o di comportamenti a rischio, si ricorre anche a basse dosi di neurolettici atipici. Quando il trattamento con gli antidepressivi risulta insufficiente, si possono utilizzare gli stabilizzatori dell’umore. Nella terza area sintomatologica sono incluse idee persecutorie, idee suicidarie e sintomi dissociativi, per i quali si usano bassi dosaggi di neurolettici, da aumentare se la risposta è insufficiente. Nei casi in cui l’incolumità del soggetto è gravemente a rischio, si può ricorrere ad un ricovero ospedaliero. A questo proposito vanno distinte due situazioni estreme: i tentativi reiterati di suicidio e l’ideazione suicidaria conseguente ad un evento negativo o ad una fase depressiva acuta. Nella prima situazione, generalmente si raccomanda il ricovero in centri specializzati, dove il soggetto riceve, per periodi anche di qualche mese, cure psicoterapeutiche specifiche per le condotte suicidarie. Nel secondo caso è indicato un ricovero generalmente breve in ospedale o in clinica psichiatrica finalizzato ad un adeguato e controllato trattamento psicofarmacologico.

Il trattamento cognitivo-comportamentale

Nell’ambito della terapia cognitiva sono stati realizzati diversi programmi di trattamento per i disturbi di personalità.
Presso il Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva è stato messo a punto un modello di trattamento denominato metacognitivo-interpersonale per diversi disturbi di personalità, tra cui quello borderline. Il trattamento è strutturato essenzialmente in una psicoterapia individuale, in genere a cadenza settimanale. Obiettivi finali della terapia sono la riduzione della sofferenza e il miglioramento della qualità di vita del paziente, in accordo con le sue esigenze e priorità e tenendo conto delle sue difficoltà.
Il processo terapeutico comprende i seguenti passaggi, applicati con flessibilità:
la creazione, fin dalle prime sedute, di una buona alleanza tra paziente e terapeuta, realizzata evitando il coinvolgimento in dinamiche relazionali patologiche (cicli interpersonali disfunzionali) e ricorrendo ad un accordo sugli obiettivi del lavoro. Dal momento che chi ha il disturbo borderline di personalità è capace di instaurare, nonostante le sue difficoltà, relazioni intense e significative, il terapeuta lo aiuta ad utilizzare questa sua risorsa per creare, a partire proprio dalla relazione terapeutica, rapporti nei quali possa sperimentare un senso di accettazione di sé, di aiuto e di protezione;
l’intervento diretto sulle disfunzioni metacognitive tipiche di questo disturbo. Il terapeuta aiuta il paziente a focalizzare la sua attenzione sulle sue difficoltà metacognitive: ne spiega la natura, le caratteristiche e le strategie per affrontarle; lo incoraggia, inoltre, ad osservare il problema al di fuori della seduta e ad applicare le strategie individuate in seduta;
l’intervento diretto sugli stati mentali problematici, che comprende l’identificazione degli stati d’animo problematici del paziente durante la seduta, la ricostruzione dei fattori di rischio per la comparsa delle crisi ed i compiti di auto-osservazione degli stati d’animo fuori della seduta;
l’aiuto per ricordare i contenuti delle sedute. Questo intervento risulta necessario in quanto i pazienti borderline possono manifestare degli stati dissociativi e non ricordare ciò che avviene in seduta. Una tecnica semplice per aiutarli a rievocare i contenuti della terapia è il ricorso a promemoria compilati insieme al terapeuta.
Nelle situazioni in cui è a rischio l’incolumità stessa del soggetto (es. stati suicidari, atti automutilanti, abuso di sostanze, guida pericolosa), la sola terapia individuale può non essere sufficiente e viene applicato un trattamento integrato, in cui la terapia individuale metacognitivo-interpersonale è affiancata da incontri con i familiari e/o incontri di gruppo (gruppi di skills training e di mindfulness) e/o dalla farmacoterapia. Questo tipo di trattamento prevede che le varie figure professionali lavorino in équipe.
Le funzioni degli interventi aggiuntivi sono molteplici. Incontrare i familiari, ad esempio, per spiegare loro cosa succede al loro congiunto e come funziona la terapia, può creare un contesto tranquillizzante attorno al paziente ed avere un effetto benefico sulla sintomatologia. Questo intervento rappresenta, inoltre, una preziosa risorsa nella gestione delle emergenze. Gli incontri di gruppo, invece, possono aiutare il soggetto a rinforzare la comprensione del disturbo, riconoscere e gestire i momenti di crisi, potenziare le abilità interpersonali, ridurre il caos nei rapporti con gli altri e incrementare l’accettazione degli stati di sofferenza.

Dal Sito: www.terzocentro.it

Entrate e uscite dalla depressione: gli schemi maladattivi sottostanti



La depressione non è una malattia a sè stante ma un insieme di sintomi che possono scaturire da una diversa organizzazione della personalità.

La depressione non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade. Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Ti svegli e già la vita non ha senso. Alzarsi costa fatica. Un senso di stanchezza, fatica, sfiducia nel futuro. Il mondo è enorme, incombente e tu non hai le forze per affrontarlo. Vorresti restare a letto. A volte lo fai, al diavolo tutto, lasciatemi stare, io non ce la faccio. E tanti altri sintomi correlati: dormire poco o dormire troppo. Un senso di irrequietezza, agitazione, a volte brutti pensieri: vorrei farla finita.
Questa è, in estrema sintesi, la depressione, il male oscuro, il male del secolo, una roba pesante ad avercela.

