lunedì 30 aprile 2018

Psicologia: respiro e personalità, leggiamo il nostro corpo


Il motore del benessere

Il movimento della nostra pancia ci dice come stiamo respirando, e saperlo significa conoscerci e autoregolarci. Le diverse modalità sono collegate a scopi e situazioni differenti di vita. Un soggetto sano assume automaticamente quella più adatta alla situazione del momento, ma se durante lo sviluppo evolutivo della persona si verificano delle alterazioni (in seguito ad eventi non gestiti nella giusta maniera) la respirazione può modificarsi in maniera cronica.


Il diaframma si trova all’altezza dell’ombelico e sembra essere un muscolo sconosciuto. Non se ne parla molto benché sia il motore del nostro benessere: da questo infatti viene trasmesso l’ossigeno in tutto l’organismo e di conseguenza l’attivazione degli organi.

Quando prendiamo aria stiamo inspirando: la pancia si gonfia.

Quando mandiamo fuori l’aria stiamo espirando: la pancia si svuota.

La giusta respirazione

La respirazione corretta è quella diaframmatica: l’addome si gonfia e si sgonfia come un palloncino, senza trattenere. Se ci mettiamo distesi possiamo vedere un’onda che morbidamente gonfia la pancia e alza un pochino il torace, sia nel prendere aria che nel mandarla fuori.

Purtroppo le vicissitudini della vita alterano il funzionamento profondo del diaframma e si instaurano modalità di respirazione che rimandano a tutto il corpo sensazioni di malessere, come ansia, attacchi di panico, tensioni muscolari etc.

Le diverse forme di respirazione

Come abbiamo detto ad ogni personalità è collegata una particolare respirazione.

La rabbia: respiro di torace.

La pancia è quasi immobile e si gonfia solo il petto; si nota una sconnessione tra parte alta e parte bassa del corpo. Il torace da solo non riesce a dare ossigeno sufficiente ai polmoni, di conseguenza tutti i muscoli diventano rigidi.

Caratteristico: pronti all’attacco.

Sensazione: forte tensione.

Allarme: toracico alto.

In questo caso neanche il torace si muove molto perché è gonfiato, il respiro è portato completamente verso l’alto, quasi in gola.

Il torace bloccato chiude il passaggio dell’ossigeno e il corpo va quasi in apnea, tipico nei casi d’asma.

Caratteristico: paura, forte allarme che “mozza il fiato”.

Sensazione: ansia.

Emozioni bloccate: inspirazione cronica.

Il respiro è trattenuto dentro e soltanto dopo un intervallo viene rilasciato, come quando si cerca di concentrare le proprie forze per resistere, per sopportare: il mantenere l’inspirazione ha un effetto anestetizzante sul dolore, i bambini prima di un’iniezione tirano il respiro e trattengono il fiato.

Caratteristico: del trattenere emotivo, del non voler sentire il dolore.

Sensazioni: chiuse, difficoltà a “sentire”.

Il controllo su tutto: respiro scoordinato.

In questo tipo di respiro non c’è armoniosità tra pancia e torace, infatti, quest’ultimo può sollevarsi a volte prima dell’addome e a volte dopo: l’atto respiratorio non è spontaneo poiché gestito con la forza del pensiero.

Caratteristico: iper-controllato, di chi prova a modificare anche il respiro.

Sensazione: controllo estremo, tensione muscolare.

Piangere: respiro a scatti.

Immaginiamo di tenere un peso nella mano per tanto tempo, appena lasciamo sentiremo il muscolo del braccio indolenzito: accade questo anche al diaframma.

Dopo un lungo pianto il diaframma può finalmente rilassarsi, i lunghi respiri servono ad ammorbidire il muscolo ma questi sono scossi da sobbalzi per la paura di lasciarsi andare nelle emozioni delle lacrime e della vulnerabilità.

Caratteristico: del pianto, paura di lasciarsi andare.

Sensazione: allentamento a scatti, insicurezza.

Tentativo di voler perdere il controllo: respiro falsamente diaframmatico.

La pancia sembra muoversi, in realtà a farlo sono i muscoli addominali e non il diaframma. Ne è una riprova il fatto che la quantità di aria effettivamente immessa nei polmoni è in realtà esigua, proprio perché il movimento proviene dall’addome.

Caratteristico: di chi vuole smorzare il controllo ma non ci riesce.

Sensazione: non riuscire a staccare.

Agitazione: respiro corto e affannoso.

E’ una sorta di respiro “a cagnolino”, corto e veloce.

L’ossigeno non riempie i polmoni ed è veloce: come in una corsa, per raffreddare la fatica.

Caratteristico: degli ansiosi, degli accelerati.

Sensazione: costante di pericolo, di allarme e agitazione.

Paura di farsi vedere: respiro leggero e inesistente.

Non è visibile alcun movimento, né di pancia né di torace. La persona resta immobile, incapace di prendere spazio, aprirsi ed espandere il corpo oltre i limiti.

Caratteristico: di chi non vuole “farsi vedere”

Sensazione: di non sentirsi liberi di prendere spazio.

Lo sbadiglio: è il primo segnale di rilassamento muscolare, il diaframma si sta allargando funzionalmente e il corpo sta assorbendo ossigeno a sufficienza.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare…

(Martha Medeiros)



… e respirare non è sempre così «semplice».

Dal Sito: ilcorrieredellacitta.com

Psicologia: 4 frasi che una persona ansiosa dice per farci capire il suo disagio


Soffrire di ansia è un problema comune a molte persone, un problema che spesso tendiamo ad esprimere, anche inconsciamente, attraverso delle frasi che danno voce alle nostre sensazioni. Una persona che soffre di ansiapotrebbe sentirsi a disagio in certi posti, e potrebbe farci comprendere il suo stato d'animo attraverso delle frasi che, in condizioni normali, potrebbero apparire come del tutto normali.

Ecco quali sono le frasi che ci aiutano a capire se la persona che abbiamo accanto sta provando elevati livelli di ansia: 

Ho fatto qualcosa che non va? - Una persona ansiosa tende sempre a sentirsi in difetto rispetto alle altre persone. Tende a pensare di aver commesso qualche errore, di aver involontariamente ferito qualcuno, o di aver fatto qualcosa di offensivo, senza rendersene conto.

Non è troppo affollato? - Una persona ansiosageneralmente non sopporta di essere circondata da troppa gente. La folla fa sentire soffocati e senza una via d’uscita, e questo può aumentare ulteriormente i livelli di ansia.

Mi serve un po’ d’aria.Quando l’ansia ci assale, ci sentiamo come se stessimo soffocando e non riuscissimo a respirare come vorremmo. Per questa ragione, per alleviare il problema la persona ansiosa potrebbe aver bisogno di prendere aria, e rilassare i nervi.

Non fa piuttosto caldo qui?Chi soffre di ansia lo sa bene: quando ci sentiamo particolarmente ansiosi, avvertiamo una sensazione di calore, sudiamo eccessivamente e abbiamo anche dei capogiri e tachicardia. Si potrebbe pensare che il problema sia dovuto al troppo caldo, ma la causa può essere anche la sensazione di ansia che ci assale.

Altri segnali che ci aiuteranno a capire se la persona che abbiamo di fronte sta soffrendo di ansia sono: 

Linguaggio del corpoagitato: la persona non riesce a stare ferma, tende a tamburellare le dita o battere il piede a terra

Mancanza di sonno

Tendenza all'irritabilità

Bisogno che certe cose vengano fatte in un determinato modo, per mantenere il controllo

Tendenza ad evitare situazioni che potrebbero causare preoccupazione o ansia

Difficoltà a tranquillizzarsi di fronte a situazioni spiacevoli, nonostante le rassicurazioni da parte di chi è vicino.





Giovanni Allevi, il dramma degli attacchi di panico

Giovanni Allevi racconta a Verissimo il dramma causato dai suoi attacchi di panico.


Giovanni Allevi in pubblico appare sempre sorridente, ma nasconde un dramma causato dagli attacchi di panico che hanno condizionato tutta la sua vita.

Il musicista ha raccontato più volte di soffrire a causa dell’ansia che lo tormenta sin da quando era giovanissimo, ma ha spiegato anche di essere riuscito in qualche modo a “domare” questa energia negativa e ad incanalarla per creare qualcosa di nuovo. La svolta è arrivata soprattutto grazie alla musica, che è stata negli anni un’amica e una medicina per Giovanni Allevi.

La voglia di mostrare il suo talento e di intrattenere gli altri, ha spinto il musicista a vivere il presente e a non preoccuparsi più del passato o del futuro, come accade per ogni persona ansiosa. Il palcoscenico ha consentito ad Allevi di trovarsi faccia a faccia con le sue paure e di sconfiggerle. Nel corso degli anni l’ansia non è scomparsa, ma il pianista ha imparato a conviverci e a controllarla, rendendola una sorta di “compagna di viaggio”.

Aveva 28 anni quando ha deciso per la prima volta di rivolgersi ad un medico e affrontare il problema degli attacchi di panico. Il pianista si è rifiutato di usare medicine, ma ha preferito l’autoanalisi e i libri di filosofia. Leggendo Socrate, Hegel e Stirner, Giovanni Allevi ha cercato di comprendere la radice di quell’ansia e di darle un senso. Le vera svolta però è arrivata quando ha analizzato l’etimologia del terminepanico.

Questa parola infatti deriva da Pan, il dio Tutto. “Conoscere il panico significa vivere l’esperienza della dirompente energia creativa che è dentro ognuno di noi – ha raccontato a OK Magazine tempo fa -. Di conseguenza, più lo combatti, più acquisisce forza”.

Il suo segreto quando l’ansia arriva? Lasciar vagare la mente, pensare alla musica oppure fare una bella corsa, come ha svelato anche a Verissimo. “Pensavo di aver superato questo problema, ma in un viaggio in piena notte da Trieste a Milano ho avuto un nuovo attacco di panico – ha spiegato a Silvia Toffanin -. Il fatto è che il Dio Pan dentro di noi si ribella a questa vita”.

