sabato 31 marzo 2018

Daria Bignardi racconta “il bello” di essere ansiosi


È uno stato d’animo intenso, pericoloso, che rischia di rovinarti la vita. Ma che si può anche trasformare in energia creativa. Ce lo racconta qui una scrittrice famosa che ha riflettuto su quanto la sua inquietudine sia stata il motore del suo successo

Si intitola Storia della mia ansia (Mondadori, 19 euro) il sesto libro di Daria Bignardi. In questo nuovo romanzo la protagonista è Lea, una donna che ogni giorno deve fare i conti con un difficile equilibrio tra lavoro, famiglia, ansia, amore, frustrazione e malattia. Daria Bignardi, è una giornalista, autrice, conduttrice tv e scrittrice. Nel 2009 pubblica il suo primo libro, Non vi lascerò orfani, con cui vince il premio Elsa Morante per la narrativa, il premio Rapallo e il premio del Libraio Città di Padova. Qui ci racconta del suo rapporto con l'ansia e di come ha affrontato le sue paure.

Credo di aver cominciato a soffrirne da molto piccola,

ma solo pochi anni fa ho capito che quel senso di inquietudine che agitava le sue ali gialle dentro al mio petto, era proprio ansia. Come la madre di Lea, la protagonista di Storia della mia ansia, anche mia mamma soffriva di ansia ossessiva e la sua malattia ha condizionato tutta la mia vita. Per moltissimo tempo ho odiato l’ansia, non mia madre che adoravo, tanto da negarla, rimuoverla, vergognarmi di lei. Non capivo che quell’energia che mi guidava o paralizzava, che mi obbligava alle prove più difficili e faticose anche quando non mi riguardavano fino in fondo, che mi spingeva a stringere legami con persone che mi mettevano a disagio, che non mi abbandonava nemmeno mentre dormivo, che mi faceva (e mi fa) svegliare prestissimo con mille pensieri di cose da fare, dire, scrivere, era una forma dell’ansia che avevo odiato in mia madre. Un ricordo dei miei cinque anni l’ho prestato a Lea Vincre, protagonista dell’ultimo libro: sono le otto di sera e di nascosto da mia madre porto indietro di dieci minuti le lancette della sveglia di cucina perché se alle otto in punto mio padre non arriva a cena mia madre mi infila il cappotto sul pigiama e mi porta fuori con lei a cercarlo, al freddo, nella nebbia di Ferrara. È successo davvero e io ero spaventatissima, non tanto dalle cose che faceva la mamma, quando sei piccolo tutto quello che fa lei sembra legittimo e normale, ma dal suo dolore devastante, insopportabile, che arrivava fino a me, anche attraverso le pareti, e che sentivo dentro, in profondità, attorno al diaframma, proprio “dentro al cuore” pensavo io da piccola. Dentro al petto, come ho capito più tardi. È quello il luogo dell’ansia.

Ho sempre cercato di proteggere mia madre dal dolore,

e poi di proteggere tutte le persone che vedevo o sentivo soffrire, tranne me stessa. E probabilmente l’ho sempre fatto male, perché non lo so se l’affetto, la cura, gli slanci, quel che potevo dare e fare io, possono aiutare davvero chi soffre. «Ognuno è responsabile del suo dolore» dice a un certo punto del romanzo Shlomo, il gelido ma affidabile marito di Lea. Forse ha ragione lui. Forse per questo ho sempre cercato di avere vicino persone diverse da me: costanti, autonome, solide, pazienti, non ansiose. Che però a volte non sono sensibili e fanno fatica a capire e ad accettare i tormenti di chi soffre d’ansia.

L’ansia può essere pericolosa perché non fa sentire la fatica,

lascia nudi, scoperti, fragili, vulnerabili, sfiniti. Nei momenti peggiori può condizionare pesantemente la vita, bloccare, consumare: perché ci si fissa sulle cose negative e si perde di vista tutto il resto, salvo disperarsi quando poi magari le cose belle, ignorate o date per scontate, si perdono per davvero. Ma può essere anche una bellissima energia creativa, una marea che ti porta fin dove non avresti mai pensato di arrivare. Credo che tutto quello che ho fatto nella vita, dall’andarmene dalla mia piccola città di provincia, quando avevo vent’anni per cercare lavoro a Londra, a venire a Milano dividendo un’appartamento in periferia con cinque sconosciuti, fino a riuscire a lavorare nei giornali e poi in televisione, l’ho sempre fatto ascoltando e seguendo un bisogno insopprimibile e urgente. Prima di libertà e poi di creare qualcosa da condividere con gli altri per riuscire a placare l’ansia.

È stata l’ansia a costringermi a coltivare la mia vocazione, quella per la scrittura e la lettura

Da bambina leggevo e scrivevo in modo compulsivo. Leggevo sempre: prima le favole, poi i libri per ragazzi, poi tutti i libri che trovavo in casa, dai classici russi e francesi che mia madre aveva studiato all’Università alla Storia d’Italia di Montanelli di mio padre. E quando finivo di leggere due o tre volte tutti i libri che c’erano in casa andavo a comprarli usati in libreria, in edicola, nelle bancarelle o li prendevo in prestito in biblioteca. E appena avevo finito i libri, leggevo i giornali, le riviste, l’etichetta dell’acqua minerale, i bugiardini delle medicine, le regole dell’ascensore, i cartelloni stradali. Non potevo fare a meno di leggere e di scrivere, incessantemente. «Ti cavi gli occhi» diceva mia madre, che pure era una grande lettrice, ma mai quanto me che non stavo mai senza un libro o un giornale davanti agli occhi. Anche quel bisogno credo fosse un effetto dell’ansia, di quel viatico materno che mi ha consegnato all’inquietudine eterna ma anche alla mia vita, al mio destino, al mio bisogno di scrivere, creare, condividere, e che ha fatto di me, nel male e nel bene, ciò che sono.

Dal Sito: donnamoderma.com

5 frasi con cui una persona ansiosa ci avverte inconsciamente che sta male


Se si riesce a percepire dalle parola l'ansia di chi ci sta accanto, si può essere più utili di quanto si possa immaginare.

L'ansia può avere forme diverse, esprimersi in maniere differenti e diventare un problema cronico o motivo di ulteriore stress e angoscia, soprattutto quando non si riesce ad esprimerla. Ci sono degli esercizi che si possono fare per imparare a tenere la propria ansia sotto controllo, ma sarebbe importante e bello se chi sta vicino a una persona che soffre di questo disturbo, imparasse a comprendere alcuni segnali, per supportare la persona cara. Ecco 5 classiche frasi, che valgono come campanello d'allarme...

1. "Ma non c'è troppa gente qui?"

Il soggetto ansioso spesso non tollera la folla, che tende a soffocarlo e a rendere terribile il momento di condivisione dello spazio con tante persone. L'agitazione che causa la presenza di molte persone è data dal fatto in sé di aver paura di avere un attacco di ansia mentre si è circondati da tanta gente. Questo genera un circolo vizioso da cui si fatica ad uscire. L'ansia dei luoghi affollati, anche definita demofobia, è un problema che colpisce molte persone, e se non risolto può sfociare in un disturbo da attacchi di panico o nell'ansia sociale.

2. "Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ce l'hai con me?"

Anche quando tutto sembra andare bene, il soggetto ansioso sente la necessità di "ribadire il punto". Magari in una relazione di coppia potrebbe sembrare paranoico, ossessivo, o semplicemente strano e immotivato. Invece il soggetto ansioso ha bisogno di essere continuamente rassicurato, poiché in quel preciso istante tende ad ingigantire le circostanze e magari anche a chiedere scusa senza ragione.

3. "Lo porto io..."

Portare il carrello, portare il guinzaglio del cane, in generale stringere qualcosa, in un momento di ansia, aiuterebbe a calmare e a "ritrovare il controllo della situazione". Per questo alle volte si avanza la richiesta. In generale chi soffre d'ansia preferisce sentire di star riuscendo a gestire la situazione, per questo alcuni soggetti ansiosi possono presentare anche lievi forme di disturbi ossessivo compulsivi.

4. "Ho solo bisogno di prendere un po' d'aria"

L'aumento del battito cardiaco collegato all'ansia, e la corrispettiva sensazione che manchi l'aria, possono portare alla sensazione che i vestiti strangolino, che il petto sia un macigno, e che sia necessario rigenerarsi con una boccata d'aria fresca. Così, per sminuire la cosa, si confonde chi c'è accanto dicendo di voler solo un attimo prendere aria,quando è possibile che il soggetto stia vivendo un attacco di ansia.

5. "Credo faccia troppo caldo qui"

Un'altra plausibile conseguenza della suddetta ansia e sensazione di soffocamento potrebbe essere quella delle vampate di caldo, della sudorazione in eccesso, del capogiro. Il disagio viene espresso dal soggetto come "l'avere solo un po' di caldo". Anche questa frase potrebbe essere un campanello di allarme, con cui il soggetto vuole mascherare il momento di ansia.

Dal Sito: alfemminile.com

martedì 27 marzo 2018

Psiche: 6 casi in cui è meglio andare in terapia


Ci sono situazioni della vita in cui la scelta migliore è quella di andare in terapia per parlare ed affrontare ciò che ci tormenta.