Il mondo degli psichiatri e degli psicoterapeuti ci ragiona su tanto, ci sono molti modi di affrontarla psicoterapeuticamente e farmacologicamente, è ragionevole essere ottimisti: la depressione si cura. Magari ritorna, ma le ricadute si possono prevenire o possono essere affrontare prontamente e il loro impatto alla fine è limitato.

Il clinico sveglio però sa una cosa: la depressione non è una malattia a sé stante. Sì, ci sono persone che hanno un’alterazione biologica del tono dell’umore, che tende verso il basso. Loro sì, hanno la depressione. Ma non vi fate ingannare. Quando leggete sui giornali che tizio ha fatto questo e quest’altro perché aveva la depressione non è vero. E soprattutto, se vi diagnosticano la depressione… un attimo! La depressione, dicevo, non è una malattia in sé, è un insieme di sintomi, ai quali si può arrivare per varie strade. E per uscirne bisogna riparare proprio quelle strade.
Alla depressione si arriva perché si è guidati da schemi interpersonali maladattivi. Molti schemi portano a deprimersi.

Come funziona il meccanismo?

Andiamo direttamente con un esempio.
Desidero essere apprezzato. Dentro di me penso di valere poco. Prevedo che gli altri mi giudicheranno. Questo mi dà ansia nell’attesa del giudizio, vergogna se mi espongo all’occhio critico, tristezza dopo che rimango a fare i conti con il mio scarso valore. Rinuncio a espormi, perdo occasioni di fare progressi, si restringe la vita sociale. La vita perde sapore, significato. Mi deprimo. Un quadro del genere, per esempio lo trovate nel disturbo evitante di personalità.

Desidero essere amato. Penso di meritarlo poco e di non essere in grado di sostenere da solo la mia debolezza. Prevedo che l’altro sarà indisponibile o mi abbandonerà. Quando sento l’abbandono mi sento solo, sperduto, l’idea di non essere amabile è confermata. Mi butto giù. Perdo iniziativa, mi paralizzo. Mi deprimo.
Un quadro del genere lo trovate per esempio nel disturbo dipendente di personalità.

Desidero sicurezza. Penso di essere vulnerabile, fragile, feribile. Prevedo che gli altri saranno ostili, minacciosi, umilianti, mi inganneranno, mi schiacceranno. Se vedo segni di aggressione, e li vedo facilmente anche se non ci sono, perché sono sempre in 
guardia, mi metto in difesa. A volte attacco, ma soprattutto mi chiudo, mi ritiro, mi isolo. Prendo le distanze dal mondo, vivo nel bunker, allarmato isolato. Mi deprimo.
Un quadro del genere è tipico delle personalità paranoidi.

Potrei continuare. È chiara l’idea? Per curare la depressione, nella maggior parte dei casi, bisogna riconoscere e trattare il disturbo di personalità sottostante. In questo modo la cura va alla radice e si prevengono le ricadute. E si previene il rischio di interruzione precoce del trattamento.
Se si cura solo la costellazione di sintomi, sempre che ci si riesca, è facile che il problema appaia ancora. E noi clinici attenti vogliamo mirare all’esito migliore possibile.

Dal Sito: www.stateofmind.it

Come controllare i sintomi di un attacco di panico


L’attacco di panico è una sensazione improvvisa di intensa paura o malessere, che provoca un’angoscia tale da far pensare alla persona che ne soffre di star perdendo il controllo o addirittura di essere sul punto di morire. In realtà, però, questi attacchi non sono potenzialmente mortali.

Gli attacchi di panico si producono senza segnali d’avviso e possono persino svegliare una persona dal sonno profondo. La loro durata varia, ma generalmente si aggira tra i 10 e i 20 minuti. Se ne avete sofferto qualche volta, saprete che non sono per niente piacevoli.

Si stima che circa un terzo della popolazione abbia sofferto o soffrirà di un attacco di panico almeno una volta nella vita, normalmente nella fascia tra i 15 e i 19 anni. Tra coloro che hanno sperimentato i sintomi di un attacco di panico, meno del 3% continua ad avere problemi di questo tipo.

A seguire vi illustreremo alcuni metodi per controllare gli attacchi di panico. Per prima cosa, però, è importante analizzare esattamente come agiscono e quali sono i loro sintomi.
Sintomi di un attacco di panico

Un attacco di panico è caratterizzato da almeno 4 dei seguenti sintomi:

1. Battito accelerato o tachicardia
2. Sudorazione
3. Spasmi
4. Difficoltà a respirare
5. Sensazione di soffocamento
6. Dolore al petto
7. Nausea
8. Capogiri o sensazione di svenimento
9. Sensazione di essere fuori dalla realtà o separati da noi stessi
10. Formicolio
11. Brividi o vampate di calore
12. Paura di star impazzendo
13. Paura di morire

Non esiste un modello fisso per gli attacchi di panico. Alcune persone possono sperimentarne vari in un giorno e poi non soffrirne per mesi, mentre altre hanno attacchi di questo tipo fino a una volta alla settimana.

Visto che gli attacchi di panico possono essere collegati ad altri problemi di salute, è importante che chi sperimenta questi sintomi sia valutato da uno specialista, per determinarne le cause. Alcuni problemi cardiaci, malattie respiratorie, sbalzi ormonali o l’assunzione di stimolanti come la caffeina possono causare sintomi simili agli attacchi di panico.
Perché si produce il panico?

