giovedì 27 luglio 2017

Imparare a dire No: l’importanza di affermare se stessi e le proprie esigenze


Dire di no permette di mettere in luce i propri bisogni e tutelare i propri valori personali, facendo capire all'altro che abbiamo esigenze da rispettare

POTER DIRE UN NO, CORRISPONDE A CAPIRE CHE GLI ALTRI POSSONO RICONOSCERCI PER QUELLO CHE SIAMO ANCHE SE NON SI È D’ACCORDO CON LORO. DIRE NO, METTE IN LUCE I NOSTRI BISOGNI, E FA CAPIRE ALL’ALTRO CHE SIAMO PERSONE DIVERSE CON PROPRIE ESIGENZE DA CONSIDERARE E RISPETTARE.


Quanti di vuoi faticano a dire NO?.

Come è possibile che una parola mosillaba possa creare così tanti problemi nel pronunciarla?

Eppure, dire un no crea molti problemi, soprattutto perché mette in gioco una serie di emozioni negative, difficili da tollerare.

Rispondere con un sì a tutto, anche quando si pensa l’esatto contrario di quello che si sta affermando, cela chiaramente la necessità di voler essere compiacenti nei confronti dell’altro, perché si teme possa accadere qualcosa di catastrofico, difficile da gestire.

Nel dettaglio, si dice si perché, tendenzialmente, si ha paura di non piacere all’altro e di conseguenza l’altro potrebbe avere un pessimo giudizio della nostra persona, oppure per paura del conflitto e delle conseguenze che potrebbe portare in futuro, o, ancora, paura di poter perdere un’occasione importante e che non possa ripresentarsi mai più.
Poter dire un no, corrisponde, invece, a capire che gli altri possono riconoscerci per quello che siamo anche se non si è d’accordo con loro. Dire no, mette in luce i nostri bisogni, e fa capire all’altro che siamo persone diverse con proprie esigenze da considerare e rispettare.

Le ricerche dimostrano che è più facile rispondere con un sì a una richiesta perché dire no mette a disagio e fa emergere emozioni negative, come la colpa, la vergogna, la paura. Ciò è particolarmente vero quando le persone si trovano a prendere una decisione vis a vis.

Nel remoto caso in cui si dovesse rispondere con un no, pare si diventi più propensi a dire sì alle richieste successive. Il senso di colpa che deriva dall’aver detto il nodetermina il bisogno di rimediare al danno arrecato per recuperare al presunto torto compiuto senza creare ulteriori disagi. La gente è addirittura d’accordo ad acconsentire a richieste immorali piuttosto che rischiare l’ imbarazzo di dire un no.
Da un punto di vista neuroscientifico pare che i nostri cervelli abbiano una maggiore reazione al negativo che al positivo, tant’è che le informazioni negative producono una attivazione cerebrale più ampia e un’attività elettrica più rapida della corteccia, rispetto alla risposta positiva.

Sembra che i ricordi negativi siano più forti di quelli positivi, perché un ricordo di qualcosa di negativo ci dà memoria di quanto è stato e permette di evitare quella cosa in futuro, quindi ha una funzione adattiva e di apprendimento.

In uno studio pubblicato sulla rivista Personality e Social Psychology Bulletin, la dottoressa Bohns e il suo team avevano chiesto a un gruppo di studenti universitari di rovinare un libro della biblioteca scarabocchiandolo. La metà di loro ha accettato di deturpare il libro. Secondo la Bohns questo comportamento è determinato dal sentirsi appartenenti a un gruppo sociale. Quindi, dire no farebbe sentire in pericolo di espulsione dallo stesso e di conseguenza metterebbe a repentaglio le relazioni sociali.
Spesse volte, sentirsi dire un no lascia basiti, perché nell’immaginario collettivo questa parola assume connotazione negativa di rifiuto ogni qualvolta è usata. Ma le conseguenze del dire un no spesso sono sovrastimate da noi stessi, poiché non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Naturalmente , non tutti hanno problemi a dire no. Sembra che alcuni abbiano più difficoltà di altri, dipende dal carattere che si ha. La Bohns dice di non aver trovato differenze di genere nella sua ricerca, al contrario di alcuni esperti che sostengono che le donne possono avere più difficoltà a dire di no rispetto agli uomini , in quanto spesso sono condizionate a mantenere i rapporti e a preoccuparsi troppo dei bisogni degli altri al punto da fugare i propri.

Tutte queste persone col tempo, e a proprie spese, imparano ad apprezzare l’importanza di dire no, perché apprendono che così facendo proteggono la propria individualità e i propri bisogni, altrimenti tendono a soddisfare solo gli interessi degli altri e non i propri.
Insomma, dire no significa non rispondere e non adeguarsi alle pressioni cognitive e sociali dettate da terzi e questo serve a tutelare i propri valori.

Ma, allora, qual è il modo migliore per rifiutare una richiesta? Di seguito alcuni suggerimenti.

1. Essere semplici e diretti nel dare una risposta:

Ti ringrazio, ma non posso.

Grazie, ma non riesco.

2. Motivare la risposta riferendosi a circostanze esterne:

No, grazie. Ho preso un altro impegno.

Mi spiace, ma avevo promesso a mio figlio di passare del tempo con lui.

3. Essere convincente, ma educato:

Preferisco rifiutare, mi spiace;

No, grazie.

In sostanza, bisogna:

1. Allenarsi nel provare a dire di no per non rimanere senza parole nel caso si presentasse questa evenienza.

2. Costruire delle frasi pronte del tipo: “Ci penserò” da utilizzare all’occorrenza.

3. Rimandare una risposta aumenta la possibilità di dire no.

4. Addolcire il tono della voce per far si che il no detto non offenda troppo le persone.

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2014/05/imparare-adiredino-importanza-diaffermare-sestessi-ele-proprie-esigenze/

Paure e ansia: cosa fare


Per sconfiggere ansia e paure è necessario cambiare mentalità, ecco un buon metodo.

Liberiamoci dalle gabbie dell'ansia!
Superare paure e ansia si può se si cambia mentalità

Esistono tecniche efficaci per superare il disagio che ci viene da paure e dall' ansia? Sì, purché cambiamo mentalità. Quando ci vengono a trovare queste emozioni che giudichiamo spiacevoli, solitamente tentiamo di scacciarle in tutti i modi, infatti siamo abituati a vedere il malessere come un veleno che ci intossica e che bisogna "sputare fuori" il prima possibile. In realtà ansia e paure non sono mostri da combattere, ma sono energie profonde che nascono dall'anima che ci sta inviando per evolvere. In ognuno di noi infatti esiste una parte invisibile, uno "spazio interno"che è il vero protagonista della nostra vita emotiva al quale dobbiamo imparare ad affidarci.

Da questo lato nascosto si originano le sofferenze, l' ansia prende corpo le paure. Questi stati emotivi hanno la funzione di portare a maturazione il nostro sviluppo creativo. Ecco perché le tecniche che qui vi suggeriamo non sono finalizzate a combattere le paure ma a incontrarle, a lasciare che dispieghino la loro carica trasformativa e vitale per svanire poi spontaneamente. Occorre allora "farsele amiche" accettare la presenza dell' ansia e delle paure, conoscerle imparando a fidarsi e a non temere i "mostri" che vengono ad incontrarci: sono loro il nostro tesoro.

Paure e ansia: ecco cosa fare

- Quando arrivano ansia e paure non cercare di scacciarle, il dolore non è mai inutile e porta sempre a una trasformazione profonda e salutare, al sorgere di una nuova consapevolezza, all'affiorare di desideri nuovi, alla realizzazione di cambiamenti che ci fanno crescere. Se impari ad accogliere il disagio come fosse un'amica ti accorgerai che presto qualcosa di nuovo accadrà dentro di te.

- Quando arriva il disagio, l' ansia o la paura resisti alla tentazione di reagire, di agitarti, di attivarti mentalmente. Non commentarlo, non giudicarlo e non cercarne mai le cause! Qualsiasi cosa tu faccia per scacciarlo ti porterebbe fuori strada.

- Quando l' ansia ti assale cerca una posizione comoda e lascia che il brutto pensiero si presenti e si espanda. Accogli le sensazioni che arrivano, limitati a constatarle senza commenti: "Ecco ora l' ansia mi è venuta a visitare". Cercale in punti precisi del corpo: forse nel petto trovi l'ansia, ma nella pancia è assente. Percepiscile senza dirti niente. Stai fermo e rilassato, avverti il dolore che si dilata fino a dissolversi. Poi lentamente riprendi a muoverti.


Dal Sito: www.riza.it
 

GLI ATTACCHI DI PANICO : MITOLOGIA E PSICOSOMATICA



IL DIO PAN ED IL PANICO 



“Le divinità sono diventate malattie” (Jung, Opere XIII)

Come accade per la maggior parte dei miti, esiste più di una versione a proposito della nascita del Dio Pan. I mitografi ci dicono che si possono rintracciare più di venti origini di Pan il quale, di volta in volta, e figlio di Zeus, di Crono, Di Apollo, di Ermes, di Urano, di Odisseo.





Tale molteplicità ci comunica da subito qualcosa di importante: lo spirito di Pan può sorgere veramente in ogni luogo.

Kerènyi, riprendendo l’Inno omerico a Pan, racconta che Ermes stava pascolando le capre quando vide la ninfa Driope e se ne innamorò. Dalla loro unione nacque “un bambino prodigioso, con corna e piedi di capra, molto chiassoso e allegro”. Appena la madre lo vide corse via spaventata dalla sua bruttezza. Allora Ermes lo raccolse, lo avvolse in una pelle di lepre, lo portò sull’Olimpo e lo presentò agli altri Dei. Ognuno di loro lo accolse con benevolenza e lo chiamarono Pan perché “tutti ne provavano piacere”.