Il pianista ha anche confidato di aver sofferto didepressione a causa delle critiche ricevute dai puristi della musica: “In passato ci sono stato malissimo – ha svelato -, ho fatto quattro anni di analisi per depressione. Ora rispondo così: il mio sogno è sempre stato quello di creare una nuova musica classica contemporanea, nei contenuti e nel ritmo. Nei giovani questa musica viene riconosciuta come vicina alla loro sensibilità”.

Dal Sito: dilei.it 

giovedì 19 aprile 2018

Noemi, ho superato gli attacchi di panico, ne canto

Esce 'Porcellana' con remix Shablo. "Amo i suoni dell'hip-hop"


"Oggi gli attacchi di panico sono un po' il male del secolo: canto questa canzone per liberarmi ma anche per tutte le persone che ne soffrono". C'è un'ammissione di fragilità e una voglia di andare oltre nel singolo 'Porcellana', che Noemi ha presentato così, parlando con l'ANSA a Milano. Il brano, tratto dall'ultimo album 'La luna', è uscito accompagnato da un remix di Shablo e due video, per le due versioni.

"Sono sempre stata fan del rap, nasce da radici R&Bche sono anche le mie, e ho ascoltato tanto Notorious B.I.G., Kanye West, Missy Elliott e Kendrick Lamar. Ora mi piace molto questa generazione trap, produttori come Charlie Charles hanno un suono unico, non una via di mezzo o una copia americana". Da qui l'idea del remix: "Avevo questo pezzo pazzesco con suoni electro-pop e rock, ho pensato di mandarlo a Shablo per virarlo verso l'hip-hop, ci sentivo dentro questo mondo: ho pensato alla sintesi di un suono bello tondo, in questo caso quasi reggaeton, con un testo profondo". Un tipo di formula che l'artista, fan dichiarata di cantanti crossover come Erykah Badu e Lauryn Hill, non esclude di ripercorrere in futuro.

Attraverso la metafora della porcellana, Noemi parla degli attacchi di panico di cui ha confessato di aver sofferto: "Non pensavo mi potessero venire, invece una sera a cena durante il Festival di Sanremo, il 13 febbraio 2012, d'un tratto non vedo più niente. Ho affrontato la cosa, prendendomi anche un po' di pausa, cosa non facile perché nel mentre ho fatto The Voice, ma sapevo che si trattava solo di un campanello d'allarme, il segnale che avevo perso qualcosa per strada: quando ho sentito questa canzone mi è parsa troppo realistica, e ho cominciato il disco partendo proprio da questa".

Noemi sarà in tour tra la primavera e l'estate, a partire dalle due anteprime di Milano (Teatro degli Arcimboldi, 29 maggio) e Roma (Auditorium Parco della Musica, 30 maggio): "Il teatro deve essere una cornice speciale, l'artista non lo deve soffrire: per questo non sarà un live tutto raccolto, avrà molti momenti 'up' per scatenarsi". In scaletta gran parte dell'ultimo album, i suoi classici, e non solo: "Spero di poter portare anche alcuni ospiti, se riusciremo a incrociarci!". In programma una data zero a Cascina (Pisa) il 25 maggio, quindi tappe a Saint Vincent (Aosta) il 1 giugno, quindi Castellana Grotte (Bari) il 1 luglio, Nardò (Lecce) il 22/7, Sanfront - Pian Pilun (Cuneo) il 29/7 e Pagliare del Tronto (Ascoli Piceno) il 22 agosto.

Dal Sito: ansa.it

Boy George parla dei suoi problemi di salute: “Avevo attacchi di panico, pensavo di morire”



Boy George dei Culture Club ha parlato dei suoi attacchi di panico, forti al punto da pensare di poter morire.

Boy George ha parlato dei suoi attacchi di panico e del pensiero che avrebbe potuto morire, durante un incontro pubblico avvenuto durante un incontro di Loose Women, programma di ITV. Boy George è una delle icone della musica degli anni 80, cantante e leader dei Culture Club, autori di hit come "Karma Chameleon" e "Do you really want to hurt me", e già in passato aveva parlato dei problemi che lo avevano inseguito in questi tanti anni di successi e cadute. Il cantante, comunque, ha parlato degli attacchi di panico con cui da anni deve combattere e che non ha ancora debellato del tutto, riuscendo, però, ad arginare per quanto possibile, ma che a un certo punto era arrivato al punto di pensare spesso che avrebbe voluto morire.


"Quando sei sotto i riflettori pubblici, procedi, procedi e poi all'improvviso realizzi di non avere pienamente il controllo della tua vita nel modo in cui credevi – ha spiegato il cantante durante l'incontro -. Ho avuto un periodo durante gli anni '90 in cui ho sofferto molto di questi attacchi di panico, andavo spesso in ospedale e davo di matto. Non c'era nulla che non andava in me, ma pensavo ‘Sto morendo'". Ovviamente, spiega, on tanti cercavano di dargli una mano, consigliandogli qualche soluzione: "Ogni tanto qualcuno mi diceva ‘Devi imparare a respirare, cambiare la tua dieta, tentare dio fare yoga, semplicemente calmarti un po'".

"Non era precisamente un dolore al petto, solo panico, non è una cosa logica, a volte non vi erano sintomi, ti senti semplicemente come se ti chiedessi ‘Cosa c'è che non va in me?'". Una sofferenza quotidiana che lo ha portato ad avere paura per la propria vita finché a un certo punto ha deciso di cambiare completamente stile di vita, soprattutto dopo l'intervento di alcuni amici, cominciando, ad esempio, a fare yoga regolarmente, anche se tuttora, dice, convive con un senso di insicurezza.


Articolo a cura di
Redazione Music
Dal Sito: music.fanpage.it

mercoledì 18 aprile 2018

Non puoi avere tutto sotto controllo!



Perfezionismo e ansia si intrecciano nel desiderio di poter controllare tutto. Ecco perché dovresti semplificarti la vita!

Perfezionista e ansiosa

Puntuale, ordinata, seria e responsabile. E fino a qui, chi di noi non vorrebbe esserlo. Ma se invece sei impensierita da un ritardo di pochi minuti, esasperata da un dettaglio fuori posto, turbata da un imprevisto, intollerante a tutto quello che non è sotto il suo diretto controllo? Essere delle perfezioniste a questi livelli non è per nulla consigliabile, ecco perché.

Tutto sotto controllo?

Tendi a voler avere sempre tutto sotto controllo? È una cosa semplicemente impossibile!

Essere una "perfezionista patologica" significa essere una persona molto trattenuta. Il desiderio di essere "la migliore" è lecito, ma il desiderio di essere infallibili è una follia! Detto questo, essere perfezioniste dovrebbe avere il "vantaggio" di confrontarsi sempre con abitudini e "procedure" molto simili che appunto non ti fanno correre il rischio di sbagliare. Ma questo ti porta a rincorrere degli standard sempre molto elevati, che costano tempo e fatica.

E se sbagli? Nelle occasioni in cui ti capita di non centrare l'obiettivo, di solito alto, che ti eri prefissata, provi un senso di sconfitta, credi di valere poco e percepisci un senso di inadeguatezza. Molte volte enfatizzi queste situazioni, provando un senso di fallimento davvero spropositato rispetto a quello che non sei riuscita a realizzare!

I rischi

Alla lunga potresti diventare un'insoddisfatta perenne, una persona che si agita di fronte alle novità, anche quelle positive, che prova ansia in qualsiasi situazione che sfugge al tuo controllo. Maternità, professione, vacanza: ogni ambito è una potenziale fonte di stress. Sta a te facilitarti l'esistenza! 

Come rimediare?

Alcuni approcci diversi e nuovi nei confronti di te stessa possono facilitarti la vita. 

1) Pregi e difetti. Impara a conoscerti e oltre ad essere inflessibile con i tuoi difetti impara anche ad essere consapevole dei tuoi pregi. Cosa sai fare davvero bene? Cosa ti riesce naturale e gli altri ti invidiano? Pensaci un momento, la risposta c'è di sicuro!

2) Bicchiere mezzo pieno.Anziché biasimarti per quello che non hai fatto, o fatto in tempo a fare, valuta positivamente tutto quello che quotidianamente fai, magari senza nemmeno rendertene conto. Ci sono azioni che una donna super-organizzata svolge ormai con una tale abitudine da non farci caso. Ma vale la pena premiarsi anche per questo!

3) Meno critiche, più pazienza.Dovete imparare a essere meno inflessibili con voi stesse e con gli altri, dovete avere più pazienza ed essere più indulgenti, lasciar correre di più. Se adotterete questa filosofia avrete anche meno paura del giudizio degli altri, perché vi sarà più facile pensare che loro siano come voi. Meno intransigenti.

Infine ricordati che non solo le super-donne, non solo le madri modello, non solo chi è "perfetta" viene amata!

Dal Sito: donna.it

Quando la paura della morte non ci lascia vivere



Tutti sappiamo bene che un giorno moriremo. Tuttavia, pensare alla fine della nostra vita può scatenare un sentimento di vero terrore per molte persone. Spesso, le persone che si ritrovano accanto a qualcuno che sta per morire iniziano a sentirsi ansiose e a provare un profondo dolore. D’altra parte, la morte e la paura che suscita sono per molti il principale motivo per cui le religioni sono sopravvissute nel corso della storia.

A volte si tratta di una realtà talmente dura che molte persone preferiscono allontanarsene. Ma questo ha qualcosa a che vedere con il fatto di sentire che anche la nostra fine è vicina? In altre parole, con la paura che proviamo al pensiero che arriverà quel giorno anche per noi oppure quando vediamo in qualcuno in fin di vita un riflesso della nostra morte? Il fatto è che la morte ci ricorda che siamo vulnerabili e finiti, rivela al nostro Io, così come lo conosciamo, indipendentemente dal fatto che possa cambiare o meno, che prima o poi sparirà.

Tuttavia, alcune persone ingigantiscono questo sentimento al punto di sviluppare una vera e propria fobia verso la morte, di diventare completamente intolleranti con tutto quello che ha a che fare con il mondo della morte, quindi la paura si trasforma in panico irrazionale.

