domenica 3 giugno 2018

Cinque cose che una persona ansiosa vorrebbe che gli altri sapessero di lei


L'ansia è come una sedia a dondolo: sei sempre in movimento, ma non avanzi di un passo”. Sono le parole con cui la scrittrice statunitense Jodi Picoult descrive questo disturbo di cui, secondo il rapporto Istat del 2017, soffrono circa due milioni e mezzo di italiani. Stefano Bolognini, psicoanalista e primo italiano a ricoprire la carica di presidente dell’International psychoanalitical association, sostiene che l’ansia sia “il risultato di una opposizione del soggetto a sentire e vivere i propri sentimenti, i quali ‘premono’ ai confini dell’Io, e generano il vissuto dell’ansia, che si configura come uno stato di tensione spiacevole aspecifica”.
Ma una persona che soffre di ansia ad alto funzionamento - ossia che riesce a condurre una vita normale e a svolgere le attività indispensabili - cosa vorrebbe dire alle persone che la amano? Lo abbiamo chiesto allo psicoterapeuta Francesco Minelli.

1 - Non giudicarmi

È bene evitare consigli come “Rialzati che ce la fai!”. “L’errore di chi non soffre d’ansia è pensare che la persona controlli razionalmente questo disturbo e svalutarla: l’ansia è qualcosa di emotivo che agisce a livello inconscio”, spiega Minelli.

2 - Ascoltami

“È una delle cose più difficili da fare con chi soffre d’ansia, perché l’ansia si trasferisce. La persona che soffre di questo disturbo ha bisogno di un ascolto presente: ci deve essere empatia e deve essere riconosciuta la sua sofferenza”.

3 - Quello che è banale per te, non lo è per me

“Anche i compiti che sembrano più banali, non lo sono per una persona con ansia. Può essere un problema anche andare all’ufficio postatale. È bene non dire frasi come: “Ma possibile che non riesci a farlo?”. Si deve far sentire alla persona che le cose vanno bene lo stesso, che si troverà un’altra soluzione e invitarla a consultare qualcuno competente per sbloccare la situazione. Può essere utile aiutare la persona a calmare il respiro e allontanarla dalla situazione che crea ansia”.

4 - Accetta la mia preoccupazione e la tendenza a controllare

“Chi è ansioso tende a fare moltissime domande all’altra persona prima di andare in un posto.

Ha bisogno di assicurarsi che non si tratterà di una situazione che gli creerà ansia. Ha inoltre la tendenza a non accettare di commettere errori: è probabilmente la dimensione di controllo più tipica, che può portare a non fare le cose pur di non sbagliare”. 

5 - Comprendimi, se cancello un appuntamento all’ultimo o vado via all’improvviso

“Disdire all’ultimo un appuntamento o andarsene all’improvviso rientra tra le situazioni da non prendere sul personale. Significa che quella condizione superava i livelli di tollerabilità”.

DI ELEONORA GIOVINAZZO
Dal Sito: d.repubblica.it

Gruppi di mutuo aiuto: alleati nel combattere ansia e attacchi di panico



Il fenomeno dei gruppi di mutuo aiuto è in crescita in un’Italia in cui 2,5 milioni di cittadini soffrono di ansia e attacchi di panico

Da una recente ricerca condotta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, In Italia i disturbi di ansia attacchi di panico sono un fenomeno in crescente aumento. 800 milioni di giovani ne soffrono e cercano di convivere con questa patologia. Il 30% di loro non ne parla con nessuno perché teme di essere giudicato in quanto manca spesso nel nostro Paese la giusta informazione e l’efficiente formazione in materia.

L’ansia si manifesta attraverso tachicardia, nausea, tremori, sudorazione eccessiva. E’ un processo degenerativo che può sfociare in veri e propri attacchi di panico. E’ un meccanismo di sopravvivenza che il corpo attiva dentro di sé per auto-proteggersi dalle sofferenze. Si attiva nei periodi stressanti o di fronte ai cambiamenti che generano incertezza, paura e frustrazione. E’ generata dalla difficoltà a relazionarsi spesso mediata dall’utilizzo smodato dei social networks, dalla frustrazione di essere conformi in una società che ci vuole tutti uguali e stereotipati, dall’incertezza del futuro lavorativo. Chi soffre ripetutamente di crisi d’ansia limita la propria vita sociale e lavorativa. La paura di un nuova crisi diventa una costante delle proprie giornate, difficile da gestire e controllare.

Per combattere e contrastare le crisi d’ansia e gli attacchi di panico sono sorti in Italia i gruppi di mutuo aiuto attivati dai servizi sociali e dalle associazioni competenti in materia. Negli ultimi anni sono 200 mila gli utenti coinvolti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera questi gruppi uno strumento di provata efficacia per promuovere e proteggere la salute dei cittadini. L’auto mutuo aiuto fa suo un principio usato in “psicologia di comunità”, disciplina che si propone di migliorare la qualità della vita delle persone considerandole nel loro ambiente sociale; tale principio detto “empowerment” letteralmente può essere tradotto con potenziamentoacquisizione di poteredare forzaaumento di capacitàsviluppo di competenzesenso d’efficaciaemancipazione.