La scelta di andare in terapia, benché negli anni sia divenuta una cosa sempre più semplice, per molte persone risulta ancora molto ostica. Alcuni la considerano una perdita di tempo, altri una sorta di sconfitta per non essere riusciti a risolvere da soli i propri problemi ed infine ci sono quelli che, ancorati alle credenze del passato, ritengono ancora che la terapia sia qualcosa da destinare solo a chi soffre di gravi disturbi mentali.
Posto che il cervello è un organo come tutti gli altri e che, di conseguenza, non c’è nulla da vergognarsi se nella vita arriva il momento in cui necessita di un aiuto, andare in terapia è una cosa che torna utile a tutti. Farlo consente infatti di mettersi in discussione, sfogarsi ed avere un parere esterno esposto in modo molto più chiaro di come potrebbe fare un amico. Insomma, andare in terapia è qualcosa che di certo non fa male a nessuno e che spesso può rivelarsi utile per uscire da periodi nei quali ci si sente bloccati o si necessita di parlare con qualcuno avendo la certezza di essere ascoltati e capiti senza alcun giudizio. Se, la scelta finale spetta sempre a noi, è bene ricordare che ci sono però delle situazioni particolari in cui rivolgersi ad un terapeuta non dovrebbe essere più un opzione ma una scelta obbligata e alla quale dare l’assoluta priorità.

Quali sono i casi in cui è consigliabile andare in terapia

Le situazioni in cui la terapia si rivela necessaria per aiutare a dirimere i fili troppo spesso ingarbugliati dei nostri pensieri sono tante e difficili da riassumere. Un dato problema, infatti, può essere vissuto sotto una luce diversa da persona a persona e a volte anche in base al periodo che si sta attraversando. Nonostante sia difficile fare una stima dei problemi più importanti o di come riconoscerli, oggi proveremo ad analizzare alcuni tra i contesti più “comuni” nei quali ci si può trovare coinvolti. Contesti che, se riconosciuti per tempo, possono essere risolti con molta più semplicità.

La depressione. Sentirsi in ansia o depressi è spesso una situazione temporanea che può capitare a chiunque si trovi ad attraversare un momento particolarmente difficile della propria vita. Quando la situazione diventa permanente e sembra non aver fine, portando chi la vive ad una qualità della vita  pessima, la terapia diventa però indispensabile. A volte basta qualche seduta per riuscire a risolvere la causa che ha spinto verso la depressione, in altri casi il tempo richiesto può essere maggiore. In ogni caso, un terapeuta che sappia ascoltare, capire ed indirizzare verso un modo di pensare più propositivo si rivela spesso un arma vincente della quale sarebbe stupido non usufruire. Senza contare che a volte la depressione può nascondere squilibri ormonali o altri problemi di tipo medico che è sempre meglio approfondire in modo da trovare la giusta soluzione.

Incapacità di affrontare un lutto o una perdita. Perdere qualcuno al quale si è voluto bene è spesso uno scoglio enorme che può portare alla depressione o ad un senso di non accettazione della realtà. Ciò può avvenire per la perdita di un proprio caro, di un animale domestico e a volte, anche di qualcuno ancora in vita. Si, perché a detta degli psicologi, il lutto si prova anche per la fine di una storia importante, per la fine di un’amicizia e per tutte le situazioni in cui avviene una perdita importante. In questi casi, avere qualcuno che sappia indicare la via per accettare ed elaborare il tutto si rivela indispensabile per poter tornare a prendere in mano la propria vita, recuperando il sorriso ed imparando a gestire i propri ricordi.

Incapacità di superare un evento traumatico. Proprio come avviene per il lutto, anche uno shock improvviso o un avvenimento traumatico possono causare grossi problemi, rendendo difficile il tornare a vivere la vita di tutti i giorni. Spesso la mente umana necessita infatti di una sorta di reset, di un punto dal quale ricominciare per riacquistare la normale routine di tutti i giorni. A volte, il tempo si rivela il miglior antidoto per problemi di questo tipo. Quando, però, l’ansia rimane e la vita sembra non scorrere più come prima, allora è il caso di chiedere aiuto. Parlare, rivivere al fianco di un esperto quanto accaduto potrà infatti dare un senso a tutto, permettendo alla mente di sbloccarsi dal momento di shock, elaborare il tutto ed andare avanti.

Dipendenza da sostanze, cibo o alcol. Qui, è proprio il caso di dirlo, spesso il non rivolgersi a qualcuno dipende purtroppo dall’incapacità di capire che si ha effettivamente un problema. Si inizia con una piccola dose e si va aumentando senza quasi farci caso. Si ha l’errata convinzione di potersi fermare quando se ne ha voglia e, per questi motivi, si tende a non capire la situazione nella quale ci si trova. Purtroppo però, una dipendenza resta tale fin quando non viene curata e per farlo è indispensabile rivolgersi ad un esperto, in grado di comprendere il perché questa si è innescata (perché c’è sempre un motivo) e come risolvere il problema, andando a lavorare su dei punti che spesso possono essere dolorosi. Se è vero che riconoscere una dipendenza è difficile è altresì vero che ci sono dei campanelli d’allarme in grado di aprire gli occhi. L’ansia o il nervosismo nel sentirsi dire che si ha una dipendenza da qualcosa, l’effettiva incapacità (nonostante si pensi il contrario) di fermarsi per più di due o tre giorni. Reazioni violente, psicosi e attacchi d’ira immotivati sono i sintomi di chi è già molto avanti con il problema. Attraverso un’attenta analisi è però possibile imparare a riconoscerlo ed è proprio questo il momento giusto per chiedere aiuto.

Soffrire di un Dca. Si tratta di disturbi legati all’alimentazione. I più conosciuti sono l’anoressia e la bulimia ma in mezzo c’è tutto un mondo di varianti che la gente tende a non vedere o che, più semplicemente, non conosce. Molto spesso, infatti, chi soffre di questi problemi appare esteriormente come gli altri. Certo, nelle fasi estreme il problema è spesso sotto gli occhi di tutti per via dell’eccessiva magrezza. Prima di arrivare a ciò, però, può volerci diverso tempo così come potrebbe non accadere mai. In ogni caso va preso in considerazione che qualsiasi ossessione o dipendenza dal cibo rappresenta in qualche modo un problema che prima viene affrontato e risolto e prima consente a chi ne soffre di tornare a vivere serenamente.

Attacchi di panico incontrollabili. Spesso iniziano come crisi d’ansia, magari in una situazione così stressante che essere ansiosi è considerata una cosa normale. Poi, però, proseguono e si ripresentano con maggior frequenza sfociando magari in veri e propri attacchi di panico. In quei momenti ci si sente soffocare, si pensa di poter morire da un momento all’altro ed anche la più piccola cosa appare come un problema insormontabile. Ci si sveglia in piena notte con il cuore a mille oppure ci si sente improvvisamente sul punto di svenire proprio quando si è tra la gente e non si sa come chiedere aiuto o come risolvere il problema. Queste situazioni che, per chi le vive, sono più gravi di quanto si possa pensare, andrebbero sempre discusse con un terapeuta. Spesso, infatti, gli attacchi di panico possono sorgere per un problema che non si riesce ad affrontare e che, alle volte, non si sa neppure di avere. In questi casi solo un terapeuta può aiutare a trovare la giusta chiave di lettura, insegnando al contempo anche alcuni metodi di rilassamento che consentano di riappropriarsi pian piano della propria vita.

Ovviamente, queste sono solo alcune delle situazioni nelle quali rivolgersi ad un terapeuta potrebbe rendere la vita sicuramente migliore. Altre possono essere fobie immotivate, varie forme di autolesionismo, problemi in famiglia o con il proprio partner, mancanza di comunicazione con i figli, eccessiva mancanza di autostima, eccessiva timidezza, insonnia continua, eccessiva mancanza di autostima che non si riesce ad acquistare in nessun modo, paura di affrontare il domani, etc…
Una lista davvero infinita ed il cui comune denominatore è una qualità della vita che peggiora di giorno in giorno, rendendo sempre più impossibile anche la sola idea di riuscire ad essere nuovamente felici. È bene ricordare, quindi, che cercare un parere esterno anche alla prima avvisaglia di un problema come quelli elencati in questo articolo è solo segno di maturità e di carattere. Requisiti indispensabili se si desidera affrontare e superare al meglio ogni possibile futura calamità che la vita può porre sul nostro cammino.

Dal Sito: chedonna.it

Assertività: perché non riusciamo a “dire no”? Perché a volte reagiamo con rabbia ad una richiesta? Perché temiamo di chiedere chiarimenti?

Cosa significa essere assertivi? Riusciamo ad esserlo nello stesso modo in tutti i contesti? Cosa centra l'assertività con l'autostima?

L’assertività è la competenza del “saper dire di no” e del “saper far valere i propri diritti”. Ci facilita la vita al lavoro, in famiglia, nelle relazioni amicali. Perché allora può essere difficile usarla?

Comportarsi in modo assertivo significa posizionarsi a metà su una linea immaginaria: ad un estremo troviamo l’aggressività, al polo opposto la passività (o remissività). Il comportamento assertivo è tipico della persona che rispetta i diritti propri e quelli altrui, non permette agli altri di essere aggressivi, non li subisce, non esige che gli altri modifichino le loro opinioni, non giudica gli altri, decide per se stessa e non si assume responsabilità che non le competono.
Il comportamento aggressivoè tipico di chi per perseguire la propria gratificazione si afferma con violenza, minimizzando, calpestando o disconoscendo il valore altrui. Così facendo non considera i punti di vista diversi dal proprio e pensa di non essere mai nel torto. L’aggressivo attribuisce i  fallimenti alle circostanze o agli altri; svaluta l’altro, si mostra rigido sulle sue posizioni.
Talvolta, una reazione aggressiva e densa di rabbiapuò essere un malriuscito tentativo di non farsi mettere i piedi in testa, se tendiamo a comportarci solitamente da remissivi.

Una condotta passiva invece porta la persona ad arrendersi al volere altrui ed a reprimere i propri desideri, compiendo le proprie scelte comportamentali alla ricerca del compiacimento altrui. La risposta risulta essere inadeguata poiché generata da frustrazione, insicurezza, senso di colpa, ansia.

