mercoledì 31 maggio 2017

Stress da lavoro: sintomi, cause, rimedi e a chi rivolgersi


Lo stress da lavoro è una condizione assai frequente, che può provocare diversi sintomi, come l'infarto, attacchi di panico, ansia, pressione alta e depressione, solo per citare alcuni dei disturbi fisici e psicologici. Le cause hanno sfondo lavorativo. Ma quali sono i rimedi per combatterlo? Come giungere alla diagnosi? A chi rivolgersi? Scopriamo di più in merito.

Quali sono i sintomi, le cause e i rimedi per lo stress da lavoro? A chi rivolgersi? Lo stress da lavoro è un disturbo causato – come lascia intuire il nome – dalla condizione in cui ci si trova a lavoro e che può, dunque, essere accompagnata da disturbi fisici e psicologici, determinati dal fatto che alcune persone provano la sensazione di non essere in grado di rispondere in maniera adeguata alle richieste che ricevono o alle aspettative che vengono riposte in loro in ambito lavorativo. Lo stress da lavoro può scatenare infarto, attacchi di panico, ansia, pressione alta, depressione e altri sintomi. Cosa fare contro lo stress da lavoro? Qual è la sintomatologia completa che lo riguarda? Quale il trattamento per la guarigione? Come giungere alla diagnosi? Scopriamo di più in merito.

Cos’è
Spesso, lo stress è una malattia causata dal lavoro. Lo stress può essere definito, in generale, come una risposta da parte dell’organismo nei confronti di sollecitazioni o stimoli esterni e tutto ciò non fa altro che provocare una reazione di adattamento, la quale, in determinate condizioni, può assumere un carattere patologico. Nello specifico, lo stress legato al lavoro si afferma quando le richieste superano la capacità del lavoratore di affrontarle e di gestirle nel modo più opportuno. Di per se stesso, lo stress non può essere considerato una malattia vera e propria, ma non bisogna dimenticare che esso può generare problemi di salute sia a livello fisico – come, ad esempio, le cardiopatie – che per ciò che concerne il benessere mentale: è, infatti, possibile incorrere in disturbi come la depressione o l’esaurimento nervoso. Lo stress da lavoro è conosciuto anche con la definizione di “stress da lavoro correlato”. In Italia, ad essere maggiormente colpita, pare sia la fascia di età compresa tra i 45 e i 55 anni, nonché le donne, chi ha contratti precari e chi lavora più di 50 ore a settimana.

I sintomi
I sintomi da stress da lavoro possono essere di varia natura: possono manifestarsi, ad esempio, sintomi comportamentali, psicologici e fisici/psicosomatici. Qual è la sintomatologia che riguarda lo stress da lavoro? Questa può includere:
Insicurezza
Indecisione
Riduzione della capacità di giudizio
Suscettibilità
Difficoltà nei rapporti interpersonali
Disturbi del comportamento alimentare, come bulimia nervosa o anoressia nervosa
Assuefazione all’alcool e al fumo
Riduzione dell’attenzione e della concentrazione
Problemi di memoria
Irritabilità
Ansia
Attacchi di panico
Depressione
Pessimismo
Cattivo umore
Crisi di pianto
Eccessiva autocritica
Disturbi dell’apparato gastroenterico, come la colite nervosa
Disturbi cardiocircolatori, respiratori e locomotori, come infarto, pressione alta, pressione bassa, ischemia cerebrale, asma bronchiale e cefalea
Disturbi del sonno
Sensazione di mani e piedi freddi
Nervosismo
Senso di insoddisfazione
Abbattimento
Affaticamento
Aggressività
Disturbi urogenitali, come incontinenza urinaria e ciclo mestruale irregolare
Disturbi dermatologici
Infelicità
Voglia di isolamento e difficoltà nei rapporti interpersonali
Indebolimento del sistema immunitario

Questi sono alcuni dei campanelli di allarme provocati dallo stress da lavoro. Non manca, inoltre, la manifestazione di alcune delle malattie più comuni e ciò a causa dell’indebolimento del sistema immunitario. Possono, dunque, fare la loro comparsa:
Raffreddore
Influenza
Tosse nervosa
Mal di stomaco da stress
Mal di testa
Palpitazioni
Dolori muscolari, in special modo a schiena e collo
Stanchezza continua
Insonnia

Il concetto di burn-out, quando si parla di stress da lavoro, sta ad indicare chi, a causa del lavoro, si sente, per l’appunto, “bruciato”, ovvero esaurito emotivamente, privo di energie, stanco già al mattino e privo della voglia di svolgere altre attività.
Tale condizione può compromettere anche la qualità del lavoro e manifestarsi con assenteismo e difficoltà relazionali, tra le altre cose, senza contare il danno biologico provocato dallo stress da lavoro.

Le cause
I rischi connessi allo stress da lavoro possono essere valutati in maniera adeguata, tenendo in considerazione diversi fattori. Quali sono le cause dello stress da lavoro, quindi? Continue pressioni a lavoro, ritmi frenetici, richieste inadeguate per il rispetto di scadenze, liti, incomprensioni e anche il mobbing può essere alla base dello stress da lavoro. Molto importanti sono i fattori relazionali, che dovrebbero prevedere anche momenti e occasioni di sostegno e di confronto. Da ricordare anche i fattori psicologici e tutto ciò che riguarda le caratteristiche del lavoro, come il tempo di lavoro, la pressione esercitata sul lavoratore, la responsabilità affidata, l’ambiente lavorativo, il margine di autonomia lasciato a chi lavora e gli impegni da portare avanti.

La diagnosi
Per prima cosa, è necessario prendere coscienza del problema e, alla comparsa di sintomi e segni sospetti, parlare con il medico che stabilirà la diagnosi di stress da lavoro correlato e saprà indicare la terapia adeguata per la risoluzione del problema. Oltre alla visita medica e allo studio dei sintomi, potrebbero essere eseguiti alcuni test, esami e analisi, così da escludere o meno la presenza di eventuali patologie.

I rimedi
Cosa fare contro lo stress da lavoro? Quali sono i rimedi? Potrebbe essere utile assumere alcuni farmaci contro i sintomi provocati ma, certamente, questi non risolverebbero il problema dell’ansia e dello stress alla radice. A venire in aiuto, contro lo stress da lavoro, ci sono i Fiori di Bach: questi possono essere di aiuto contro gli stati di ansia e ne esistono di diversi tipi, ad esempio il rimedio Rock Rose contro gli attacchi di panico, il Cherry Plum per ritrovare la calma, l’Oak contro l’ansia o il Rescue Remedy, ovvero un mix di diversi fiori utili per stare meglio.

A chi rivolgersi
Sicuramente, il primo passo contro lo stress da lavoro è quello di ammettere di avere un problema e prenderne coscienza. Cambiare lavoro può non essere la soluzione, perché tale malessere potrebbe verificarsi nuovamente. Come fare, quindi? A chi rivolgersi, in caso di stress da lavoro? Nello specifico, la psicoterapia può essere di aiuto e uno psicoterapeuta potrebbe aiutare a comprendere i meccanismi che vanno modificati per stare meglio e vivere le varie situazioni in modo differente: modificando, ad esempio, lo stile di vita e attuando alcuni piccoli accorgimenti per gestire al meglio il proprio tempo, oltre a imparare come attuare il rilassamento psicofisico così da modificare la relazione tra noi stessi e l’ambiente in cui viviamo quotidianamente.

La prognosi
Infine, la prognosi dipenderà da alcuni fattori, come la capacità del paziente di modificare il proprio stile di vita, lavorando sui propri sintomi, su se stesso e sulle proprie abitudini per eliminare lo stress da lavoro.


da Elena Arrisico dal Sito: www.tantasalute.it

I rimpianti sono zavorre: liberatene!


Quando siamo prigionieri dei rimpianti, la vita smette di scorrere fluida, come fossimo carichi di pesi inutili: se ti alleggerisci, ritrovi il sorriso
Ognuno di noi sa di aver commesso qualche errore. E sa anche che alcuni di questi sbagli hanno complicato le cose, mentre altri sono stati fondamentali per crescere, per capire meglio se stessi e gli altri, per evolvere. Si può dire che, senza alcuni errori, non ci saremmo mossi di un passo nello sviluppo della personalità. Ma, nonostante tutto, i rimpianti per non aver fatto la cosa giusta o per non aver agito in un certo modo, magari anche tanto tempo fa, possono diventare spiacevoli compagno di viaggio. Lo diventano, in particolare, in alcuni momenti molto negativi, di scoramento. Poi la consapevolezza torna e si affrontano le situazioni senza questo fardello del passato, e senza che faccia particolari danni.

I rimpianti generano falsi ricordi

I rimpianti occasionali sono così: un riportare la mente, inutile ma non troppo dannoso su un errore reale. Ma esiste una categoria molto più pericolosa: i falsirimpianti, specie quando costituiscono il modo principale di rileggere la propria storia. "Se soltanto avessi fatto; se soltanto fossi stato più attento, più sollecito; se soltanto avessi capito che quella era una grande occasione; se soltanto avessi detto quelle parole, se fossi intervenuto, se la sorte mi avesse aiutato, bastava un niente per, ero ad un passo dal…". Tutti questi presunti fatti del passato sono esageratamente ingigantiti. Chi è vittima del “se avessi” in realtà trasforma eventi del tutto normali in momenti cruciali in cui si sarebbe giocato il suo destino, percepito come negativo o incompleto. Ne ha per tutti: storie d’amore, lavoro, salute, singoli episodi. Qual è il vero scopo di questi rimpianti? Giustificare i problemi del presente.

Il passato non va reinventato

La vita, per chi ragiona così, smette di scorrere, altro che crescita ed evoluzione. Siamo ben lontani dallo stare nel presente: siamo immersi in un passato immaginario e in un destino alternativo e idealizzato, fatto di occasioni perse per sempre: quella relazione finita sarebbe stata “quella giusta”, quell'occasione di lavoro mancata avrebbe portato sicuramente al successo. Fatalismo, dubbi continui, fantasmi di fallimento, sommati tra loro, "gonfiano" i rimpianti e fanno fare scelte sbagliate. Se si vuole uscire da questo vicolo cieco di false interpretazioni, bisogna cambiare mentalità con rapidità e fermezza

La soluzione? Prendersi la responsabilità

La prima cosa da fare è comprendere che non esiste un passato alternativo che avrebbe potuto portare a un presente migliore. Certo, momenti in cui svoltare da una parte o dall'altra ci sono stati. Ma per chi vive dentro una mentalità passiva e perdente, alla fine, tutto sarebbe andato nello stesso modo inappagante, semplicemente passando da una strada diversa. Ed è un atteggiamento attivo anche ora: mentre idealizzi una trama che non si è mai compiuta, stai già sabotando il presente, stai già attivando la mentalità carica di rimpianti del “se soltanto avessi”. La frase invece va ribaltata: «Se soltanto avessi voglia di prendermi la responsabilità di ciò che mi accade». Perché i finti rimpianti non servono solo a giustificare lo stato negativo in cui crediamo di trovarci ci mettono anche “al sicuro” da ogni presa di coscienza capace di cambiare effettivamente le cose.