Una delle fonti che creano confusione è il fatto che la paura della morte, in qualche modo, ci tiene costantemente in allerta ed evita che ci esponiamo a situazioni di pericolo. Tuttavia, quando questa paura si fa estrema e si trasforma in fobia, può essere davvero invalidante. Ecco perché si parla di paradosso, infatti la paura della morte al tempo stesso ci impedisce di vivere.

La paura della morte può sollevare altre paure, come la paura del dolore, del buio, delle cose sconosciute, della sofferenza, del nulla… Sentimenti che l’immaginazione, le tradizioni, le leggende hanno trasmesso di padre in figlio e che finiscono per tormentarci, impedendoci di vivere appieno la nostra vita.

D’altra parte, la morte di una persona cara, oltre a ricordarci che siamo esseri fragili, si accompagna a sentimenti di perdita che minano le nostre difese cognitive e ci rendono più vulnerabili ai pensieri negativi ossessivi.

Per quanto riguarda l’origine di questa paura, molti esperti ritengono che dipenda dal fatto che ci hanno insegnato ad averla. Come? Uno dei modi in cui impariamo ha a che vedere con l’imitazione di quello che fanno gli altri. Ad esempio, se vediamo qualcuno togliere in fretta la mano da un determinato luogo, allora pensiamo subito che ci sia qualche forma di pericolo e ce ne ricorderemo, quindi non allungheremo mai la mano. In genere, se vediamo qualcuno aver paura di qualcosa e non abbiamo molte informazioni a riguardo, allora automaticamente pensiamo che ci sia qualcosa di cui aver paura.

Quando la paura non è ancora diventata fobia e semplicemente si tratta di una forma di reazione, non invalidante e che non ci condiziona in alcun modo, alcune strategie per tenerla sotto controllo sono:

– Accettare l’idea. La morte esiste e questo non si può cambiare. Cambia quello che fate fino a quel momento.

– Credere fermamente in qualcosa. Indipendentemente che sia vero o meno, la fede ha spesso un grande potere nel mutare i sentimenti.

– Puntare l’attenzione su qualcos’altro. Non permettete alla vostra coscienza di dedicarsi a questa paura o a questo pensiero. Potete farlo mentalmente, ad esempio pianificando quello che farete il giorno successivo, oppure per quanto riguarda il comportamento, ad esempio chiamando vostro marito o moglie per chiedergli/le come sta andando la giornata.

Se questo pensiero comincia a generare in voi un grande malessere, i pensieri si fanno sempre più ricorrenti e la paura condiziona la vostra vita, allora è il caso di consultare uno specialista. In questo senso, i ricercatori Mercedes Borda Mas, M.ª Ángeles Pérez San Gregorio e M.ª Luisa Avargues Navarro, dell’Università di Siviglia, hanno pubblicato un interessante studio sull’argomento in cui vengono descritte l’applicazione e la valutazione di un trattamento cognitivo-comportamentale in cui sono state utilizzate tecniche di controllo dell’attivazione, tecniche dell’esposizione (esposizione immaginaria e dal vero e inondazione immaginaria), così come tecniche di ristrutturazione cognitiva.

Dal Sito: lamentemeravigliosa.it 

STOP RIMUGINIO! Come uscire dal circolo vizioso dei pensieri!


Quante volte quando siamo preoccupati pensiamo continuamente a ciò che ci preoccupa?

Il pensare e ripensare è un’esperienza normale nell’essere umano. Quando però il pensiero diventa ripetitivo e ricorrente e abbiamo la sensazione di non riuscire a fermarlo ci troviamo di fronte ad un campanello d’allarme.

Il rimuginio è uno dei sintomi principali dei Disturbi d’Ansia (in particolare ansia generalizzata), ma accompagna spesso anche la Depressione e i Disturbi del Comportamento Alimentare.

La persona che rimugina dedica la maggior parte delle sue energie e del suo tempo a prevedere eventi negativi futuri. Spesso ci si ritrova incastrati in questo “stile di pensiero” molto astratto: si percepisce l’esigenza di trovare delle soluzioni pratiche ad un problema senza, però, trovarne alcuna perché ogni soluzione genera ulteriori pensieri.

Perche lo facciamo?

Rimuginare sulle cose ci da l’illusione di avere un controllo su di esse e di fare qualcosa per risolverle. in realtà non è così. L’unica cosa che è stata realmente prodotta è la preoccupazione (e il conseguente aumento dell’ansia) riguardo una o più circostanze.

Le persone che tendono a rimuginare hanno scarsa fiducia nelle proprie capacità di far fronte alle situazioni motivo per cui tentano invano di controllarle pensandoci in continuazione. Sebbene tutte le previsioni catastrofiche dettate dall’ansia non si verifichino, la persona che pensa ossessivamente soffre di un fortissimo stress in quanto ciò che pensa e immagina le genera forte disagio, e maggiore sarà l’ansia maggiori saranno i pensieri. Un circolo vizioso che sembra non spezzarsi.

Cosa fare?

E’ possibile agire a piu livelli:

Innanzitutto bisogna rendersi conto della propria tendenza a rimuginare. Essere consapevoli di mettere in atto un comportamento è il primo passo per affrontarlo.

Lavorare sulla propria autostima. Aumentare la fiducia nelle nostre capacità ci permette di allentare il controllo perché qualsiasi cosa accada sappiamo di poter contare su noi stessi. Una buona autostima aiuta a diminuire i livelli d’ ansia.

Chiedersi se tutti gli scenari immaginari che i nostri pensieri ci prospettano siano probabili e reali o meno. Mettendo in discussione i nostri pensieri, la loro forza e il loto potere di generare ansia diminuiranno.

Possiamo stabilire durante la giornata periodi di tempo ben precisi per preoccuparci: quando ci accorgiamo che i nostri pensieri girano vorticosamente come se fossero una trottola, proviamo a fermarli e a dirci “STOP” e fissiamo poi un momento successivo (di una quindicina di minuti circa) in cui possiamo dedicarci completamente al nostro rimuginio. In questo modo riprenderemo un controllo sui nostri pensieri e non viceversa. Arrivato poi il momento che ci siamo prefissati da dedicare al rimuginio possiamo decidere se utilizzarlo per preoccuparci o per altro.

Infine, una strategia utile che possiamo adottare per smettere di rimuginare è quella di spostare la nostra attenzione dalla testa, e quindi dai pensieri, a ciò che possiamo percepire attraverso i nostri sensi. Ad esempio sono molto importanti gli esercizi della Mindfulnesssul qui ed ora attraverso cui riprendiamo il contatto con la nostra esperienza presente partendo da ciò che sentiamo, vediamo e tocchiamo. Possiamo inoltre praticare delle tecniche di rilassamentoper distendere le tensioni e concentrarci così sulle sensazioni che il nostro corpo ci rimanda.

Quando il rimuginare è particolarmente difficile da gestire e quando incide sulla qualità della tua vita e delle tue attività quotidiane, rivolgiti ad uno psicoterapeuta che saprà aiutarti ad uscire da questo circolo.

“Il rimuginatore è un ricercatore senza speranza che troverà l’illuminazione solo quando smetterà la sua ricerca mentale”

A cura della
Dott.ssa Maria Cristina Zezza

Dal Sito: mariacristinazezza.com

Come liberarsi del senso di colpa? 10 consigli da seguire per vivere finalmente felici


Un sassolino nella scarpa, un macigno sul cuore. Alleggerire animo e pensieri dal peso inutile degli errori passati si può.
I sensi di colpa per il tradimento di un amico o di un partner sono tremendi. Sono difficili da far passare e ci pugnalano in continuazione. Ma è davvero il caso di sentirci sempre in colpa?Ovviamente ogni caso ha la sua storia ma quando si è innocenti si soffre ingiustamente. Ecco dunque 10 consigli da seguire per far sparire i sensi di colpaper aver lasciato, aver fatto un errore in amicizia o qualsiasi altra cosa. 

1. Capisci il difetto produttivo. Il senso di colpa può essere produttivo, perché può aiutarci a crescere e maturare e, soprattutto, a imparare dal nostro comportamento quando siamo offendere o ferire gli altri o noi stessi. Questo tipo di senso di colpa ha uno scopo e ci incoraggia a (ri)orientare la nostra bussola morale o comportamentale.

2. Comprendi il senso di colpa improduttivo Il senso di colpa può anche essere improduttivo, nel senso che t senti in colpa anche quando il tuo comportamento non ha bisogno di riflessione e trasformazione. Questo è irrazionale, perché può generare un ciclo in cui si inizia a sentirsi in colpa quando non c'è nulla per farlo.

3. Capisci che a volte ci sentiamo in colpa per eventi che non possiamo controllare Bisogna riconoscere che a volte ci sentiamo in colpa per cose che non dipendono da noi, come un incidente d'auto o non arrivare in tempo per dire addio a una persona cara prima della sua morte. A volte le persone coinvolte in questi eventi traumatici sopravvalutano la loro conoscenza dell’evento e quello che avrebbero potuto fare. In altre parole, essi credono possa o si debba aver fatto qualcosa, ma in realtà, non potevano.

4. Rifletti sulle tue emozionied esperienze Fai una introspezione per entrare in contatto con i tuoi sentimenti e determinare che ciò che si sta verificando è il senso di colpa e nessun altra emozione. Gli studi che utilizzano la risonanza magnetica del cervello hanno dimostrato che la colpa è un'emozione che si distingue dalla vergogna o dalla tristezza. Di conseguenza, è importante prendere un po’ di tempo per riflettere sui tuoi sentimenti al fine di chiarire ciò che è necessario affrontare.

5. Chiarisci esattamente la ragione della colpa Pensa a ciò che provoca questa sensazione. Anche in questo caso, ragiona per iniziare il processo di analisi del senso di colpa.

6. Accetta la colpa. È necessario accettare il fatto che non si può cambiare il passato La accettazione significa anche riconoscere la difficoltà e che sei in grado di resistere alle sensazioni dolorose nel momento presente. Utile fare a te stessa dichiarazioni positive che sottolineano l'accettazione e la tolleranza.

7.Fai la pace con la persona a cui fatto male Se la tua colpa deriva da qualcosa fatta a che hai colpito negativamente, il primo passo è quello di fare la pace con quella persona. Anche se scuse sincere non possono eliminare i tuoi sensi di colpa, si può avviare il processo di darti il tempo di esprimere quanto ti dispiace.