Tale comportamento può essere mantenuto da un dialogo interno disfunzionale che incide sulla paura di irritare gli altri, sulla paura di essere rifiutati o sul sentirsi responsabili dei sentimenti altrui, fino ad ipotizzarsi responsabili delle sofferenze altrui per aver ferito l’interlocutore con le proprie parole, non aver ricambiato i sentimenti o aver disatteso le sue aspettative, pervenendo difficilmente alle cause della sofferenza nel comportamento altrui.

Assertività: è più facile in coppia, al lavoro o in famiglia?

Ognuno di noi riesce ad essere assertivo in modo diverso nelle diverse aree della sua vita: c’è chi non riesce a rispondere bene alla suocera, c’è chi non riesce a gestire richieste e comunicazioni scomode con i figli. Comportarsi in modo assertivo è una conseguenza ed un indice dello stile di comunicativo, ma anche del tipo di rapporto in cui ci troviamo, compreso quello di coppia: quando uno dei 2 “dice sempre si”, si adegua ai desideri e gusti dell’altro quasi come i suoi non esistessero, forse ci troviamo di fronte ad un rapporto di dipendenza affettiva.

Talvolta essere assertivi significa anche confrontarsi e discutere partendo da opinioni diverse. Alcuni di noi ne hanno paura, come chi in famiglia tende a “colludere” ovvero inganna se stesso e gli altri incarnando delle fantasie che non corrispondono alla realtà e ricoprendo un ruolo fisso, in cui si resta però intrappolati. Non c’è quindi possibilità di esprimere se stessi, nè di cambiare idea; non ci si pone in maniera chiara nei confronti dell’altro: in una parola, ci si comporta in modo anassertivo: non ha e non da fiducia.

Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, alcuni recenti studi mostrano come stili comunicativi rispettosi siano alla base dei rapporti che intratteniamo al lavoro; se gli stili comunicativi sono aggressivi o oltraggiosi, ci sta male anche chi assiste, pur non essendo coinvolto in prima persona e specialmente se donna.

Assertività fa rima con.. autostima!

Abbiamo visto come e dove possiamo esprimerci in modo assertivo, ma da cosa dipende il nostro livello di assertività? Quali componenti la influenzano o vengono influenzate da essa? Il livello di autostimasembra essere direttamente proporzionale al livello di assertività che si riesce a mettere in gioco nei confronti degli attori sociali con i quali ci si relaziona. Essere capaci di dar valore ai propri bisogni ed esprimerli in maniera adeguata senza lasciarsi invadere dalle necessità e dalle opinioni dell’altro o senza il bisogno di imporli a tutti i costi, ci permette di percepirci come persone consapevoli e integre, piene di valore e centratura.

Di seguito, alcuni esempi tratti dal cinema di comportamenti assertivi, passivi e aggressivi.

SINCERITA’, FIDUCIA E ASSERTIVITA’ – WILL SMISTH IN “LA RICERCA DELLA FELICITA'”

INSICUREZZA E PASSIVITA’ – HUGH GRANT IN “4 MATRIMONI E UN FUNERALE”

RABBIA E AGGRESSIVITA’ – LEONARDO DI CAPRIO IN “REVOLUTIONARY ROAD”

Dal Sito: stateofmind

Disturbo di Depersonalizzazione


Disturbi dissociativi

I disturbi dissociativi sono caratterizzati da uno sconvolgimento e/o discontinuità nella normale integrazione di coscienza, memoria, identità, emozione, percezione, rappresentazione del corpo e comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico e sono vissuti come una intrusione nella consapevolezza e nel comportamento, con perdita di continuità nell’esperienza soggettiva (sintomi positivi) e/o impossibilità di accedere alle informazioni o controllare le funzioni mentali che normalmente sono facilmente suscettibili di accesso o controllo (sintomi negativi).

Comprendono:

il disturbo dissociativo di personalità;

l’amnesia dissociativa;

il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione;

il disturbo dissociativo non specificato.

Si ipotizza che l’attaccamento disorganizzato costituisca l’esperienza primaria che determina la predisposizione alla dissociazione e quindi a modelli cognitivi multipli del sè, con una sensazione di minaccia costante al senso di continuità, unità ed identità della coscienza, che caratterizza in genere lo sviluppo della personalità.

Nel DSM-5 i disturbi dissociativi sono posti accanto ai disturbi da Trauma, il che riflette la stretta relazione tra queste classi diagnostiche. I disturbi dissociativi, infatti, sono frequentemente successivi a traumi e molti dei sintomi, tra l’imbarazzo e la confusione o il desiderio per nasconderli, sono influenzati dalla vicinanza al trauma.

Disturbo di Depersonalizzazione/Derealizzazione

 Che cos’è?

Le caratteristiche essenziali del disturbo depersonalizzazione/derealizzazione sono persistenti o ricorrenti episodi di depersonalizzazione, derealizzazione, o entrambi.

Il disturbo da Depersonalizzazione è definito come un’esperienza persistente o ricorrente di sentirsi distaccato o di sentirsi un osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo (sentirsi come in un sogno). L’individuo può sentirsi distaccato da tutto il suo essere (“io sono nessuno”, “io non ho sé”); o può sentirsi staccato da aspetti di sé (ad esempio dai sentimenti “so di avere sentimenti, ma io non li sento”; dai pensieri “i miei pensieri non li sento come miei”; dal corpo o da parti di esso); o da sensazioni come il tatto, la fame, la sete, la libido. Può essere presente anche un ridotto senso di agency vissuta come una sensazione di robotica, come un automa privo di controllo dei propri movimenti. Il soggetto ha la sensazione di non essere nel pieno controllo delle proprie azioni, anche per quel che riguarda il parlare, e spesso l’esperienza di depersonalizzazione è accompagnata da considerevole ansia secondaria con il timore che queste esperienze possano significare che sono “matti” per cui hanno spesso difficoltà nel descrivere i sintomi.

Insieme alla depersonalizzazione può manifestarsi anche la Derealizzazione, ossia la sensazione che il mondo esterno sia strano o irreale. Il soggetto può percepire una alterazione strana e perturbante della misura o della forma degli oggetti, e le persone possono apparire non familiari o meccanizzate così da perdere il senso della realtà del mondo esterno. Può succedere di avere la sensazione che l’ambiente circostante sembri irreale: che il posto di lavoro non sia familiare o che gli amici o i parenti sembrino estranei. La Derealizzazione è spesso accompagnata da distorsioni visive soggettive come la sfocatura o il campo visivo ristretto o alterazione della distanza o delle dimensioni di oggetti (ad esempio macropsia o micropsia).

Le esperienze di depersonalizzazione o derealizzazione non si manifestano esclusivamente nel corso di un altro disturbo mentale, come schizofrenia, disturbo di panico, disturbo acuto da stress, oppure un altro disturbo dissociativo, e non sono dovute agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es. abuso di droga o di un medicinale), oppure a una condizione medica generale (epilessia del lobo temporale).

Altre manifestazioni frequentemente associate comprendono: sintomi d’ansia, sintomi depressivi, ruminazione ossessiva, preoccupazioni somatiche, e alterazione del senso del tempo. Depersonalizzazione e derealizzazione si annoverano molto frequentemente tra i sintomi degli attacchi di panico.

Come si manifesta?

Gli individui con disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione possono avere difficoltà a descrivere i loro sintomi e possono pensare di essere “pazzi” o di “impazzire”. Altra esperienza comune è il timore di avere danni cerebrali irreversibili. Un sintomo comunemente associato è un alterato senso del tempo (sembra troppo veloce o troppo lento), nonché una difficoltà a ricordare in maniera vivida cose del passato. A livello somatico possono manifestarsi sintomi come: sensazione di avere la testa piena, formicolio, o vertigini. Sono comuni sintomi ansiosi e depressivi.

Gli individui possono presentare ruminazione o preoccupazione ossessiva (ad esempio, essere costantemente ossessionati da domande circa la loro esistenza, o dal controllare le loro percezioni).

L’età media di insorgenza del disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione è 16 anni, anche se può iniziare anche durante l’infanzia.

Gli episodi di depersonalizzazione/derealizzazione possono variare notevolmente in durata: da brevi (ore o giorni) a prolungati (settimane, mesi o anni).

 Come riconoscerlo?

Spesso l’esperienza di depersonalizzazione è accompagnata da attacchi di panico ed è seguita da sviluppo di comportamenti fobici di evitamento (agorafobia). A causa del temuto ripetersi della esperienza di depersonalizzazione (equiparata dai pazienti in genere a perdita di controllo e minaccia di impazzire) questi pazienti sviluppano ansia generalizzata e/o comportamenti di evitamento della solitudine e dei luoghi ove avevano sperimentato la depersonalizzazione. Spesso il paziente si presenta al clinico descrivendo il comportamento fobico e l’attacco di panico come i soli disturbi per cui chiede cura, e trascura del tutto di riferire sulla depersonalizzazione. In presenza di affermazioni, fatte da un paziente ansioso o spaventato, come “mi va via la testa”, “mi sento distaccato da me stesso”, “mi sento un automa”, “mi sembra di uscire da me stesso e di osservarmi dall’esterno”, il clinico si chiede se tale esperienza di minacciata perdita della continuità del senso di identità personale preceda o segua la crisi di ansia: non è raro accorgersi che la depersonalizzazione precede immediatamente e motiva l’allarme del paziente, piuttosto che essere la conseguenza di un attacco di panico. Essendo la depersonalizzazione in questi casi temporalmente antecedente anche se di pochi secondi all’ansia e al panico, la diagnosi di disturbo dissociativo da depersonalizzazione sembra più appropriata.

Cause

Vi è una chiara associazione tra il disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione e la presenza di traumi nell’infanzia, anche se non è così preminente come in altri disturbi dissociativi, come il disturbo dissociativo dell’identità. In particolare sono stati più frequentemente associati l’eccesso emozionale e la trascuratezza emotiva.