Ferma la ricerca del colpevole

Non è facile ammettere con se stessi che questi rimpianti sono solo un alibi, ma è così. Quando nella vita attuale tutto sembra andare storto, la mente, in automatico, va nel passato alla ricerca del “colpevole” e lo rintraccia in eventi che, magari, sono già stati superati da tempo. Perciò, anche se può sembrare difficile, dobbiamo rinunciare alla nostra finta storia: se non è una vera e propria allucinazione, poco ci manca. È sicuramente frutto di una fantasia regressiva che vuole bloccarci a un livello di sviluppo ancora adolescenziale, e non possiamo permettere che prenda il sopravvento. Liberiamoci di questo falso passato, del senso di sfortuna e di inadeguatezza, che nutrono e tengono in vita i rimpianti. E soprattutto occupiamoci del presente senza l’ansia di affrontare in ogni istante una “sliding door” in cui si decide chissà quale futuro. Non è così: chi vive pienamente e in modo autentico sa che anche gli sbagli possono tradursi, sorprendentemente, in svolte vantaggiose.


Dal Sito: www.riza.it

E se ci prendessimo cura della nostra igiene mentale come di quella fisica?


Siamo tutti consapevoli di quanto sia importante mantenere una buona salute fisica. Eppure, spesso dimentichiamo una parte di noi altrettanto importante: la mente. Come saprete bene, anche la salute mentale influisce sul benessere fisico generale. Avrete sentito dire spesso che lo stato di ansia o le preoccupazioni, per esempio, possono essere somatizzate nel corpo. Non vi sembra, dunque, necessario prestare la dovuta attenzione anche alla nostra igiene mentale?

Per godere di un cervello in salute, prima di tutto è importante fare attenzione ad alcuni fattori che, spesso, passano inosservati. In realtà, identificarli è molto facile, ma per qualche motivo continuiamo comunque a non tenerli in considerazione. Prima o poi, però, questa specie di complice noncuranza ci costerà molto cara. Per questo motivo bisogna iniziare a prendersi cura della propria igiene mentale, mettendo in pratica i consigli che vi illustreremo a seguire.

Puntare su una buona igiene mentale ci aiuterà a prevenire malattie e disturbi come, per esempio, quelli legati all’ansia.
Una buona igiene mentale si traduce in un maggior benessere

Quanto tempo occupano nella vostra mente le preoccupazioni legate al passato e al futuro? E così, spesso nella nostra testa non rimane quasi posto per il presente. All’improvviso ci accorgiamo di aver inserito il pilota automatico. Giornate senza senso si susseguono una dietro l’altra allo stesso modo, e smettiamo persino di goderci i piccoli piaceri della vita.

È importante imparare a mettere in pratica un’attenzione totalizzante, a concentrarci sul qui e adesso per fuggire da tutti quei pensieri che possono trasformarsi in ossessioni. Se vi è capitato di provare stress per un motivo simile, saprete bene di cosa stiamo parlando. Ma lo ieri non importa, e non importa nemmeno il domani. Spalancate gli occhi sull’oggi e godetevelo.

Oltre a questo primo aspetto, ce n’è un altro importante nelle nostre vite a cui forse non avrete ancora prestato la dovuta attenzione. I rapporti che avete con gli altri vi danno qualcosa o vi privano di qualcosa? Perché date così tanta importanza a qualcuno che non vi corrisponde? Cercate di essere brave persone e di fare contenti tutti, per poi venire ricompensati a suon di manipolazione e sofferenza.

“Non permetterò a nessuno di passeggiare nella mia mente con i piedi sporchi.” -Mahatma Gandhi-

Vi proponiamo questa riflessione: se date tutto per persone che non vi danno niente, forse non vi rimarrà più tempo da dedicare alle persone che, invece, meriterebbero di più. Riflettete sulle relazioni che intrattenete. A volte abbiamo paura di prendere una decisione, di dire “la nostra amicizia/relazione finisce qui”, perché abbiamo paura di perdere tutto quello su cui abbiamo investito tanto. Ma la verità è che non ne è valsa la pena. Se riuscissimo a chiudere quelle relazioni, la nostra igiene mentale ne uscirebbe sollevata e favorita.

Allontanatevi dalla visione pessimista della realtà

È facile optare per una visione pessimista della realtà quando tutto va male. Ma questo è sintomo di una bassa resilienza e comporta grossi rischi: la vostra felicità e la vostra igiene mentale potrebbero essere in pericolo. Dovete rendervi conto che non tutto può essere letto soltanto in un modo. Un licenziamento o la rottura di una relazione possono essere considerate delle disgrazie oppure delle opportunità di crescita. Siete voi a scegliere a quale strada volete ricondurre quel fatto.

Inoltre, vi date ciò di cui avete bisogno? Prendervi cura di voi stessi, coccolarvi,alimentarvi in modo sano, fare attenzione a come state… sono di certo azioni che qualche volta (o molte volte) avrete sottovalutato. Forse perché siete così concentrati sugli altri da dimenticarvi di pensare a voi stessi o forse perché a volte lasciate che la vostra felicità dipenda dagli altri. Si tratta di un terribile errore, che può portarvi a vedere la vita in modo molto negativo. Voi venite prima degli altri, e non si tratta di egoismo. Si tratta di amarvi e di valorizzarvi, senza aspettare che gli altri lo facciano per voi.

Di sicuro in qualche momento della vostra vita vi sarà capitato anche di sentirvi bloccati, perché non riuscivate a raggiungere un obiettivo. Tuttavia, avete controllato che fosse davvero raggiungibile? Spesso ci riproponiamo di raggiungere delle mete che, per quanto lo desideriamo, non sono realizzabili. Ogni obiettivo che ci poniamo dev’essere realistico. Liberatevi dai sogni impossibili che generano solo frustrazione, ansia e una sensazione di inutilità. Sarà una decisione molto positiva per la vostra igiene mentale.

“Lavati la mente con amore e onestà dopo ogni pensiero che attenti alla tua tranquillità.” -Luis Espinoza-

Vi siete resi conto di quanto può essere importante una buona igiene mentale? E ci sono molti altri comportamenti che possono farvi bene, come eliminare le aspettative, smetterla di lambiccarvi il cervello su questioni che non portano da nessuna parte, evitare di voler cambiare le persone a tutti i costi e imparare a gestire le vostre emozioni.

Tendiamo a complicarci la vita o a dare essa la colpa di tutto ciò che ci succede quando, in realtà, renderla molto più semplice e più piacevole è nelle nostre mani. Non tutto è terribile come sembra, non tutto è brutto come crediamo. Ripulire la nostra mente da tanti pensieri sopravvalutati e che ci impediscono di vedere con chiarezza ci permetterà di raggiungere il vero benessere.


Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

I fallimenti hanno alimentato la mia esperienza


Il concetto di fallimento è fortemente stigmatizzato dalla società. Fin da bambini, gli sguardi che riceviamo quando falliamo o commettiamo un errore assomigliano molto a quelli che riceviamo quando ci comportiamo male. Di conseguenza, è facile cominciare a guardare se stessi con quello sguardo e, anziché rallegrarci di aver trovato una strada non valida e di poterla scartare, ci arrabbiamo con noi stessi, ci insultiamo e ci lasciamo sommergere dalla tristezza, come se fosse l’emozione giusta in quel momento…

L’unica cosa che otteniamo affrontando i fallimenti in questo modo è sprofondare ancora di più, impedendo a tale concezione negativa di farci imparare dai nostri errori.

Quando non cogliamo l’aspetto positivo che si cela dietro ad un fallimento, inoltre, tendiamo a darci per vinti, ad abbandonare qualsiasi progetto avessimo fra le mani e a darci degli inutili. Come possiamo approfittare degli insegnamenti di uno sbaglio se lo viviamo in questo modo, se cerchiamo di cancellarlo come fosse un errore di scrittura?

Le persone che non accettano i fallimenti e sono incapaci di trarre insegnamento dagli errori sono di norma individui che non sanno accettare se stessi. Tendono a ricercare la perfezione in ciascuna delle loro azioni e, dopo aver capito di non poter raggiungere la perfezione né realizzare ogni loro aspettativa, possono arrivare a mandare all’aria tutto e a cadere nello sconforto più totale.

Questo atteggiamento così poco produttivo porta persone dalle grandi potenzialità e dalle buone attitudini a smettere di provarci soltanto per paura di fallire di nuovo. Un atteggiamento che le rinchiude in un’urna di cristallo, la loro zona di comfort.

Il fallimento è sinonimo di crescita

Le persone che non falliscono mai sono quelle che non ci provano nemmeno, preferendo restare in una zona in cui i rischi sono minimi. Queste persone, in realtà, vorrebbero una vita più emozionante, ricca di sfide e traguardi da raggiungere. Ciò che importa, in fondo, non è realizzare i sogni o raggiungere il successo.

Quello che importa davvero è il percorso, la voglia di alzarsi tutte le mattina per cercare di realizzare i propri obiettivi.

Quando smettiamo di provarci per paura di fallire, stiamo già facendo un passo verso il fallimento. Il dolore è meno intenso dell’ansia che può supporre la scelta di cominciare un progetto al limite delle nostre capacità. Eppure, una volta superata quella fase, la vita apparirà molto più colorata.

Anziché essere visto come una porta che si chiude sui nostri sogni, il fallimento deve essere interpretato come il segnale che indica che stiamo crescendo. Un indicatore del fatto che stiamo esplorando nuovi cammini e che, per questo, matureremo, noi e le nostre capacità.

Non abbiamo il potere di decidere se falliremo o meno e, se davvero vogliamo qualcosa, dovremo accettare di poter andare incontro a vari sbagli. Ciò che possiamo controllare davvero è la nostra capacità di continuare a prescindere da quello che accade, ed è in questo che dobbiamo investire le nostre energie.