In queste poche righe si configurano già alcuni importanti mitologemi:

– Pan è innanzitutto un bambino abbandonato.

– Il padre lo avvolge in una pelle di lepre: animale sacro ad Afrodite e ad Eros e legato al mondo di

Bacco e alla Luna. Il destino di Pan è quello di essere immerso in queste strutture archetipiche, il Dio è quindi collegato all’eros, alla lussuria, ai piaceri, all’errare vagabondando nella natura.

– E’ gradito agli Dei i quali guardano a lui con favore.

– E’ figlio di Ermes e come tale è portatore di un carattere ermetico: le azioni di Pan celano dei messaggi. L’attivazione dell’archetipo di Pan può determinare come ci comportiamo nei momenti di debolezza e di smarrimento, di abbandono appunto. Può rivelarsi nel modo in cui viviamo l’eros, quando “ci togliamo la soffice pelliccia di lepre e sveliamo il ruvido e selvatico capro”.

Pan è gradito agli Dei perché ciascuno vede rispecchiato in lui qualche suo aspetto, in un certo modo Pan è parte di ognuno di loro.

Hillman afferma che “in quanto Dio di tutta la natura Pan è per la nostra coscienza ciò che è puramente naturale, il comportamento (…) al di là degli scopi personali, quando è massimamente oggettivo”. Pan rappresenta il comportamento per il quale la nostra ragione non trova una causa, l’istinto la cui origine è oscura così come è oscura la genealogia del Dio. Pan è l’immagine che dentro di noi governa le reazioni sessuali e di panico, i due poli estremi di ogni comportamento istintuale umano: l’avvicinamento e la fuga. È il nostro istinto, la natura dentro di noi.

Nella sua disamina del comportamento istintuale, Jung delinea un continuum ad una estremità del quale pone il comportamento coatto e arcaico e all'altra estremità colloca le immagini archetipiche. Eventi che accadono nel corpo hanno il loro analogo nella mente. Come dire che mentre l’istinto agisce e si manifesta nel nostro comportamento, crea un’immagine mentale della sua azione. Dal lato degli aspetti della coazione Pan è fanatico, inarrestabile, vuole inerpicarsi sempre più in alto, terrorizza, aggredisce all’improvviso, semina panico, stupra, genera gli incubi. Ma Pan è anche colui che “abita le dolci vallate” che, oltre ad essere rappresentato con un corpo da capro, sporco, irsuto, fallico, è anche dotato di corna levigate, simbolo di elevazione spirituale. E’ sintesi di opposti, contiene gli istinti che più ci turbano e ci spaventano, ma al tempo stesso è portatore di aspetti salvifici. E’ infatti Pan che compare a Psiche (l’anima) quando questa, disperata sta per suicidarsi. E’ lui che le parla con la dolce voce di una canna e, rivelando tutta la saggezza della natura, la trae in salvo. Pan minaccia e terrorizza, Pan protegge e salva: nella psiche gli opposti sono sempre racchiusi l’uno nell’altro.

Pan è, inoltre, l’unico Dio che ha un mito sulla sua morte: “Pan il grande è morto!” (Plutarco, “Tramonto degli oracoli”).

Portatore di istanze troppo spaventose e destabilizzanti per noi uomini, Pan è stato ucciso. La natura ha perso così la sua voce creativa, la sua energia vitale e generativa. Ma ciò che è rimosso non scompare, semplicemente prende altre sembianze. E se, come ci hanno insegnato Jung e Hillman, gli Dei rimossi si trasformano in malattie, ecco che noi possiamo sentire la voce di Pan nei sintomi psichici, negli incubi, quando siamo travolti dai nostri istinti più profondi, quando siamo costretti a reagire “naturalmente”, in modo esclusivamente fisico.

Gli attacchi di panico rappresentano forse il momento più facilmente evidenziabile dell’attacco del Dio. La paura cresce e incrementa la sofferenza, con il crescere della sofferenza aumenta il terrore che il panico possa tornare di nuovo. Come le ninfe che fuggono terrorizzate e la loro paura non fa altro che aumentare l’eccitazione di Pan che continua a inseguirle.

La paura…. quanta paura abbiamo della paura?

Nella nostra civiltà la paura ha un valore essenzialmente negativo, esiste per essere, con coraggio, superata dal nostro Io eroico che procede sicuro attraverso le difficoltà.

La paura è un istinto fondamentale, arcaico. È un meccanismo fisiologico di difesa. Negli attacchi di panico però l’oggetto della paura può non essere così chiaro, tutt’altro. L’angoscia invade tutto il corpo, paralizza, toglie il fiato e fa scoppiare il cuore nel petto. L’impossibilità per il nostro Io di trovarne la causa terrorizza ancora di più. Pan attacca le proprie vittime all’improvviso, molto spesso nell’ora del meriggio, quando il sole è sopra le loro teste, quando l’Io e l’Ombra sono una cosa sola.

Jung sostiene che “la paura è una via legittima da seguire” e che spesso “si va dove si è spaventati”. Ci dice che ciò che ci spaventa può essere ciò che ci salva anche e soprattutto nel caso del sintomo psichico.

Le azioni di Pan hanno carattere ermetico, celano messaggi. Spesso gli attacchi di Panico costringono le persone a “vedere” ciò che le terrorizza e le fa soffrire, a entrare in contatto con l’inconscio, con l’ignoto, a incontrare la propria Ombra. E per quanto spaventoso tale incontro possa essere, ci offre una via per trasformare il cieco istintuale panico, in conoscenza di Sé. Conoscenza che implica un ri-conoscere la presenza del Dio nei meandri più remoti delle nostre caverne psichiche. Reprimere Pan significa perdere il nostro istinto più vitale e creativo e la natura dentro di noi. Così come non abbiamo paura di osservare la natura che ci circonda, anche nelle sue manifestazioni più spaventose, dovremo poterci avvicinare, con i dovuti strumenti e le dovute protezioni, alla natura dentro di noi perché, come si evince da ciò che Socrate chiede, alla fine del Fedro, nella sua preghiera a Pan, l’armonia dell’anima si ha quando ciò che è dentro di noi coincide con ciò che è al nostro esterno.


A cura della

Dott.ssa Germana Temperini

Psicologa e psicoterapeuta.

venerdì 21 luglio 2017

Ipocondria: come riconoscerla e curarla


L’ipocondria è, in sostanza, la paura ossessiva di essere malato, di essere minati da una malattia grave che si ritiene di avere per colpa di una errata interpretazione delle sensazioni corporee.

Detto in maniera molto succinta questa è l’ipocondria, mentre invece si tratta di un disordine, o sarebbe meglio dire, ossessionemolto più complessa.

Perchè si possa parlare di ipocondria, questo disturbo deve perdurare per almeno sei mesi, in assenza di una vera e reale patologia, senza che vi siano altresì concomitanti disturbi di ordinepsicologico o neurologico.

In effetti il nostro corpo è una entità rumorosa, che continuamente invia dei segnali o dei messaggi con in quali ci informa del suo stato di salute.

L'ipocondriaco, in definitiva, ha una percezione errata di tali messaggi, o meglio, li interpreta nella maniera sbagliata, per cui anche un semplice fastidio viene per lo più interpretato come il segnale premonitore di una grave malattia che lo sta minando severamente.

E allora le corse dal medico sono sempre più frequenti e a nulla valgono le sue assicurazioni, anche se confortate da risultati inequivocabili e certi di esami strumentali, che verranno eseguiti praticamente quasi senza soluzione di continuità.

La vita di un ipocondriaco, del così detto malato immaginario, è una vita difficile, triste, piena di preoccupazioni, anche solitaria, così come magistralmente rappresentato anche nel film con l’indimenticato Alberto Sordi, film tratto dall’omonimo romanzo di Molière.

La sua ossessione lo porta a parlare, ma per lo più a lamentarsi dei suoi mali immaginari con tutti coloro che gli capitano a tiro, con il solo risultato di allontanare da se tutti gli amici, conoscenti, e perfino i familiari, visto che tutti cercheranno di evitarlo.

Uscire da questa situazione è possibile, anche se oggettivamente difficile, ma non è possibile riuscirci da soli.

E’ necessario farsi aiutare da uno specialista, anche perchè l’approccio terapeutico non è dei più semplici visto che, in sostanza, una vera malattia non esiste, ma è presente solo un disturbo della personalità.

Dal Sito: benessere.atuttonet.it

Ipocondria: forse ho qualcosa di brutto


Proprio come la commedia di Molière de Il malato immaginario, chi soffre d’ipocondria pensa di avere tutti i mali possibili. Delle volte però, questa forma di ansia è difficile da gestire.

Hai spesso e volentieri paura di avere una grave malattia? Passi interi quarti d’ora a toccarti le ghiandole del collo, te le senti gonfie e poi esclami con sicurezza: “mi sa che ho qualcosa di brutto!”… Bhe allora è molto più probabile che tu sia una persona ipocondriaca, soffri di un disturbo chiamato ipocondria.