Un attacco di panico si produce quando qualcosa scatena la paura, in un processo conosciuto anche come “reazione di attacco-fuga”. Il sistema nervoso del corpo libera l’ormone adrenalina, e quest’ondata di adrenalina provoca sentimenti e sensazioni inquietanti.

Quando il sistema nervoso reagisce in modo normale a una situazione di paura, una volta che questa svanisce anche il livello di adrenalina si adatta subito, tornando a essere normale. Durante un attacco di panico, questo non accade, e ci vuole del tempo perché la persona si recuperi dai sintomi.

Spesso non c’è nessun motivo ragionevole per un attacco di panico, e quindi il cervello cerca di giustificare la sua reazione attraverso pensieri irrazionali come “Sto per morire” o “Sto impazzendo“. Un attacco di panico può essere anche provocato da una situazione particolare, come un volo in aereo o il fatto di parlare in pubblico.

La parte del cervello chiamata amigdala ha una relazione diretta con gli attacchi di panico e i disturbi che causa no ansia. Questa zona reagisce aumentando la pressione quando è esposta a una situazione sconosciuta o dopo aver affrontato un evento vitale stressante.

Non si sa ancora bene perché si producano gli attacchi di panico, ma secondo le ricerche si tratta di una combinazione tra fattori genetici, biologici, psicologici e ambientali, che possono far sì che una persona sia più propensa di altre a soffrirne.
Controllare i sintomi di un attacco di panico

Se le analisi mediche e psicologiche hanno scartato una malattia associata a questi sintomi, le reazioni scatenate da un attacco di panico possono essere controllate in diversi modi.

Consapevolezza

La consapevolezza è essenziale per controllare i sintomi di un attacco di panico. Imparare come funziona quella paura dentro di noi può aiutare le persone a riconoscere un attacco di panico per quello che è: un errore dell’amigala del cervello, che causa un’ondata di adrenalina.

È molto importante capire che i sintomi del panico non sono associati a nessuna grave malattia. Nonostante si tratti di un’esperienza orribile, è fondamentale ricordare sempre che non vi porterà alla morte.

Respirare profondamente

Il nostro istinto ci dice di respirare più velocemente quando ci invade il panico. Tenere sotto controllo la nostra respirazione è il primo passo per controllare un attacco di panico. L’obiettivo è permettere che un flusso lento e regolare di aria entra ed esca dal corpo, evitando l’iperventilazione e l’eccesso di anidride carbonica.

Per riuscirci, bisogna inspirare lentamente dal naso ed espirare dalla bocca, con le labbra semiaperte, dopo aver trattenuto l’aria nei polmoni per qualche secondo. Se seguite questo ciclo per diverse volte, vi sentirete presto più calmi.

Rilassamento muscolare

Un’altra strategia utile consiste nell’imparare a rilassare il corpo. Potete riuscirci mettendo in tensione diversi muscoli del corpo e poi rilassandoli. In questo modo, riuscirete a ridurre la tensione in generale e ad abbassare i livello di stress.

Può essere una buona idea iniziare dai piedi. Contraete il gruppo muscolare dei piedi mentre inspirate profondamente, mantenete la posizione per qualche secondo e poi lasciate andare l’aria mentre rilassate i muscoli.

Mindfulness

Il concetto di mindfulness, o “piena consapevolezza”, indica un modo di vivere il presente in cui si accettano i pensieri che si presentano, ma senza lasciare che ci assorbano o ci comandino. Gli attacchi di panico potrebbero procedere da pensieri che ci portano verso preoccupazioni eccessive che generano pensieri catastrofici.

Attività fisica

L’attività fisica regolare è necessaria per essere in salute, ed è bene che sia parte della nostra vita quotidiana. L’esercizio aiuta a eliminare lo stress e stimola il corpo a produrre sostanze chimiche naturali (endorfine) che sono vitali per calmare il dolore e darci una sensazione di benessere.

Pianificare in anticipo

Se sapete che certe situazioni vi fanno paura, o che vi ricordano episodi di panico precedenti, respirate con calma e cercate di rilassarvi. Un’altra opzione è cercare dei modi per distrarvi e non pensarci. Inoltre, se sapete che può succedervi, preparatevi!

Per esempio, vestitevi a strati in modo da spogliarvi poco a poco se vi verrà caldo, o cercate un modo di arieggiare la stanza. Tenete pronta una bottiglietta d’acqua per bere: vi idraterà e vi tranquillizzerà, perché il cervello riceverà il messaggio che non c’è pericolo… Altrimenti non vi sareste messi a bere dell’acqua!

Mangiare bene

Alimentarsi bene e in modo regolare aiuta a mantenere bilanciati i livelli di zucchero nel sangue. Quindi non restate mai senza mangiare per più di quattro ore. Inoltre è bene correggere le eventuali carenze nutrizionali della vostra dieta ed evitare la caffeina e l’alcol, visto che possono scatenare o peggiorare gli attacchi di panico.

Agorafobia: avere paura della paura




Sull’agorafobia è stato scritto e detto molto. Molto spesso questo disturbo viene erroneamente inteso come “paura degli spazi aperti o degli spazi in cui si riuniscono molte persone”. Non è del tutto corretto, perché l’agorafobia è paura della paura, piuttosto che paura degli spazi aperti. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM-5, l’agorafobia è caratterizzata da due principali criteri diagnostici:

1. Intensa paura di due o più delle seguenti situazioni:
Usare mezzi di trasporto pubblico.
Trovarsi in spazi aperti (parchi, ponti, strade).
Trovarsi in luoghi chiusi (teatri, cinema o centri commerciali).
Fare la coda o essere in mezzo alla folla.