Come gestire i fallimenti

Il fallimento non è la fine, ma soltanto un passaggio intermedio, il movimento inevitabile verso il successo o il trionfo in qualsiasi ambito della vita. I vantaggi del fallimento sono, quindi, maggiori degli svantaggi, e per capirlo basta essere consapevoli del fatto che un fallimento non ci definisce. Esso non è altro che il bisogno espresso di agire in maniera diversa.

Per imparare a gestire meglio i fallimenti, il primo passo riguarda un compito complicato, ma fondamentale: accettare quello che non possiamo cambiare. Smetterla di lamentarci all’infinito per le carte che ci sono capitate perché nessuno tornerà a mescolare il mazzo, e continuare a giocare senza badare al risultato. Le nostre carte non saranno sempre le stesse e noi non siamo definiti dai nostri pensieri o dai nostri atteggiamenti. Noi siamo molto di più, siamo esseri complessi e cangianti, che imparano e ai quali non mancheranno opportunità per migliorare.

Siamo esseri coraggiosi a prescindere dai nostri errori, i quali non hanno la possibilità di aggiungere o togliere valore alla nostra persona.

Il passo successivo consiste nel rivedere le nostre aspettative. Dobbiamo avere ben chiara in mente la differenza tra l’io reale e l’io ideale. Il primo è la persona che siamo, né più né meno. È formato dalle nostre caratteristiche personali, le nostre abilità, le nostre virtù, i nostri difetti e i nostri limiti. Chi si conosce bene, sa fino a dove può o non può arrivare.

L’io ideale è la persona che crediamo di essere, ma che in realtà non siamo. Aspettative troppo alte su se stessi portano a dare più valore all’io ideale che a quello reale, e ci porteranno a soffrire ancora di più una volta scoperto che la realtà è ben altra.

Per questo motivo, bisogna sempre avere chiaro in mente chi siamo, tenendo conto che non siamo meglio né peggio di nessun altro essere.

In ultimo, occorre imparare a tollerare le frustrazioni della vita. I progetti non vanno sempre come uno vorrebbe, ma questo non implica necessariamente una sconfitta. Accettiamo ciò che non ci piace, errori inclusi; impariamo da essi, perché ci daranno la forza e l’entusiasmo necessari per andare avanti.

giovedì 25 maggio 2017

Liberati dal buonismo, ti fa venire l'ansia


Mettersi sempre al servizio degli altri per paura di perderli o per essere “altruista” a tutti i costi conduce all’ansia: rompi lo schema e rinasci

La società contemporanea condanna senza appello l’egoismo: chi è egoista pensa solo a se stesso, si interessa esclusivamente del proprio tornaconto e non avrà mai niente da dare. Fin da piccoli ci insegnano a essere buoni, generosi, ad andare d’accordo con tutti. Il risultato di questo sforzo consiste spesso nell’inculcare il senso di colpa e una certa falsità nei rapporti umani, ma soprattutto apre le porte all'ansia: tutto questo dedicarsi agli altri per senso del dovere puntualmente non porta "risultati" soddisfacenti e questo ci fa sentire inadeguati e in perenne affanno, le condizioni ideali perché l'ansia si manifesti. Ma c’è un modo diverso di concepire l’egoismo. Al di là di quello che possa sembrare, in sé non è un difetto da correggere, o un mero sinonimo di insensibilità: utilizzato nel modo giusto può rappresentare una grande qualità, indispensabile per la nostra autorealizzazione.

Il buonismo è nemico del tuo istinto.

Grazie al sano egoismo realizzi te stesso

Se prima di un’azione ci interroghiamo su quanto davvero ci piaccia o ci prema, entriamo in contatto con le nostre esigenze più profonde, andiamo incontro alla nostra natura e al sano bisogno di autoaffermazione. Se invece ci imponiamo costantemente di prendere in considerazione solo le esigenze degli altri finiremo per entrare nel ruolo fasullo del “buono a ogni costo”, che a lungo andare ci starà stretto: cercheremo di continuo l’approvazione altrui, con il rischio di invischiarci in relazioni sbagliate e di essere manipolati, a tutto "vantaggio" dell'ansia. Al contrario un po’ di “sano egoismo” ci induce a contare sulle nostre risorse interne e ci aiuta a esprimere il massimo potenziale creativo. È un atteggiamento che promuove relazioni sane, limpide e senza secondi fini. Quando impariamo ad ascoltarci, mettiamo sullo sfondo i condizionamenti esterni e le cose accadono più spontaneamente: non abbiamo dubbi e titubanze, arriviamo dove vogliamo andare. Qui di seguito vi presentiamo tre piccole storie che spiegano meglio di tante teorie come sia semplice sfuggire alle gabbie dell'altruismo recitato e recuperare una più sana visione di noi stessi.

Il buonista? Fa male a sé e agli altri

Il vero amico non esige nulla

Da quando ho chiarito con Valentina le cose tra noi vanno decisamente meglio e non mi sento più “obbligata” nei suoi confronti e sempre in ansia. lei è l’amica che vorrebbero avere tutti, ti ricopre di mille attenzioni, si mette a disposizione senza riserve, ma l’inghippo c’è: pretende che tu con lei faccia lo stesso e sia sempre pronta e rispondere alle sue esigenze. A lungo andare mi sono sentita in trappola: le sue richieste si erano trasformate in un vero e proprio ricatto.
Così mi sono ribellata alle sue pressioni. Sul momento ho temuto di essere un po’ egoista, ma sorprendentemente il rapporto è migliorato! Lei ha capito e tra di noi ora è tutto più sincero e autentico e la mia ansia è solo un ricordo... 

Amare non vuol dire adattarsi

Quando ho conosciuto Mirko ho pensato subito che fosse la persona giusta per me. Così ho cercato di adattarmi a lui in tutto e per tutto. Mi sono proposta di seguirlo nelle sue frequenti uscite con gli amici. Il risultato? Pessimo. I suoi amici non mi piacciono e odio il calcio, mentre loro vanno sempre allo stadio. Ma quando gli ho parlato é stato un sollievo. Mi ha detto: “Ma dove sta scritto che dobbiamo fare tutto insieme?”. Aveva ragione! Ho ripreso a svagarmi con lo shopping, lasciandolo andare da solo con gli amici. Abbiamo scoperto di avere altre cose in comune e la relazione è molto migliorata! 

Gli altri non dipendono da te!

Da quando ho imparato a spegnere il cellulare prima di uscire di casa sto proprio meglio! Il tempo che dedicavo a me stessa era davvero poco. Adoro mio marito e i miei bambini, ma ero arrivata al punto di non sopportarli. Quando mi capitava di uscire con le mie amiche e lasciavo i bambini con lui, puntualmente mi chiamava per qualsiasi inezia. E io non resistevo al senso di colpa e mi affrettavo a tornare. Stavo esaurendo tutte le mie energie e un giorno esasperata ho provato ad essere irraggiungibile: è stato un toccasana, al ritorno mi sono accorta che erano “sopravvissuti” e io ero carica e di buon umore!

Dal Sito: www.riza.it

I tipi di ansia più comuni: a tutto c’è una soluzione


L’ansia è uno dei grandi mali dei nostri tempi. Tant’è che ne esistono diversi tipi e continuano a comparire classificazioni sempre più estese. Non è poi così strano se si tiene conto che i tempi in cui viviamo sono spesso troppo esigenti e gli equilibri, propri e altrui, sono dinamici.

L’ansia è una delle facce della paura. Ma, a differenza della paura in sé, non è causata da uno stimolo in concreto. La paura è normale quando si affronta una minaccia specifica e si pensa che la propria integrità sia in pericolo. Ma l’ansia è un tipo di paura che molto spesso non ha una causa definita, quindi risulta difficile intervenire sull’origine della stessa o su fattori che la rendono ricorrente.
“La paura acutizza i sensi. L’ansia li paralizza.”
-Kurt Goldstein-

Si comprende di essere preda dell’ansia quando ci si sente inquieti, insicuri e preoccupati per “qualcosa” di impreciso o per qualcosa di preciso che non si sa come affrontare. È come trovarsi all’interno di un aereo in caduta libera, anche se in realtà ci si trova seduti in salotto, a guardare la televisione. Si prova agitazione, irritazione, fastidio, ma non si comprende il perché.

Sono vari i tipi di ansia frequente. Alcune persone preferiscono chiamarla semplicemente stress o preoccupazione, ma se ci si sofferma un po’ più a lungo su di essa, ci si rende conto che si tratta di un disturbo molto grave. L’aspetto positivo è che i vari tipi di ansia si possono superare. Per riuscirci, la prima cosa da fare sarà conoscerle un po’ meglio.

L’ansia generalizzata e l’ansia sociale

Il disturbo d’ansia generalizzata si definisce come uno stato di preoccupazione costante, senza una ragione specifica che la causi. Dura più di 6 mesi e, in generale, è accompagnato da disturbi del sonno, irritabilità, problemi di concentrazione e fatica generale.

L’ansia sociale, d’altro canto, è una condizione nella quale la persona prova paura o angoscia in tutte le situazioni nelle quali si deve interagire socialmente con gli altri. Detto in maniera più semplice, si ha paura del contatto con altre persone. Nella maggior parte dei casi è anticipatoria, vale a dire si produce prima che il contatto sociale abbia luogo.

Entrambe le condizioni deteriorano significativamente la qualità di vita delle persone. Sono stati che non si curano da sé con il trascorrere del tempo, poiché sono alimentati da diverse condotte di elusione. Non sono brutti periodi, ma situazioni che richiedono un trattamento professionale.

Nella maggior parte dei casi è sufficiente una terapia breve affinché le emozioni ritornino sotto controllo. Altre volte è necessario un percorso più lungo, ma la probabilità di superare queste condizioni, in ogni caso, è molto alta.

I disturbi ossessivi e lo stress post-traumatico

I disturbi ossessivi sono di vario tipo, ma tutti hanno in comune il fatto che c’è un’idea persistente e intrusiva che causa timore o angoscia. Quindi, anche se la persona in questione prova a togliersi dalla testa una determinata idea, non ci riesce. Queste ossessioni possono arrivare ad invadere la personalità e a produrre una paralisi vitale.

Lo stress post-traumatico è quello stato di angoscia che si presenta dopo aver vissuto un’esperienza traumatica. Si manifesta come inquietudine, difficoltà nel dormire e, soprattutto, come pensiero che quanto è già accaduto, si verificherà nuovamente. Fa rimanere la persona che ne soffre in continuo stato di allerta, insicura e isolata.