Una persona che soffre d’ipocondria pensa continuamente di essere gravemente malato, nonostante tutte le adeguate valutazioni mediche e le rassicurazioni sulla sua ottima salute. Una persona con ipocondria pensa che funzioni fisiche normali come battiti del cuore, sudorazione e movimenti intestinali siano i sintomi di una grave malattia o di una condizione seria di salute. Anche piccoli disturbi, come il naso che cola, linfonodi leggermente gonfi o un piccolo mal di testa vengono subito interpretati come sintomi di qualcosa di grave; invece si sbaglia, sono i sintomi dell’ipocondria.

La persona con ipocondria utilizza frasi vaghe come:

“Mi sento le vene stanche” oppure “ho mal di fegato “. Infatti non è raro che le persone ipocondriache si concentrino su un organo in particolare, come i polmoni, il cuore o su malattie molto gravi come il cancro. Sebbene dopo analisi accurate le loro supposizioni risultino errate, la loro ansia continua ad essere elevata e il loro desiderio di avere più attenzioni fisiche aumenta.

Non si hanno ancora numeri precisi di quanti nel Mondo soffrino d’ipocondria. Chi soffre di questo disturbo psicologico di solito vede il suo medico di Medicina Generale, piuttosto che un professionista che si occupi di salute mentale, ed è per questo che diventa difficile diagnosticare l’ipocondria come disturbo primario. Si stima che tra l’1% e il 7% della popolazione adulta dei Paesi sviluppati soffra di ipocondria. Uomini e donne soffrono d’ipocondria in misura uguale.

Ipocondria o normale paura?

Diciamolo pure, a tutti noi capita di preoccuparci di qualche dolorino e delle volte di credere che possa essere qualcosa di grave, ma questa non è ipocondria.
Chi invece si trascina questa paura per più di 6 mesi, è molto più probabile che sia affetto dal disturbo. Molti ipocondriaci soffrono di qualche altro disturbo psichiatrico o psicologico. Oltre il 60% dei pazienti ipocondriaci soffrono anche di grave depressione, attacchi di panico, di disturbo ossessivo-compulsivo , disturbo d’ansia generalizzato. Il disturbo psichiatrico di colui che soffre d’ipocondria può assumere forme particolari : se “il malato immaginario” o i suoi finti mali vengono ridicolizzati, può avere anche importanti attacchi d’ira.

Quanto può durare l’ipocondria?
Un individuo può soffrire di questo disturbo per mesi o addirittura per anni. Egli può avere anche lunghi periodi in cui la paura della malattia non si presenta. Gli esperti sostengono che circa il 30% dei pazienti ipocondriaci possono migliorare la loro condizione in modo significativo.
Il recupero è più probabile tra le persone con uno status socio-economico più elevato, tra coloro che non hanno un disturbo di personalità o che presentano problemi psicologici piuttosto che psichiatrici.

Quando ha inizio l’ipocondria?
Gli esperti ritengono che molti fattori giocano un ruolo nello sviluppo dei fenomeni ipocondriaci. L’ipocondria solitamente colpisce inizialmente le persone nella prima età adulta. Una persona può iniziare a soffrire di crisi d’ipocondria dopo essersi ripresa da una grave malattia, dopo che una persona cara o un amico si è ammalata, o dopo la morte di amici o persone care.

L’ipocondria può colpire anche chi subisce maggiore stress, o chi è facilmente influenzabile dalle malattie pubblicizzate dai media.
La maggior parte degli psicologi sostiene che le persone che sviluppano ipocondria tendono ad essere autocritiche, nevrotiche e narcisiste.
Gli attacchi possono essere scatenati anche da una condizione medica di base delicata: un paziente che ha problemi cardiaci può arrivare facilmente a gravi conclusioni e reagire con attacchi d’ansia e d’ipocondria verso sensazioni di malessere lieve.
Gli operatori sanitari inoltre sostengono che coloro che soffrono d’ipocondria hanno una bassa soglia del dolorereagendo prima di altri anche a minime variazioni.

Cura e trattamento
Recenti studi hanno dimostrato che la terapia cognitivo-comportamentale e la serotonina, sono efficaci nel trattamento dell’ipocondria. La terapia cognitivo-comportamentale aiuta la persona ansiosa ad affrontare e gestire i fastidiosi sintomi fisici e le preoccupazioni per la malattia. La preoccupazione ossessiva può essere ridotta se al paziente viene fornita la serotonina chiamata anche l’ormone del buon umore.

Fattori scatenanti dell’ ipocondria

Un elenco di tutto quello che scatena l’ansia per le malattie:
Cybercondria – effetto dato dalla ricerca su internet delle malattie e di conseguenza immedesimarsi e soffrire dei disturbi letti
La diffusione delle notizie sulle malattie data dai mass media
Spettacoli televisivi e pubblicità su gravi malattie, soprattutto quando le gravi malattie vengono definite come casuali, oscure e inevitabili
Informazioni sbagliate delle trasmissioni di rischio dai vari media
Le principali focolai di malattia
La pubblicazione delle statistiche riguardanti malattie croniche
Frequentare persone care malate seriamente
L’avvicinarsi di una morte prematura del genitore

Alessandro Cuminetti

Dal Sito: www.psicosocial.it

Il rapporto tra psicofarmaci e psicoterapia



Quando è utile un percorso di psicoterapia e quando invece è meglio fare ricorso agli psicofarmaci?

Psicoterapia e cura psicofarmacologica sono approcci che utilizzano metodi d’intervento e teorie di base completamente diversi.

La psicoterapia (la cosiddetta “terapia della parola”) agisce sulle cause emotive e cognitive del disagio psicologico utilizzando il colloquio e il rapporto tra terapeuta e paziente.

La psicofarmacologia interviene sul piano fisiologico e materiale, mediante la somministrazione degli psicofarmaci, ossia dei farmaci che agiscono sul funzionamento del sistema nervoso centrale.

Questi due interventi sono generalmente forniti da due differenti tipi di specialisti della salute mentale: gli psicologi psicoterapeuti da un lato e i medici psichiatri dall’altro.

Gli psicoterapeuti sono in genere degli psicologi (ma vi è anche una minoranza di medici psicoterapeuti) e in quanto psicologi non sono autorizzati (né formati) a somministrare gli psicofarmaci. Il loro intervento riguarda piuttosto gli aspetti comportamentali, mentali, emotivi e di comprensione della persona.

Gli psichiatri sono invece innanzitutto dei medici che hanno ricevuto una formazione che si è focalizzata prevalentemente sugli aspetti fisici dell'essere umano e, di conseguenza, si occupano delle cure psicofarmacologiche (si veda anche il mio articolo sulla differenza tra lo Psicologo e lo Psichiatra).


Psicofarmaci e/o psicoterapia?
Il rapporto tra i due approcci è piuttosto complesso e – ad oggi – alcuni li ritengono metodologie di intervento inconciliabili e in antitesi.

In realtà vi sono numerosi punti di vista diversi, alcuni suffragati da ricerche scientifiche, altri basati sulla esperienza pratica e clinica degli psichiatri e degli psicoterapeuti che lavorano sul campo.

Alcuni specialisti sostengono che i due tipi di cura debbano essere utilizzati in alternativa: la psicoterapia quando il disturbo è leggero o mediamente grave, la psicofarmacologia quando il disturbo è molto grave.

Altri specialisti della salute mentale sostengono invece che la psicofarmacologia debba essere usata come strumento principale e prioritario nel maggior numero dei casi.

Ci sono poi quelli che invece utilizzerebbero sempre e solo la psicoterapia.

Infine vi sono gli specialisti che auspicano una diffusa integrazione delle due metodiche.

Per cercare di gettare luce sul rapporto tra queste due metodologie ho intervistato la Dott.ssa Nicoletta Borioni che, pur essendo un Medico specialista in Psichiatra ha conseguito anche una specializzazione in Psicoterapia e, avendo maturato una esperienza professionale in entrambi i campi, mi è sembrata la persona più adatta per trattare questo tema.


L’intervista alla Dott.ssa Nicoletta Borioni
Vorrei cominciare col chiederle qualcosa di personale: come ha deciso di diventare un Medico Psichiatra?
Sono sempre stata appassionata di medicina e in più ho sempre letto libri in tema di psicologia. Quando mi sono iscritta a medicina mi interessava molto anche l’approccio psicologico al paziente. Dopo la laurea in medicina ho scelto di specializzarmi in psichiatria perché si occupava degli aspetti psichici della cura del paziente e durante il corso di specializzazione in psichiatria ho studiato le malattie mentali e ho verificato anche l’utilità dell’uso degli psicofarmaci, specie nel caso di alcune malattie mentali, come ad esempio le psicosi.

Perché ha deciso di prendere una ulteriore specializzazione in Psicoterapia?
Studiando psichiatria mi sono resa conto che la psichiatria mi forniva le nozioni sulle patologie e sull’uso dei farmaci, però queste nozioni non mi erano sufficienti per gestire il rapporto col paziente e l’investimento emotivo personale con quel paziente. Poi sapevo che mi sarebbe piaciuto fare anche lo psicoterapeuta, che è una professione per cui serve una formazione specialistica.

La cura del rapporto con il paziente è una materia del corso di specializzazione in psichiatria?
Sì, durante la specializzazione in psichiatria vengono insegnate molte cose circa il rapporto col paziente: come accogliere il paziente, come gestire la prima visita ... Durante il mio corso in psichiatria, poi, mi sono stati insegnati anche molti concetti e autori dell’ambito psicologico. Però non mi sono state fornite le nozioni, le tecniche, la supervisione per esercitare la professione di psicoterapeuta. Perciò dopo la specializzazione in psichiatria, ho voluto affrontare un secondo corso di specializzazione in psicoterapia, per divenire capace di fornire anche la “cura della parola”.