2. L’intensa paura di trovarsi in tali situazioni (nella maggior parte dei casi) ruota attorno agli attacchi di panico e al non poter scappare o ricevere aiuto. È per questo che l’agorafobia è la paura della paura. Le situazioni agorafobiche, come fare la coda o essere al cinema, non sono un problema di per sé; la persona teme di sperimentare la paura intensa che provoca un attacco di panico o una crisi di ansia. Un attacco di ansia che pensa possa presentarsi in queste situazioni.

In questo articolo, spiegheremo brevemente il funzionamento emotivo dell’agorafobia, le cause, che cosa lo mantiene e anche una serie di idee pratiche che aiutano a non limitarsi.

“La paura è naturale per il saggio, e saperla vincere vuol dire essere coraggiosi.”

Agorafobia: non solo paura di stare negli spazi aperti

Quando una persona soffre di agorafobia, in realtà non ha paura di trovarsi in uno spazio aperto o molto affollato. Piuttosto ciò che teme è avere un attacco di ansia o di panico in quel luogo. Pertanto, evita di uscire da casa e limita i luoghi in cui si reca.

In altre parole, l’agorafobia è definita come paura della paura ed è per questo motivo che la persona elabora una specie di “mappa” dei luoghi in cui si sente sicura o insicura. Si reca solo in quei posti in cui non ha timore che si verifichi l’attacco di panico, e se deve spostarsi più lontano, cerca di facersi accompagnare da una persona di fiducia.

Allo stesso modo, una persona con agorafobia può diventare del tutto incapace di allontanarsi dai luoghi definiti come “sicuri” se non è accompagnata da una persona di fiducia. Per questo motivo, la paura della paura è quasi sempre accompagnata da sintomi depressivi che derivano dall’immagine negativa di sé che ha il soggetto in questione e dalla sensazione di incapacità che sperimenta quando deve affrontare le attività quotidiane.
Da dove deriva questa paura della paura?

Nella stragrande maggioranza dei casi, la persona con agorafobia ha già sperimentato un episodio di intensa ansia o un attacco di panico. Visto che questa esperienza fa scattare la sua paura più profonda e più primitiva (attivazione intensa dell’amigdala cerebrale), la persona crede che sta per morire, che perderà i sensi, alcuni credono anche che stanno “diventando pazzi” o che perderanno il controllo degli sfinteri.

Comincia, dunque, a temere tale paura (la crisi o l’attacco di panico) e prende delle precauzioni per ridurre i livelli di esposizione. Queste precauzioni sono comportamenti di evitamento che non fanno altro che limitare l’indipendenza pratica ed emotiva (peggiorano l’immagine di sé e fanno sentire ancora più incapaci) e aumentare la paura.

Anche se l’agorafobia è presente durante la maggior parte della giornata, la persona a casa sua si sente protetta, meno vulnerabile, sebbene anche lì abbia sofferto di attacchi di panico. Le persone con agorafobia (senza rendersene conto) si ingannano e sviluppano una serie di comportamenti di sicurezza, in molti casi superstiziosi ed evitanti, che trasmettano loro la sensazione di avere tutto sotto controllo.

Se le situazioni di “pericolo” vengono evitate e non si hanno crisi di ansia o attacchi di panico, perché la paura non va via?

Perché con questa mappa di situazioni sicure non si arriva mai a sperimentare la sensazione che “non succede niente” e che “nulla di ciò che si prova è pericoloso”. La falsa sicurezza del soggetto affetto da agorafobia incuba e aumenta la sua paura. Senza rendersene conto, costruisce una realtà che finisce per soffocare la sua libertà e indipendenza, per paura di tornare a provare paura.

Questo significa che l’agorafobia viene mantenuta da un elemento diverso da quello che l’ha creata. La maggior parte dei casi di agorafobia si sviluppa a partire dalla precedente esperienza di un attacco di panico (in una qualsiasi delle sue varianti) e viene mantenuta dal comportamento evitante.

“Chi teme la sofferenza, soffre già di paura”

-Proverbio cinese-

Come superare la paura della paura?

L’unico modo per superare l’agorafobia è affrontarla. È necessario disporre di un’esperienza percettivo-correttiva che rompa le associazioni tra situazioni-luoghi-paura e per questo è necessario andare in terapia.

Esistono diversi approcci terapeutici volti a superare la paura della paura; tuttavia, l’unico approccio scientificamente dimostrato efficace è la terapia cognitivo-comportamentale. Questo non vuol dire che sia l’unica terapia valida, ma è l’unica che lo ha dimostrato con evidenza empirica (con fatti oggettivi). In ogni caso, per superare la paura della paura, c’è bisogno di consultare uno psicologo che faccia da guida nei passaggo necessari ad affrontare questa paura

Un ottimo esercizio per iniziare a domare il problema è cominciare a studiare il proprio caso ed essere in grado di definire fino a dove si è in grado di arrivare. In altre parole, prima bisogna definire le proprie zone di sicurezza e stabilire quale sia la distanza massima percorribile rispetto a queste zone. In secondo luogo, il soggetto può provare a recarsi in questi luoghi di sicurezza e cercare di allontanarsi ogni giorno un po’ di più. È un ottimo modo per iniziare ad avere esperienze correttive rispetto alla paura.