In entrambi i casi, e a seconda della gravità dei sintomi, ci sono diversi modi per superare il problema. La pratica di alcuni metodi di rilassamento può contribuire notevolmente a ridurre l’ansia e ad incrementare la capacità di concentrazione. Se questi metodi non sono efficaci, la terapia professionale è un’eccellente alternativa, con grandi possibilità di successo.

L’agorafobia e l’ipocondria

L’agorafobia è diventato uno dei tipi d’ansia più comuni dei nostri tempi. È una paura diffusa verso tutte quelle situazioni in cui si pensa di non avere una via di fuga o nelle quali non c’è la possibilità di ricevere aiuto se si soffre di un attacco di panico. In altre parole, la persona pensa che potrebbe avere un attacco di panico e che in certe circostanze non potrebbe fuggire o ricevere aiuto. In qualche modo, si tratta di paura della paura stessa.

Cresce ogni giorno di più il numero di casi di agorafobia e chi ne soffre ha grandi difficoltà nel condurre una vita normale. Qualcosa di simile accade con le persone ipocondriache, che interpretano in maniera catastrofica qualsiasi segnale inviato dal loro corpo. Sospettano di avere malattie gravi e sentono che la loro condizione può peggiorare in qualsiasi momento, senza che nessuno possa fare niente al riguardo.

In entrambi i casi, è consigliabile la pratica di alcuni metodi di rilassamento. Questi contribuiscono a ridurre o disattivare l’ansia e ad identificare meglio i segnali che ci invia il nostro corpo. Inoltre, migliorano l’autocontrollo. L’attività fisica regolare aiuta in questo senso. Come in altri casi, se non fosse sufficiente, l’aiuto di un professionista è sempre l’alternativa migliore.


Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

L’evitamento ci fa solo sentire peggio.


Tutti abbiamo vissuto situazioni che ci hanno causato un malessere tale da portarci a desiderare solo di scappare via. Vi spiegheremo perché l’evitamento, che può sembrare a priori il miglior meccanismo di difesa, è particolarmente pericoloso per noi, soprattutto a lungo andare.

Non vi parleremo solo dei pregiudizi che derivano da questo modo di affrontare le cose, ma vedremo anche quali comportamenti possono sostituire l’evitamento, il cui unico risultato è allontanare la possibilità di esposizione ad una situazione che viene percepita come sgradevole o anche dolorosa.

Ho imparato che non si può tornare indietro, che l’essenza della vita è andare avanti. La vita, in realtà, è una strada a senso unico.
Agatha Christie

Che cos’è l’evitamento?

Quando ci ritroviamo in situazioni che consideriamo minacciose, adottiamo diverse strategie per affrontarle. Configuriamo e consolidiamo queste strategie nel corso della nostra vita. Se si rivelano utili in determinate condizioni, allora tenderemo ad aumentarne la frequenza d’uso e ad adattarle a nuovi problemi se all’inizio non sembrano le più adeguate. Al contrario, se non si rivelano efficaci, allora le elimineremo dal nostro repertorio.

In base a questo, esistono diverse strategie da adottare. Una di queste è, appunto, l’evitamento e possiamo distinguere quello per anticipazione e la fuga. Nel primo caso, anticipiamo una situazione sgradevole e facciamo tutto il possibile per allontanarcene. Nel secondo caso, ci troviamo già in una situazione sgradevole e impieghiamo tutte le nostre energie per scappare.

Quando è possibile, i comportamenti di evitamento hanno il pregio di ristabilire la tranquillità. In poco tempo hanno questo rinforzo, che spesso è molto potente: il sollievo immediato dai sentimenti sgradevoli. Così, le persone continuano a mettere in pratica questa strategia ogni volta che succede qualcosa che le fa stare male. In questo modo, evitano sempre più situazioni nei diversi ambiti in cui si trovano e le loro vite sono sempre più condizionate dalla paura.

Questo modo di affrontare le situazioni è quello a cui si ricorre per trattare i disturbi emotivi. Se questo comportamento viene modificato, favorirà considerevolmente il recupero del benessere psicologico.
In che modo affrontare le situazioni che sono causa di malessere?

Allora, se ricorrere all’evitamento a lungo andare invece di allontanarci dal malessere in realtà ci fa del male, cosa possiamo fare? Forse dovremmo abbandonarci alla sofferenza? No, perché esistono altri modi di affrontare le situazioni che non costituiscano un limite serio per la vita.

Folkman e i suoi collaboratori (1986) hanno classificato i diversi modi di affrontare le situazioni:
Confronto: alterare la situazione che genera malessere con azioni dirette e anche aggressive, con atteggiamenti ostili e rischiosi.
Distanza: allontanarsi dalla situazione, ma senza uscirne, in modo da poter arricchire la prospettiva della situazione stessa.
Autocontrollo: la capacità di attuare le strategie di regolazione emotiva che si possiedono.
Ricerca di supporto sociale: fare in modo che gli altri informino, consiglino e capiscano.
Evitamento: come abbiamo visto, si tratta di scappare dalla situazione in concreto.
Pianificazione: analizzare la situazione per cercare le alternative che si possono portare a termine.
Rivalutazione positiva: vedere la situazione come una sfida che aiuta a crescere in quanto persone invece di una minaccia alla stabilità. 

Considera tutte le avversità come esercizi.
Seneca

Da ciò si può dedurre che non solo è sbagliato evitare le situazioni, ma anche le altre strategie non sono le più adeguate. Il confronto ostile e aggressivo ne è un esempio.

Tuttavia, una presa di distanza che ci permetta di autocontrollarci, rivalutare la situazione in maniera positiva, pianificare le nostre azioni, cercare sostegno sociale (senza arrivare a dipendere dagli altri per tutto) può essere di grande aiuto. Chiaramente solo se non dobbiamo agire in modo avventato.

Come potete vedere, si tratta di usare con intelligenza le diverse strategie che abbiamo a disposizione. Evitare determinate situazioni può essere una strategia prudente, ma non possiamo passare la vita a schivare le pozzanghere quando piove spesso. Di fatto, se insistiamo con questa strategia, alla fine ci ritroveremo immobilizzati in un posto, pregando affinché l’acqua non occupi il piccolo spazio in cui ci troviamo, senza aver imparato niente nel percorso.

Al contrario, se decidiamo di adottare altri modi di affrontare le situazioni, quindi se non evitiamo le sfide, svilupperemo un sentimento di auto-efficacia che si manifesterà quando facciamo bene qualcosa. La nostra autostima, pertanto, ne beneficerà.

Dal Sito: lamenteemeravigliosa.it

Claustrofobia e Agorafobia: Un problema relazionale?


Secondo la teoria cognitiva la claustrofobia e l'agorafobia sono una risposta di ansia a ciò che viene percepito come perdita di protezione o libertà.

Claustrofobia e Agorafobia sono entrambi Disturbi d’ansia (DSM 5, 2014), in particolar modo Fobie. Esse consistono in una paura estrema di qualcosa di oggettivamente non così pericoloso. Il soggetto riconosce l’irrazionalità della sua paura, ma non riesce a controllarla ed è costretto a fuggire dall’ oggetto fobico. Nell’ articolo approfondiremo come la fobia, in particolar modo degli spazi chiusi e degli spazi aperti, nasconda un problema di natura profondamente relazionale.

La fobia secondo la psicoanalisi

Secondo Freud (1894), la fobia ha origine dalla rimozione dalla propria coscienza di desideri proibiti. Essi verrebbero quindi disconosciuti e poi proiettati su un oggetto, che scatenerà dunque la fobia. Lo spostamento del proprio affetto inaccettabile (che sia la rabbia o un desiderio sessuale) su un oggetto o su una situazione esterna consente dunque l’ evitamento: non avvicinandomi a quella circostanza posso non entrare in contatto con i sentimenti che mi fanno paura. Secondo l’approccio psicodinamico, l’ oggetto fobico avrà una connessione indiretta col vero problema dell’individuo: lo simbolizza. La capacità simbolica del nostro inconscio è infatti la sua forza più sorprendente.

La teorizzazione cognitiva della fobia

Guidano (1988), sul versante cognitivo, ha invece sottolineato come la tendenza del soggetto fobico sia quella di rispondere con paura ed ansia a ciò che viene percepito come perdita di protezione e/o perdita di libertà.

Ugazio (1998), esponente della teoria sistemico-relazionale, conia il concetto di polarità semantiche: ogni famiglia si organizza intorno ad alcune polarità che definiscono cosa è rilevante per quel nucleo e per la definizione di sé e dei suoi componenti. Ad esempio: buono/cattivo; dare/prendere; sincero/falso. Secondo l’approccio sistemico-cognitivo, l’area saliente per un individuo con un’ organizzazione fobica è la seguente: bisogno di protezione/libertà. Questi estremi sono vissuti come reciprocamente escludentesi e non conciliabili, e viene valorizzata soprattutto la polarità “libertà-indipendenza”, su cui verrà basata la propria autostima e il senso di competenza.

Secondo Ugazio, l’ organizzazione fobica è un assetto che si sviluppa nel bambino a partire dalle prime esperienze con una figura di attaccamento che scoraggia in lui un comportamento esplorativo e che gli trasmette una definizione negativa di sé. Tale organizzazione può poi dare origine a comportamenti sintomatici, nell’infanzia o nell’adolescenza, in seguito a eventi eccessivamente intensi che tocchino una delle due polarità.

La claustrofobia e l’agorafobia secondo la teoria cognitiva

Il dilemma del fobico è quindi: rinuncio alla sicurezza della compagnia in modo da essere libero (ma anche solo di fronte ai pericoli) oppure rinuncio alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione che mi rassicura (ma che può anche soffocarmi)? Le vie di uscita sono due strade dicotomiche: o aderisco a un’immagine di me che esclude fragilità e debolezza e identifica l’autostima con l’indipendenza, oppure mi imbarco in rapporti affettivi stretti dai quali dipendere. La prima coincide con la claustrofobia, la seconda con l’ agorafobia. La persona con claustrofobia sente pericolose le situazioni che interpreta come perdita di libertà (come un rapporto troppo stretto o la nascita di un figlio), l’ agorafobico ha paura di ciò che vive come perdita di protezione (la fine di una storia d’amore o un lavoro che richiede più responsabilità). Si tratta di un continuum ai cui estremi abbiamo da una parte la scelta di essere indipendente ma rinunciare a un coinvolgimento emotivo, dall’altra essere protetti da un legame ma avere una bassa autostima.