Quando è opportuno intervenire sul disagio psicologico esclusivamente mediante l’uso degli psicofarmaci?
Si interviene esclusivamente con gli psicofarmaci quando il paziente non possiede quel livello di lucidità tale per entrare in relazione con un’altra persona. Questo ha luogo, ad esempio, quando il paziente è delirante, oppure ha delle allucinazioni, oppure è mutacico [N.d.r.: incapace di comunicare verbalmente].
Quando però il paziente ha recuperato la capacità di relazionarsi, è sempre bene utilizzare anche la psicoterapia.

E quando è opportuno intervenire esclusivamente mediante l’uso della psicoterapia?
Sono tanti i casi di disagio psichico in cui è opportuna solo la psicoterapia. Quando il disagio è reattivo a degli eventi e non è così grave da sovvertire la stabilità mentale del paziente. Cioè, quando la persona sta reagendo ad un trauma, più o meno lontano nel tempo.
O quando c’è un disagio relazionale, ad esempio quando un paziente ha un problema col proprio coniuge, oppure quando la persona ha bisogno di fare delle scelte, oppure quando sta attraversando dei momenti di vita normali ma difficoltosi, chessò, un lutto, una separazione, un trasloco, uno sfratto, un licenziamento …
O quando la persona ha una crisi esistenziale, ha bisogno di fare il punto sulla sua vita e non presenta sintomi così gravi da sconvolgere il suo equilibrio.
L’uso esclusivo della psicoterapia è auspicabile poi nel caso dei Disturbi di personalità, in cui gli psicofarmaci possono al più ridurre alcuni sintomi ma non sono indispensabili, mentre è essenziale la psicoterapia.

Quando invece è maggiormente auspicabile una integrazione dei due approcci?
Nei casi precedenti, quando il paziente sta reagendo ad un trauma, o ad un evento stressante, o si trova in un momento di crisi e il suo equilibrio è fortemente sconvolto. Quando, cioè, la persona perde la sua capacità di funzionare completamente nella propria vita quotidiana, allora può essere utile integrare la psicoterapia con l’uso degli psicofarmaci.
Ci sono poi dei disturbi per i quali le ricerche hanno mostrato che l’approccio integrato di psicoterapia e psicofarmacologia produce i maggiori effetti di cura.

Interessante. Ad esempio per quali disturbi è stato verificato che l’integrazione delle metodiche è la strategia più utile?
Per esempio, per gli Attacchi di panico, o per il Disturbo bipolare le ricerche hanno mostrato questo. In questi casi gli psicofarmaci contribuiscono ad attenuare i sintomi critici di cui soffre la persona, cosicché poi questa diviene maggiormente capace di entrare in relazione e di lavorare in psicoterapia sugli eventi stimolo che provocano il malessere. Con i pazienti bipolari, la farmacoterapia impedisce le grosse oscillazioni, ma è con la psicoterapia che la persona diviene consapevole di quando “vira” [N.d.r.: la brusca variazione dell'umore del paziente che improvvisamente comincia a mostrare una eccessiva eccitazione fisica, psichica e comportamentale], di perché “vira” e impara a prevenire le ricadute serie.

Quindi talvolta integrare psicofarmaci e psicoterapia può aiutare il paziente a beneficiare maggiormente del percorso di psicoterapia?
Sì, come ho appena detto per gli Attacchi di panico e i disturbi bipolari. Ma anche nel caso dei pazienti psicotici, i quali sono fortemente disequilibrati presentando deliri, allucinazioni e altri comportamenti fortemente disorganizzati. In questi casi se il paziente viene “compensato” [N.d.r.: stabilizzato] con una farmacoterapia, poi è possibile lavorare con la “terapia della parola” sul disagio e aiutare la persona a impegnarsi nel cercare di sviluppare le proprie competenze sociali, chessò, frequentando un centro diurno e lavorando sulle proprie difficoltà di relazione con gli altri.
Talvolta però è il paziente stesso che richiede l’integrazione di psicoterapia e psicofarmaci e questo può essere utile per alleviare i sintomi particolarmente disturbanti, come ad esempio l’insonnia che è fortemente debilitante, specie nel lungo periodo.

In questi casi è meglio che sia lo psichiatra stesso ad assumere anche il ruolo di psicoterapeuta, o è più opportuno che siano due persone differenti?
In generale è meglio che siano due persone diverse, magari che siano in contatto e collaborino tra loro. In questo modo il paziente quando si trova in psicoterapia si può concentrare sui temi psicologici, sulle sue difficoltà emotive e relazionali, invece di sottrarsi a questi temi parlando degli effetti del farmaco: “Questo farmaco mi crea sonnolenza, non dormo, eccetera”. In questo modo se il paziente tenta di “coprire” i temi psicologici con l’attenzione ai farmaci, lo psicoterapeuta può rifocalizzarlo dicendogli: “Bè di queste cose ne può parlare con lo psichiatra”, di fatto scindendo i due campi e facilitando il lavoro in psicoterapia.
In taluni casi però, ad esempio con i pazienti giovani o con i pazienti molto resistenti alla terapia, può essere utile invece che lo psichiatra e lo psicoterapeuta siano la stessa persona, nel senso che nei casi più complessi è più utile essere flessibili: lo stesso professionista può fare da psichiatra e psicoterapeuta e conquistarsi gradualmente la fiducia del paziente e convincerlo piano piano a cominciare una terapia farmacologica e nel frattempo parlarci conducendo il discorso sulle sue difficoltà psicologiche. Con i pazienti più resistenti non è utile essere troppo rigidi e dire “io faccio lo psichiatra e l’altra persona fa lo psicoterapeuta” perché è difficile anche solo che il paziente si fidi di un solo specialista.

E ora, una domanda che riflette alcune paure e luoghi comuni: è possibile che l’uso degli psicofarmaci impedisca o rallenti il percorso di psicoterapia?
Ci sono diverse scuole di pensiero, ma io direi, come si diceva all’inizio, che spesso trattare farmacologicamente i sintomi che impediscono di entrare in relazione, quali i deliri, le allucinazioni, le disorganizzazioni gravi, facilita e permette la psicoterapia.
Ci sono invece alcuni casi non gravi, come ad esempio l’Attacco di panico, laddove, se la persona non soffre più dei sintomi, allora perde la motivazione a fare un lavoro psicoterapeutico. Finché il paziente ha il sintomo, anche solo attenuato, va in psicoterapia e si mette a ragionare: “Cosa era successo il giorno prima dell’attacco di panico? Come stavo?” e fa delle connessioni tra gli eventi, le sue convinzioni, le sue emozioni e le sue sensazioni fisiche.
Ma se il paziente grazie agli psicofarmaci non ha più gli attacchi di panico, si dice: “Sto bene” e non va più a fare il lavoro di psicoterapia. In questo caso il paziente ha risolto la sintomatologia critica, ma non risolve le cause scatenanti e probabilmente non le affronterà mai, fintantoché continuerà ad utilizzare gli psicofarmaci.

La psicoterapia mira ad una conclusione allorché la persona che ha risolto i propri problemi e ha acquisito le risorse necessarie, non ha più bisogno di effettuare un lavoro psicoterapeutico. E’ la stessa cosa per gli psicofarmaci, ossia la somministrazione degli psicofarmaci ha come obiettivo l’interruzione degli stessi?
Dipende. Vi sono alcuni casi, le situazioni gravi, quali le psicosi e i disturbi bipolari, in cui se la persona sta meglio utilizzando degli psicofarmaci deve continuare a prenderli per continuare a stare bene. Magari dopo una prima fase in cui i dosaggi sono più alti, si effettua una riduzione progressiva per arrivare, dopo anni, ad una dose sempre più bassa, una dose minima di mantenimento che la persona deve continuare ad assumere. Comunque sono capitati dei casi in cui delle persone con disturbi importanti, magari un unico episodio, e subito trattato, piano piano sono arrivati a non assumere più nessun farmaco, in genere con l'aiuto di una buona psicoterapia…
La maggioranza degli studi soprattutto sulle psicosi ha mostrato che l'intervento precoce al primo episodio e la continuità di assunzione delle terapie farmacologiche già dal primo anno sono il fattore principale per un ritorno al funzionamento precedente l'episodio critico.
Ci sono invece molti casi in cui ci si pone dall’inizio l’obiettivo di interrompere gli psicofarmaci, ossia i farmaci vengono somministrati con l’idea di agire sui sintomi invalidanti e facilitare una psicoterapia per poi essere tolti.

Come ad esempio?
Bè, ad esempio gli Attacchi di Panico. Se insieme ai farmaci viene effettuato un buon percorso di psicoterapia, probabilmente si riuscirà a togliere gli psicofarmaci.
Stessa cosa vale per alcuni tipi di depressione, o per altri disturbi ansiosi: se l’intervento farmacologico viene abbinato con la psicoterapia vi sono buone possibilità di eliminare poi gli psicofarmaci.

La Dott.ssa Nicoletta Borioni è Medico Chirurgo specialista in Psichiatra, Psicoterapeuta, Dirigente medico in servizio presso il CSM (Centro di Salute Mentale) dell’ASL RM-C. Per ulteriori informazioni è possibile visionare la scheda di presentazione della Dott.ssa Nicoletta Borioni.