Altri fattori di stress possono includere: l’abuso fisico; l’essere stati testimoni di violenza domestica; essere cresciuti con un genitori affetto da malattia psichica; o la morte improvvisa o il suicidio di un familiare. I fattori più prossimi al manifestarsi del disturbo sono: grave stress (interpersonale, finanziario, occupazionale); depressione e ansia (in particolare attacchi di panico); uso di droghe illecite (allucinogeni, ketamine, MDMA).

 Conseguenze

I sintomi causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altri settori importanti del funzionamento e possono essere rilevati dall’individuo stesso o osservati da altre persone (APA, 2013).

Trattamento

Il trattamento raccomandato per la cura dei Disturbi Dissociativi è la psicoterapia, con lo scopo principale di ricondurre il paziente verso un migliore funzionamento integrato. Il terapeuta promuove l’idea che tutte le identità alternative rappresentino tentativi di adattamento per far fronte o padroneggiare le difficoltà incontrate dal paziente, e agisce aiutando le identità a conoscersi l’una con l’altra, accettandosi come parti legittime del sé e negoziando per risolvere i loro conflitti.

Oltre alla psicoterapia individuale, i pazienti possono beneficiare d’interventi specifici come la terapia dialettico-comportamentale DBT (Linehan, 1993a, 1993b), la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari (EMDR; Shapiro, 2001), la psicoterapia sensomotoria (Ogden et al., 2006), le terapie di gruppo.

La terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan è un trattamento ad orientamento cognitivo-comportamentale integrato che prevede il potenziamento di quelle abilità in cui il paziente risulta carente, in particolare la regolazione delle sue intense emozioni negative, e sembra essere particolarmente indicato per le persone che presentano atti autolesivi e suicidari. Il fondamento del trattamento è aiutare i pazienti a ridurre al minimo i comportamenti che sono pericolosi per sé o per gli altri o che li rendono vulnerabili alle vittimizzazioni da parte di altri. Tali condotte includono: comportamenti suicidari e parasuicidari, abuso di sostanze e alcool, relazioni violente, disordini dell’alimentazione, violenza o aggressioni e comportamenti ad alto rischio.

La desensibilizzazione e il ricondizionamento dei movimenti oculari (Eye Movement Desensitization and reprocessing, EMDR) risulta molto utile nel modificare le distorsioni nella rappresentazione del sé, facilitando l’integrazione. L’EMDR permette al paziente di avvicinarsi al dolore in condizioni di sicurezza permettendo la temporanea disattivazione del sistema di attaccamento e la conseguente attivazione di un atteggiamento esplorativo.

La psicoterapia sensomotoria aiuta il paziente a recuperare la capacità di regolare quegli stati incontrollati del corpo che contribuiscono alla dissociazione.

In alcuni casi, per un tempo limitato, ad una terapia individuale si può affiancare la psicoterapia di gruppo al fine di aiutare il paziente a sviluppare competenze sul trauma, sulla dissociazione, assistere lo sviluppo di specifiche abilità (ad esempio, strategie di coping, abilità sociali, e la gestione dei sintomi), e permettere di capire che non è il solo ad avere a che fare con i sintomi dissociativi e le memorie traumatiche. I gruppi forniscono sostegno, la possibilità di focalizzarsi sullo sviluppo delle funzioni interpersonali e rinforzare gli obiettivi della terapia individuale. È fondamentale che questi gruppi siano a tempo limitato, ben strutturati e dichiaratamente focalizzati.

La farmacoterapia non rappresenta un trattamento di elezione in quanto non sono disponibili farmaci in grado di agire elettivamente sui sintomi dissociativi. Il ricorso alla terapia farmacologica è giustificato per ridurre la sintomatologia ansioso-depressiva, l’irritabilità, l’impulsività, l’insonnia, con il fine di raggiungere una stabilizzazione emotiva. Tra i più utilizzati: farmaci antidepressivi SSRI, più spesso utilizzati per trattare i sintomi depressivi e/o sintomi del disturbo post-traumatico da stress; gli ansiolitici utilizzati principalmente come approccio a breve termine per trattare l’ansia; i neurolettici o i farmaci antipsicotici, in particolare i nuovi antipsicotici atipici sono stati usati in dosi relativamente basse per trattare con successo l’iperattivazione, la disorganizzazione del pensiero, i sintomi intrusivi del PTSD, così come l’ansia cronica, l’insonnia e l’irritabilità.

Possono rendersi necessari ricoveri psichiatrici per aiutare i pazienti in periodi particolarmente difficili.

 Il trattamento cognitivo-comportamentale

La terapia cognitivo-comportamentale risulta il trattamento privilegiato per aiutare i pazienti ad esplorare e modificare il sistema di credenze disfunzionali basate sul trauma subito ed a padroneggiare le esperienze stressanti e i comportamenti impulsivi. Le tecniche cognitivo-comportamentali sono infatti particolarmente utili per il controllo di alcuni sintomi, quali: la gestione delle attivazioni ansiose e delle crisi di ira, la ristrutturazione dei pensieri negativi, il miglioramento della comunicazione interpersonale.

Obiettivo del trattamento è un funzionamento maggiormente integrato, attraverso il lavoro sui processi mentali dissociati. Nell’ottica della terapia cognitiva-evoluzionista, si concorda ormai nell’affermare che i disturbi correlati a traumi complessi, tra cui i disturbi dissociativi, sono trattati più appropriatamente in sequenze di fasi. La struttura più comune nel campo è costituita da tre fasi.

Nella prima fase la priorità è la sicurezza, la stabilizzazione ed il rafforzamento del paziente, in vista del lavoro di elaborazione del materiale traumatico e di gestione delle personalità problematiche. Gli obiettivi includono il mantenimento della sicurezza personale, il controllo dei sintomi, la modulazione degli affetti, la tolleranza dello stress, il miglioramento delle funzioni vitali basilari e lo sviluppo delle capacità relazionali. Si ricorre spesso alla psicoeducazione, consigliando al paziente letture specifiche, fornendo informazioni e spiegazioni con lo scopo di “normalizzare” la sua esperienza. La relazione terapeutica diventa il terreno di esperienze emozionali correttive del sistema di attaccamento e di esperienza di nuove forme collaborative e paritetiche di relazione interpersonale.

Nella seconda fase il paziente viene aiutato a elaborare gli episodi dolorosi del suo passato, e a sostenere il dolore per le perdite e le altre conseguenze negative del trauma. Il lavoro di questa fase è ricordare, tollerare, elaborare ed integrare gli intensi eventi passati pianificando strategie per mantenere il controllo sul materiale traumatico emergente. L’esplorazione e l’integrazione dei ricordi traumatici può essere definita come una forma di terapia di esposizione che permette al paziente di trasformare i ricordi traumatici al fine di integrare le personalità o ottenere una interazione tra esse. I processi della seconda fase permettono di comprendere che le esperienze traumatiche appartengono al passato, di capire il loro impatto sulla propria vita, di sviluppare una più completa e coerente storia personale e senso del sé. A tal fine vengono utilizzate: la ristrutturazione cognitiva delle esperienze traumatiche e il riconoscimento delle risposte di adattamento che il paziente ha avuto durante quelle esperienze con il fine di contrastare la colpa irrazionale e la vergogna.

Nella terza fase i pazienti iniziano a fare esperienza di un senso del sé stabile e solido e di nuove sensazioni su come relazionarsi con gli altri e con il mondo esterno. Acquistano un senso di coerenza della propria storia che risulta essere anche collegato con i problemi che devono affrontare nel presente, iniziano a distogliere l’attenzione dal loro passato traumatico, direzionando la propria energia sul vivere il presente e sviluppare prospettive future.

Dal Sito: terzocentro.it

Trauma psicologico: una cicatrice indelebile che condiziona la personalità


Il trauma psicologico può lasciare ferite indelebili che difficilmente si rimarginano, creando così dei segni indelebili che si cronicizzano fino a compromettere la vita delle persone.
Il trauma psicologico è scaturito da un evento traumatico che colpisce l’individio che lo ha vissuto. L’evento traumatico può essere singolo o ripetuto più volte nel tempo. Una conseguenza connessa allo shock causato dal trauma, è che la mente umana non riesce ad eleborare e metabolizzare l’accaduto.

Questo spiega perché il “trauma” si fissi in qualche modo nella mente del soggetto in modo permanente. Con il passare del tempo, senza un’adeguata terapia l’individuo può mostrare dei forti cambiamenti nella personalità.

Il trauma non assume mai uguale significato per le persone. Tutti durante il corso della vita possono sviluppare a seguito di alcuni eventi una situazione traumatica, ma è una dimensione prettamente soggettiva. Ciò che è traumatico per una persona non è detto lo sia per un altro.

I sintomi dopo un trauma psicologico

I primi indizi che definiscono una sindrome da trauma psicologico, emergono quando l’attenzione del soggetto inizia a scarseggiare, in quanto i suoi pensieri vengono distratti da flashback continui dell’evento traumatico. Ma è in particolare nella trama della coscienza che avvengono i sintonimi dissociativi, che diventano pericolosi per il soggetto in quanto generano una frammentazione nella personalità dell’individuo, riflettondosi anche nel modo di vivere.

Come spiega il psicoterapeuta Onno Van Der Hart, nella sua opera Fantasmi del sé, a seguito di traumi: “ogni indizio che richiami alla memoria il trauma, diverrà un potenziale innesco delle emozioni sperimentate in luogo del trauma vissuto“. La vita del soggetto si modella quindi cercando di fuggire dai situazioni che potrebbe innescare l’evento traumatico, si metteranno quindi in atto evitamenti di: atmosfere, persone, luoghi e situazioni. Ma nello stesso tempo verranno effettuate anche situazioni interiori come pensieri, eventi mentali, ricordi.

Molte persone manifestano un trama psicologico a seguito cure in ospedale, chemioterapie, superamento del cancro e altre situazioni difficili. Il disturbo post traumatico da stress si manifesta spesso con attacchi di panico, con pensieri ossessivi, sogni ed incubi. Per parlare del disturbo post traumatico bisogna che i disturbi si manifestino almeno per un mese, interferendo nella vita quotidiana delle persone.