Il claustrofobico può avere un legame affettivo purché a basso coinvolgimento. Sceglierà un partner dal profilo basso: poco brillante, dipendente, che si coinvolge emotivamente per entrambi. Nella coppia è in posizione “one up”, è accentratore, fuggitivo e svalutante. L’ agorafobico, al contrario, privilegia la relazione a scapito del sé. Per paura di perdere il legame, controlla le persone significative e sottopone la relazione a continue verifiche. Il fatto di non essere indipendente compromette il suo senso di realizzazione. Si legherà in giovane età a un partner apparentemente forte e protettivo a cui dedicherà tutto. Nella coppia è in posizione “one down”.

L’ organizzazione fobica di un individuo, che risulta esemplificativa nei due estremi “claustrofobico” e “agorafobico”, affonda quindi le radici in difficoltà relazionali che si esprimono in una modalità non equilibrata di vivere la relazione: il primo tende a sentirsi soffocato (gli spazi chiusi lo angosciano), il secondo ha paura che, solo e sperduto in balìa del pericolo, nessuno lo salvi (gli spazi aperti e dispersivi gli trasmettono senso di minaccia e mancata protezione). Diceva lo scrittore Robert Heinlein: “Puoi avere la pace. Oppure puoi avere la libertà. Non sperare di averle tutte e due insieme”. Ma non è detto: le due strategie, adattive solo sul breve periodo, possono essere col tempo, attraverso la psicoterapia, sostituite da un atteggiamento costruttivo capace di smussare la continua tensione tra i due poli. Riconducendo l’angoscia al terreno relazionale, sarà possibile raggiungere una riconciliazione armonica tra bisogni e paure, e una nuova capacità di apprezzare se stessi nello spazio dinamico dell’esistenza.


Scritto da: Marta Di Grado

Dal Sito: www.stateofmind.it






Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/01/claustrofobia-agorafobia/


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2015/09/rimuginio-preoccupazioni/


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/05/terapia-assistita-con-animali/

La depressione post-partum: cos’è e come riconoscerla?


La depressione post-partum insorge nelle settimane dopo il parto e si caratterizza per umore depresso, anedonia, autosvalutazione, alterazioni fisiologiche.

Depressione Post-partum – Il periodo della gravidanza e del post-partum è un momento di grande vulnerabilità per la donna. Fin dal concepimento infatti si verificano una serie di cambiamenti non solo esterni, ma soprattutto interni. Per questo motivo la gravidanza viene considerata un’esperienza di “crisi”, in cui la donna acquisirà una nuova organizzazione psichica.

La gravidanza e il parto

I nove mesi di gestazione da un lato permettono alla futura madre di preparare al neonato un suo spazio fisico nel mondo reale, dall’altro le consente di riorganizzare i propri spazi interiori, di creare nella sua mente uno spazio adatto a contenere l’idea di un bambino e di sé come genitore.

Alcune donne hanno difficoltà ad accettare lo stato di gravidanza, provando sentimenti contrastanti, di felicità, di paura, di preoccupazione per ciò che le attende. Queste reazioni sono in realtà condivise da molte donne, ma non sempre vengono espresse, nel timore di sentirsi “diverse” e giudicate come inadeguate. È molto importante saper “leggere” i propri stati interni, perché tristezza, sconforto e ansia possono trasformarsi in veri e propri sintomi di depressione.

Quando il bambino nasce le cose possono complicarsi ulteriormente, poiché i due neogenitori si trovano spesso impreparati nello svolgimento del loro nuovo ruolo. Inoltre, sappiamo che per la donna il post partum è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale, che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Solo il 10-15% della popolazione generale arriva a manifestare sintomi clinicamente significativi per una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono persistere anche per diversi anni.

L’interesse riscontrato per la depressione post-partum è legato al forte impatto che ha non solo sulla donna, ma anche sul padre e sul bambino. Ma quali sono i sintomi e come si può riconoscere?

Sintomi della Depressione post-partum

Per fare diagnosi di depressione post-partum è necessario individuare almeno cinque sintomi tra i seguenti per un arco di tempo di almeno due settimane:
umore depresso
anedonia (perdita di piacere)
modificazione del peso e/o dell’appetito
alterazione del sonno
astenia (perdita di energie)
isolamento
sentimenti di colpa e di inutilità bassa autostima, impotenza e disvalore
ansia e relativi connotati somatici
perdita della libido
riduzione della concentrazione
pensieri ricorrenti di morte e/o progettualità di suicidio
agitazione o rallentamento psicomotorio.

I sintomi nel linguaggio delle mamme si possono tradurre così:
– Umore depresso, labilità emotiva, tristezza e perdita di piacere:

“Ogni cosa ha perso il suo colore”
“Piangerei sempre”
“Non voglio vedere nessuno”
“Per un attimo mi sento benissimo e un attimo dopo sono di nuovo a terra”

– Mancanza di energia, confusione mentale e difficoltà di concentrazione:

“Sono così stanca…”
“Tutto quello che faccio è una fatica”
“Non riesco a prendere decisioni”
“Sono confusa e ho la mante annebbiata”

– Senso di disperazione, inadeguatezza e pensieri pessimisti, a volte pensieri di morte. Sentirsi prive di valore, senso di colpa e biasimo:

“Non sono capace di fare niente”
“Agli altri interessa solo il mio bambino, non come mi sento io”
“Perché sto così male adesso che ho questo bellissimo bambino?”
“Mi sono appena seduta e il bambino ricomincia a piangere”
“A volte penso che tutti starebbero molto meglio se io non ci fossi più”

– Sintomi ansiosi, irritazione:

“Mi sento in allarme”
“Sento che sto per esplodere”
“Ho le palpitazioni, il respiro corto”
“Mi sento un nodo alla gola”

– Alterazione funzioni neurovegetative (sonno, appetito, libido):
“Non sopporto di essere toccata”
“Mi sveglio presto”
“Non ho appetito”
“Mangio senza un freno”

Alcune donne possono presentare solo alcuni di questi sintomi senza soddisfare i criteri per la diagnosi di depressione post-partum. Si può trattare infatti di altri disturbi come il disturbo dell’adattamento con umore depresso.

Quando lo stress che la donna vive nel periodo immediatamente dopo la nascita del bambino è una reazione momentanea alle richieste del neonato o di altri membri della famiglia, non viene fatta alcuna diagnosi. In questi casi fornire informazioni, rassicurazioni e ascolto possono bastare.
Altre volte le difficoltà a concentrarsi, a prendere decisioni e a prendere sonno possono derivare da ansia grave. A meno che non sia presente anche un umore depresso, non si parla di depressione post-partum, ma di un disturbo d’ansia che necessita comunque di un trattamento specifico. È bene però ricordare che la presenza di un certo grado di ansia in un quadro depressivo è una caratterista comune della depressione post-partum.

Quando si manifesta la depressione post-partum?

I primi sintomi possono cominciare a manifestarsi già nella 3-4 settimana successiva al parto, manifestandosi clinicamente tra il quarto e il sesto mese, con segnalazioni di casi anche fino ai nove mesi. Questi sintomi non vanno però confusi con la maternity blues, un lieve disturbo emozionale transitorio di cui soffrono più della metà delle donne nei primi giorni dopo il parto e che si risolve spontaneamente entro una settimana senza particolari conseguenze sulla mamma e sul neonato.

Quando la mamma o le persone che le stanno vicine riconoscono i sintomi della depressione post-partum o notano che il malessere persiste per più di due settimane è bene rivolgersi a uno psicologo, che attraverso un colloquio, specifici test e l’osservazione clinica potrà consigliare il percorso di trattamento migliore. Uno tra i trattamenti più efficaci è quello cognitivo-comportamentale (CBT). Prima si interviene, migliore è la prognosi.

Scritto da: Maura Crivellenti
Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2015/11/depressione-post-partum/

HELP: ANSIA ED ATTACCHI DI PANICO Conoscere le emozioni "negative" per superarle e crescere


“…ed improvvisamente ho sentito che mi mancava l’aria. Non riuscivo a respirare. Avevo un peso sul petto. Un macigno… il cuore batteva fortissimo era troppo forte, mi faceva tanta paura. Ho pensato “adesso muoio”…
“…ho avuto paura, tanta paura, mi girava la testa, ero confusa tanto confusa…mi girava la testa, mi sembrava che tutto fosse strano. Stavo per svenire, sudavo caldo e poi freddo… “impazzisco”, una paura terribile. Non voglio ripensarci”
Così alcuni descrivono il proprio stato durante un attacco di panico e la sensazione di non riuscire a spiegare la portata della propria paura. La sensazione è che improvvisamente tutto possa cambiare e possano accadere eventi terribili: infarto, morte, perdita di controllo impazzendo.
E’ così che immobilizzati dalla paura chiamano aiuto e vengono portati al Pronto Soccorso. Seguono analisi, prescrizione di calmanti ed ansiolitici e dimissioni con diagnosi di Attacchi di Panico.
Inizia il tormento: il mostro si è palesato … “nessuno comprende la mia preoccupazione..” le persone si sentono sminuite e non comprese. La possibilità di rivivere questo terribile stato li induce ad evitare ogni situazione in cui si potrebbe riverificare. Guidare, attraversare piazze, ritrovarsi in luoghi chiusi, uscire da solo. Iniziano i controlli sul proprio corpo: sotto la lente di ingrandimento del nostro pensiero finiscono tutte le sensazioni corporee che abbiamo provato durante l’Attacco di Panico: il battito cardiaco, i giramenti di testa, la pesantezza delle braccia, il senso di nausea, il tremore e altri.

Iniziano anche i comportamenti protettivi che permettono di non ritrovarsi mai faccia a faccia con questo mostro: medicine sempre a portata di mano, evitamento di luoghi e situazioni che spaventano, presenza di persone o oggetti protettivi.
Possono comprendere che ciò che non riescono più a fare possa non giustificare l’entità della propria paura, ma non riescono a non tutelarsi dalla possibilità di ritrovarsi nuovamente di fronte a questo “mostro”.

Ed adesso vediamo un po’ più da vicino questo “mostro” la cui definizione già ci fa entrare in un circolo vizioso di paura. La definizione “Attacco di panico” è di per sé una definizione spaventosa: in sé contiene tre elementi: l’ attacco 1) è improvviso, imprevedibile 2) è incontrollabile 3)avrà delle conseguenze spaventose. Qualcosa che potrebbe capitarmi senza poterlo prevedere in nessun modo, senza avere il minimo potere di fare nulla nulla e che sicuramente avrà delle conseguenze terribili.
Ora pensiamoci bene… chi di noi non sarebbe terrorizzato a questa idea? Chi non cercherebbe di fare di tutto per tutelarsi? Chi di noi, pensando che qualcosa con queste caratteristiche grava sulle nostre giornate, non sarebbe sempre in uno stato di allerta?