Infine, ricordate che la paura è irrazionale, quindi richiede esperienze correttive per essere ridotta. Pensare o leggere libri di auto-aiuto difficilmente può aiutare a superare l’agorafobia. Perché la mente deve re-imparare che quello che tanto teme è fastidioso, ma non pericoloso. Coraggio!

Dal Sito: lamenteemeravigliosa




mercoledì 21 febbraio 2018

Quel maledetto disturbo chiamato ansia

L'ombra di D. sulla spiaggia, un senso di pace che contrasta con la tempesta della mente

Grazie a D. che ha 24 anni e un nome con un significato bellissimo

"Ho 24 anni, e non ho una vita. Ho bloccato tutto per quel maledetto disturbo d'ansia, che probabilmente è sfociato in una depressione che non mi ha fatto più sorridere. Ero ancora al liceo quando iniziai a provare quelle strane sensazioni di vertigine. Ricordo che dicevo di non sentire più il mio corpo. E così iniziai a perdermi".

"È andata sempre piuttosto male: scuola finita con un anno di ritardo, nonostante fossi sempre stata brava, scelte universitarie sbagliate, fino a prendere quella che credevo fosse la strada giusta. E di nuovo il baratro. Con dentro tutto quello che normalmente accade, un lutto, problemi famigliari, di salute. Un'altalena di malesseri e forza di volontà, fino al crollo definitivo. Nonostante quasi due anni passati in casa, senza vita sociale e senza neanche un 'amico' disposto a mandarmi un messaggino, con i genitori distrutti per la mia situazione, sento ancora di essere giovane e di poter ricominciare da qualcosa".

"Mi sono rivolta a uno specialista e sto facendo una cura, ma chi ha vissuto questo disturbo sa che non è affatto un percorso facile, né breve. Sto provando a rialzare la testa anche davanti a quegli sguardi che me la facevano abbassare. Esco ogni giorno, con difficoltà e con limitazioni. Basta andare a comprare il pane per convincermi che so stare ancora in piedi davanti a qualcuno, con gentilezza e buone maniere. Sono inciampata e mi sono fatta troppo male. La debolezza si paga e sto pagando. Ho accettato tutto, accetterò di perdonarmi. Conosco i miei errori. C'è una cosa, però, che non ho potuto ancora accettare: l'ignoranza dei più. Sono stata lasciata sola da tutti".

"Avevo amici, un ragazzo. O meglio, credevo. È bastato rifiutare qualche uscita per un po' per far loro dimenticare completamente della mia esistenza. Anche tra chi sa, pur non avendo alcun legame con me, noto una sorta di pietà e finta dolcezza. Il terrore di vedermi la vita scivolare dalle dita mi paralizza. Eppure sono sempre la stessa. Colgo l'umorismo e faccio umorismo. So ridere di me stessa e degli altri. Piango, molto. Soffro. Sento che il dolore mi ha consumato. Non sono riuscita a laurearmi, per ora. Non ho cercato lavoro, per ora. Non ho dato corpo ai miei sogni sfocati, per ora. Non ho avuto abbastanza coraggio, per ora".

"Ma sono come voi, come tutti. Vorrei che tutti capissero e si aprissero un po' di più verso la comprensione per le malattie e i disagi psichiatrici. Lo dico soprattutto a chi ha vicino qualcuno che ne soffre, perché l'isolamento può essere distruttivo. Il marchio a fuoco che un piccolo paese imprime può fare un male insostenibile. Un abbraccio può salvare. Una telefonata può illuminare. E non trattatemi da stupida se ho paura di attraversare una piazza o a fare la spesa in un centro commerciale. Io non sono quello. Il disturbo d'ansia, l'agorafobia, la fobia sociale, la depressione che ne deriva è un ostacolo, enorme, da superare. Non è una malattia contagiosa, né qualcosa che lede le capacità intellettive di chi ne è affetto. Non sono pericolosa, non sono inaffidabile. Ci proverò di nuovo, e se fallirò, spero avrò la forza di riprovarci ancora".

Fonte: invececoncita.blogautore.repubblica.it

Attacchi di panico in auto: come prevenirli, consigli e rimedi


Mai sottovalitare il problema, ecco cosa può succedere

Breve guida su come prevenire e risolvere il problema degli attacchi di panico alla guida

Luoghi affollati, spazi aperti, mezzi pubblici. I posti dove possono verificarsi attacchi di panico sono più di uno e chi soffre di questa patologia viene colto da una vera e propria “crisi” (la crisi di panico, appunto).

Ma gli attacchi di panico possono sopraggiungere anche mentre si è alla guida.Proviamo a pensarci: se sbagliamo strada e non riusciamo più a tornare indietro, ci preoccupiamo. Bene, immaginate cosa può accadere a una persona che di norma soffre di ansia e crisi di panico. Dunque, il problema è serio e merita un approfondimento. Come si può rimediare alle crisi di panico al volante?

Attacco di panico alla guida: cosa può succedere

L’attacco di panico fa sorgere all’improvviso tremori, sudorazione, respiro corto, sensazione di soffocamento, tachicardia e altri sintomi, che in genere durano alcuni minuti ma fanno perdere letteralmente il controllo al soggetto che li subisce. E quando si sta guidando, le conseguenze possono essere gravi. Ad esempio si possono percepire le altre macchine in maniera strana (si ha la sensazione che ci vengano addosso) e si ha il pensiero di poter perdere il controllo dell’auto e provocare un incidente.