Le cure per superare eventi traumatici

La cura dei soggetti colpiti da eventi traumatici deve prevedere un approccio integrato, ovvero “l’aiuto” e un percorso svolto da psicoterapeuta e psichiatra. Ma come ormai si evidenzia da alcuni anni, importante è anche una cura che parta e attraversi il corpo; ecco perché si ritengono estremamente importanti yoga, attività aerobica, mindfluness, meditazione e psicoterapia sensomotoria. Per queste discipline curare il corpo vuol dire arrivare a curare la mente.

Dal Sito: news.fidelityhouse.eu

venerdì 23 marzo 2018

Psicologo E Paziente, Il Meccanismo Del Transfert


…Ogni volta che trattiamo un nevrotico con il metodo psicoanalitico, si verifica nel paziente il cosiddetto fenomeno del Transfert : egli riversa cioè sulla persona del medico una notevole aliquota di tenerezza e affetto, spesso frammista a ostilità, che non è basata su alcun reale rapporto, ma che si deve far risalire, sotto tutti gli aspetti, alle antiche fantasie di desiderio del paziente divenute inconsce. Di conseguenza ogni frammento della sua vita affettiva, che non può più essere mnesticamente rievocato, è vissuto dal paziente nel suo rapporto col medico, ed è soltanto perché ritorna a riviverle nel “transfert”, che egli si convince dell’esistenza e della forza di tali eccitazioni sessuali inconsce.
… Il transfert insorge spontaneamente in tutte le relazioni umane , e quindi in quelle tra paziente e medico; esso apporta dovunque, in modo peculiare, influssi terapeutici; e tanto più intensa è la sua azione quanto meno se ne riconosce la presenza. E dunque non è la psicoanalisi a crearlo : essa si limita a svelarlo alla coscienza e se ne avvale per guidare i processi psichici alla meta voluta.
(Quinta conferenza sulla Psicoanali, 1909 – S. Freud).

Come teoria generale della psiche, la psicoanalisi  poggia su alcune nozioni fondamentali, tra cui: inconscio, rimozione, conflitto e pulsione. I fenomeni psichici sono considerati come risultanti da un conflitto di forze contrastanti: il conflitto nevrotico presuppone la rimozione, che consiste nell’espellere esperienze dolorose o vergognose dalla coscienza istituendo l’inconscio come campo separato.
La seduta con lo psicologo consiste nella regola della libera associazione con la quale lo psicologo richiede al paziente di lasciarsi andare al fluire delle idee che gli vengono in mente, le libere associazioni per l’appunto; e allo psicologo di prestare attenzione non concentrata su particolari (“attenzione fluttuante”). Attraverso questo lavoro, il terapeuta – che, in genere, interviene poco – cerca di riportare alla luce della coscienza i valori reali e le motivazioni profonde che determinano inconsapevolmente le azioni del paziente.

Le esperienze traumatiche che sono all’origine della sofferenza psichica rivivono nel rapporto paziente-psicologo: è questo il meccanismo del transfert (“traslazione”), ossia il bisogno del paziente di proiettare sull’analista i propri sentimenti di amore e di odio nei confronti di altre persone che rappresentano per lo più una ripetizione di prototipi infantili. Grazie al transfert il terapeuta riesce a capire la struttura della nevrosi del paziente, e questi, attraverso l’aiuto dell’interpretazione terapeutica, riesce a rendersi conto delle proprie pulsioni censurate e dei propri meccanismi di difesa, arrivando infine a organizzare una nuova identità che equivale al superamento della nevrosi. Essenziale nella terapia psicoanalitica è la ricerca di un atteggiamento di neutralità e di distacco clinico dell’analista nei confronti del paziente.

La psicanalisi è una esperienza terapeutica che può durare anche diversi anni. Di solito è caratterizzata da una alta frequenza delle sedute, in media una a settimana. La seduta è di regola di circa 45-50 minuti.

Psicoanalisi: per chi e per quali problematiche
La psicoanalisi interviene con efficacia e si è dimostrata l’intervento elettivo nelle varie forme di nevrosi ( di conversione, d’angoscia, e nevrosi ossessiva) e con i corrispondenti disturbi di carattere.
La psicoanalisi non si rivolge comunque solo ai “malati” o a determinate forme di disagio psichico, perché è prima di tutto un potente mezzo di investigazione. Per questa ragione può rivelarsi molto utile o indispensabile come strumento anche per la formazione di persone impegnate in professioni sociali o che devono occuparsi degli altri (professori, insegnati, psicologi, studenti di medicina, assistenti sociali, ecc.).
Il paziente “ideale della psicoanalisi non crede che basti “prendere coscienza” di un problema per avere la meglio sui meccanismi inconsci che lo hanno generato, ha forte volontà e capacità di lavorare sul proprio sé e non ha particolare fretta di conseguire risultati terapeutici (lo stesso Freud consigliava di ricorrere in prima istanza ad altri trattamenti più brevi e semplici).

Dal Sito: giacinto.org

Anche I Buoni Hanno Il Diritto Di Dire “Basta”


Molto spesso la bontà delle persone viene scambiata per mancanza di carattere, assenza di personalità. Associare gente disponibile ed educata ad un contenitore vuoto, o peggio ad uno “zerbino emotivo” è davvero una cosa orribile ma accade e anche molto spesso.
Quante volte vi siete sentiti in difficoltà nel dire “basta” o non siete riusciti a dire di “no” alle richieste degli altri? Scopriamo in questo articolo come imparare a rifiutare le richieste altrui, poiché anche i buoni hanno il diritto di dire basta!

Quando essere accondiscendenti diventa un problema?

Non riuscire a dire di “no” alle richieste degli altri è un’abitudine molto comune ma quando è che ci si deve realmente preoccupare?

Il problema nasce nel momento in cui si agisce facendo l’esatto opposto di ciò che si pensa. Eccovi un piccolo esempio, facciamo finta che un’amica vi chieda un banale favore:

Richiesta: “Sabato mi accompagneresti all’aeroporto?”

Risposta mentale: “Assolutamente no non posso, sabato volevo andare a fare delle commissioni urgenti che rimando da tempo, poi ci sarà traffico, in più potrebbe chiedere tranquillamente a qualcun altro che non ha impegni”

Risposta reale: “Si, certo che ti accompagno, a che ora?”.

È importante ricorrere a rimedi nel momento in cui, alle richieste di chi ci circonda, la nostra reazione reale discosta totalmente da ciò che pensiamo. In quel caso reprimiamo ciò che siamo. Ovviamente è d’obbligo un po’ di buon senso (può capitare a tutti acconsentire anche quando non si ha tanta voglia, il problema nasce quando le reazioni reali discostano praticamente sempre dalla propria volontà).

Perché dico sempre si?

Le ragioni psicologiche che ti inibiscono

Rispondere a tutto con un “si” nasconde generalmente un bisogno profondo di accettazione; anche se, in realtà, sono due i motivi principali che ci spingono ad essere accondiscendenti.

Si ha paura di non piacere agli altri.

Si temono le conseguenze legate ad un eventuale “basta”.

Inoltre, alcuni studi neuro-scientifici hanno messo in evidenza che il cervelloumano appare maggiormente reattivo nel momento in cui recepisce informazioni negative. I ricordi negativi infatti appaiono più imprimentipoiché svolgono una funzione di apprendimento (il cervello memorizza tali ricordi in maniera più nitida per proteggersi, per evitare di incorrere nel futuro in situazioni simili).

Cosa significa dire “basta”

Dire “basta” talvolta diventa necessario, un vero e proprio bisogno. Trovare la fermezza per dire di “no” vuol dire mostrarsi per ciò che si è, togliere la maschera facendo vedere in tal modo il proprio vero io. Alimentare un rapporto basandosi sulle bugie e sulla mera sopportazione non è mai positivo e può generare tutta una serie di problematiche.
Avere un’opinione diversa rispetto a chi ci sta vicino non significa scatenare un putiferio, è del tutto normale! Dicendo “basta” vengono messi in evidenza i propri differenti punti di vista ma non per questo si mette in discussione un intero rapporto! Spesso infatti vi è una concezione fittizia delle conseguenze legate a un eventuale rifiuto ad una richiesta, queste vengono sovrastimate perchè non crediamo abbastanza in noi stessi.

Dal Sito: giacinto.org

Non Pensare Troppo: Come Imparare A Non Rimuginare

Chi non ha mai provato la sgradevole sensazione di avere dei pensieri martellanti che si ripetono incessantemente nella testa? Alcuni restano li per giorni, arrivando a provocare forti mal di testa, mettendoci di cattivo umore e minando pesantemente la nostra efficacia.

Il problema è che meno desideriamo pensare a queste cose e più questi pensieri si ripetono. Infatti, è stato dimostrato che combattere il pensiero ruminativo è inutile. In una occasione, realizzando un esperimento di psicologia classica, fu chiesto ad un gruppo di persone di non pensare troppo ad un orso bianco. Come risultato, l’orso bianco diventò per loro il pensiero ricorrente.

Perché accade questo?

Innanzitutto, perché quando desideriamo smettere di pensare a qualcosa si genera automaticamente un meccanismo di supervisione. Immaginate di avere creato un’immagine mentale di un poliziotto che deve catturare l’orso bianco. Questa immagine contribuirà a mantenere nella vostra mente l’idea dell’orso bianco, che è precisamente quella che volete eliminare.

Il desiderio intenso di bloccare un pensiero ha quasi sempre l’effetto contrario: lo rafforza.

Fortunatamente c’è una soluzione:

Accetta il pensiero. Può sembrare una contraddizione, ma nel momento in cui si accettano i pensieri negativi e ruminativi, questi perdono gran parte dell’impatto emotivo che hanno su di voi. Basta accettare che sono lì e non reagire ad essi.