Conclusioni
I rapporti tra psicoterapia e psicofarmacologia sembrano essere complessi e influenzati dal tipo di patologia nonché dalle caratteristiche del singolo paziente.
Pur con le dovute eccezioni e differenze tra persona e persona, mi arrischio ad effettuare le seguenti sintesi e generalizzazioni:
Ci sono molti disturbi psicologici che hanno bisogno di essere affrontati unicamente con la psicoterapia. Quando i sintomi non sono molto pesanti, ad esempio quando l’ansia, l’umore depresso, la confusione mentale, gli accessi di rabbia non sono così intensi da impedire che la persona porti avanti la propria vita, è consigliabile intervenire unicamente con la psicoterapia.
Questo è il caso della maggioranza delle persone che generalmente si rivolgono ad uno psicologo.

Ci sono poi alcuni disturbi psicologici la cui cura è invece avvantaggiata dall’integrazione di psicofarmaci e psicoterapia, con l’obiettivo di arrivare a interrompere entrambe le metodiche di intervento. L’intervento farmacologico ha l’obiettivo di portare il livello dei sintomi sotto controllo e di permettere alla persona di trarre il massimo vantaggio da un percorso di psicoterapia. L’idea è comunque quella di lavorare in psicoterapia per giungere a interrompere l’intervento farmacologico. Rientrano in questa categoria disturbi con sintomi quali: gli attacchi di panico, le ossessioni e le compulsioni, l’umore depresso “grave”.

Infine, vi sono alcuni disturbi psicologici gravi, come le psicosi e i disturbi dell'umore unipolari o bipolari, laddove l’intervento farmacologico è indispensabile e ci si aspetta che continuerà per un lungo periodo, se non per tutta la vita del paziente. Anche in questi casi, la persona trae benefici da un percorso psicoterapeutico in integrazione con la terapia farmacologica.

Vale la pena di ricordare che è assolutamente sconsigliato effettuare da sé una diagnosi psichiatrica o determinare da sé il piano di intervento psicoterapeutico e psicofarmacologico. Particolarmente pericolosi sono gli interventi psicofarmacologici fai da te, come ad esempio quando la persona decide da sola di aumentare le dosi o di sospendere le assunzioni di uno psicofarmaco dopo un lungo periodo di assunzione.

Rispetto ai disturbi psicologici la miglior cosa è stabilire il piano di intervento insieme allo specialista di fiducia o, nei casi più complessi, con l’aiuto di una equipe di specialisti – composta da psichiatri e psicoterapeuti, ma anche da neurologi, fisioterapisti, dietologi, etc. – per individuare il miglior intervento integrato.


Adriano Stefani Psicologo


Esercizi di respirazione contro l'ansia



Respirare bene per vivere meglio, ecco come calmare l'ansia grazie al respiro

Respirare è il primo atto che compiamo quando veniamo al mondo: l'azione primordiale che sigla il nostro ingresso nella vita. Secondo la saggezza antica è con l'ultimo respiro, esalato in punto di morte, che viene riconsegnata l'anima donata nel momento della nascita, uno scambio primordiale fra noi e il mondo.

Come respiri?

Per la maggior parte del tempo respiriamo senza averne coscienza: semplicemente, la respirazione avviene in maniera naturale e automatica, senza che sia necessario porvi attenzione. In media eseguiamo circa 16 respiri al minuto, ma questo dato può cambiare a seconda dell'età e delle abitudini. Il numero di respiri al minuto viene definito frequenza respiratoria. Essa comprende una fase di inspirazione e una fase espiratoria, che insieme alla pausa fra una e l'altra formano il singolo ciclo respiratorio. Questo flusso crea un ritmo instancabile, per un totale di oltre 23mila respiri ogni giorno.

Respirare con il naso... o con la bocca

Ci sono volte in cui la respirazione diventa difficile ed è in momenti come questi che tendiamo a utilizzare la bocca anziché respirare con il naso: generalmente accade quando compiamo uno sforzo, o nella difficoltà della malattia, ma anche in attimi di profondo godimento, quando ci lasciamo andare come succede durante il sesso.

Il naso filtra l'aria e possiede un'importante funzione immunologica, tuttavia nei momenti più intensi della vita respiriamo con la bocca; succede anche in punto di morte, quando si cerca l'aria aggrappandosi a ogni respiro. Prova a osservare i momenti in cui respiri con il naso, con la bocca o... non respiri affatto. Spesso nelle situazioni di tensione dimentichiamodel tutto di respirare e rimaniamo sospesi, con un blocco dentro a livello interiore.

Affrontare l'ansia

Il respiro cambia a seconda di come ci sentiamo e vibra insieme alle nostre emozioni. In una situazione di pericolo il battito cardiaco accelera, aumenta la frequenza respiratoria. Sebbene sia difficile da gestire, la paura ha una funzione biologica fondamentale e protegge la nostra sopravvivenza. Il problema reale è che siamo programmati per superare i momenti di stress, purché essi non diventino un'abitudine.

Durante un attacco di panico si ha la sensazione di annegare; ansia e angoscia diventano abissi che non lasciano scampo, il cuore esplode: la sensazione di morte è vivida e potente. Ripetersi che va tutto bene non è una soluzione, ecco perché utilizzare il respiro per esplorarele proprie emozioni profonde può diventare uno strumento estremamente prezioso.

Respiro la mia paura

«Solo con te stesso, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo spirito, introducilo – dico il tuo spirito – nelle narici; è la via che il respiro prende per andare al cuore. Spingilo giù, costringilo a scendere nel tuo cuore insieme all'aria che hai inspirato. Quando vi sarà giunto, vedrai quale gioia ne seguirà: non rimpiangerai più nulla» scriveva nel 1300 il monaco Niceforo Esicasta.

Appoggia le mani sul tuo petto. Chiudere gli occhi ti aiuterà a isolarti. Senti il calore emanato dal corpo e ascolta il ritmo del tuo respiro che entra ed esce. Puoi farlo ovunque e in qualsiasi momento, lentamente tornerai a sintonizzarti con il centro del tuo essere.

Usa l'immaginazione

Che colore ha la tua ansia? Quale forma fa emergere nella mente la paura che senti? Gli studi più attuali sul cervello spiegano che l'essere umano pensa per immagini, ecco perché in certi casi può costituire un aiuto privilegiare la nostra immaginazione anziché il linguaggio: le parole ci attraversano e fuggono, le immagini si imprimono nel profondo. Invece di fuggire dalle tue paure inizia a prenderne coscienza.

Per le prime volte scegli un luogo ricco di comfort dove tu possa lasciarti andare. Respira lentamente e prova a dare forma a ciò che senti nel profondo: quando abbiamo il coraggio di osservare noi stessi emergono verità importanti.

Respirazione addominale

Siediti appoggiando i piedi per terra in modo da percepire il contatto con il suolo, oppure sdraiati. Appoggia una mano sulla pancia e una sul cuore, poi inspira con il naso. Gonfia la pancia come se fosse un palloncino che incamera aria: se stai inspirando nel modo corretto avvertirai che la mano sull'addome si alza. Dopo aver trattenuto l'aria per qualche secondo espira usando la bocca.

La respirazione diaframmatica, o addominale, sfrutta il diaframma per alleviare lo stress e favorire uno stato di profondo rilassamento. Tecniche yoga come Kapalabhati, il respiro del fuoco, sfruttano una respirazione rapida basata sul movimento diaframmatico per lasciare andare le preoccupazioni, liberare la mente e ricaricarsi di energia.

Lascia andare

Nel suo libro La vita senza condizioni il celebre Deepak Chopra, medico endocrinologo di origine indiana, parlando della meditazione usa questa immagine: la mente è come un cielo. I pensieri sono nuvole che attraversano la nostra mente, accade di continuo: talvolta sono nubi leggere, altre volte si tratta di una coltre spessa e pesante.

Mentre respiri immagina questo cielo: di che colore è? A seconda dei giorni probabilmente lo vedrai con sfumature sempre diverse, in connessione con le tue emozioni istintive. Semplicemente osserva le nuvole di passaggio che corrono via. Mentre espiri immagina di lasciar andare ogni pensiero o preoccupazione: le tue emozioni si liberano fondendosi con l'aria e il cielo, che è sempre lì, oltre le nuvole, anche nei momenti difficili. Continua a inspirare ed espirare, molto lentamente. Senti la luce dei colori che ti avvolge e insieme all'aria entra nelle tue narici riempiendo i polmoni e il cuore, attraverso il sangue, fino ai piedi, avvolgendo di calore tutto il tuo essere.

Dal Sito: www.donnamoderna.com

Da non dire in caso di panico




Oggi vorrei rivolgermi a chi vive (o si trova di passaggio) accanto a un soggetto in prossimità o completamente immerso in un attacco di panico.
Inizio con un consiglio: se non conoscete il disturbo per esperienza diretta, se non godete di straordinarie doti empatiche, vi conviene tacere e ascoltare (come per qualsiasi altro argomento); va benissimo tenere la mano e massaggiarla, offrire un bicchiere d'acqua, persino recitare La pioggia nel pineto con voce calma e partecipe; ma MAI, ed è un mai maiuscolo, dire una delle frasi che trovate qui sotto.
Non è per cattiveria, lo so che ci volete bene e cercate di aiutarci, il problema è che vi è quasi impossibile comprendere di cosa si tratti in realtà, e quindi rischiate di dire qualcosa di estremamente irritante, fuori luogo e persino dannoso.

Ecco alcune delle frasi che potrebbero trasformare il soggetto DAP e l'agorafobico in un killer (se solo noi non fossimo di animo tanto sensibile e buono).
Vado in ordine sparso, non stilo una classifica perché scrivo di getto, assecondando quello che mi gira per la testa, e la mia testa non gira alla perfezione. E comunque, ognuno di noi custodisce una sua personale graduatoria; anzi, mi scuso in anticipo se non prenderò in esame qualche "perla" uscita dalla bocca di un vostro conoscente, casomai mandatemi un appunto.