8. Rifletti sulle possibilità di modificare il tuo comportamento Nei casi in cui la colpa è produttiva, un impegno per cambiare il tuo modo di fare per evitare il ripetersi della situazione.

9. Perdona te stessa Col senso di colpa le persone spesso provano vergogna per qualcosa che hanno fatto o non fatto. Anche se sei in pace con gli altri, potresti continuare a star male per quello che è successo. Pertanto, è necessario anche fare la pace con sé stessi. Imparare a perdonare è importante per contribuire a ripristinare la tua autostima.

10. Fai affermazioni positive su di sé Ovvero una dichiarazione positiva intesa a incoraggiarsi come ripetere allo specchio «sono una bella persona». Usare questo metodo può aiutare a ripristinare il senso di autostima e autocompassione, che spesso sono minati dalla vergogna e dal senso di colpa. 

Dal Sito: marieclaire.com

martedì 17 aprile 2018

Claustrofobia: sintomi e cura


La claustrofobia è sicuramente una delle fobie più diffuse. II claustrofobico è un soggetto affetto dalla paura eccessiva e irrazionale degli spazi stretti e chiusi come tunnel o ascensori. In situazioni simili, il soggetto farà di tutto per uscire all’aperto e godere pienamente di quel senso di libertà che solo il sentirsi “libero di respirare” gli può consentire. Le paure correlate alla claustrofobia più frequenti sono il timore che il soffitto e il pavimento si chiudano, schiacciando le persone che si trovano nella stanza, il timore che il rifornimento d’aria si esaurisca e si muoia soffocati, il timore di svenire a causa della mancanza di aria e luce.
Il cinema, inteso ovviamente come locale, è un posto poco piacevole per chi soffre dei sintomi della claustrofobia: non vi sono finestre, le uscite non sempre sono controllabili, c’è molta gente in sala, e spesso non ci si può muovere con libertà per non disturbare le altre persone. Tutte queste sensazioni sgradevoli fanno spesso rinunciare alla frequentazione di queste sale. Uno degli eventi più temuti da chi soffre di claustrofobia è quello di doversi sottoporre ad una risonanza magnetica, esame che prevede l’inserimento dell’intera persona in un tubo molto stretto e totalmente chiuso. Non sono rari, ovviamente, coloro che soffrono di questo disturbo in ascensore, e che di conseguenza lo evitano ove possibile.
Altro posto che mette in crisi gran parte di coloro che hanno problemi di claustrofobia è la metropolitana. Qui c’è proprio di tutto: oscurità, sotterranei, cunicoli, affollamento, odori sgradevoli, ventate improvvise d’aria e rumori stridenti dei treni.
Oltre alle classiche manovre di evitamento o di fuga di fronte alla situazione fobica, il claustrofobico tiene a bada l’ansia cercando delle giustificazioni apparentemente logiche che spieghino il motivo di una scelta che altri considerano un po’ strana o quanto meno poco usuale. E così chi ha i sintomi della claustrofobia preferisce salire le scale, adducendo i più svariati motivi: l’opportunità di fare del moto per tenersi in forma, la necessità di raccogliere le idee prima di andare a parlare con qualcuno (l’ascensore è sempre troppo veloce!), e via dicendo.
La claustrofobia deve essere tenuta distinta dall’agorafobia, tipica di chi soffre o ha sofferto di attacchi di panico, che non si limita alla paura degli spazi chiusi, ma riguarda tutte le situazioni, anche all’aperto, da cui non vi sia una rapida via di fuga (es. un ponte, una lunga coda o l’autostrada). Il disagio del claustrofobico è limitato alla sensazione di costrizione, mentre quello dell’agorafobico è legato alla lontananza da una via di fuga e di un punto di sicurezza.

La cura della claustrofobia è relativamente semplice, come di tutte le fobie, e passa necessariamente attraverso un percorso di terapia cognitivo comportamentale, che mira a intervenire sui sintomi e a produrre un cambiamento e una soluzione dei problemi piuttosto che ad analizzarne le presunte cause remote.

Dal Sito: ipsico.it


Nomofobia e dipendenza da smartphone


I cellulari sono diventati quasi indispensabili nella nostra vita quotidiana. Sono utilizzati per postare sui social media, scattare foto, registrare video, come agenda, to do list, calendario, ecc. oltre che per ricevere indicazioni stradali, sentire musica, giocare, telefonare. Lo smartphone è ormai una finestra sul resto del mondo, e, per molti di noi, il principale mezzo di interazione. Sicuramente un oggetto utile, efficiente, che fornisce supporto, con il quale spesso si tende a sviluppare un legame che risulta chiaro quando, per quanto folle possa sembrare, percepiamo la paura di restare senza. Accade spesso di provare ansia nel non trovare il proprio smartphone nella borsa, o di essere preoccupati quando a metà della giornata compare la notifica di batteria in esaurimento. Per quanto utile sia lo smartphonepuò essere comprensibile la preoccupazione per il doverne fare a meno, ma se non si tratta di paura o dipendenza le cose si complicano. Il termine scientifico per indicare la paura incontrollata di rimanere sconnessi dal contatto con la rete mobile è Nomofobia (no-mobile-phone-phobia), termine di recente introduzione nel vocabolario della lingua italiana Zingarelli. Una persona soffre di Nomofobia quando prova una paura sproporzionata di rimanere fuori dal contatto con la rete mobile, a tal punto da sperimentare sensazioni fisiche simili all’attacco di panico: mancanza di respiro, vertigini, tremori, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico e nausea. Le persone affette da Nomofobia avvertono stati d’ansia quando rimangono a corto di batteria o di credito, o senza copertura di rete oppure senza il cellulare. Per evitare gli stati di ansia il soggetto mette in atto una serie di comportamenti protettivi come controllare frequentemente il credito, portare un caricabatterie di emergenza, dare ai familiari un numero alternativo. Inoltre chi soffre di nomofobiageneralmente manifesta un utilizzo dello smartphone in posti generalmente inappropriati. E’ molto importante valutare che dietro questa moderna paura si nasconde, talvolta, una vera e propria forma di dipendenza dalle nuove tecnologie. Secondo gli studi di David Greenfield, professore di psichiatria all’Univeristà del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre forme di dipendenze, perché causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettirore che regola il circuito celebrale della ricompensa, incoraggiando le persone a svolgere attività che credono daranno loro piacere. La dipendenza da smartphonecrea inoltre conseguenze psicologiche più significativi e profonde rispetto alla paura di rinunciare a Twitter o di non ricevere un testo. La ricerca sulla memoria transattiva sottolinea infatti che, quando abbiamo fonti esterne affidabili di informazioni su specifici argomenti a nostra disposizione, si riduce la motivazione e la capacità di acquisire e mantenere in memoria determinate informazioni. In altre parole, quando abbiamo a disposizione una fonte affidabile di informazioni, come i nostri smartphone, nel tempo perdiamo il desiderio di ricordare le cose o di imparare qualcosa al di fuori di ciò che è visibile nei il nostri schermi.

Alessandra Carrozza

Dal Sito: ipsico.it

lunedì 16 aprile 2018

Ecco come combattere l’ansia attraverso la respirazione. Gli esercizi utili



La respirazione rappresenta la prima medicina di cui ognuno dispone, ma della quale ben raramente ci si appoggia. Imparare a respirare significa migliorare le nostre facoltà e mantenere sotto controllo le nostre paure e angosce. La respirazione è utile non solo per apportare una migliore ossigenazione al cervello ma anche  per rilassarsi e allentare gli stati d’ansia che, come una morsa, si sommergono. Diverse pratiche orientali, insegnano a utilizzare il respiro per recuperare la centratura, ossia ricostituire la migliore aderenza al nostro potenziale, ricompattando la sfera emotiva con la nostra volontà.

Quando si necessita di fermezza e lucidità, una buona pratica di respirazione può aiutarci a mantenere questo stato allontanando così l’ansia che assale nei momenti critici, dissociandola con noi stessi. Per ottenere questo risultato,  è necessario immergere lo spirito nel basso ventre, ossia la respirazione deve farsi bassa, cioè bisogna
imparare a respirare con il diaframma. Ciò può sembrare difficile, ma con i giusti esercizi  e consigli potremmo acquistare più padronanza del nostro corpo. Quando siamo ansiosi il respiro si accorcia e cominciamo a respirare solo con la parte alta dei polmoni.

Per portare invece il respiro verso il basso, ci può aiutare il diaframma: inspiro col naso e poi chiudo la bocca e trattengo il fiato; subito dopo comprimo l’aria inspirata col diaframma, spingendolo verso il basso. Poi espiro con la bocca, molto molto lentamente. Questa pratica serve ad aumentare la pressione interna dell’addome, utile per ristabilire un equilibrio importantissimo. L’eccessivo lavoro mentale, oppure un insolito stato d’ansia, fa salire l’energia verso l’alto determinando un sovraccarico energetico a livello della testa (testa piena, mal di testa, nausea, capogiri, ansia, ecc.). Il lavoro del diaframma si avverte soprattutto a livello dell’addome, nella parte anteriore, con un espansione durante l’inspirazione che poi ritorna in posizione durante l’espirazione. Fai da 6 a 10 respirazioni lente per 10 minuti al giorno. Questo esercizio è particolarmente efficace prima di qualunque evento stressante. Un’altro esercizio utili è quello di immaginare di tracciare un quadrato nella tua mente e di inspirare/espirare ogni volta che giri un angolo. Questo esercizio, che fa leva anche sull’immaginazione, aiuta ad alleviare i sintomi di ansia. La posizione tipica dello yoga aiuta molto per la concertazione; siediti con la schiena dritta, ma non rigida, e appoggia le braccia sulle ginocchia, inala l’aria contando 5 battiti cardiaci. Trattieni il respiro contando 7 battiti cardiaci, infine espira contando 9 battiti cardiaci. Fai almeno 10 cicli di respiro in questo modo. Questo esercizio è molto rilassante e aiuta anche in caso di attacchi di panico.