Cerca una soluzione. I pensieri ruminativi appaiono quasi sempre come risultato di una questione irrisolta. Riesci a risolvere questo problema immediatamente? Hai a disposizione tutti i dati necessari per prendere una decisione al riguardo? Se è così, questa è la soluzione migliore per fare sì che i pensieri ripetitivi non tornino di nuovo.

Accetta il dubbio e l’incertezza. A volte non siamo in grado di prendere una decisione, sia perché non dipende da noi, o perché non disponiamo di tutti i dati di cui abbiamo bisogno. In questo caso basta ripeterci: “Accetto l’incertezza che questi pensieri mi trasmettono“. Ripetilo più volte fino a che i dubbi non ti risultano fastidiosi. In realtà, questo è un buon esercizio mentale per aiutarci ad affrontare molti altri problemi della vita quotidiana, perché imparare a vivere con l’incertezza è di vitale importanza al giorno d’oggi.

Una volta che sei riuscito a eliminare le emozioni negative relative a questi pensieri, è sufficiente che ora ti dedichi ad una attività che ti piace e che richieda uno sforzo cognitivo.

Dal sito: giacinto.org

venerdì 16 marzo 2018

Gli attacchi di panico 



Un attacco di panico è un episodio breve e intenso in cui si sperimenta ansia acuta, che insorge in modo improvviso con sintomi fisici e vissuti psicologici

Molte persone durante l’arco della loro vita hanno avuto modo di sperimentare un attacco di panico. L’attacco di panico dura una manciata di secondi, ma per chi lo subisce pare duri ore, perché la mente si offusca e le paure più profonde prendono il sopravvento.

La parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente del “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule all’accaduto, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata.

Allo stesso modo, un attacco di panico è un episodio di breve durata ma molto intenso in cui si vive una forte ansia acuta e improvvisa, accompagnata da una serie di sintomi fisici. L’attivazione fisiologica è interpretata, da chi si trova in questo stato, come qualcosa che ineluttabilmente porterà a conseguenze estreme, tipo morire o impazzire.

Sintomi dell’attacco di panico

I sintomi più comuni che coinvolgono il corpo, sono:

rossore al viso e talvolta all’area del petto;

capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi;

parestesie, più comunemente rappresentate da formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso;

difficoltà respiratoria, tecnicamente definita dispnea o soffocamento;

aumento della sudorazione oppure brividi, legati a repentini cambiamenti della temperatura corporea e della pressione;

nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali;

tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace;

tremori o scatti.

Inoltre, durante questa esperienza si possono avere le seguenti sensazioni:

paura di perdere il controllo;

paura di impazzire;

non appartenenza alla realtà, derealizzazione;

osservare dall’esterno cosa accade al proprio corpo, depersonalizzazione;

non gestione di qualcosa di terribile

paura o convinzione di stare sul punto di morire;

crisi di pianto.

Ogni crisi di panico crea un circolo vizioso in cui i sintomi fisici alimentano quelli mentali e viceversa, paura della paura.

L’esperienza dell’attacco di panico è decisamente invalidante ed è uguale a quella sperimentata da una persona di fronte ad un reale pericolo. Sicuramente è una situazione molto intensa emotivamente e cognitivamente, dopo la quale si ha la percezione di essere molo deboli, stanchi e confusi.

Dopo aver subito il panico si vive nella costante paura possa tornare (paura della paura). Si tratta chiaramente di una trappola che mantiene la persona nella sensazione di panico.

Questa paura induce il soggetto a monitorare costantemente i segnali fisici, di conseguenza l’ansia cresce e la paura si auto-alimenta (circolo vizioso di mantenimento).

La prima cosa che si pensa quando si è colpiti dal panico è che sta per manifestarsi un grave problema organico, irrisolvibile, come un infarto fulminante o un ictus.

Per questo, all’attacco di panico seguono sempre accertamenti medici aventi lo scopo di individuare la causa del malessere vissuto. Se si trattasse di un problema legato alla sfera della salute sarebbe più facile da accettare piuttosto che percepire di avere qualcosa di psichico.

Di conseguenza, escludendo la causa fisica l’individuo rimane incredulo e spaventato perché non sapendo a cosa imputare quel terribile evento ha la percezione di essere vulnerabile e fragile.

In questo caso, è importante farsi aiutare da uno specialista che possa indurre la persona a sperimentare alternative ai pensieri scaturenti il panico, prima che tale patologia possa cronicizzarsi. Infatti, in casi estremi gli attacchi possono manifestarsi molto frequentemente, addirittura anche più di una volta al giorno.

Fonte: stateofmind.it







Depressione primaverile: quando la tristezza colpisce nel cambio di stagione



Loretta Goggi cantava “maledetta primavera” e per qualcuno è proprio così, perché questa stagione fa riaffiorare ansia e stati depressivi...

Sebbene la primavera sia la stagione della rinascita, la natura si risveglia, i colori del cielo e delle piante assumono sfumature che a parecchie persone infondono felicità, ci sono purtroppo anche moltissimi individui che in questo periodo dell'anno soffrono di Sad, ovvero disturbo affettivo stagionale che viene chiamato anche depressione primaverile.
Secondo alcune stime sono più di 3 milioni gli italiani che tra aprile e maggio presentano umore irritabile, stanchezza, insonnia e ansia.
Chi sono i soggetti più a rischio? Quali i sintomi ? E cosa fare per evitare che questo stato si cronicizzi diventando una vera e propria malattia?
Un cambiamento
Il passaggio dall'inverno alla primavera è per molte persone uno shock in quanto il nostro organismo deve adattarsi velocemente a diversi cambiamenti: le temperature spesso instabili, l'aumento delle ore di luce e il clima “ballerino”.
Inoltre, con il passaggio all'ora solare , aumenta la produzione di serotonina e melatonina, due ormoni che spesso aumentano insonnia e instabilità umorale.
Se l'organismo fatica ad adattarsi può svilupparsi una forma di depressione primaverile che in psichiatria viene chiamata Sad, Disturbo Affettivo Stagionale.

I sintomi 
Le persone che incorrono in questa forma di disordine dell'umore sono il più delle volte soggetti inclini agli stati ansiosi, hanno già sofferto di depressione nel passato o hanno una predisposizione genetico-familiare.
I sintomi principali della depressione primaverile sono ansia, insonnia, umore instabile, tristezza, agitazione, stanchezza, diminuzione di peso e scarso appetito, calo del desiderio sessuale.
Tutti possiamo avere uno o più di questi fenomeni sporadicamente ma è importante fare qualcosa se i disturbi perdurano per settimane.

Rimedi
In caso di depressione primaverile è importante rivolgersi al proprio medico per individuare la cura più adatta; talvolta bisogna ricorrere agli psicofarmaci, ma nella maggior parte delle situazioni sono sufficienti i rimedi naturali e una terapia comportamentale.
Se i sintomi sono lievi una corretta alimentazione a base di vitamine e sali minerali, e integratori come magnesio, ferro e vitamina C, aiutano a riequilibrare l'organismo.
Inoltre, come per molte altre forme ansioso-depressive, lo sport e le tecniche di meditazione e di respirazioneconsapevole hanno effetti positivi sull'umore.
Infine anche la fitoterapia e l'omeopatia possono essere benefici nel trattamento dei disturbi stagionali: la Maca è una pianta sudamericana utile per combattere la depressione primaverile perché ricca di aminoacidi essenziali e oligoelementi; il triptofano e la melatonina, aiutano a ripristinare il corretto ciclo sonno-veglia e l'erba di San Giovanni viene consigliata per le depressioni lievi. Infine la Rhodiola Rosea aiuta l'organismo ad adattarsi allo stress dei cambiamenti climatici ed ha effetti positivi anche sul desiderio sessuale.

Di Bianca Fracas PsicoSessuologa
Dal Sito: amando.it

Ansia anticipatoria, sapete cos’è e come vincerla?

L’ansia anticipatoria è quel senso di apprensione che viene al solo pensiero di dover affrontare una certa situazione futura. Può essere molto penalizzante, ecco perché è importante superarla.


L’ansia anticipatoria si presenta sotto forma di angoscia e paura all’idea di dover affrontare una situazione futura che per certi aspetti potrebbe essere rischiosa, spiacevole o in qualche modo disturbante.

L’ansia anticipatoria si presenta sotto forma di angoscia e paura all’idea di dover affrontare una situazione futura che per certi aspetti potrebbe essere rischiosa, spiacevole o in qualche modo disturbante.

Ansia anticipatoria, cos’è
Questa apprensione 
potrebbe condizionare al punto da inibire il soggetto che ne è colpito che potrebbe rinunciare a vivere la situazione che preoccupa e di rifiutare delle possibili occasioni, per la paura di riprovare nuovamente quella sensazione d’ansia provata in passato. Nei casi più gravi il soggetto cerca di evitare anche situazioni importanti per il suo lavoro o per la sua vita privata, arrivando a compromettere i rapporti sociali.
Uno degli effetti dell’ansia anticipatoria è infatti quello difuggire dalle situazioni che potrebbero provocare angoscia. Il continuare a pensare al futuro con timore, impedisce inoltre di vivere il presente serenamente.

Questo disturbo colpisce generalmente persone che soffrono di problemi d’ansia,attacchi di panico e tendenze fobiche.

Ansia anticipatoria, cos’è, come superarla
Il consiglio principale quando si è colpiti da ansia anticipatoria è di pensare a qualcosa di positivo odistrarsi ascoltando musica o facendo qualcosa che piace, invece di farsi travolgere dalle emozioni negative.

Molto importante in particolare non concentrarsi sui sintomi dell’ansia, come l’aumento del battito cardiaco o il respiro corto, spostando l’attenzione facendo  altro, ad esempio guardando un film comico, leggendo un libro o una rivista.