  1. E' solo panico! - di solito questa affermazione è accompagnata da un tono perentorio, a volte infastidito da tanta ansia per una bazzecola. In questi casi mi verrebbe da rispondere "questo è solo un badile, ma se te lo dessi di taglio tra capo e collo ne soffriresti parecchio". Quando mi sento male, tendo ad essere un po' aggressiva.
  2. Il problema è che non t'impegni per uscirne: con un po' di volontà... - in un'unica soluzione ci abbassano l'autostima, già provata da anni di crisi, e ci insinuano dubbi che abbracciano tutte le sfere della nostra vita. Ci sente come a scuola, quando i professori dicevano di noi qualcosa tipo "non è stupido, ma non si applica" e poi toccava ripetere l'anno. È una situazione abbastanza deprimente. 
  3. Allarme spoiler: questa è per gli agorafobici. Ma non ti piacerebbe partire per un bel viaggio, visitare un luogo che hai sempre sognato di vedere? Mi piacerebbe anche vincere il Nobel per la fisica, ma ancora oggi non mi so spiegare come diamine faccia la forza di gravità a non farci cadere nello spazio profondo quando la rotazione terrestre ci mette a testa all'ingiù. Non è questione di volere, qui si tratta di potere. Io voglio ma non posso. E ci provo, non puoi sapere quanto.
  4. Cosa te lo impedisce? Una cosuccia che si chiama agorafobia.
  5. Sempre sull'agorafobia: Oh poverina, capisco, che brutta situazione. Senti, una sera di queste andiamo a prenderci un gelato e ne parliamo un po' - il "capisco" di prima era una specie d'intercalare, un riflesso incondizionato o cosa? Perché se ti dico che sono anni che non riesco a fare una passeggiata degna di questo nome né a entrare in un locale pubblico, il gelato dove lo prendiamo? Avrei un'idea ma sono una signora.
  6. Dovresti curarti, sai - tutti i risparmi andati tra psichiatri, neurologi, analisi e controanalisi, medici convenzionali e non, medicine a palate e conseguente stato catatonico, rimedi provenienti dalla tradizione di ogni angolo del mondo (compreso il solito beverone africano di cui non vi do la ricette, è inutile che restiate ad aspettarla; lo faccio per il vostro bene), mistici e mistificatori... e mi chiedi perché non mi curo? Mi manca solo un trapianto di cervello, tuttavia questa è una strada ancora impraticabile.
  7. Se tu fossi ricca guariresti in un amen. Una permanenza di una mese in una spa delle Fiji e passa tutto - sbagliato! Non solo i soldi non fanno la felicità, ma è statisticamente dimostrato che nei Paesi più poveri del globo terracqueo la gente non è depressa e tanto meno impanicata o agorafobica. Forse sarà perché è troppo impegnata a cercare di non morire di fame per trovare il tempo da dedicare ai disturbi di tipo ansioso, anime sante.
  8. Sei pallida come un cadavere. Sei sicura di stare bene? No che non sto bene, e ora mi sento ancora peggio perché mi si sta sovrapponendo l'ipocondria al panico e mi sembra d'essere ad un rave party della follia.
Detto ciò, quando vi trovate con una persona in preda al panico... niente panico!


Alessandra Scagliola

Dal Sito: aliceinphobicland.blogspot.it


Sono una giornalista professionista agorafobica, Una cosa esclude l'altra, lo so o almeno dovrebbe. Alessandra Scagliola, cinquantuno anni di Torino ha esordito in questo modo nella chat di facebook in cui mi chiedeva consigli per far conoscere il suo blog. Ho così deciso di essere io la prima a darle ospitalità su "La stampella di Cenerentola". Da circa venti anni Alessandra soffre di depressione e fobie di vario genere, che le impediscono quasi di uscire, lavorare, frequentare gruppi di amici. Per reagire alla situazione ed essere di aiuto alle moltissime persone con i suoi stessi problemi, a maggio la mia amica ha deciso di creare Alice in phobicland, un blog in cui racconta giorno per giorno progressi e fallimenti nel tentativo di uscire dalla malattia o almeno da casa. Si tratta di una sorta di diario scritto a modo mio - mi ha spiegato Alessandra - nulla di lamentoso, parecchia ironia, ma soprattutto tanta autoironia. Perché attacchi di panico, nevrosi, depressione, ansia generalizzata e fobie sono disturbi gravi e molto più invalidanti, di quanto la gente pensi, ma se li si prende troppo sul serio, si auto alimentano, fino a portare a conseguenze gravi. Detto tra me e me, senza l'autoironia, non avrei mai affrontato questa vita finora! Ora mi fa un gran male vedere quanta gente soffre di questi disturbi e quanto li vivano male perché non trovano il coraggio di esporsi. Sono davvero felice di invitarvi a prendere solo un po' di coraggio per consultare il sito di Alessandra; scrive in modo avvincente ed accativante. Non ve ne pentirete!

Dal Sito: www.lastampa.it

COME RICONOSCERE L’ANSIA E COMBATTERLA?



“Ansiosi si nasce, non si diventa” dicono molti esperti in materia psicologica, specialmente se nel Dna di nascita si riscontra questa patologia. Potrebbe essere considerato un disturbo del nostro secolo, visto che la stima è di cinque milioni di persone, ammalate di Dap (Disturbo Attacchi di Panico). I disturbi sono moltissimi, tra questi: senso di nausea, capogiri, sudorazioni, dolori al petto, senso di vuoto e mancanza di forze nelle gambe. La persona colpita pensa di morire entro pochi minuti, ma è solo una sensazione bruttissima, che può aggravarsi nel tempo se non si corre ai ripari.

E come riconoscere l’ ansia prima che peggiori?

Bisogna prendere con moderazione psicofarmaci, senza abusare come se fossero noccioline. Perché? Ogni abuso di medicinali comporta avvelenamento del fegato e quindi “A lungo andare si potrebbe morire per cirrosi epatica-replica il dott.Russi, specialista in neurologia-tutto si cura con piccole dosi e non bisogna diventare dipendenti del farmaco. Se l’ansia e la Dap durano oltre sei mesi, significa che il disturbo è cronico”. Ma quali possono essere le cause di una crisi di panico? “Molti dei fattori che contribuiscono allo sviluppo della patologia, aggiunge il neurologo- potrebbero essere la conseguenza di un divorzio o di un lutto o magari la perdita di un lavoro. L’ansioso va amato, curato, stimato, non deve mai stare da solo, deve essere spinto a riallacciare amicizie, parlare a telefono, svolgere un’attività per sentirsi utile”.

Soffrono di depressione più donne che uomini, il perché si evince dalla struttura fisica della donna, per la presenza del ciclo ormonale, per un disturbo della tiroide da non prendere sottogamba, e il più delle volte per un trauma infantile legato a una violenza fisica che lascia il segno indelebile nel tempo.

E tu sai come riconoscere l’ ansia da depressione?

Poi la donna affettivamente è più sensibile dell’uomo; ogni rapporto d’amore lo vive passionalmente. E quando la relazione finisce, la donna abbandonata si dispera, piange, fuma più del dovuto, annega in fiumi di alcool, mangia eccessivamente perché non si piace più. La vita sembra sfuggire loro dalle mani.

“Quando si presentano questi sintomi- conclude il dottor Russi- meglio andare subito dallo psicologo, che attraverso una lunga analisi del vissuto può sbloccare situazioni altrimenti inestricabili”.

“L’ansia è come una sedia a dondolo: sei sempre in movimento, ma non avanzi di un passo”…è ora di sbloccarsi!

GIULIA RUSSO

Dal sito: www.lecodellaverita.it

venerdì 14 luglio 2017

Terapia cognitivo-comportamentale: imparare ad essere terapeuti di se stessi


Cristina è una giovane paziente, racconta della sua terapia per attacchi di panico e di come, dopo anni di cbt, è riuscita diventare terapeuta di se stessa.

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Me l’ha spiegato, ma le cose non erano troppo chiare: la storia delle distorsioni cognitive; le credenze di base; i pensieri che creano le emozioni… mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’. Bene pensai, almeno risparmio qualcosa!

Come dicevo sono passati due anni dall’inizio. Non vi dico nel dettaglio per quali motivi mi ritrovai in quello studio, a parte che c’entravano anche gli attacchi di panico, tanto ormai sono piuttosto comuni e non me ne vergogno.

Ma oggi ho iniziato a correre. A fare running, o jogging che fa più figo! Era facile a dirsi, complesso nell’attuarlo. Le scuse più assurde, una pigrizia certa, una resistenza infallibile. Inizialmente avevo optato per la palestra. Un mese per andare solo a chiedere informazioni. Un giorno mi decido, dopo una lunga ristrutturazione cognitiva (un pensiero ci fa soffrire? Bene, si cercano altri pensieri che possono almeno farci stare meno male!), e vado in due palestre. Una meno simpatica rappresentata da una Barbie bionda in carne (poca) ed ossa; l’altra invece gentile e alla mano quasi fossi iscritta lì da sempre (a pensarci bene forse fin troppo gentile). Solo varcare quelle soglie ha scatenato in me una reazione fisica spropositata. Palpitazioni, tremori alle gambe, chiusura dello stomaco. Ero critica verso quel mondo e le persone coinvolte, ne ero consapevole, per fortuna ho una buona auto-riflessività (me lo diceva sempre la terapeuta).