Come si esce da una situazione così critica? In molti pensano di risolvere il problema semplicemente“evitandolo”. In parole povere, l’auto mi fa paura e quindi non la uso più. Ma è sbagliato, perché l’evitare il problema non lo risolve affatto e, anzi, comporta dei costi ancora maggiori in termini sia di qualità della vita che di autostima.

Come risolvere il problema

Per risolvere il problema degli attacchi di panico bisogna anzitutto “non scappare”.Dunque niente barriere, muri o strategie di evitamento, ma piuttosto è meglio parlarne con il proprio medico o con uno specialista, che potranno indirizzare il paziente verso un percorso preciso di recupero.

E’ bene anche ricostruire l’evoluzione del disturbo, indagandone l’esordio fino ad arrivare a una minuziosa descrizione dello stato del momento. A partire dalla disamina degli attacchi di panico più recenti va infatti ricostruito lo schema del funzionamento del disturbo. Lo schema rappresenta una specie di “mappa”, che può orientare la persona a capire quello che gli succede nel corso di un attacco di panico. In questo modo si può “normalizzare”, per quanto possibile, l’esperienza. Ad esempio, individuando quelle credenze errate che innescano l’escalation del panico e mettendole in discussione (come la convinzione che la tachicardia sia segno di un imminente infarto o che la confusione mentale sia prova di follia).

Un altro aiuto è l’acquisizione di competenze e tecniche(respiro lento, rilassamento muscolare progressivo eccetera) finalizzate a migliorare la gestione dell’ansia. Anche l’esposizione graduale agli stimoli ritenuti pericolosi (pensieri, situazioni e occasioni in grado di innescare un attacco di panico) può aiutare a risolvere il problema della patologia.

Inutile poi dire che il rilassamento aiuta, e non poco. Quindi è bene cercare di creare nell’abitacolo una condizione piacevole e familiare, che può agevolare l’automobilista a prevenire l’attacco di panico alla guida. Ad esempio una bella musica rilassante, ma anche la vicinanza di persone che infondono sicurezza.

Di Niccolò Dolce

Dal Sito: www.motorionline.com

Fobia sociale, come capire che non è solo timidezza e come uscirne


Un disturbo diffuso tra la popolazione, la fobia sociale è l'ansia di agire davanti agli altri per paura di ricevere giudizi negativi e di venir mal giudicati. La dr.ssa Martina Valizzone ci aiuta a conoscerla per affrontarla, poichè l'ansia sociale, se non trattata, può diventare la causa di altri disturbi come la depressione.

Quando si parla di timidezza e quando questa condizione può trasformarsi in “fobia sociale”? Lo abbiamo chiesto alla dr.ssa Martina Valizzone, specialista in psicologia.

Quando si parla di fobia sociale

La fobia sociale è un disturbo d’ansia che consiste nel credere di essere osservati e giudicati negativamente in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un’attività in pubblico.

Chi soffre di ansia sociale tende a manifestare eccessiva timidezza o riservatezza in pubblico, cui si accompagna un atteggiamento e una postura corporea solitamente rigida e difensiva. Si tratta di un disturbo piuttosto diffuso tra la popolazione.

Secondo recenti studi, ne soffre dal 3 al 13% degli italiani con una prevalenza maggiore nel sesso femminile. La fobia sociale nella quinta edizione del DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) ha cambiato dicitura in Disturbo d’Ansia Sociale, i cui sintomi principali sono:

Paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile giudizio altrui.

Il soggette teme di essere deriso, rifiutato o criticato dagli altri nello svolgimento di azioni o compiti di vario genere.

Le situazioni sociali provocano nel soggetto ansia o paura intensa.

Le situazioni sociali sono evitate oppure sopportate con estrema ansia o paura.

La paura o l’ansia risultano sproporzionate rispetto alla reale minaccia posta in essere dalla situazione sociale temuta.

All’interno di questa categoria diagnostica è possibile distinguere tra la fobia sociale specifica, quindi circoscritta a un particolare ambito sociale, oppure generalizzata che invece riguarda la maggior parte delle situazioni sociali.

Per ricevere una diagnosi di disturbo d’ansia sociale, i sintomi devono essere presenti da almeno 6 mesi e provocare disagio clinicamente significativo nelle varie aree di vita del soggetto quindi l’ambito familiare, personale e sociale (scolastico o lavorativo che sia).

Quali sono i modi migliori per affrontare questo tipo di fobia

Per affrontare questo disturbo, come per altri disturbi d’ansia, il trattamento più indicato ed efficace è la psicoterapia a indirizzo cognitivo-comportamentale.

La terapia cognitivo comportamentale va ad agire sui pensieri e le credenze disfunzionali che il soggetto associa allo stimolo fobico e contemporaneamente,
attraverso strategie di tipo comportamentale, aiuta il soggetto a gestire le proprie reazioni d’ansia e angoscia. Il terapeuta, nel corso della terapia, guiderà il paziente all’esposizione graduale e sistematica delle situazioni sociali che provocano ansia.

Il presupposto su cui si fondano questo tipo di interventi è che un’esposizione frequente e prolungata allo stimolo, opportunamente predisposta da paziente e terapeuta, permetterà poi al paziente di affrontare le situazioni temute in modo progressivamente più agevole, privandole della reazione emotiva negativa.

Fattore che permetterà a sua volta al soggetto di riprendere a vivere con maggiore serenità le situazioni sociali, grazie anche alla riduzione della vulnerabilità al giudizio negativo degli altri e alla vergogna. Si sono rivelati interventi efficaci anche il training autogeno e l’apprendimento delle tecniche di rilassamento muscolare profondo, utili ad associare allo stimolo fobico una reazione fisica contraddistinta da calma e rilassatezza.