Un aiuto per calmare la tendenza ad essere ansiosi può venire dalla meditazione e dal training autogeno, che portano l’attenzione sulla respirazione e sul rilassamento. Anche tenere un diario in cui si riportano le sensazioni che si vivono circa un determinato evento futuro può essere utile a prendere consapevolezza e al tempo stesso le distanze dal disagio.

Chiedersi se questa paura è davvero giustificata, quali sono gli aspetti positivi della situazione che si teme e a cosa si va incontro se si rinuncia a una certa occasione, favorisce l’accettazione di quel che verrà.

Dal Sito: dilei.it 

giovedì 15 marzo 2018

Riflesso nell'acqua

Mi lascio trasportare dai pensieri come onde che si infrangono contro la riva.
Mi guardo riflessa nell'acqua e vedo una donna diversa, una donna più forte, ma mentre osservo bene, mi rendo conto che questa donna non è affatto diversa, sempre con quegli occhi che esprimono tutto ciò che non riescono a dire o forse, che dicono fin troppo, quella donna con difetti infiniti ma anche pregi forse da invidiare, i suoi occhi non piangono da molto tempo, la sua corazza è ben salda e guai a chi osa scalfirla. Tutto è ben racchiuso nel suo guscio di speranze, amore e quella voglia immensa di non smettere mai di sorridere.
Anche se le sue lacrime non scendono più, forse lì dentro a qualche angolino nel suo cuore, c'è un piccolo mondo racchiuso, pieno pronto ad esplodere e magari chissà, un giorno sarà proprio davanti a questo mare che la guarda in silenzio e ascolta tutti i suoi dolci e amari pensieri.
Eli ღ ღ ღ


mercoledì 14 marzo 2018

Ansia: trasformiamola in energia positiva


Lo stress non è solo nemico: purché non diventi eccessivo, possiamo utilizzarlo a nostro vantaggio
Hai una lista lunga così di cose da fare, oppure devi parlare a una riunione importante, o ancora stai per uscire per la prima volta con un lui che ti piace, ma le sue posizioni sono tutt’altro che chiare. Che ansia! Le situazioni che possono suscitare uno stato di stress sono numerosissime e variano da persona a persona, ma la sensazione è la stessa: un senso di agitazione generale, il cuore che martella nel petto e il respiro che si fa corto. Come reagire per far sì che la situazione non ci sfugga di mano e per trasformare l’ansia in energia positiva?

CHE COS’E’ L’ANSIA – Innanzi tutto bisogna sapere che l’ansia di per sé è uno stato fisiologico: è la risposta del nostro organismo a una situazione esterna potenzialmente difficile e pericolosa. Davanti a un evento o a una situazione che può costituire un pericolo, il cervello si attiva producendo cortisolo, l’ormone dello stress: il cuore accelera il battito, il respiro si fa più veloce, i sensi sono tutti all’erta per prepararsi all’azione. Si tratta di meccanismi atavici, predisposti dalla nostra specie per migliorare le proprie possibilità di sopravvivenza. Provare un certo livello di ansia, dunque, è in realtà un aiuto e uno stimolo ad agire con prontezza e al meglio delle nostre possibilità.

ANSIA O PAURA? – La differenza è fondamentale, anche se gli stati d’animo sono simili. Proviamo paura davanti a una minaccia evidente e non evitabile, legata a un fatto o a una situazione ben precisa: di solito scompare quando la minaccia si allontana. Ad esempio possiamo aver paura di un cane dall’aspetto aggressivo, oppure, come capita a molte persone, di volare in aeroplano. L’ansia si manifesta invece in situazioni più indeterminate, quando il pericolo è percepito in modo vago e per un evento che, semplicemente, è possibile che si verifichi. Si tratta di due stati emotivi che possono essere connessi tra loro: per tornare all’esempio del cane feroce, possiamo sentirci in ansia al momento di passeggiare per strada, anche se non ci sono cani in vista, perché potremmo sempre incontrarne uno.

LE CONTROMISURE - Per combattere la paura possiamo affrontare, con le dovute cautele, quello che ci spaventa e venire a patti con esso. Oppure, possiamo evitare il più possibile le occasioni in cui fronteggiare ciò che ci terrorizza. La natura stessa, in effetti, ha predisposto la fuga come reazione estrema di difesa. Per combattere l’ansia, invece, servono strategie più sottili, cominciando proprio con il convincersi che anche lo stress ha i suoi lati buoni e che può essere trasformato in energia positiva. Per riprendere il controllo quando l’ansia diventa eccessiva, la prima strategia è respirare “con la pancia”, cercando di utilizzare la parte profonda del torace e attivando il diaframma. Il battito cardiaco, piano piano si normalizzerà e la situazione ci sembrerà più sopportabile.

PARLA POSITIVO – Una strategia utile sta nell’attribuire un significato non minaccioso a una situazione che ci mette in ansia, attribuendole un’etichetta positiva anche a livello di linguaggio. Ad esempio: invece che “Ho un mucchio di cose da fare, non ce la farò mai!” possiamo dire: “Ho un mucchio di cose da fare. Non vedo l’ora di cominciare!”. Oppure: “Devo presentare io il progetto al capo durante la riunione: che ansia!” può trasformarsi così: “Ho lavorato tanto a questo progetto e ora lo presento al mio capo. Sarà fantastico!”. E prima di parlare in pubblico o di affrontare qualunque situazione in cui ci sentiamo esposti, proviamo ad esclamare: “Sono emozionato!” invece di “Che ansia!”. Dagli studi effettuati in laboratorio da Alison Wood Brooks, professore della Harvard Business School, emerge che si tratta di strategie efficaci che hanno migliorato le performance di chi le messe in atto. A forza di “parlare positivo” si arriva in pratica ad auto-convincerci che l’agitazione e l’ansia della vigilia di un’azione importante sono in realtà eccitazione, entusiasmo e impazienza di iniziare. I problemi, insomma, possono essere percepiti come opportunità.

PROCEDI A PICCOLI PASSI –Per combattere l’ansia la forza di volontà serve a poco. Molto meglio prendere atto della situazione e porsi una serie di traguardi intermedi, ignorando il quadro generale della situazione. Proponiamoci piccoli obiettivi raggiungibili, richiamando alla memoria tutte le volte in cui ce l’abbiamo fatta. E, se è possibile, cerchiamo la comprensione e la compagnia di altre persone come noi, perché l’unione fa la forza.

Dal Sito: www.tgcom24.mediaset.it 

lunedì 12 marzo 2018

Mal di primavera: cos’è e come prevenirlo

Il mal di primavera affligge ogni anno circa 2 milioni di italiani ed è legato all’arrivo della bella stagione. 

Ecco cos’è e come prevenirlo.


L’arrivo della bella stagione per circa 2 milioni di Italiani è sinonimo di mal di primavera. Proprio l’arrivo della primavera, infatti, si acuiscono problemi come ansia, stanchezza, spossatezza, insonnia, cambiamenti d’umore e irritabilità, cui si affiancano problemi legati ad una cattiva digestione (bruciore di stomaco, acidità, nausea, reflusso, pesantezza) e disturbi gastrointestinali (colite, colon irritabile). Come prevenire il mal di primavera e ritrovare il giusto equilibrio psico-fisico? Un ottimo aiuto può essere offerto da fitoterapia, terme e fiori di Bach, oltre che esercizi di respirazione che attivano e sviluppano la respirazione diaframmatico-pelvica, che agisce da carica energetica, fronteggiando stress e depressione. L’ideale è fare movimento, praticando, possibilmente, attività fisica all’aperto, per stimolare endorfine che migliorano il tono dell’umore, tenendo a bada stress e ansia.
E’ consigliabile dedicare più tempo a se stessi, alla cura del corpo e alle proprie passioni, senza mai trascurare eventuali indizi di malessere, né l’esigenza di sonno e riposo. Se si è certi di avere un’alimentazione inadeguata, ben vengano gli integratori di vitamine e sali minerali, così come ginseng e pappa reale per fornire il giusto apporto energetico, ginkgo bilobla per la circolazione cerebrale e la concentrazione. Occorre, inoltre, alternare momenti di lavoro a quelli di pausa, riposando almeno mezzora ogni due ore di lavoro; e adottare un regime alimentare equilibrato, senza mai saltare i pasti, ma, piuttosto, facendo pasti leggeri ma frequenti, bandendo le diete drastiche in quanto, con un po di forza di volontà, usufrendo dei mesi ancora a disposizione, è possibile arrivare in perfetta forma alla fatidica prova costume
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venerdì 9 marzo 2018

“La mia vita tra depressione e medicine”. 