I gruppi di mutuo aiuto sono gruppi formati da persone che condividono la stessa esperienza o problema in questo caso l’ansia e gli attacchi di panico. Ogni gruppo si riunisce una volta alla settimana ed è mediato da un facilitatore che può essere uno psicologo o un educatore. Chi partecipa ad un gruppo di mutuo- aiuto si sente meglio perché si sente ascoltato, capito e la sua autostima accresce. Il gruppo di mutuo- aiuto valorizza le risorse della persona attraverso la libera partecipazione, la riservatezza reciproca e soprattutto l’ascolto che è il fulcro di tutto. I gruppi di mutuo aiuto forniscono informazioni utili per allenare l’autocontrollo e imparare a conoscere le proprie paure che sono alla base dell’ansia. Uno strumento da non sottovalutare e che le amministrazioni pubbliche e il Terzo Settore dovrebbero valorizzare perché sono molto attive anche nel campo della prevenzione di molte patologie psicologiche attraverso attività ed eventi interessanti che vedono il coinvolgimento del mondo del volontariato.

Dal Sito:  m.ilgiornale.it

giovedì 31 maggio 2018

LA DANZA-MOVIMENTO-TERAPIA


A partire dalla definizione di “Salute” proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la intende come uno “stato di benessere fisico, psicologico e sociale, non caratterizzato dalla semplice assenza di malattia, ma dall’equilibrio delle diverse componenti dell’individuo stesso” è possibile affermare che la DanzaMovimentoTerapia, coinvolgendo l’individuo nella sua globalità, possa interagire su questi diversi piani e ristabilirne un armonico equilibrio.

L’American Dance Therapy Association definisce nel 1974 la DanzaMovimentoTerapia come l’uso psicoterapeutico del movimento quale processo che favorisce l’integrazione emotiva e fisica della persona. Tale attività si rivolge a bambini, adulti e anziani, non ci sono limiti di età né di condizioni fisiche. Il percorso può essere sia individuale che di gruppo.  
A cosa serve la DanzaMovimentoTerapia? Il movimento permette di entrare in contatto significativo con quella parte dell’individuo non descrivibile a parole ma ricca, conoscibile, comprensibile, diversamente esprimibile. Il corpo e la psiche sono indissolubilmente connessi tanto che un blocco emotivo si può manifestare fisicamente (tensione muscolare, eruzioni cutanee, dolori, problemi a relazionarsi con alcune parti fisiche, ecc) ed una trauma fisico può influire sulla tranquillità psicologica (fratture che fanno sentire instabili o fragili, operazioni complicate il cui ricordo continua a dare angoscia, violenze subite che non permettono di vivere serenamente le relazioni, ecc).
La memoria somatica è molto antica e sconosciuta alla parte razionale. I momenti gioiosi e dolorosi sono registrati nel corpo dell’individuo. La DanzaMovimentoTerapia dà voce a quelle parti che non sono in grado di esprimersi attraverso la parola, aprendo la strada a nuovi modi di muoversi e quindi di percepire ed essere. È un percorso di conoscenza di sé e può essere intrapreso: per un desiderio di maggiore consapevolezza corporea (postura, coordinazione, mobilizzazione, limiti e risorse, ecc), come sostegno e rinforzo per momenti difficili e delicati e per migliorare le relazioni con gli altri e con il mondo circostante. 
La DanzaMovimentoTerapia viene applicata in molteplici campi tra cui: problemi di ansia e disturbi correlati; depressione; disturbi dell’infanzia; assistenza alla gravidanza e post parto; problematiche di tipo psichiatrico; disturbi alimentari; pazienti ospedalizzati; problemi psicosomatici; dipendenza da sostanze; casi di violenze ed abusi; ecc.

La pratica si svolge in tre fasi: 
1) Riscaldamento: contattare il corpo 
2) Svolgimento: sviluppo delle tematiche (fisiche/psichiche) portate dal o dai pazienti 
3) Chiusura: rielaborazione 
L’incontro, individuale o di gruppo, si può suddividere in tre fasi principali: il movimento, in alcuni momenti, è guidato dal terapeuta mentre in altri è libero. Si parte sempre dal ‘qui ed ora’ e cioè dal corpo, come lo si sente, quali sono i disagi e le difficoltà (tensioni, dolori, ecc) e quali i bisogni (sgranchirsi, stirarsi, rimanere a terra sdraiati, saltare, battere, ecc). In questo modo, senza giudizio e senza aspettative, il corpo viene ricontattato, portando alla consapevolezza ciò che si sente per poi iniziare a prendercene cura. Possono essere utilizzati: musica; supporti artistici; oggetti che facilitano la percezione di movimenti o l’espressione di essi. L’obiettivo è quello di creare un ambiente favorevole dove sia possibile dare forma corporea a contenuti emotivi, elaborare modi espressivi e forme simboliche rappresentative dei vissuti.