Ma vediamo meglio...

L’attacco di panico è realmente improvviso? Quando iniziamo a lavorare con chi vive attacchi di panico ci accorgiamo insieme che nulla è realmente improvviso, ma che invece è inserito nella vita dei nostri pazienti in momenti di stress abbastanza importanti. I pazienti imparano a comprendere che le emozioni che provano sono frutto non tanto degli eventi, quanto di ciò che pensano degli eventi stessi. Le persone vivono situazioni di preoccupazione ansia, ma spesso, la velocità che ci imponiamo non ci permette di fermarci su pensieri e preoccupazioni che continuano a farci vivere e sentire quanto il nostro corpo ci segnala. Il Paziente comprende che c’è un prima e che può capire cosa genera e il funzionamento di questo “prima”. E niente sembra essere più così improvviso.
L’attacco di panico è davvero incontrollabile? Non posso davvero fare nulla? Una volta che si impara a conoscere cosa sia l’ansia, come funziona, quali sono gli effetti sul nostro corpo e come tali effetti aumentano, come in un circolo vizioso, la nostra paura fino al panico, le persone iniziano a sentirsi più capaci e padroni della situazione. Possono farci qualcosa. Il processo ritorna sotto le proprie competenze. Acquisendo così una maggior sicurezza.
L’ansia provata ci porterà conseguenze terribili? In terapia si apprende e si sperimenta 1) che l’ansia è un’emozione importantissima, senza la quale potremmo essere decisamente in pericolo 2)Che è utile fino ad un certo livello dopodiché ha effetti non funzionali 3) che l’ansia può essere anche molto spiacevole, che le sensazioni fisiche provate in questa emozione possono essere molto fastidiose, ma che possono non farci più ulteriore paura, che possiamo quindi gestirle ed attraversarle e che niente “è più forte di noi”.
La terapia per gli attacchi di panico è un bel percorso nella conoscenza di noi stessi, e nella conoscenza del funzionamento delle emozioni, ma soprattutto ci fa sentire più forti perché ci permette di riappropriarci di capacità e competenze che pensavamo di non possedere.

Allora... buon viaggio!

A cura della Dott.ssa Psicologa-Psicoterapeuta Sabrina Capitoni

Dal Sito: www.oksiena.it

giovedì 11 maggio 2017

Ansia è... rovinarsi il presente pensando al futuro


L’ansia generalizzata è sempre più comune. Spesso i primi sintomi compaiono
quando si è bambini. Eppure il 50 per cento dei malati non si cura.

L’ansia è una malattia del nostro tempo. Contagiosa e in costante aumento perché la società attuale la “coltiva”: viviamo tutti la sensazione di minacce future che sono presenti ma non sappiamo bene quali siano e se ci riguarderanno davvero, una su tutte il terrorismo. Secondo il saggista Louis Menard, «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana» e lo psichiatra Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano, conferma: «In passato le paure erano più “normate” e si affrontavano attraverso ritualità collettive. Oggi ciascuno è solo di fronte ai suoi timori e l’ansia cresce e si diffonde: se viviamo in un ambiente ansiogeno più facilmente diventiamo ansiosi».

Una coscienza del problema che però non porta dal medico

Così, accanto alle fobie, per molti il vero problema è un disturbo d’ansia generalizzata quando non addirittura di attacchi di panico, acuti e devastanti, in cui l’ansia sale a un livello parossistico e si teme di morire, di perdere il controllo, di impazzire. «L’ansia generalizzata, come le fobie, compare in genere da giovani o giovanissimi e tende a persistere nel tempo; gli attacchi di panico rapidamente iniziano a ripetersi spesso e non di rado si complicano con l’agorafobia, la paura di trovarsi in spazi aperti o in situazioni cui si ha la sensazione di non avere una via di fuga come, banalmente, stare chiusi in macchina in mezzo al traffico — spiega Bernardo Carpiniello, presidente eletto della Società Italiana di Psichiatria —. I pazienti con ansia generalizzata si rendono conto di avere preoccupazioni eccessive e inappropriate, ma non riescono a venirne a capo e spesso prima di riconoscere di avere un disturbo d’ansia si sottopongono a innumerevoli visite mediche, ipotizzando le più improbabili malattie organiche, tuttora più “facili” da ammettere con se stessi di un problema mentale anche se oggi lo stigma sociale è certamente minore rispetto al passato. La maggioranza di chi soffre di ansia generalizzata prima o poi tenta di curarsi, spesso con il fai da te a base di valeriana, fiori di Bach o simili, con esiti alterni e parziali; se si verifica un evento stressante, però, il precario equilibrio si spezza e si ricorre magari all’ansiolitico, che se mal gestito può creare problemi.

Antidepressivi molto efficaci

«Gli antidepressivi — continua Carpiniello — sono molto efficaci nella terapia cronica dell’ansia generalizzata e anche negli attacchi di panico, dove il trattamento con i farmaci è spesso la prima scelta e la richiesta di aiuto in genere arriva prima, visti gli effetti devastanti della patologia sulla qualità di vita». Rovinarsi il presente pensando al futuro è l’atteggiamento dell’ansioso e come spiega Mencacci: «La sfida è aiutare il paziente a tollerare l’oggi, a spostare il pensiero altrove e su diverse modalità di reazione ai fatti, a vivere le emozioni senza credere che tutto influenzerà il domani. Anche approcci diversi dal farmaco, quindi, sono molto utili: possono aiutare le varie forme di psicoterapia ma anche l’ipnosi, il biofeedback, il training autogeno o alcune tecniche di meditazione e respirazione come lo yoga». Molti pazienti preferirebbero curare l’ansia senza medicine, ma spesso non è semplice come sottolinea Carpiniello: «Detto che i farmaci non modificano il cervello come molti temono e se usati bene, sotto controllo medico, sono spesso assai efficaci, va anche ammesso che molti non accedono ad altrettanto valide psicoterapie perché sono più costose e le strutture pubbliche difficilmente riescono a erogarle per i disturbi d’ansia. Il Servizio Sanitario deve occuparsi prioritariamente delle malattie mentali gravi e l’ansia, per quanto non di rado invalidante, non è considerata tale».

Alcuni disturbi compaiono già a 7-8 anni

I disturbi d’ansia, nel loro complesso, sono la patologia psichica più frequente: si stima che almeno il 5 per cento delle persone soffra di ansia persistente nel corso della vita e le donne hanno un rischio doppio rispetto agli uomini di svilupparla. Due ansiosi cronici su tre soffrono anche di un altro disturbo fra fobia sociale, fobie specifiche o attacchi di panico e i giovanissimi non ne siano immuni. «Le fobie “singole” possono comparire anche attorno ai sette, otto anni — spiega Bernardo Carpiniello, presidente eletto della Società Italiana di Psichiatria —. Anche il disturbo d’ansia sociale è precoce: in genere si sviluppa durante l’adolescenza e lo stesso vale per l’agorafobia. In alcuni casi le fobie specifiche si attenuano o risolvono crescendo, ma in generale senza intervento non si guarisce. Purtroppo molti impiegano anni prima di capire che i malesseri provati in alcune situazioni, che pian piano si eludono sono in realtà disturbi d’ansia».

Genetica, ambiente ed esperienze all’origine dei nostri «allarmi»

Perché alcuni diventano fobici o ansiosi?«Non esiste una causa singola, di certo fobie e ansie nascono da un mix di fattori predisponenti ed esperienze di vita – dice Bernardo Carpiniello, psichiatra dell’università di Cagliari –. Un inadeguato superamento dell’attaccamento alla madre, per esempio, può avere un ruolo: l’attaccamento fisico e psicologico è un fenomeno biologico fondamentale nelle prime tappe di vita e il bimbo deve sentirsi protetto e rassicurato per poter andare oltre e sviluppare un’autonomia, ma se questo processo è “disturbato” da una mamma che trasmette segnali d’ansia, verbali e non, può non completarsi appieno e favorire lo sviluppo di ansie e fobie». Se ogni minimo evento durante l’infanzia crea allarme il bimbo inevitabilmente crescerà ansioso, ma come spiega lo psichiatra Claudio Mencacci talvolta le basi per un futuro “agitato” si possono porre perfino prima, in gravidanza: «Se la madre soffre d’ansia durante l’attesa, l’ormone dello stress, il cortisolo, passa attraverso la placenta e “colpisce” il patrimonio genetico del feto, provocando modifiche epigenetiche (alterazioni del Dna che ne cambiano l’espressione ma non la sequenza, ndr) che predispongono all’ansia». Se le cause sono poco chiare, le conseguenze di fobie e ansie non risolte sono invece ben più note: «L’ansia induce un’infiammazione generalizzata che, a cascata, favorisce malattie cardiovascolari, disturbi del sonno, patologie metaboliche. Inoltre può aprire le porte alla dipendenza dall’alcol visto che molti provano a sedare le emozioni ricorrendo alla bottiglia, e anche alla depressione, spesso associata o conseguente ai disturbi d’ansia: nel caso della fobia sociale, la probabilità di depressione può arrivare fino al 70 per cento», conclude Mencacci.

C’è anche chi teme il burro di arachidi

Le fobie sembrano davvero infinite: c’è chi non riesce a guardare un ombelico senza tremare o chi ha il terrore degli uomini calvi, chi ha un’avversione assoluta per i peli di qualunque sorta, suoi e altrui, o chi ha la fobia del burro d’arachidi per un’irragionevole timore che si attacchi al palato. Le fobie censite sono centinaia e spesso le più insolite sono abbastanza facili da spiegare perché insorgono dopo un evento traumatico: un uomo barbuto con cui si è avuta una brutta esperienza nell’infanzia o che ci abbia spaventato in una favola, un calvo a cui si associa un ricordo negativo e così via. «In questi casi di solito il paziente ha una predisposizione personale all’ansia, poi la fobia si scatena con un evento che fa da “detonatore” e la paura si appunta quindi su una qualsiasi situazione od oggetto che viene collegato al fatto», dice lo psichiatra Bernardo Carpiniello. Da qui la vastità delle possibili fobie specifiche, anche se le più diffuse sono relativamente poche e sono quelle che riguardano gli animali (serpenti, insetti, topi ma anche cani o gatti), le situazioni in cui ci si può trovare come i luoghi chiusi, i ponti o gli elementi naturali come l’acqua.


di Elena Meli

Dal Sito: www.corriere.it






Disturbo bipolare e disturbo borderline: separati alla nascita?