La dura confessione del cantante italiano, amatissimo soprattutto dai più giovani, che parla dei quei momenti difficili lontano dai riflettori.
Le sue parole

Uno dei rapper del momento nel panorama italiano, tra gli artisti che meglio di tutti hanno saputo imporsi a suon di strofe in rima e allargare il numero di fan che lo seguono con passione. Parliamo di Ghemon, nome d'arte di Giovanni Luca Picariello, classe 1982, molto popolare in rete grazie a hit come Bellissimo o Un Temporale.Un artista che in concomitanza dell'uscita nelle librerie della sua autobiografia "Io sono. Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle", in vendita a partire dall'8 marzo, ha scelto di raccontarsi in un'intervista concessa alla testata Vanity Fair, dove non ha nascosto le difficoltà incontrate lungo il suo percorso. "Questo libro non è un prontuario, è una condivisione. Vorrei che chi lo leggesse dicesse: Sono le stesse cose che ho vissuto io, e lui è riuscito a scriverle". Ghemon si è definito un "transgender musicale" per le sue canzoni che fondono in realtà all'interno tanti generi e tante influenze diverse. In Mezzanotte, suo ultimo disco, ha cantato degli attacchi di panico e della depressione.
Proprio alla parte più intima di sé Ghemon ha dedicato una parte molto corposa della propria autobiografia. "Per tre mesi mi son svegliato tutti i giorni con l'ansia di non scrivere abbastanza: un giorno la ragazza che faceva l'editing mi ha chiamato urlando: sono già trecento pagine, basta!". Tante pagine in cui Ghemon parla della sua lotta alla depressione e del lavoro fatto su sé stesso negli anni: "Chi è depresso soffre il doppio, perché è una malattia che non si può "dimostrare": solo chi ce l'ha dentro ci deve fare i conti [...] Continuo con le medicine, con la terapia [...] è un lavoro lungo, ma sento di essere più solido".
Un libro che parla di crisi personale, ma anche di amore.  "Dico tutta la verità, non v'è nulla di romanzato [...] solo dei cambi di nome, dovuti". Come il nome di Maria, l'attrice con cui racconta di avere avuto una storia un paio di anni fa: "Chi sia davvero non lo rivelerò mai ed è giusto così: è un amore che abbiamo vissuto a porte chiuse". Ghemon rifiuta l'idea dell'artista tormentato e conclude affermando che né la gioia né la sofferenza devono essere il motore dell'arte, ma la sensibilità.

Dal Sito: caffeinamagazine.it

Disturbo evitante di personalità



Che cos’è il disturbo evitante di personalità

Il disturbo evitante di personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Tale disturbo è anche caratterizzato da un comportamento stabile di evitamento verso le relazioni e le situazioni in cui la persona può essere sottoposta a valutazione da parte degli altri. Si tratta di un disturbo comune, con una prevalenza dell’1-10%.

Come si manifesta il disturbo evitante di personalità

Gli individui con disturbo evitante di personalità evitano le attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale per timore di essere criticati, disapprovati e rifiutati. Evitano anche di farsi nuovi amici a meno che non siano certi di piacere e di essere accettati senza critiche. In molte situazioni possono agire con inibizione, avere difficoltà a parlare di sé e tendono a celare sentimenti intimi per timore di esporsi, di essere ridicolizzati o umiliati. Se qualcuno li disapprova o li critica anche leggermente possono sentirsi estremamente feriti. Gli individui con disturbo evitantesi sentono inetti, inadeguati e incapaci; si sentono quindi inferiori agli altri. Alcuni individui a causa di questo imbarazzo possono disdire occasioni importanti come colloqui di lavoro o appuntamenti galanti. Per non entrare in contatto con la sensazione di sentirsi inadeguati, inetti, esclusi dagli altri, le persone con disturbo evitante tendono ad avere una vita ritirata.

Il comportamento evitantespesso inizia nella prima infanzia o nell’infanzia con timidezza, isolamento, timore degli estranei e delle situazioni nuove. Anche se la timidezza è un precursore comune del disturbo, nella maggior parte degli individui tende a scomparire gradualmente con la crescita. Al contrario, gli individui che sviluppano il disturbo evitante di personalità possono diventare progressivamente più timidi con l’adolescenza e l’età adulta, quando le relazioni nuove assumono via via importanza maggiore.

Diversi pazienti riescono a mantenere un discreto funzionamento sociale e lavorativo, organizzando il loro stile di vita in un ambiente familiare e protetto. Tendono a mantenere il proprio lavoro negandosi ambizioni di carriera e quindi di confronto. Se il loro sistema di supporto cede, vanno incontro a depressione, ansia e collera. Per affrontare il malessere legato all’ansia o alla depressione, a volte i pazienti evitanti possono fare uso di sostanze, in particolare di alcolici; tale abitudine a volte può assumere le caratteristiche di una vera e propria condotta di abuso, che va ad accrescere l’isolamento del paziente che vede la propria immagine e la propria autostima crollare inesorabilmente.

 Dove rivolgersi  Le tecniche e terapie

Possibili cause del disturbo evitante di personalità

Alcuni autori sostengono che aspetti del disturbo evitantesiano in parte dovuti a fattori biologici, innati, combinati ad alcuni fattori di rischio come ad esempio storie di abusi fisici, storie di rifiuto da parte dei genitori, umiliazioni da parte dei coetanei.

I soggetti che sviluppano un disturbo evitante di personalità possono aver avuto situazioni familiari o scolastiche umilianti, rifiutanti, ridicolizzanti, inflessibili e particolarmente richiedenti un’immagine sociale impeccabile. Il disturbo evitante di personalità può anche essere causato dall’uscita da un ambiente familiare caldo, accudente e protettivo e dall’inserimento in un contesto extra-familiare (tipicamente la scuola) aggressivo, denigrante e giudicante.

Terapia del disturbo evitante di personalità

La cura del disturbo evitante di personalità è prevalentemente psicoterapeutica con un eventuale supporto farmacologico.

Trattamento farmacologico

La terapia farmacologica può aiutare gli individui con disturbo evitante di personalità, sebbene ovviamente non abbia alcun effetto sulla personalità del paziente. Lo scopo è quello di ridurre i sintomi che derivano dall’ansia sociale, grazie al fatto che alcuni antidepressivi serotoninergici possono migliorare gli aspetti fobico-sociali, diminuendo la sensibilità all’imbarazzo e la vergogna. Altre volte la terapia farmacologica si rende necessaria per trattare la depressione che consegue all’isolamento e alle difficoltà nel costruirsi un contesto sociale piacevole e supportivo. In alcune circostanze questi pazienti possono essere supportati con benzodiazepine, ad esempio in momenti specifici di esposizione a situazioni solitamente evitate.

Trattamento psicoterapeutico

Attraverso la terapia cognitivo comportamentale è necessario intervenire subito sulla non consapevolezza dei propri stati di sofferenza emotiva, poiché senza questa nessun intervento di comprensione e condivisione sarà possibile. In particolare, la difficoltà a identificare gli stati interni si accompagna alla tendenza a creare cicli interpersonali quando i pazienti con disturbo evitante entrano in contatto con gli altri: possono sentirsi inadeguati e per questo esclusi, possono sentirsi distaccati o costretti nelle relazioni. Tale funzionamento alimenta il distacco interpersonale e le difficoltà di comunicazione anche nella relazione terapeutica. Il passo seguente è quello di incrementare le capacità di collegare i propri pensieri e le emozioni che si provano alle situazioni esterne. Soltanto successivamente si cercherà di portare il paziente con disturbo evitante di personalità a sperimentare nuove strategie per padroneggiare le difficoltà relazionali efficaci. Altro aspetto fondamentale su cui intervenire è la tendenza che i pazienti con personalità evitante hanno di interpretare le intenzioni e i pensieri degli altri secondo il proprio punto di vista disfunzionale ed egocentrico.

Dal Sito: studicognitivi.it

Autostima, una perla preziosa

Spesso alla base di un disagio psicologico, oltre a specificità, vi è una mancata accettazione di se stessi, ricollegabile a un problema di scarsa autostima.


L’autostima puo’ essere definita come il giudizio che diamo di noi stessi, è il piu’ importante tra tutti quelli che riceviamo nel corso della vita, non è stabile ma si evolve nel tempo ed è il risultato di fattori interni ed esterni.

Una buona autostima si caratterizza per la fiducia nelle proprie capacità di apprendere, di compiere scelte adeguate, di prendere decisioni giuste, di affrontare i cambiamenti. Sentire di non farcela, puo’ non invogliare a dare il meglio di sé e a compiere scelte adeguate per il proprio benessere. Non amarsi e non accettarsi, puo’ rendere difficile amare l’altro e accettare il suo amore con ripercussioni nelle relazioni interpersonali.

Un livello di autostima adeguato è un bisogno psicologico fondamentale, in quanto se non presente influisce negativamente con le capacità di funzionamento sociale. Infatti il livello di autostima ha profonde conseguenze su ogni aspetto dell’esistenza: sul lavoro, nelle relazioni con gli altri, nel raggiungimento dei traguardi, nella capacità di realizzarsi ed essere felici. Per comprendere una persona è importante comprenderne il concetto di sé che influenza le sue scelte di vita.

Non bisogna confondere un buon livello di autostima con l’arroganza e la vanità: la felicità di chi la possiede risiede nell’essere quello che si è, non nell’essere migliore degli altri, non vi è una ricerca di superiorità (che al contrario puo' ricondursi a bassa autostima o al Disturbo Narcisistico di Personalità) ma un’accettazione di sé.

Questo non comporta non porsi obiettivi e non impegnarsi a migliorare, ma significa accettazione dei propri limiti e consapevolezza delle proprie capacità e potenzialità che permette di compiere scelte adeguate e di porsi obiettivi raggiungibili e significativi realizzando il proprio essere e il proprio potenziale.

Spesso alla base di un disagio psicologico, oltre a specificità, vi è un senso di inadeguatezza, di inferiorità e di sfiducia nelle proprie capacità, una mancanza di accettazione di se stessi, ricollegabili a un problema di scarsa autostima.

Reputo fondamentale lavorare sull’autostima per promuovere il benessere dell’individuo sia in contesti clinici che scolastici e aziendali, sia in setting individuali che di gruppo, a seconda dei bisogni e delle esigenze.

L’obiettivo è promuovere benessere attraverso una crescita personale che stimoli l’apprendimento di strategie per migliorare le relazioni con gli altri e con se stesso, incoraggiando l’auto-affermazione, una maggiore accettazione di sé e la determinazione nel raggiungere obiettivi da porsi nella vita, in un clima di accettazione e rispetto che permetta l’espressione dei propri sentimenti anche negativi senza scontrarsi con critiche, prediche o sarcasmo, e agendo sulla resilienza, ovvero le risorse che le persone possiedono. Una buona autostima sostiene e aumenta la qualità della vita e la felicità, permettendo di sfruttare al meglio tali risorse.


Dr.ssa Annalisa De Filippo

Dal Sito: www.medicitalia.it