Per ridurre l’entità dei sintomi associati alla fobia sociale, è spesso consigliata una terapia farmacologica a base di farmaci antidepressivi o ansiolitici. Più recentemente, nel trattamento farmacologico della fobia sociale sono stati inclusi anche gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e gli inibitori della monoamino ossidasi.

Malgrado la loro efficacia nella remissione dei sintomi ansiosi, gli effetti benefici dei farmaci cessano immediatamente dopo la loro sospensione e, se non accompagnati da un terapia psicoterapica, presentano elevati tassi di ricaduta.

Quali sono i fattori scatenanti?

Secondo recenti studi non è possibile ricondurre a un’unica causa i sintomi della fobia sociale. Sarebbe più opportuno parlare di un insieme di fattori di tipo genetico, psicologico e ambientale che concorrono all’instaurarsi di un simile disturbo.

Tra i fattori genetici, la familiarità rappresenta un importante fattore di rischio. Soggetti che hanno altri casi di fobia sociale in famiglia, hanno una maggiore probabilità di sviluppare il disturbo d’ansia sociale, rispetto alla popolazione generale.

Per quanto riguarda i fattori di natura psicologica un altro fattore di rischio è la presenza di determinate caratteristiche di personalità che possono facilitare l’instaurarsi di una simile patologia, tra queste citiamo: un’estrema sensibilità alle critiche, bassa autostima, vergogna, sentimenti di inferiorità e la paura di essere rifiutati.

In ultimo tra i fattori di rischio ambientali, rivestono un ruolo predominante le esperienze traumatiche (quali umiliazioni, persecuzioni o scherno) vissute dal soggetto durante l’infanzia o l’epoca adolescenziale, che in quanto tali hanno contribuito a rinforzare la percezione del mondo esterno come pericoloso, dal quale è meglio difendersi.

Dr.ssa Martina Valizzone

Dal Sito: www.tantasalute.it

martedì 20 febbraio 2018

Ansia: quali vantaggi psicologici presenta?


Per ansia si intende l’immobilizzazione nel presente a causa di ciò che succederà o non succederà nel futuro.

L’ansia naturalmente non va confusa con i progetti per il futuro: se abbiamo dei progetti e ci stiamo dando da fare per raggiungerli e migliorare il nostro futuro, è chiaro che non è il caso di parlare di ansie e di preoccupazioni. Quando invece un qualcosa che appartiene al futuro ci paralizza adesso, nel presente, allora si può parlare di ansia.

I comportamenti ansiosi

Numerosi sono i comportamenti ansiosi legati alla nostra cultura. Ne farò qualche esempio tipico. Le frasi messe nelle parentesi sono quelle con cui si suole giustificare la propria ansia:

“Io entro in ansia riguardo…”

La mia salute (“Se non me ne curo, potrei morire in qualsiasi momento!”)

Il mio lavoro (“Se non me ne preoccupo, potrei perderlo”)

La situazione economica(“Visto che non se ne cura lo Stato, qualcuno dovrà pure preoccuparsene no?”)

I miei figli (“Tutti si preoccupano dei figli. Non sarei un bravo genitore se non me ne dessi pensiero no?”)

Gli incidenti (“Ho sempre il pensiero che a mio marito accada un incidente. Se ne sentono sempre all’ordinne del giorno!”)

La morte (“Tutti hanno paura della morte, tutti se ne preoccupano. Non sono mica il solo!”)

Il parlare in pubblico (“Mi blocco, e come se entrassi in uno stato di confusione. Mi si annebbia la mente e non so più quello che devo dire”)

E la lista, ovviamente, potrebbe continuare ancora a lungo.

Per eliminare l’ansia è necessario comprenderne il motivo. Mi spiego meglio: se l’ansia occupa una gran parte nella nostra quotidianità, ha altresì numerosi precedenti che la motivano. Andiamo allora ad osservare quali vantaggi psicologici presenta la scelta dell’ansia.

I vantaggi psicologici dell’ansia

Fuggire dal presente: se passiamo il tempo nell’immobilizzazione su qualcosa che appartiene al futuro (pensiero ansiogeno), stiamo cercando di sfuggire al presente e a tutto ciò che nel presente ci disturba.

Si evita di correre dei rischi: se mi occupo dell’ansia e della mia preoccupazione, come posso agire? Una lamentela che si sente spesso infatti è quella del tipo: “Non riesco proprio a fare nulla, sono troppo preoccupato di… o in pensiero per…”. Questo è un lamento molto frequente nella gente comune che ha il vantaggio, naturalmente, di mantenere tutto uguale, di tenerci immobili e di evitare il rischio che comporta invece agire e quindi cambiare.

Sono buono: grazie alla mia ansia mi posso sempre etichettare come persona che se la prende a cuore. Così le mie ansie dimostrano che sono un buon genitore, una buona moglie, una buona  figlia, insomma un buon tutto.

L’ansia è un alibi a portata di mano per alcuni comportamenti autodistruttivi: se per esempio sono già sottopeso, non c’è dubbio che mangio ancora meno quando sono in ansia e preoccupato; ho in questo modo un motivo in più per tenermi le mie ansie. Lo stesso vale per il vizio del fumo: fumo di più quando sono in ansia per qualcosa, quindi mi tengo le mie preoccupazioni per fare a meno di smettere di fumare. Questo meccanismo nevrotico funziona anche nel campo della salute, degli affetti, del lavoro, delle relazioni, etc. L’ansia ci permette di evitare un cambiamento, perché è più facile preoccuparsi dei dolori che provoca una gastrite, piuttosto che correre il rischio di conoscerne le cause psicologiche e agire direttamente su queste.