Dal Sito: meteoweb.eu

venerdì 13 aprile 2018

L’accettazione come fase di sviluppo personale


Nella vita vi troverete sempre in situazioni che immaginavate diverse. L’unica soluzione per mantenere l’equilibrio del vostro benessere emotivo è quella di adottare la tecnica dell’accettazione. Accettare quello che non potete cambiare è di vitale importanza per andare avanti e vivere serenamente la vostra vita. Chi non ha mai desiderato vivere una realtà diversa da quella in cui si trova? Chi non ha mai commesso errori? Chi non si è mai risentito del comportamento o dello stile di vita di un’altra persona? Di fronte a qualsiasi circostanza che vi faccia star male, valutate se potete fare qualcosa per risolverla o cambiarla. Immaginate un piano di azione per migliorare la vostra vita. In caso contrario, qualora, cioè, non poteste fare nulla per cambiare la situazione, per andare avanti dovete semplicemente accettare la realtà così com’è, altrimenti soffrirete più del necessario. Lottare contro una realtà immobile ed immutabile comporta un’inutile e dolorosa perdita di tempo e di energie. Solamente con l’accettazione potrete vivere liberamente e serenamente.

Accettare non significa conformarsi

A seguire faremo una distinzione tra l’accettazione e il conformarsi:

Come tutti sapete, nella vita non va sempre tutto bene. In questo senso, l’accettazione è una forma di tolleranza, però con una tendenza all’azione. Si può convivere con una situazione sgradevole senza soffrirne troppo. Non si tratta solo di questo, infatti bisogna focalizzare il proprio interesse e la propria attenzione su qualcos’altro, bisogna cercare di aprire nuove porte. Accettare significa abbandonare una lotta contro qualcosa che non ha soluzione e cercare altre strade che ci permettano di vivere la vita che desideriamo. Nei confronti di una realtà che non si può cambiare, l’atteggiamento è: “Questo è quanto, non posso farci nulla, lo accetto e vado avanti con la mia vita per vedere in quale altro modo posso raggiungere i miei obiettivi”

Quando non tolleriamo una situazione, ci adattiamo o conformiamo ad essa. Visto che le cose non vanno come ci aspettavamo, ci chiudiamo in un guscio senza agire e/o reagire. Avvertiamo emozioni negative e ci arrendiamo, credendo di non poter migliorare la nostra vita. Abbiamo pensieri del tipo: “Non posso fare nulla per cambiare la mia vita, sono sfortunato/a e sarò sempre infelice”. Ci lamentiamo e facciamo le vittime, perdendo la speranza di un futuro migliore. Non apriamo la mente a nuove possibilità e gettiamo la spugna, adattandoci a vivere la vita che non ci piace, senza muovere un dito per cambiarla. Questo genera una forte frustrazione.

Il vostro futuro è nelle vostre mani

Accettate la realtà e fate qualcosa di costruttivo per uscire da ciò che vi rende infelici. Non può andare sempre tutto bene e non tutte le persone sono uguali, per questo l’accettazione sarà la vostra migliore alleata contro una vita stressante.Aprite la mente a nuovi orizzonti e ricordate che, anche se la vostra vita non è come l’avevate desiderata, può esserlo in futuro se seminate bene nel presente. Tutti abbiamo il potere di indirizzare e cambiare la nostra vita. Non dimenticate che un piccolo passo, una piccola azione, diventeranno qualcosa di grande e importante nel vostro futuro.

Dal Sito: lamentemeravigliosa.it 

ATTACCHI DI PANICO: Miti e leggende da sfatare!



Gli attacchi di panico sono una condizione psicopatologia legata all’ansia che affligge una quota cospicua di persone! Ma come funzionano in realtà gli attacchi di panico? Facciamo un po’ di chiarezza! I miti comuni sugli attacchi di panico sono molteplici, e molto spesso, incrementano la paura di chi ne soffre. Chi è preda di una forte ansia, infatti, finisce con il preoccuparsi delle possibili conseguenze associate ad essa, aumentando così la credenza di non riuscire a controllarla e che possa portare a gravi problemi fisici o mentali. L’ansia è perciò avvertita essa stessa come una minaccia, scatenando a sua volta una risposta di allarme in ognuno di noi e, dando luogo a un circolo vizioso. Per questo motivo, è opportuno consapevolezza sui pregiudizi più comuni quando parliamo di ansia o di attacchi di panico.

PREMESSE (Fidatevi, per adesso!)

L’ansia è una condizione fisiologica

L’ansia ci aiuta a sopravvivere

L’ ansia non solo è innocua ma è addirittura vantaggiosa per l’evoluzione

LE PAROLE MAGICHE:

“FIGHT OR FLIGHT” o REAZIONE DI ATTACCO-FUGA!

Il segreto per imparare a gestire meglio gli attacchi di panico sta nella conoscenza di  questo  meccanismo evolutivo. Con l’espressione “reazione di attacco o fuga” ci si riferisce alle risposte fisiologiche che avvengono  nel nostro corpo e che ci preparano agli sforzi necessari per combattere o scappare quando ci troviamo di fronte ad uno stimolo percepito come pericoloso. L’ansia deriva proprio da questo meccanismo, che è presente in tutti i mammiferi e che predispone l’animale o l’essere umano a reagire attraverso la rapidissima attivazione di tutte le funzioni neurovegetative necessarie per una fuga o un attacco, ovvero accelerazione cardiaca, aumento del ritmo del respiro, tensione muscolare, aumento dell’attenzione e della vigilanza. In pochi istanti il nostro corpo è pronto ad attaccare o fuggire. Questo meccanismo fisiologico si è sviluppato nel corso dell’evoluzione per aiutarci a sopravvivere dalla tigre dai denti a sciabola, dal nemico che cercava di cacciarci dalla nostra tribù, da qualsiasi cosa che potesse minacciare la nostra vita. Ancora oggi, quando ci troviamo di fronte  ad  una situazione  stressante la nostra corteccia cerebrale invia al sistema nervoso simpatico il messaggio di preparare il corpo all’azione immediata.

Ecco un paio di esempi che possono aiutarci a cogliere l’immediatezza e gli effetti di tale meccanismo. Abbiamo voglia di mangiare una mela. Andiamo in cucina, raggiungiamo la ciotola in cui teniamo la frutta e … “Oh! Un ragno!”. Immediatamente tendiamo ad indietreggiare, il nostro cuore inizia a battere più velocemente, il nostro stomaco si chiude. Ma, nel giro di pochi istanti, ci rendiamo conto che non ci troviamo di fronte ad un pericolo estremo e il nostro corpo torna rapidamente in equilibrio.

Sei a letto. Vieni svegliato da un rumore. “Oddio, sarà un ladro?” Immediatamente entri in uno stato di allerta – ti siedi, tendi le orecchie, il cuore batte più rapidamente, i polmoni si dilatano per incamerare più ossigeno e ti prepari a reagire. Ad un tratto il tuo compagno grida “Scusa, mi è caduto un piatto”. Fai un respiro profondo e ti tranquillizzi. In entrambi i casi, in un tempo molto breve, ci rendiamo conto che c’è stato un errore nella nostra elaborazione dell’evento e il nostro corpo ritorna rapidamente in equilibrio.

Purtroppo  molti  di  noi  lottano  costantemente  contro  delle  “tigri  invisibili”, percependo  ovunque  pericoli     e minacce e attivando la reazione di “attacco-fuga” anche quando non vi è alcun pericolo reale. Molti sono gli eventi che possiamo percepire erroneamente come una minaccia o un pericolo e che pensiamo di non essere in grado affrontare. Qualche esempio? Dover parlare in pubblico, sostenere un colloquio di lavoro, andare ad un appuntamento, guidare nel traffico, partecipare a eventi sociali, parlare con il capo. Se sei un soggetto ansioso, è probabile che tu abbia paura di molte cose e che la reazione di “attacco e fuga” in te si attivi molto frequentemente.

Naturalmente, le situazioni rappresentano un pericolo solo se le percepiamo come tali.

Esaminiamo ora la fisiologia della reazione di attacco o fuga che, può aiutarci a gestire meglio le situazioni se capiamo esattamente ciò che sta accadendo e perché. E’ fondamentale comprendere che questa è una reazione naturale del corpo, che ha un inizio, uno svolgimento e una fine e che rappresenta una sofisticata catena che si       è sviluppata per aiutarci e proteggerci. Questa consapevolezza ci aiuta a rompere il circolo vizioso della paura e può perfino aiutare a calmarci, consentendoci di gestire i sintomi, riducendone intensità e durata.

COSA ACCADE NEL CORPO QUANDO SI ATTIVA IL MECCANISMO FIGHT or FLIGHT?

Vertigini e capogiri: sono causati dal rilascio di adrenalina e dall’aumento dei livelli di ossigeno;

Visione a tunnel: le pupille si dilatano per far entrare più luce, la muscolatura intorno agli occhi si contrae per migliorare la messa a fuoco sulla minaccia. Come risultato si ha la perdita della visione periferica;

Accelerazione cardiaca: il cuore inizia a battere più velocemente per aumentare la circolazione, prevedendo che i muscoli avranno bisogno di maggiore ossigeno;

Difficoltà di respirazione: le narici si dilatano per far arrivare più ossigeno ai polmoni, così da tenere il passo con l’aumento della circolazione del sangue (questo può innescare una rapida respirazione superficiale);

Tensione del collo e delle spalle: causata dal fatto che arriva più ossigeno ai muscoli;

Rossore: l’adrenalina provoca una dilatazione dei vasi così da migliorare il flusso sanguigno e l’apporto di ossigeno;

Sudorazione: il corpo si riscalda, perché è più difficile lavorare per far circolare il sangue,di conseguenza sudiamo, proprio per permettere al nostro corpo di raffreddarsi e quindi di regolare la temperatura;

Sensazione di “farfalle nello stomaco”: il cortisolo “spegne” il sistema digestivo, in quanto non è necessario per combattere o fuggire, reindirizzando il sangue ai sistemi essenziali come il cuore, i polmoni, le gambe e le Questo può anche causare disturbi gastrointestinali quali nausea e diarrea;

Secchezza delle fauci: il cortisolo spegne temporaneamente anche questo sistema non essenziale, riducendo la produzione di saliva;

Tremori, formicolio e agitazione: causati dal rilascio di adrenalina e dal sovraccarico di ossigeno;

Senso di oppressione al petto e alla gola e difficoltà di respirazione: il corpo si sta sovraccaricando di ossigeno, pertanto cerca di abbassarne il livello, riducendone l’assunzione

Se, in condizioni di normalità, l’ansia rappresenta una specie di allarme adattivo, nella sua espressione patologica, come negli attacchi di panico, assume una connotazione disfunzionale.