Osservo di nuovo i pensieri, faccio un respiro profondo, mi aggancio al momento presente in perfetto stile mindfulness e mi concentro sulle informazioni che mi danno… functional ore 18, interval training ore 19.30, zumba ore 10, spinning ore 12, crossfit ore 20… mi perdo nuovamente in piena modalità mindflight (la mente che se ne va).
Torno a casa e il solo pensiero della lezione di prova mi fa cadere nuovamente nell’angoscia totale. Che faccio allora?

Ovvio, rimando alla settimana successiva, d’altronde ‘io troppi impegni questa settimana‘. Sarà un problema di procrastinazione? Difficile a dirsi. Ma comunque… arriva il famoso lunedì in cui, si sa, si mettono in atto i buoni propositi. Mi sveglio già agitata al pensiero della palestra. Da buona ‘allieva’ cognitivo-comportamentale mi dico: ‘che cosa mi sta passando per la mente?‘ (quante volte me l’ha chiesto la dottoressa!). La risposta è semplice: ‘Odio la palestra; mi sentirò a disagio appena arrivata all’ingresso perché sentirò tutti gli occhi puntati; tutti si saluteranno come se fossero una grande famiglia; non so se dovrò portare un lucchetto per lo spogliatoio; non saprò utilizzare le attrezzature; e in qualunque corso non sarò mai coordinata con il resto del gruppo e poi… tutto puzzerà! Sudore ovunque e in qualunque momento!’.

Bene RP (registrazione dei pensieri) fatta. Pensieri catastrofici infiniti, etichettamenti, palle di vetro a gogò (queste sono le famose distorsioni cognitive). Rifletto ancora. Mi viene in mente l’attivazione comportamentale che la terapeuta mi fece eseguire in un brutto momento per me: ‘Iniziamo con le cose che amavi‘ mi disse e stilammo una lista di attività. Questo tipo di tecnica serve per far riattivare una persona dopo un periodo di totale nulla; mi vergogno a dirlo, ma a volte non riuscivo nemmeno a farmi una doccia per quanto ero giù. Si stila la lista delle attività come dicevo, e si parte da quella più piacevole e per la quale ci sentiamo più capaci, fino ad andare avanti con l’elenco… ma comunque a me ora serviva solo riprendere un’attività fisica. Quindi ritorno con la mente sulle attività fatte in passato.

E il benessere provato stava lì, lo sentivo, era la corsa. In quel momento ho cancellato del tutto l’idea della palestra. Ho ripreso la divisa, le scarpe adatte, legato i capelli. E ho respirato di nuovo. Leggevo i pensieri che anche qui remavano contro, ma li lasciavo andare, ripetendomi che superato l’inizio tutto sarebbe stato più semplice.

Letteralmente dovevo compiere il primo passo. E così ho fatto. Chiusa la porta di casa ho iniziato a correre. Pochi passi e sono tornata a dieci anni fa quando facevo atletica leggera a livello agonistico. Mezzofondo per chi è curioso. Ho sentito il corpo riattivarsi. E’ stato bello respirare all’aria aperta. La puzza a dir la verità l’ho ritrovata, concime dei campi, ma alla natura si perdona quasi tutto. Corro nella mia solitudine ricercata con la consapevolezza di ciò che ho intorno, delle sensazioni corporee. E’ la prima volta che corro dopo la pratica della Mindfulness.

Ho applicato i principi ed è stata un’esperienza nuova che comunque racchiudeva in sé vecchi ricordi. Stupendo. Ma il caso a quanto pare mi mette spesso alla prova. In lontananza vedo un cane. Solo, come sono sola io. Flashback: rivedo me inseguita da due cani all’età di 15 anni. Sento la paura salire. Non so che fare. Respiro di nuovo profondamente. Attimi per riattivare la ristrutturazione cognitiva: ‘E’ piccolo… sembra buono… forse non ti noterà… sei adulta ora… ecc.. ecc.’, tutto in cinque secondi credo. Esposizione. Flooding.

Ora è necessaria una spiegazione: l’esposizione, come dice la parola stessa, significa esporsi a qualcosa che abbiamo evitato per timori vari; quando si parla di flooding si fa riferimento ad un’esposizione un po’ particolare del tipo: ‘Temi le altezze? Soffri di vertigini? Benissimo! Perfetto! Ti buttiamo con il paracadute dall’aeroplano!‘. Significa quindi essere immersi totalmente nella nostra paura senza gradualità. Questo mi è successo. Passo vicino al cane.

Distratto annusa le piante. Tiro un sospiro di sollievo. Cavolo, lo sento correre verso di me. Panico. Di nuovo respirazione e ristrutturazione ‘Non viene proprio verso di te… pure se fosse cosa può farti… ecc… ecc.‘. Mi viene vicino e mi supera un po’. Corre avanti a me. Poi si ferma e mi riviene vicino e di nuovo accanto. Non mi sta seguendo. Mi sta accompagnando. Tiene il mio passo. Mi commuove la cosa. Se non mi fossi esposta prima, non avrei goduto di tutto questo. Dopo qualche centinaio di metri c’è il padrone che lo chiama, o meglio la chiama, ‘Bianca, vieni qui‘. Niente, continua a starmi accanto fino a casa. Sorrido pensando che ora mi dispiace separarmene, mentre prima sembrava la cosa più temibile al mondo.

Arrivata mi sento bene, sono felice. Certo poi non aspettiamoci che il mondo intorno a noi riconosca il nostro sentirci dei supereroi. Mia madre mi guarda e dice ‘Al ritorno hai preso l’autobus?‘ e mia sorella, dopo che le stavo dicendo che quando corro mi si gonfiano le mani, mi guarda e fa ‘Bé ti diventa pure viola la faccia!‘. Potevo irritarmi con queste invalidazioni ma, memore dei mille discorsi sull’assertività (che ci ho messo un po’ a capire), le guardo e dico: ‘Per favore mi dite che sono stata brava? Non è mica stato facile per me!‘. Si guardano, richiesta strana, sorridono: ‘Sì, sei stata brava!‘. Ora ho capito cosa volesse dire la mia dottoressa due anni fa. Sono diventata terapeuta di me stessa.

di Eleonora Natalini

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/02/terapia-cognitiva-racconto/

Il Brutto Anatroccolo: il vissuto di diversità e la grazia dell’appartenenza


Il brutto anatroccolo è una fiaba con molti significati, tra cui la sofferenza insita nel vissuto di diversità e l'importanza di appartenere ad un gruppo.

I nuclei di significato contenuti nella fiaba de Il brutto anatroccolo sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questafiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”.

La fiaba de Il brutto anatroccolo

Il ghiaccio dev’essere rotto e l’anima tolta dal gelo. […] Fate come l’anatroccolo. Andate avanti, datevi da fare. […] In linea di massima ciò che si muove non congela. Muovetevi dunque, non smettete di muovervi.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

La storia del brutto anatroccolo, piccolo cigno nato – per errore – in una comunità di anatre, è una fiaba capace di evocare significati profondi. Nella rilettura di Clarissa Pinkola Estés, lo sfortunato protagonista diviene simbolo delle sofferenze legate alla costruzione di una sana immagine di sé, alle relazioni, alle tante forme di dipendenza declinata al femminile.

Il brutto anatroccolo, vittima innocente di uno scherzo del destino, è destinato a pagare duramente per la sua diversità subendo la derisione, lo scherno, le umiliazioni, fino all’esilio dalla comunità natìa. La stessa madre, che inizialmente tenta di proteggerlo da torti e violenze, finirà per allontanarlo. Nel suo peregrinare alla ricerca di qualcuno che lo accolga, il brutto anatroccolo cercherà riparo presso esseri umani, altri animali e altri luoghi: ogni volta, i suoi sforzi si tradurranno in dolorosi fallimenti. Viaggerà a lungo, rischiando più volte di morire, fino a ritrovarsi, per caso e con notevole stupore, accolto con affetto dai suoi simili, i maestosi cigni.

I significati contenuti nella fiaba

I nuclei di significato contenuti nella fiaba sono molti, e ciascuno merita attenzione. Quello principale è certamente l’esilio della diversità: è la storia di una diversità sofferta, sulla quale pesano come macigni delle colpe, in realtà puramente attribuite dall’esterno. Questa fiaba contiene una verità basilare per lo sviluppo umano, una delle rare storie che “incoraggiarono successive generazioni di outsiders a non darsi per vinte”. (Pinkola Estés, 1993)

Altro aspetto estremamente significativo è la complessità della figura materna. Una madre che, dapprima, prova a difendere il suo piccolo dagli attacchi, ma finisce per adattarsi al volere del branco. Siamo quindi di fronte ad una madre psichicamente divisa, ambivalente. Da un lato il desiderio di proteggere suo figlio, dall’altro la spinta all’autoconservazione. Nelle culture punitive, puntualizza l’autrice, non è una situazione inusuale per una donna. Si tratti di un figlio reale o simbolico (l’arte, la creatività, gli ideali politici, l’amore) sono tante le donne morte psichicamente e spiritualmente nel tentativo di proteggere il “figlio non autorizzato” dalla società. Talvolta sono state addirittura bruciate, assassinate o impiccate, come punizione per aver sfidato le regole sociali e per aver protetto o occultato la loro “creatura socialmente inaccettabile”.