Il disturbo bipolare e il disturbo borderline di personalità presentano somiglianze diagnostiche ma anche delle differenze e richiedono trattamenti diversi

Disturbo borderline e disturbo bipolare (bipolarismo): entrambi evidenziano caratteristiche comuni quali l’impulsività, l’umore instabile, la rabbia inadeguata, un elevato rischio suicidario e relazioni affettive instabili, tuttavia i pazienti con disturbo borderline di personalità tendono a mostrare una maggiore instabilità e impulsività e ostilità rispetto ai pazienti con bipolarismo. In secondo luogo, il disturbo borderline di personalità è più fortemente associato ad una storia di infanzia di abusi, anche rispetto ai gruppi di controllo che sembrano avere altri disturbi di personalità o depressione maggiore.
Fulvio Bedani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Dal cervello, e dal cervello solo, sorgono i piaceri, le gioie, le risate e le facezie così come il dolore, il dispiacere, la sofferenza e le lacrime. Il cervello è anche la dimora della follia e del delirio, delle paure e dei terrori che ci assalgono di notte o di giorno.

– Ippocrate
Tra il V e il IV secolo a.C., con questa frase, Ippocrate forniva i presupposti della sua successiva trattazione riguardante i disturbi mentali, trattazione destinata a costituire nel corso dei secoli una solida base per la creazione delle attuali teorie cliniche. In tale ottica, molte delle descrizioni fenomenologiche e sintomatologiche redatte da Ippocrate trovano ancora una certa validità e conferma nei più aggiornati e riveduti criteri diagnostici moderni.
Tuttavia, nella realtà mutevole e dinamica delle “scienze della mente”, uno spazio importante e quanto mai discusso è rappresentato dalla necessità di una corretta definizione di disturbi che mostrano una sottile e non sempre netta linea di demarcazione; a tal proposito, tra le diatribe attualmente più in “auge”, spicca il confronto fra disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline. Tale confronto viene continuamente dibattuto tra varie correnti di specialisti, come dimostra la sempre più estesa produzione scientifica.
Il problema della diagnosi
Sin dai tempi antichi, l’individuazione di una corretta diagnosi ha costituto il passo essenziale col quale iniziare il percorso terapeutico. Una diagnosi mancata, invertita, o genericamente errata, pone problematiche di non poca rilevanza, se si considerano le possibili conseguenze di un processo terapeutico inadeguato.
Nel caso specifico, una diagnosi errata tra disturbo bipolare e disturbo borderline può determinare una sequela di conseguenze di difficile gestione.
Ad esempio, quando un paziente bipolare viene diagnosticato come borderline (disturbo borderline di personalità), viene potenzialmente escluso dall’utilizzo di terapie farmacologiche efficaci. Dall’altro lato, attribuire una diagnosi di bipolarismo a un paziente con disturbo di personalità espone lo stesso al rischio di trattamenti che hanno una bassa valenza o possono essere fallimentari, piuttosto di un più adeguato trattamento psicologico. A queste problematiche vanno aggiunti anche il notevole impatto sociale e l’elevato rischio di stigmatizzazione della malattia.
Quali sono le basi su cui si crea questa difficoltà di riconoscimento diagnostico?
L’origine di tale frequente errore diagnostico risiede primariamente nel fatto che il disturbo di personalità borderline e il disturbo bipolare presentano una considerevole sovrapposizione sintomatologica.
Da un lato, il disturbo bipolare è considerato come una malattia del cervello, caratterizzata dalla fluttuazione del tono dell’umore, tra fasi “calde” e fasi “fredde”, ovvero mania/ipomania e depressione.
La prevalenza di tale disturbo si colloca all’incirca al 2% nella popolazione generale, con un’elevata percentuale di casi nei quali è possibile evidenziare una storia famigliare positiva per malattia, con trasmissione su base ereditaria.

Sintomo cardine del disturbo bipolare è la presenza di fasi di mania/ipomania, seguita da un successivo episodio depressivo. Sebbene i pochi studi clinici attuali non evidenzino una correlazione fra dimensioni della personalità e disturbo bipolare, è possibile evidenziare la presenza di disturbi di personalità concorrenti (soprattutto del cluster B) che possono influire negativamente sulla risposta al trattamento.
Sul lato opposto, il disturbo di personalità borderline è caratterizzato da un quadro duraturo e inflessibile di pensieri, sentimenti e comportamenti che ostacola la funzione psico-sociale o professionale di un individuo. La sua prevalenza stimata è di circa l’1%, anche se recenti stime ipotizzano il 6%. Nel caso del disturbo borderline di personalità, le influenze genetiche svolgono un ruolo eziologico minore rispetto al disturbo bipolare.

Entrambi i disturbi evidenziano caratteristiche comuni quali l’impulsività, l’umore instabile, la rabbia inadeguata, un elevato rischio suicidario e relazioni affettive instabili, tuttavia i pazienti con disturbo borderline di personalità tendono a mostrare una maggiore instabilità e impulsività e ostilità rispetto ai pazienti con disturbo bipolare.
In secondo luogo, il disturbo borderline di personalità è più fortemente associato ad una storia di infanzia di abusi, anche rispetto ai gruppi di controllo che sembrano avere altri disturbi di personalità o depressione maggiore.
Il rapporto maschio-femmina per il disturbo bipolare e il disturbo borderline di personalità è discretamente sovrapponibile, situandosi approssimativamente a 1:3 nel DB e a 1:4 nel disturbo borderline di personalità.
Sia disturbo bipolare che il disturbo borderline di personalità sono associati infatti ad un notevole rischio di suicidio o di tentativo suicidario nonché comportamenti autolesionistici.

Disturbo borderline di personalità e disturbo bipolare spesso coesistono

A contribuire al problema della diagnosi, concorre anche il fatto che DB e disturbo borderline di personalità possono coesistere nello stesso paziente: si stima, infatti, che circa il 20% dei pazienti con disturbo borderline abbia comorbidità per un disturbo bipolare e che nel 15% dei pazienti con disturbo bipolare sia coesistente un disturbo di personalità borderline. Tale concorrenza si verifica molto più spesso di quanto ci si aspetterebbe (15-20% dei casi), suggerendo alcune ipotesi. In primo luogo è possibile che la prevalenza stimata del bipolarismo nei soggetti con disturbo borderline di personalità sia troppo bassa o, viceversa, la prevalenza di disturbi borderline in pazienti con disturbo bipolare sia troppo alta. Secondariamente, è possibile che il disturbo bipolaresia meno comune di quanto realmente stimato nella popolazione.

Il bias diagnostico per bipolarismo e disturbo borderline

Trovandosi di fronte al paziente, lo specialista, sia esso un medico o uno psicologo, ricerca i sintomi della malattia. Nel caso dei disturbi in esame, la presenza di un disturbo bipolare o disturbo borderline di personalità può aumentare il rischio che una delle due malattie venga mal diagnosticata; questa condizione può verificarsi qualora nel paziente si manifestino sintomi comuni ad entrambi i disturbi. Il riconoscimento di tali sintomi come elementi “diagnostici” specifici di una precisa malattia inficia il percorso diagnostico. Ad esempio, una diagnosi di disturbo borderlinepotrebbe rappresentare un disturbo bipolare parzialmente trattato o resistente al trattamento.
Si assiste, inoltre, a un frequente “bias orientativo”.

Joel Paris, nel suo “Lo spettro bipolare – Diagnosi o moda?”, pone in esame come i clinici tendano a diagnosticare con maggiore probabilità il disturbo di cui sono maggiormente esperti. Lo stesso Paris evidenzia come, negli ultimi anni, vi sia stato un incremento del numero di diagnosi di bipolarità, correlando tale incremento ad un fattore “moda” dettato più dal momento storico e ideologico “bipolarista” che dalla realtà clinica effettiva. Senza entrare nel merito della correttezza o meno di tale affermazione, si evidenzia tuttavia una maggiore predisposizione dei clinici a porre più frequentemente diagnosi di disturbo bipolarerispetto a disturbo borderline di personalità. Le basi di tale “bias” potrebbero risiedere in numerosi fattori, verosimilmente da iscriversi al fatto che la ricerca scientifica degli ultimi decenni si è maggiormente concentrata sul disturbo bipolare rispetto al disturbo borderline di personalità e che, spesso, i pazienti bipolari mostrano un maggior “appeal” clinico rispetto ai pazienti borderline, storicamente e frequentemente descritti come “manipolativi, eccentrici, drammatici, sprezzanti, oppositivi”.

Sul piano clinico, a far pendere l’ago della bilancia verso la diagnosi di bipolarismo si situa un miglior outcome sul lungo periodo nel bipolarismo rispetto al disturbo borderline di personalità; in aggiunta, la riconosciuta predisposizione ereditaria del disturbo bipolare costituirebbe una verosimile più solida base diagnostica che, oltre a rassicurare il clinico, lo aiuterebbe anche nel descrivere al paziente la diagnosi; diagnosi che, nel caso del disturbo borderline di personalità, spesso viene difficilmente accettata e maggiormente stigmatizzata.

Un bias di natura pratica risiede invece nella tendenza degli specialisti nel raccogliere la storia del paziente, concentrandosi soltanto sui sintomi trasversali; ad esempio quando un paziente con disturbo bipolare mostra una prominente labilità dell’umore o la sensibilità interpersonale durante un episodio di alterazione dell’umore, ma non quando si trovi in eutimia.

Il problema del disturbo bipolare II

Come è noto, il disturbo bipolare viene suddiviso in due forme principali: disturbo bipolare di tipo I e bipolare di tipo II; a questi si aggiungono anche ciclotimia e disturbi bipolari sotto soglia. Dal punto di vista diagnostico, si incontrano minori difficoltà nel distinguere un paziente bipolare di tipo I da uno affetto da disturbo borderline, dal momento che il sintomo cardine del bipolarismo di tipo I è la mania, ovvero uno stato di elevata eccitabilità e iperattività e/o aggressività generalmente di agevole riconoscimento e che, a volte, porta a manifestazioni assai marcate come la psicosi.
Le problematiche diagnostiche maggiori, invece, si verificano quando il paziente presenta criteri diagnostici sfumati e non chiaramente identificabili. Gli stati di elevazione dell’umore o ipomaniacali possono mimare le fluttuazioni di umore tipiche dei disturbo borderline di personalità. Inoltre, il paziente bipolare II può presentare alcuni tratti tipici degli stati maniacali ma in forma più attenuata. Mentre impulsività o aggressività sono più caratteristici del disturbo borderline di personalità, il bipolare II è simile al disturbo borderline di personalità sulle dimensioni dell’instabilità affettiva, sebbene quest’ultimo tendi ad evidenziare fluttuazioni molto più rapide rispetto al bipolarismo.
Su tale componente affettiva, comune ad entrambi i disturbi, si sono dibattuti numerosi studiosi del nostro secolo.