Negli attacchi di panico i sintomi fisiologici dell’ansia vengono interpretati in maniera catastrofica, ad esempio una normale accelerazione del battito cardiaco può essere erroneamente interpretata come un attacco di cuore. La persona a questo punto si spaventa ancora di più: ciò ha l’effetto di aumentare ulteriormente l’ansia e quindi di acuire i sintomi. Le sensazioni somatiche vengono quindi vissute come il segno che accadrà qualcosa di terribile e irrimediabile: “Perderò il controllo“, “Sverrò“, “Non tornerò più come prima“, “Mi verrà un infarto“. Si innesca così un circolo vizioso in cui la paura intensa, conseguente alle interpretazioni catastrofiche dei sintomi fisici e mentali, produce, a sua volta, un aumento dei sintomi stessi che vengono ulteriormente interpretati come catastrofici e confermano il timore iniziale di un malore imminente, portando in brevissimo tempo all’attacco di panico. Gli attacchi di panico rappresentano dunque l’esito di interpretazioni “catastrofiche” di normali reazioni corporee dovute all’ansia. La costante attenzione focalizzata sui segnali provenienti dal proprio corpo e dall’ambiente circostante favorisce la paura di un imminente attacco di panico. Questo stato di apprensione e di continuo monitoraggio delle proprie sensazioni interne a sua volta aumenta il livello d’ansia creando un circolo vizioso che si autoalimenta. In conclusione, si può affermare che negli attacchi di panico le reazioni fisiologiche dovute all’ansia vengono interpretate in maniera catastrofica generando una risposta di attacco o fuga, che si attiva però per un falso  allarme.

MITI E LEGGENDE METROPOLITANE

E’ POSSIBILE IMPAZZIRE O PERDERE IL CONTROLLO DURANTE UN ATTACCO DI PANICO? Alcuni effetti della risposta di attacco o fuga, come abbiamo visto, sono responsabili di cambiamenti fisiologici che si attivano naturalmente in ognuno di noi, in presenza di uno stimolo percepito come minaccioso, comportando la comparsa fisiologica di alcuni segni che sono normali manifestazioni dell’ansia ma che possono essere interpretati come pericolosi per la loro natura bizzarra e inusuale e far temere, alla persona che le esperisce, di impazzire. Al contrario invece sono effetti secondari e del tutto fisiologici dell’iperventilazione innescata dalla paura, che ha la funzione adattiva di accumulare ossigeno per allertare il corpo al fine fronteggiare un pericolo. Questa risposta comporta l’alterazione del normale equilibrio tra ossigeno e anidride carbonica, con l’effetto di aumentare l’apporto di ossigeno in alcune aree del corpo e del cervello e dando luogo a senso di irrealtà, sensazioni strane rispetto al proprio corpo o parti di esso, confusione. Questa gamma di segnali sono temporanei e transitori al contrario di patologie quali la schizofrenia che è una condizione cronica i cui sintomi spesso riguardano alterazioni del pensiero e del comportamento, oltre deliri, allucinazioni e altre manifestazioni gravi con una genesi specifica e non legata all’interpretazione catastrofica dei sintomi ansiosi.

E’ POSSIBILE SVENIRE DURANTE UN ATTACCO DI PANICO? NO. Molte persone, specie quelle che sentono il bisogno di essere sempre presenti a se stessi e hanno un eccessivo bisogno di controllo, hanno il timore che durante gli attacchi di panico possano svenire o non essere più in grado di badare a se stessi. In realtà la paura dello svenimento è molto spesso legata al timore di essere in balia degli altri e di subirne l’ostracismo sociale. Spesso la persona immagina che perdendo i sensi possa esporsi ad umiliazioni, giudizi negativi, compromissione della propria immagine sociale. Per fortuna, come dicevamo all’inizio, durante l’attacco di panico lo svenimento è un evento alquanto raro poiché, l’organismo si prepara a fronteggiare una minaccia e quindi più che svenire mette in atto una risposta di ipervigilanza, di reattività, di attacco o fuga. Effettivamente durante la crisi di panico tutto sembra accelerato e gli effetti dell’ansia e dell’adrenalina, hanno come risultato quello di “eccitare” più che far perdere i sensi. Tra l’altro durante l’attacco di panico si ha tachicardia e aumento della pressione arteriosa che difficilmente sono compatibili con lo svenimento o il collasso.

E’ POSSIBILE AVERE UN INFARTO PER UN ATTACCO DI PANICO? La paura di avere un attacco di cuore è abbastanza comune, tanto che spesso, la diagnosi di attacco di panico viene fatta proprio al pronto soccorso, dove la persona è giunta temendo di avere un problema cardiaco. Come abbiamo visto in precedenza, in assenza di pregresse problematiche cardiache, la risposta ad uno stimolo minaccioso provoca esclusivamente un aumento del livello di ansia che può tradursi in un corteo di sintomi che possono far pensare a problematiche cardiache. La tachicardia, il possibile dolore al petto, la fame d’aria e le difficoltà respiratorie possono essere scambiate per un attacco di cuore specie in chi è al primo attacco di panico. Ovviamente vi sono delle differenze tra una ischemia cardiaca e l’attacco di panico anche se i sintomi possono assomigliarsi, ad esempio il dolore al petto e la mancanza d’aria dell’ischemia di solito sono legati a sforzi fisici e migliorano con il riposo mentre, nell’attacco di panico, possono presentarsi all’improvviso e in assenza di sforzi fisici. In ogni caso gli esami clinici, come l’elettrocardiogramma, possono differenziare le due condizioni. Ancora una volta dobbiamo soffermarci sul fatto che l’ansia alimenta se stessa: immaginiamo una persona che all’improvviso inizia a sentire il cuore che batte più velocemente, sente dolori al petto ed inizia a mancargli l’aria, è possibile che in una situazione del genere la persona si spaventi e inizi a temere il peggio. L’ansia provocata da una tale minaccia non fa altro che aumentare i sintomi (tachicardia, dolori  al petto, fame d’aria etc.) confermando l’interpretazione catastrofica che si sta per avere un attacco di cuore.

E’ VERO CHE DA QUESTA PATOLOGIA NON SI GUARISCE? NO. Esistono due tipologie di trattamento considerate d’elezione, la terapia farmacologica e la Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale. Il NICE (National Institute for Health and Care Excellence) inserisce nelle linee guida per il trattamento psicologico del panico la Terapia Cognitivo Comportamentale, che nei vari studi si è rivelata efficace sia nella riduzione dei sintomi sia nella prevenzione delle ricadute future. In base ai risultati di alcuni trial clinici, la terapia cognitivo- comportamentale può portare a tassi di remissione che vanno dal 70% al 90%. Essa si basa su protocolli di trattamento, in genere di breve durata, durante i quali il paziente prende consapevolezza dei pensieri che alimentano il suo disturbo e che influenzano il suo comportamento, imparando quindi a gestirli in maniera più proficua e a non farsi travolgere dall’esperienza del panico. Lo psicoterapeuta può aiutare la persona a sviluppare nuovi modi di comportarsi e di pensare, utili a gestire in modo funzionale e a lungo termine il problema. L’esposizione graduale alle situazioni temute, in immaginazione e in vivo, è una delle tecniche utilizzate per aiutare il paziente ad affrontare nuovamente tutte le situazioni temute o evitate, prima insieme al terapeuta e poi in autonomia, applicando le strategie apprese nel corso delle sedute.



Dott.ssa Caterina Franci 

Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

Dal Sito: mindfulnessfirenze.it



giovedì 12 aprile 2018

Mariah Carey: «Combatto il disturbo bipolare da 17 anni»

Duecento milioni di dischi venduti e un dolore attraversato, finora, in silenzio. «Mi rifiuto di lasciarmi definire o controllare dalla malattia»

«Ho un disturbo bipolare: ci convivo da 17 anni». Per la prima volta, Mariah Carey ha parlato a People(che le ha dedicato la copertina di questa settimana) della sua lunga battaglia conto il disturbo che le è stato diagnosticato nel 2001, quando fu ricoverata per «un crollo fisico e mentale».

«Non volevo crederci», ha detto. «Fino a poco tempo fa vivevo nella negazione, nell’isolamento e nella costante paura di essere esposta. Era un peso troppo pesante da portare e semplicemente non riuscivo più farlo. Ho cercato e ricevuto cure, mi sono circondata di persone positive e sono tornata fare ciò che amo: scrivere canzoni e fare musica».

Nonostante sia una delle cantanti di maggior successo di tutti i tempi, con 200 milioni di dischi venduti, Mariah Carey ha trascorso anni soffrendo in silenzio. Finalmente, adesso, è in terapia per vincere il suo disturbo, che alterna periodi di depressione e ipomania. «Sto assumendo farmaci che mi fanno abbastanza bene. Non mi fanno sentire troppo stanca o pigra. Trovare il giusto equilibrio è la cosa più importante».

E ancora: «Per molto tempo pensavo di avere un grave disturbo del sonno – spiega la cantante, ora di nuovo in studio per lavorare su un album che uscirà alla fine dell’anno -. Ma non era normale insonnia e non stavo sveglia a contare le pecore. Lavoravo, lavoravo e lavoravo… Ero irritabile. Mi sentivo così sola e triste, e anche colpevole di non aver fatto tutto ciò che dovevo per la mia carriera».

L’errore è stato cercare di cavarsela da sola. «Il disturbo bipolare può far sentire incredibilmente isolati. Ma mi rifiuto di lasciarmi definire o controllare dalla malattia».