Le mie ansie mi impediscono di vivere: una persona preoccupata, ansiosa, non vive, resta immobile. Una persona attiva si dà invece da fare, vive ogni giorno con intensità e affronta il nuovo con coraggio. L’ansia è una scusa formidabile per non fare nulla, perché è più facile preoccuparsi, che non agire.

L’ansia può determinare sintomi fisiologici come ulcere, ipertensioni, nausee, emicranie, mal di schiena e simili. Anche se questi non sembrano dei veri e propri vantaggi, ci fanno diventare oggetto di una considerevole attenzione altrui e giustificano molta autocommiserazione. Più di star bene si preferisce farsi compatire.


Cristiana Milla, psicologa e psicoterapeuta. 

Dal sito: www.quipsicologia.it 

lunedì 12 febbraio 2018

La paura: il respiro bloccato


Ci immobilizziamo di fronte a degli eventi, rimandiamo scelte, produciamo una miriade di pensieri per giustificare, allontanare o aggirare l’ostacolo. 
Cosa c’è dietro questo comportamento evitante?
Cos’è la paura
Il funzionamento della paura è necessario alla sopravvivenza, fa parte del bagaglio evolutivo che nei secoli i predecessori hanno testato per noi: una grande eredità che ci appartiene. Un vero e proprio meccanismo di difesa attivo dalla nascita, presente in tutti noi.
Essendo un’emozione fondamentale alla sopravvivenza ad essa è collegata un’attivazione neurofisiologica istantanea: aumento battito cardiaco, muscolatura tesa, respiro mozzato, secrezione di adrenalina, calo della soglia del dolore, aumento delle percezioni sensoriali.
La differenza tra paura e fobia risiede nella minaccia che nel primo caso è reale, nel secondo caso è solo nella nostra testa.
Come nasce 
Dietro ogni paura c’è qualcosa di già vissuto, qualcosa che spesso non sta in superficie, una traccia di memoria che dal passato arriva nel nostro presente e tiene attiva la paura in ogni momento della giornata, compromettendo le future relazioni e dunque, il benessere psicofisico e la qualità di vita.
– Ambiente allarmante
Un bambino che cresce in un ambiente familiare ansiogeno, atmosfera di continua paura ed allarme;
– Rigidità dei genitori
Iperprotezione, ambiante ristretto, regole rigide;
– Stress post-traumatico
Un evento traumatico altera le percezioni successive, tutto ciò che accade provoca ansia.
Sono tre situazioni diverse, tutte con il medesimo risultato: chiusura del campo visivo ai soli stimoli legati all’esperienza traumatica. Esempio classico l’incidente d’auto, in seguito ad esso presteremo attenzione solo alla strada, mani sul volante, tensione muscolare.
Come si manifesta 
Freeze-Fight-Flight: congelati, combatti o fuggi. Sono queste le tre reazioni di fronte alla paura di uomini e animali.
  • Congelarsi: la persona resta ferma e non affronta le situazioni, chiude le porte della comunicazione, si immobilizza per non sentire la paura e resta nel suo mondo negando completamente la realtà;
  • Combattere: in questo caso abbiamo un comportamento costantemente pronto all’attacco, arrabbiato, aggressivo, cinico, in continua discussione, polemico, associa la paura alla fragilità e non l’accetta;
  • Fuggire: un tipico atteggiamento di chi trova scuse e giustificazioni, non affronta la paura evitando ogni responsabilità, fa e dice mille altre cose pur di non agire.
Cosa altera 
  • PENSIERI: pensieri ripetitivi, continue analisi ed interpretazioni, ogni stimolo viene filtrato dalla paura;
  • EMOZIONI: rabbia, frustrazione, pericolo imminente, mancanza di fiducia;
  • SISTEMA FISIOLOGICO: di fronte alla paura tiriamo un respiro che resta bloccato, sistema immunitario debole per il troppo consumo di energie, stomaco contratto;
  • POSTURA: movimenti lenti, rigidità posturale, spalle tese e chiuse, espressione fissa, occhi sbarrati.
Rischi
La paura constante chiude la possibilità di nuove storie, nuove esperienze ed emozioni:
– congelarci rende ogni relazione statica, mai profonda e spesso fragile; 
– evitare non ci permette una vita piena;
– combattere consuma le nostre energie.
In casi prolungati la reazione del nostro organismo è lo stress, in ultimo il fastidioso campanello dell’ansia che può portare ad attacchi di panico.
Cosa possiamo fare?
Innanzitutto, accettare la paura non è segno di debolezza né di sconfitta. Un aspetto fondamentale è non colpevolizzare i genitori: ognuno di noi porta in sé una storia che va accettata e rispettata, e dobbiamo staccarci da questa e camminare con le nostre gambe.
Attraversare più e più volte l’esperienza che scatena la paura per creare nuove tracce di memoria nel presente, lasciandoci il passato alle spalle.
Lavorare sull’allentamento della muscolatura attraverso la respirazione profonda, aprire le sensazioni e riprendere un contatto profondo in pieno benessere.
Tutti possiamo imparare a riconoscere la paura, ma prima, dobbiamo accettarla.