“Non cedete. Troverete la vostra strada. […] Questo è dunque il lavoro finale della persona in esilio che si ritrova: accettare la propria individualità, l’identità specifica, ma anche accettare la propria bellezza… la forma della propria anima”
(C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

E come non soffermarsi sulla costante ricerca di amore nei posti sbagliati? Un comportamento che porta il brutto anatroccolo a rischiare più volte la propria vita, per il semplice fatto di “bussare alle porte sbagliate”. Del resto, “è difficile immaginare come una persona possa riconoscere la porta giusta, se non ne ha ancora mai trovata una” (Pinkola Estés). Riferendosi in particolare al mondo femminile, l’autrice evidenzia l’assonanza con quella straziante ricerca di amore, a volte ripetuta in modo ostinato ed inconsapevole, che comporta l’acuirsi della ferita originaria, anziché lenirla. Una necessità di riempire il vuoto interiore con le cose più disponibili o facilmente reperibili: le “medicine sbagliate” (Pinkola Estes) che per alcune donne sono rappresentate da compagnie pericolose, per altre da eccessi malsani, per altre ancora da quegli amori che non riconoscono né accettano i talenti, le doti, i limiti della propria compagna.

Ulteriore aspetto sostanziale è la condizione di “orfano di madre” che l’anatroccolo si ritroverà a subire. Privo degli adeguati insegnamenti materni, procederà nella sua vita per prove ed errori, poiché il suo istinto non sarà stato affinato e risvegliato da una madre amorevole. Allo stesso modo, la donna orfana di madre apprenderà, secondo l’autrice, provando e compiendo innumerevoli errori, poiché le manca quel medesimo “istinto” che, sebbene insito nella natura, solo una madre amorevole potrebbe risvegliare.

“Se avete tentato di adattarvi a uno stampo e non ci siete riusciti, probabilmente avete avuto fortuna. Potete essere in esilio, ma vi siete protetti l’anima. […] È peggio restare nel luogo cui non si appartiene che vagare sperduti, alla ricerca dell’affinità di cui si ha bisogno. Non è mai un errore cercarla.” (C. Pinkola Estés – Donne che corrono coi lupi)

Tra le diverse sottolineature dell’autrice, vi è quella sul valore dell’esilio. L’anatroccolo vaga, rischia la morte, non permane nella comunità a lui ostile, né si adagia: decide di cercare. Qualcosa in lui riesce a temprarsi durante quell’esilio che, sebbene imposto e fortemente doloroso, permetterà all’anatroccolo di riscoprirsi, alla fine, più forte e addirittura molto più bello. Allo stesso modo, come suggerisce la Estés, è preferibile proteggere la propria anima, esiliandosi rispetto a chi non ci accetta, piuttosto che restare in un luogo cui non si appartiene.

A quest’ultimo aspetto si collega naturalmente quello che appare il nucleo vitale della fiaba, la scoperta dello stato di grazia dell’appartenenza: l’approdo finale dell’anatroccolo nella sua comunità naturale sembra rinvigorire tutto il suo essere, colmandolo di nuove energie e di slancio vitale, in una sorta di “riappropriazione del sé” che pone l’animo in una condizione di rinascita, di gioia e di vitalità. Le stesse, sottolinea l’autrice, che si avvertono quando si sperimenta l’appartenenza, la condivisione naturale tra esseri affini. E “non è mai un errore cercarla”, pur nelle condizioni più difficili ed aspre, anche rischiando ciò che si possiede. Perché è valore fondante del nostro stesso Essere e del Vivere pienamente, quel sentire di essere accolti e di appartenere.

di Stefania Esposito

Dal Sito: www.stateofmind.it


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/il-brutto-anatroccolo-significato/


Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2017/06/il-brutto-anatroccolo-significato/

Viaggiare senza uscire di casa


Con Google Street View Jacqui Kenny ha trovato il modo di girare il mondo e di fare fotografie bellissime, nonostante la paura di viaggiare
L’anno scorso, dopo la chiusura dell’azienda che aveva fondato quasi dieci anni prima, Jacqui Kenny ha aperto su Instagram l’account Agoraphobic Traveller, in cui pubblica gli screenshot scattati ai posti più interessanti che trova esplorando, senza uscire di casa, su Google Street View (il servizio di Google per vedere immagini panoramiche a livello stradale). Le immagini, che sono una selezione curata tra migliaia di screenshot, sono visivamente molto coerenti tra loro, come se fossero state scattate dalla stessa persona: Kenny privilegia spazi aperti e paesaggi spogli con particolari in evidenza (cactus, case colorate, cani che inseguono automobili). A tratti le foto sembrano anche ambientate nello stesso paese, ma vengono invece da tutto il mondo: Perù, Cile, Emirati Arabi Uniti, Senegal e Stati Uniti.

Kenny ha spiegato al New Yorker che in questo modo riesce a vedere posti che altrimenti non visiterebbe mai perché soffre di agorafobia (la paura degli spazi aperti accompagnata spesso dal disagio di trovarsi in ambienti non familiari) e di un’ansia che spesso le impedisce di uscire di casa: per lei prendere un aereo è una cosa impegnativa al punto che volare in Nuova Zelanda per il matrimonio della sorella (Kenny vive a Londra) ha richiesto mesi di terapia. Da qui il nome del progetto, cioè “il viaggiatore agorafobico”: «L’agorafobia e l’ansia limitano la mia capacità di viaggiare, così ho trovato un altro modo per vedere il mondo».


Dal Sito: www.ilpost.it

Gli esercizi fisici che aiutano a combattere l’ansia



Gli esercizi fisici che aiutano a combattere l’ansia permettono di scaricare lo stress quotidiano che contribuisce senz’altro a generare stati di frustrazione. Ma non solo. Eseguire esercizi fisici e allenare il corpo permette di rilasciare sostanze in grado di far sentire maggiormente rilassati più controllati e sereni da un punto di vista mentale.

Insomma, lavorare sul corpo per lavorare indirettamente anche sulla propria mente: è soprattutto grazie a tale meccanismo che gli esercizi fisici e molti sport aiutano a combattere l’ansia.

Ansia: da cosa è generata

I motivi per cui si può provare ansia possono essere davvero tanti e spesso non è neppure facile individuare con certezza le cause scatenanti. Tanto più che spesso, essa, è la conseguenza di una serie di fattori che possono concatenarsi e intrecciarsi. Si può avvertire ansia perché si sta vivendo un momento particolarmente stressante della propria vita, perché si ha timore di novità che potrebbero cambiare in negativo la quotidianità, perché si è subìto un lutto, perché si hanno troppe responsabilità, perché si è particolarmente fragili o ansiosi di indole. Insomma, capire cosa genera ansia è senz’altro di grande aiuto, ma anche imparare a controllarla è altrettanto importante. Nessuno sfugge a momenti di ansia, neppure le persone più controllate in assoluto.

Esercizi fisici che aiutano a combattere l’ansia

Se è praticamente impossibile evitare l’ansia, di certo non è impossibile affrontarla e combatterla. Imparare ad affrontare momenti di ansia è fondamentale per restare lucidi e per non andare ad inficiare su attività e rendimento quotidiani fino ad arrivare, nei casi peggiori, a veder peggiorare la qualità della propria vita sociale. Per tenere a freno l’ansia, potrebbe essere molto utili affidarsi all’esercizio fisico oppure a discipline come lo yoga o il pilates. Praticare attività sportiva, infatti, consente di scaricare lo stress e di stimolare le endorfine, sostanze prodotte dal cervello in grado di restituire sensazione di benessere a corpo e mente.

Prima di dare uno sguardo agli esercizi fisici che aiutano a combattere l’ansia, si ricorda che per limitare questo stato potrebbe essere altrettanto fondamentale imparare a servirsi del respiro. Le tecniche del respiro, da utilizzare in fase preventiva o per combattere l’ansia stessa, possono rivelarsi fondamentali sotto questo punto di vista.

E per concludere, ecco qualche esercizio fisico da svolgere per combattere i momenti di ansia.

Rilassamento muscolare. Questa tecnica è una delle migliori quando si tratta di combattere l’ansia. Per metterla in pratica occorre sdraiarsi al suolo, in ambiente con scarsa luminosità e con temperatura gradevole. Con le braccia perpendicolari lungo i fianchi e con le gambe leggermente divaricate, si iniziano ad effettuare dei piccoli piegamenti che portano alla contrazione e al rilascio successivo dei muscoli di gambe, piedi, addominali, glutei, braccia e bacino. L’ideale è partire dai muscoli delle zone alte del corpo e poi scendere gradualmente.

Corsa. Fra tutte le attività sportive, la corsa è quella potenzialmente più benefica dal punto di vista psicofisico. Correre anche per pochi minuti al giorno, tutti i giorni, consente di scaricare tutto lo stress accumulato in modo molto semplice. Senza contare che la corsa consente di mettere in funzione le endorfine di cui si diceva poco prima, con grandi benefici sia dal punto di vista corporeo sia dal punto di vista mentale. Provare per credere.

Respirazione addominale. L’ultimo esercizio fisico per combattere l’ansia che viene segnalato permette di controllare questo stato mentale servendosi della respirazione. Ci si può posizionare nel modo che si preferisce (sdraiati o semisdraiati), in ambiente confortevole e in cui non si può essere distratti o disturbati (via anche il telefono cellulare quindi). La mano sinistra poggia sulla pancia mentre la destra sul petto, gli occhi sono chiusi e si inspira profondamene dal naso, cercando di far gonfiare la pancia. L’aria inspirata viene trattenuta per due/tre secondi e quindi fatta fuoriuscire lentamente. L’esercizio si può svolgere da un minimo di cinque ad un massimo di dieci minuti per volta.


Dal Sito: www.diredonna.it