Dal Sito: vanityfair.it

lunedì 9 aprile 2018

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo relazionale


L’ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI

di Giuseppe Femia

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo relazionale

Il disturbo ossessivo di tipo relazionale sembra essere diventato un fenomeno sempre più diffuso e manifesto. Nello specifico, tale condizione viene definita R-OCD: Relationship Obsessive-Compulsive Disorder e richiede incessanti controlli a causa di pensieri intrusivi e ricorrenti, al punto da interferire nel funzionamento globale.

La ruminazione, meccanismo tipicamente implicato nei ragionamenti di pensiero prudenziale, si concentra sulla qualità dei propri rapporti affettivi e sul dubbio circa le proprie relazioni amorose.

I rapporti diventano terreno fertile per pensieri ricorrenti che angosciano e attivano sensazioni di ansia e sofferenza generalizzata.

I pensieri tipici potrebbero essere: “Se non fossi innamorato? Se non fosse la persona giusta per me? E se stessi scegliendo male? Se non sono così sicuro, allora dovrei lasciarla/o? Non dovrei avere questi dubbi? Se gli facessi male? Forse non è il caso di creare un legame?

Queste domande richiedono continui controlli sulla relazione, su se stessi e sulle proprie emozioni.

Si assiste a una quasi inversione del sentire emotivo con una continua vigilanza cognitiva sui propri sentimenti, sulle sensazioni, comprese quelle concernenti la sessualità.

Questo tipo di fenomeni innescano processi di ragionamento emozionale che selezionano in modo arbitrario e selettivo dettagli, ricordi e sensazioni che andrebbero a confermare il rischio che la relazione non sia quella giusta.

Ad esempio, ci si concentra su ricordi in cui le interazioni amorose non sono state brillanti o momenti di attrazione anche solo transitoria per un’altra persona, oppure paragoni con rapporti precedenti, cercando di misurare il coinvolgimento emotivo attuale paragonato a quello del passato con un altro partner o durante i momenti iniziali di innamoramento. Alla base si rintracciano anche meccanismi dicotomici di pensiero in cui non si riesce a trovare una via di mezzo, una sorta di visone della coppia o bianca (ideale-perfetta) o nera (distruttiva, noiosa, deludente).

Tali manifestazioni spesso bloccano le persone, inibiscono l’avvio di una buona capacità di entrare in contatto con gli altri e la costruzione di legami di scambio reciproco e autentico, riducendo così la spontaneità delle interazioni.

Talvolta capita di trovarsi incastrati in relazioni non soddisfacenti per l’incapacità di chiudere il rapporto in corso, nonostante sia disfunzionale a causa della continua incertezza circa la scelta giusta o sbagliata su cui si “tribola” senza sosta.

Sembrerebbe instaurarsi una relazione con tratti di dipendenza emotiva e vissuti di colpa esperiti.

In particolare sembra essere presente il timore di poter ferire gli altri, un senso di colpa altruistico che anticipa il dolore che si potrebbe arrecare al partner: “Potrei farla/o stare male, potrebbe impazzire a causa mia”.

Alle volte capita di dover mettere sotto controllo anche la reazione dell’altro di fronte a tematiche di chiusura e abbandono, o si presenta l’impulso di dover chiudere la relazione, per sfuggire all’insorgenza di stati ansiosi incontrollabili. Il distanziamento viene dapprima prodotto per controllare i propri dubbi e, in un secondo momento, interpretato erroneamente come la conferma di come la relazione non funzioni (confirmation bias).

Spesso i dubbi riguardano anche il partner e l’attenzione si concentra su difetti fisici che non convincono, caratteristiche positive e negative: “Non mi piace una sua espressione! Forse non è abbastanza intelligente? Potrebbe non essere capace di costruire una famiglia!”; “È dolce, è una buona persona”.

In altri casi, si mette in atto una ricerca di rassicurazione coinvolgendo gli amici oppure un meccanismo di controllo “nascosto” attuato paragonando il proprio rapporto a quello di altre coppie.

Alcuni potrebbero arrivare a testare la propria fedeltà espandendosi a piattaforme sociali di incontri, per scongiurare la loro capacità di essere responsabili e ancora innamorati, o frequentare ex partner per confermarsi come la persona attuale sia migliore e più adatta.

Spesso questa sintomatologia si inserisce in momenti di transizione importanti in cui si assiste a un cambiamento di vita e di ruolo del soggetto coinvolto, in cui si attraversa un periodo di crescita e un aumento di responsabilità, per esempio nei momenti di passaggio da fidanzati a sposati, da compagno/a a marito/moglie o in situazioni in cui si ha la percezione di poter tradire le aspettative degli altri.

Da una valutazione qualitativa, in fase di assessment, le persone che presentano questa tipologia di Doc potrebbero presentare punteggi elevati ai test che valutano la sensibilità verso la responsabilità (Guilt Inventory) in associazione a punteggi elevati nell’area che registra il funzionamento ossessivo (sotto scala DOC).

Inoltre, potrebbero esibire temi di scarsa autostima e ambivalenza nei processi di adattamento interpersonale e funzionamento affettivo/relazionale; essi sembrano rilevabili mediante un’attenta analisi dei loro protocolli MMPI.

In questo test della personalità nei soggetti con Doc relazionale, si potrebbero rintracciare punteggi relativi a una scarsa capacità assertiva, vissuti di demoralizzazione secondaria, tematiche di dipendenza/compiacenza verso il mondo ambiente con un bisogno importante di conferme e rassicurazioni da parte degli altri.

Mi piace, e credo possa essere utile, l’idea di chiudere questa breve descrizione proponendo una vignetta che rappresenta un passo cruciale del racconto “Il piccolo principe”.


Il tema proposto nell’immagine sembra rappresentare in modo delicato e chiaro il tema del legame e la paura della responsabilità relazionale: “addomesticare”.

Proprio questo concetto preoccupa le persone che soffrono di un disturbo ossessivo a tematica relazionale.

La volpe dice: “Diventerai responsabile per sempre di quello che hai addomesticato, tu sei responsabile della tua rosa”.

Il personaggio della volpe sembra dunque recitare davvero alcuni timori nucleari presenti nella dimensione del Doc relazionale. In qualche modo reclama la responsabilità rispetto alla vulnerabilità altrui, rappresentata dalla rosa nella metafora, e dunque nei confronti del proprio partner.

Infine, anche la frase divenuta condivisa e collettiva “L’essenziale è invisibile agli occhi” potrebbe suggerire, a chi presenta i sintomi sopra descritti, come il continuo monitoraggio cognitivo dei pensieri non garantisca il successo rispetto al chiarimento circa le proprie emozioni, anzi, al contrario, potrebbe offuscare ulteriormente la visione dei propri sentimenti, creando confusione, incrementando gli interrogativi sulle relazioni, innescando ragionamenti viziati da vissuti di ansia e angoscia.

 Dal Sito: cognitivismo.com

venerdì 6 aprile 2018

Attacco di panico: come riconoscerlo e superarlo



Cos’è l’attacco di panico

«L’attacco di panico è un disturbo d’ansia che insorge in uno stato di calma o, al contrario, di stress conclamato ed è caratterizzato da un aumento improvviso di paura e di disagio fisico e psichico» spiega Paola Vinciguerra, psicoterapeuta e Presidente dell’EURODAP, l’Associazione Europea per il disturbo da attacchi di panico.

I sintomi

«L’improvvisa scarica di adrenalina che investe il nostro corpo provoca diverse reazioni fisiche ed emotive come tachicardia, giramenti di testa e vertigini, sensazione di soffocamento e paralisi, tremore alle gambe, sudorazione, dolore al petto, nausea, necessità di correre in bagno, effetti percettivi di depersonalizzazione e paura di morire» puntualizza Vinciguerra.

Perché viene

«L’attacco di panico può insorgere in seguito a un evento traumatico vissuto sulla propria pelle o può essere immotivato, cioè presentarsi all’improvviso senza alcuna causa reale scatenante» specifica la psicoterapeuta. «Nel primo caso, la persona inizia a soffrire di questo disturbo d’ansia dopo aver subito un trauma, più o meno grave: ad esempio, molti di quelli che erano a bordo della Crociera Concordia durante l’affondamento hanno iniziato ad avere problemi di insonnia, flashback di quell’episodio e attacchi di panico, insorti perlopiù in situazioni che ricordano quelle vissute durante la tragedia (ad esempio al supermercato, dove le file e il vociare richiamano quelli presenti sulla nave). Nel secondo caso, invece, questi attacchi possono sopraggiungere senza un motivo apparente, in concomitanza con cambiamenti o traguardi imminenti che possono “scombussolare” il proprio equilibrio (il raggiungimento della maggiore età, la laurea, l’ingresso nel mondo del lavoro, l’abbandono del tetto familiare, la convivenza, il matrimonio, la procreazione), momenti di forte stress, paure inconsce (luoghi chiusi o affollati, vertigini

Quando rivolgersi al medico

«Se una persona ha un attacco di panico ma non vive nel controllo e nell’ansia, potrebbe trattarsi solo di un episodio temporaneo, per il quale potrebbe non essere necessario l’intervento di un medico. Al contrario, se si vive con una sensazione di minaccia continua, si evitano le relazioni, ci si sveglia di notte con tachicardia e agitazione, forse sarebbe davvero il caso di rivolgersi a uno psicoterapeuta» conferma Vinciguerra.

EMDR: un nuovo approccio terapeutico

«L‘EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un nuovissimo approccio terapeutico accreditato scientificamente, utilizzato per trattare i disturbi post-traumatici da stress. Questo metodo, che si basa sulla stimolazione attraverso movimenti oculari, consente di “spostare” il ricordo angosciante e doloroso del trauma dalla corteccia frontale, dove è rimasto finora emotivamente attivo, alla corteccia parietale, dove sarà immagazzinato tra gli eventi del passato, senza più suscitare paura e stati d’ansia» spiega Vinciguerra. «Alla fine di questo percorso, la persona, che ha affrontato i suoi fantasmi, riprende finalmente in mano la sua vita, con la mente sgombra e serena».

Farmaci

Per il trattamento dei disturbi d’ansia esistono anche farmaci in grado di aumentare i livelli di serotonina (l’ormone del benessere) in alcune aree cerebrali, prolungandone l’attività. In questo caso si possono riscontrare buoni risultati con gli antidepressivi serotoninergici (SSRI), prescritti dopo un’attenta valutazione dello specialista.