Disturbo bipolare e disturbo borderline come fratelli separati alla nascita

A partire dagli anni ’80 e ’90 del novecento, numerosi studiosi hanno avanzato teorie e ipotesi sulla relazione fra disturbo bipolare e disturbo borderline; il fondamento teorico alla base di tali teorie riguarda gli aspetti affettivi nei due disturbi.
Akiskal nel suo “Borderline: an Adjective in Search for a Noun”, rileva come i famigliari di pazienti con disturbo borderline abbiano una predisposizione genetica per disturbi affettivi più alta dei pazienti bipolari stessi e ipotizza che il disturbo borderline di personalità possa configurarsi come precursore del disturbo bipolare.
Sulla base di tale teoria, sono emerse quindi diverse ipotesi classificatorie:
1. disturbo PTSD complicato;
2. disturbo bipolare di spettro;
3. disturbo di asse I a sé stante.

Nel 2008, New et al., sul Biological Psychiatry , hanno evidenziato le differenze tra gli studi a favore o contro l’eziologia traumatica nel disturbo borderline di personalità.
A favore di tale ipotesi si evidenziava come abitualmente gli adulti con diagnosi di disturbo borderline di personalità riportassero più spesso (rispetto ai non borderline) abusi psichici e sessuali precoci e di come fossero stati testimoni di violenze domestiche. Inoltre, il disturbo borderline di personalità viene predetto nell’adulto qualora si sia verificato un abuso sessuale, una negazione emozionale da parte di figure parentali maschili e il trattamento inconsistente nelle figure parentali femminili.
Sul fronte opposto veniva evidenziato come tra il 20-45% dei pazienti borderline non ci fossero in anamnesi episodi di abusi sessuali e, contemporaneamente, soggetti con pregressi abusi sessuali nell’80% dei casi non sviluppino un disturbo di personalità. Infine, la familiarità per i disturbi dello spettro nevrotico, l’abuso sessuale nell’infanzia, la separazione o lo stile genitoriale sfavorevole predicono indipendentemente il disturbo borderline di personalità nell’adulto.

Numerosi studiosi propongono di considerare il disturbo borderline di personalità come un disturbo bipolare di spettro, basandosi sull’elevato tasso di comorbidità e sulla sovrapposizione sintomatologica precedentemente evidenziata. Tuttavia, lo stesso Akiskal nel 1985 e Gunderson nel 2006 hanno evidenziato come la relazione fra disturbo borderline di personalità e bipolarismo sia modesta e la possibilità di una relazione forte di spettro sia inverosimile.

Risolvere il problema della diagnosi dei disturbi borderline e bipolare

Nonostante le teorie e le ipotesi dei diversi studiosi, il problema del clinico rimane il medesimo: come distinguere nella quotidianità i due disturbi e porre una diagnosi di certezza?
Allo stato attuale, per condurre una diagnosi corretta è necessario conoscere adeguatamente i criteri diagnostici più recenti (DSM-5), nonché affidarsi allo strumento di più grande rilievo nel campo psicologico/psichiatrico: l’anamnesi.

La raccolta della storia di vita e della malattia del paziente rappresenta la base essenziale per ogni ulteriore provvedimento. La stesura di una storia psichiatrica, in modo completo e rigoroso, consente al clinico di discernere fra un disturbo bipolare e un disturbo di personalità borderline.
Essenziale è il decorso: poiché i disturbi di personalità sono da considerarsi come un pattern di comportamento cronico, costante durante la vita, sarà utile lo studio del decorso longitudinale e non solo dei sintomi trasversali. In altre parole, la presenza di una modalità di comportamento e di “espressione umorale e funzionale” sostanzialmente costante nel tempo, depone maggiormente per un disturbo borderline di personalità, rispetto ad un decorso caratterizzato da ciclicità, nel quale a fasi di disturbi dell’umore e di perdita di capacità funzionali, si alternano periodi di benessere e eutimia. I pazienti con disturbo borderline spesso evidenziano fasi di fluttuazioni umorali che mutano velocemente nell’arco di minuti e/o ore, molto difficilmente di durata superiore.
Inoltre, nell’iter diagnostico-terapeutico occorre tener presente le caratteristiche psicologiche del disturbo. I pazienti con disturbo borderline di personalità evidenziano, infatti, un tipico pattern di attaccamento insicuro, differentemente dai pazienti bipolari. I pazienti con disturbo borderlinetendono a gestire in modo incostante e tumultuoso le relazioni, differentemente dai pazienti con bipolarismo che mostrano una maggiore costanza.

Trattamento per i disturbi bipolare e borderline

L’approccio terapeutico al disturbo bipolare e al disturbo di personalità borderline consta di numerose opportunità, alcune delle quali anche condivise.
L’iter del trattamento prevede sia un intervento di natura farmacologica che di natura psicoterapica.
Sul piano farmacologico, la scelta verte sostanzialmente sull’utilizzo di antidepressivi, stabilizzanti dell’umore e antipsicotici. In linea generale, e assolutamente semplicistica, gli stabilizzanti dell’umore (litio, acido valproico, carbamazepina, lamotrigina) trovano impiego sia nel disturbo bipolare che nel disturbo borderline di personalità, con lo scopo di ridurre le fluttuazioni dello stato umorale e garantire al paziente una maggiore stabilità del tono affettivo. Gli antidepressivi trovano maggior utilizzo nelle fasi “down” del disturbo borderline di personalità; appare invece controverso e molto discusso il loro utilizzo nei casi di disturbo bipolare, nei quali l’uso di tale classe farmacologica incrementerebbe il rischio di “switch” dalla depressione alla mania. Gli antipsicotici sono sfruttati per la loro efficacia durante le fasi maniacali dei pazienti bipolari, con lo scopo di “raffreddare” l’iperattività e l’eccessivo incremento della produzione ideica del soggetto.

Psicoterapia per il disturbo borderline e il disturbo bipolare

Sul piano psicoterapico la gamma dei possibili approcci è piuttosto ampia e, salvo alcuni interventi specifici per un determinato disturbo, gli stessi sono in gran parte condivisi tra bipolarismo e disturbo borderline di personalità.
Lo scopo della psicoterapia deve focalizzarsi in particolare sugli aspetti che maggiormente inficiano sulla qualità di vita del paziente, ovvero impulsività (suicidalità), ostilità, irritabilità, comportamenti “risk-taking” e di abuso, sensitività interpersonale.

Stilare una lista completa delle possibili tecniche psicoterapiche comporterebbe un lungo elenco di scarsa utilità. Si ritiene, invece, più rilevante citare e descrivere brevemente alcuni approcci di nota efficacia clinica.
PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE:
I terapisti cognitivo-comportamentali si pongono come obiettivo lo sviluppo della capacità di riconoscimento e coping dei sintomi prodromici e la capacità di problem solving rispetto a diversi aspetti della malattia. Questo approccio psicoterapico risulta essere, allo stato attuale, la terapia di maggiore efficacia per il trattamento dei disturbi bipolari e disturbo borderline di personalità. Nel caso specifico per il disturbo borderline, è possibile avvalersi della terapia dialettico-comportamentale. Di derivazione cognitivo-comportamentale, è stata introdotta negli anni ’90 dalla psicologa Marsha Linehan e pone come obiettivo l’educare il paziente alla gestione delle emozioni disforiche e la ricerca di possibili comportamenti alternativi, soprattutto nei confronti delle espressioni più autolesive tipiche del disturbo borderline.

Family focus treatment:
sviluppato da Miklowitz, prevede un intervento suddiviso in moduli volto inizialmente alla psicoeducazione del paziente e del gruppo famigliare e successivamente alla valutazione delle relazioni disfunzionali interne al gruppo della famiglia, offrendo possibili soluzioni ai principali problemi interpersonali.

Psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali:
Utilizzata principalmente con i pazienti con diagnosi di bipolarismo, si concentra sulla gestione dei ritmi circadiani del paziente, importanti per il ripristino di una adeguata routine quotidiana. La base teorica su cui si fonda tale approccio prevede che il paziente con bipolarismo abbia una particolare “vulnerabilità circadiana” e che gli eventi traumatici possano determinare alterazioni dei principiali ritmi biologici (sonno-veglia) e sociali.

Trattamento basato sulla mentalizzazione:
la MBT è stata introdotta da Bateman e Fonagy all’inizio degli anni Duemila. Si basa sul concetto secondo il quale i pazienti borderline non sono in grado di mentalizzare, ovvero porsi “al di fuori” delle proprie emozioni come osservatori esterni col fine di analizzare le stesse e le relative conseguenze emotive e relazionali. Acquisendo tale capacità, il paziente disturbo borderline di personalità riesce maggiormente a comprendere le dinamiche relazionali personali e altrui, migliorando la propria qualità di vita.

Schema focused therapy:
si tratta di una terapia “mista”, costituitasi dalla combinazione fra CBT e terapia analitica. Introdotta da Young alla fine degli anni ’90, ha come scopo il modificare gli schemi maladattivi che derivano da esperienze negative nell’infanzia.
IN CONCLUSIONE:
Appare evidente come disturbo bipolare e disturbo di personalità borderline configurino due entità nosologiche differenti, sebbene presentino aspetti sintomatologici e fenomenologici comuni e possano presentarsi come disturbi coesistenti nello stesso soggetto. L’errore nel riconoscimento diagnostico fonda le sue radici su molteplici aspetti. Un’approfondita conoscenza dei criteri diagnostici nonché una maggiore attenzione alla cronologia e agli eventi della storia di vita e del disturbo del paziente possono contribuire a superare questo bias interpretativo, fornendo così al paziente la possibilità di fruire di un adeguato trattamento, evitando, al contempo, una sequela di conseguenze di difficile gestione sia sul piano terapeutico, sia sul piano psico-sociale, riducendo il rischio di stigmatizzazione e emarginazione del paziente.

Dal Sito: www.stateofmind.it


PER SAPERNE DI PIÙ: HTTP://WWW.STATEOFMIND.IT/2016/01/DISTURBO-BIPOLARE-BIPOLARISMO-BORDERLINE-SIMILITUDINI-DIFFERENZE/


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/01/disturbo-bipolare-bipolarismo-borderline-similitudini-differenze/