Respirazione e rilassamento

«È fondamentale imparare a respirare correttamente, meglio se col diaframma, per riequilibrare i livelli di adrenalina e serotonina nel sistema nervoso centrale» conferma Vinciguerra. Le persone colpite dagli attacchi di panico non devono iperventilare, cioè accelerare troppo la respirazione: questa anomalia, collegata spesso agli stati di ansia, facilita la comparsa degli attacchi, perché fa calare la concentrazione di anidride carbonica nel sangue, con danni all’attività nervosa

Varie tecniche respiratorie o di biofeedback permettono di ottenere buoni risultati, sotto la guida di un istruttore esperto. Anche lo yoga e alcune tecniche di meditazione risultano molto utili.

Dal Sito: giornalenotizie.online

giovedì 5 aprile 2018

Hikikomori, la sindrome dei ragazzi che si chiudono in camera e rifiutano ogni aiuto


Molto diffusa in Giappone, colpisce tanti adolescenti anche in Italia. Non è depressione, non è dipendenza dai videogames, non è solo un disturbo d'ansia. Cosa c'è da sapere e come intervenire

Il fenomeno è sconosciuto, quasi “invisibile” come i soggetti che ne soffrono: si chiama “Hikikomori”, in giapponese significa “stare in disparte” e colpisce più adolescenti (anche italiani) di quanto si possa immaginare. Non li vediamo perché la loro vita si svolge interamente in una stanza: la loro camera da letto. Si rifiutano di uscire, di vedere gente e di avere rapporti sociali. In quella stanza leggono, disegnano, dormono, giocano con i videogiochi e navigano su Internet. Ma soprattutto proteggono loro stessi dal giudizio del mondo esterno. Chi attribuisce la colpa del disagio alle nuove tecnologie sbaglia di grosso. Le cause sono molteplici e il fenomeno è sorto prima dell’avvento del pc. Di noto c’è che l’isolamento può durare alcuni mesi o anni, ma una cosa, sostengono gli esperti, è certa: non si risolve mai spontaneamente. Cos’è, come riconoscerlo e curarlo? Lo abbiamo chiesto a Marco Crepaldi, presidente di Hikikomori Italia, “un progetto di sensibilizzazione e informazione corretta sul fenomeno che i media – ma anche i medici - tendono a confondere con la depressione o con la dipendenza da Internet”.

Cos’è l’hikikomori

L’hikikomori è un meccanismo di difesa messo in atto come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale tipiche delle società capitalistiche economicamente più sviluppate. Spiega all’Agi Crepaldi: “L’hikikomori è il frutto si una società che esercita sui ragazzi una serie di pressioni che vanno dai buoni voti scolastici, alla realizzazione personale, alla bellezza fino alla moda”.  Ragazzi e ragazze si trovano così a dover colmare virtualmente il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative di genitori, insegnanti e coetanei. Quando questo gap diventa troppo grande si sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento. A loro volta questi sentimenti negativi possono portare ad un atteggiamento di rifiuto verso quelle che sono le fonti di tali aspettative sociali. E siccome queste fonti sono rappresentate, come detto, dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei e, più in generale dalla società, il ragazzo tenderà spontaneamente ad allontanarsene e a rifugiarsi nella propria camera dove è immune al sentimento della vergogna.

Come si riconoscono gli hikikomori?

I primi segnali arrivano generalmente dalla fase pre-adolescenza fino a quella adulta, don due passaggi chiave: l’inizio e la fine delle scuole superiori. “Le prime perché il ragazzo a confrontarsi con insegnanti e compagni di classe nuovi. La seconda perché è il momento in cui bisogna tracciare la strada che si vuole seguire nella vita”. Spesso la chiusura non è netta: il primo segnale preoccupante sono le frequenti assenze a scuola, tanto che l’assenteismo – che può durare anche anni – è frequentissima nei casi di hikikomori. Tra gli altri principali campanelli d’allarme ci sono:

l’inversione del ritmo sonno-veglia

l’auto-reclusione in camera da letto

la preferenza per le attività solitarie

Quanti sono e chi sono gli hikikomori italiani

Al momento in Giappone ci sono di oltre 500.000 casi accertati, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione (l'1% dell'intera popolazione nipponica). Nel nostro Paese, secondo Hikikomori Italia, alcune stime (non ufficiali) riportano almeno 100.000 casi. “La maggior parte dei ragazzi hanno tra i 15 e i 25 anni, ma non mancano casi più giovani o più adulti. Provengono da famiglie benestanti e spessissimo sono figli unici in quanto subiscono le maggiori aspettative genitoriali. In moltissimi casi sono figli di genitori separati. Sono ragazzi molto intelligenti, che non hanno alcun problema a livello scolastico e che hanno poco in comune con i compagni di classe”.

Perché si diventa hikikomori

Le cause sono varie, ma alla base c’è una fragilità caratteriale dei ragazzi che provano dolore e disagio nel vivere alcune situazioni sociali. L’hikikomori sarebbe infatti il risultato di una serie di concause caratteriali, sociali e familiari. Eccole spiegate una per una.

Caratteriali: Gli hikikomori sono ragazzi molto intelligenti, ma anche particolarmente introversi e sensibili. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell'instaurare relazioni soddisfacenti e durature, così come nell'affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita riserva.

Familiari: L'assenza emotiva del padre e l'eccessivo attaccamento con la madre sono indicate come possibili cause, soprattutto nell'esperienza giapponese. 

Scolastiche: Il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d'allarme dell'hikikomori. L'ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. Molte volte dietro l'isolamento si nasconde una storia di bullismo. 

Sociali: Gli hikikomori hanno spesso una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale che da essa derivano, a tal punto da arrivare a ripudiarle. 

Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Il disagio cresce col crescere dell’età: mentre gli hikikomori restano chiusi in camera, i compagni si diplomano, si laureano, trovano lavoro. E il confronto con gli amici per questi ragazzi diventa sempre più insopportabile.

Cosa NON è l’hikikomori

Sempre più spesso l’hikikomori viene scambiato con patologie con cui non ha nulla a che fare, generando una grande confusione intorno al fenomeno. Ecco cosa non è l’hikikomori.

Non è dipendenza da internet: Il fenomeno è scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer. Questo significa che prima che esistesse internet l'isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista l'utilizzo del web può addirittura essere interpretato come un fattore positivo in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali che altrimenti non avrebbero.

Non è depressione:Secondo molti l'isolamento degli hikikomori sarebbe solamente la conseguenza di uno stato depressivo. “Si tratta di una falsa credenza, nonché di una banale semplificazione”, spiega Marco Crepaldi. Innanzitutto, come stabilito anche dal Ministero della Salute Giapponese nel 2013, l'hikikomori non è una malattia (al contrario della depressione). È stata infatti dimostrata l'esistenza di un "hikikomori primario", ossia un hikikomori che si sviluppa prima e a prescindere da altre patologie; uno stato di ritiro che non deriva da nessun disturbo mentale preesistente”.

Non è una fobia sociale: Così come l'isolamento dell'hikikomori non è causato dalla depressione, esso non nemmeno riconducibile semplicemente a un disturbo d'ansia, come, ad esempio, la fobia sociale o l'agorafobia (ovvero la paura degli spazi aperti, dei luoghi pubblici). “È innegabile che dopo un lungo periodo di isolamento una persona possa sviluppare una dipendenza dal computer, possa sperimentare un calo dell'umore o avere paura di uscire di casa, ma questo può portarci ad affermare che dipendenza da internet, depressione e fobie sociali siano la causa dell'hikikomori?  La risposta è "no"”.

È possibile aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato?

La risposta è sì. Sbagliato però sottoporre i ragazzi a una terapia tradizionale – ammesso che i diretti interessati vogliano farlo -.  “Oggi ci sono pochi terapeuti ben formati sul problema. I medici non conoscono il fenomeno, non sanno da dove iniziare e tendono a inquadrarlo nelle categorie classiche: fobia sociale, disturbo della personalità, depressione…”, spiega Crepaldi. “L’approccio giusto, invece, è diverso e richiede il coinvolgimento dei entrambi i genitori. Spesso accade che solo la mamma si renda disponibile. La buona riuscita della terapia dipende anche dal papà”. Quanto ai farmaci nella fase inziale sono inutili. “La terapia farmacologica può rivelarsi utile nella fase acuta, quando il ragazzo dopo anni di isolamento, inizia a manifestare anche sindrome paranoide”.  Per Crepaldi, inoltre, è fondamentale che i genitori tengano sempre in mente questi tre punti:

Non lo sto facendo per me: Quando vogliamo a tutti i costi aiutare una persona dobbiamo sempre ricordarci che lo stiamo facendo per il suo bene, non per il nostro. Quindi l'obiettivo non deve essere quello di spingere nostro figlio a vivere la vita che noi riteniamo essere più giusta per lui, ma semplicemente aiutarlo a trovare la sua strada, la vita che speriamo possa renderlo più sereno (anche se non corrisponde al nostro modello di vita ideale);

Posso aiutarlo fino a un certo punto: L'impatto che le nostre parole e le nostre azioni possono avere sulla vita di un'altra persona non può mai superare determinati limiti. È doveroso provare ad aiutare una persona che riteniamo essere in pericolo, ma allo stesso tempo, non possiamo agire per conto di quella persona e la nostra responsabilità sulle sue scelte è, giustamente, ridotta. Ognuno è padrone della propria vita, anche nostro figlio.

Devo continuare a vivere la mia vita: Quando si ha un figlio in difficoltà si farebbe di tutto pur di aiutarlo, anche sacrificare il proprio benessere personale. Eppure, un atteggiamento di abnegazione rischia di provocare l'effetto opposto in un hikikomori, il quale, sentendo su di sé maggiore pressione da parte dei genitori, potrebbe reagire isolandosi ancor più gravemente. Per questo motivo bisogna sforzarsi di continuare a condurre una vita normale senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d'ordine è sempre "pazienza".


di

Dal Sito: agi.it