È importante sottolineare come la DanzaMovimentoTerapia possa essere una “Terapia” a tutti gli effetti, ma possa anche semplicemente rappresentare una metodologia che offre uno spazio di benessere, di relax e anche di divertimento. Parimenti è fondamentale essere a conoscenza che non è assolutamente necessario saper ballare per intraprendere questo percorso. Naturalmente il movimento è parte integrante della metodologia, ma ognuno può partecipare con la propria soggettività che viene accolta come risorsa e mai giudicata. Non vi sono faticose tecniche o particolari “passi” da apprendere; il movimento nasce dal profondo “sentire” di ogni partecipante. Con tale pratica si sciolgono le tensioni muscolari, si armonizza il corpo, si rasserena la mente e si raggiunge un piacevole stato di “rilassamento dinamico”, inducente “piacevoli stati di benessere”. Infine, l’utilizzo della musica è giustificato poiché può servire da “contenitore sonoro” e facilitare il movimento, in alcuni momenti serve a risvegliare le energie, in altri è utile per rilassare e sciogliere le tensioni.


Dal Sito: benessere.com


Foto: Sheila Murciano Insegnante di danza

LUTTO E DEPRESSIONE


Superare la morte di una persona cara è un’esperienza molto difficile che in taluni casi, per fortuna rari, può innescare sindromi depressive. Non bisogna però confondere la normale reazione ad un lutto, che presenta manifestazioni molto simili a quelle della depressione, con una vera malattia.

Le fasi del dolore Il dolore che provoca un lutto si sviluppa normalmente in cinque fasi. 

  • Negazione della realtà e isolamento Si tratta di un meccanismo di difesa che ci permette di attenuare l’intensa fase iniziale del dolore. E’ una risposta psicologica temporanea.
  • Rabbia Quando gli effetti mascheranti della negazione della realtà e dell'isolamento cominciano a svanire, la realtà ed il relativo dolore riappaiono. Ma non si è ancora pronti. L'emozione intensa è deviata dall’oggetto del dolore e riorientata e si esprime come rabbia. Rabbia che si può anche orientare verso il soggetto che ci ha provocato il dolore. A questo si può aggiungere un senso di colpa per essere arrabbiati e questo non fa che alimentare la rabbia stessa.
  • Auto recriminazioni Si incomincia poi una fase in cui si auto recrimina su azioni che si sarebbero potute compiere per evitare o ritardare il lutto. Se ci fossimo rivolti al medico prima, se avessimo richiesto l’intervento di altri specialisti, in altre strutture…
  • Depressione Due tipi di depressione sono associati al dolore che provoca un lutto. Una depressione più profonda ed una più legata agli aspetti pratici che il lutto può comportare. La durata di questa fase varia da alcune settimane e sei mesi. Le manifestazioni più tipiche sono umore depresso, sentimenti di tristezza, inappetenza, crisi di pianto, agitazione e scarsa concentrazione. La maggior parte delle persone ha la sensazione che il defunto sia in qualche modo ancora presente.
  • Accettazione Dopo la fase di depressione, i sintomi depressivi regrediscono e la persona tenta di tornare alla normalità. La durata di questa fase è variabile e non tutti riescono a raggiungerla.
Come superare la depressione

Non bisogna troppo reprimere i sentimenti, bisogna lasciare sfogare le emozioni, anche se in una fase iniziale possono apparire eccessivamente intense. 
Conviene cercare la comprensione di parenti ed amici, non chiudersi in se stessi. Sostenersi a vicenda può essere di grande aiuto. 
Il ricorso ad uno specialista, psicologo, è richiesto solo in casi speciali, dove il passaggio attraverso le varie fasi del dolore non riesce a risolversi.

Psicofarmaci

L’assunzione di antidepressivi può essere controproducente nelle prime fasi creando delle interferenze con il processo progressivo di risoluzione del lutto. Se non si riesce a dormire le prime notti, il medico può prescrivere dei tranquillanti, ma soltanto per un periodo limitato di tempo superato il quale il trattamento dovrebbe essere interrotto.


Dal Sito: benessere.com

mercoledì 30 maggio 2018

Ansia, forse ne soffre qualcuno vicino a te: ecco le 5 cose da sapere

5 cose da sapere se amate una persona che soffre d’ ansia – Una delle cose peggiori al mondo è veder soffrire una persona amata

Vedete il vostro partner irritato, inquieto, pieno di stress, isolato, alienato, controllato dalle sue paure più profonde, in attesa che accada il peggio.

Il suo cuore batte velocemente, suda, ha mal di testa, ha un attacco di panico. Non riesce a dormire e a concentrarsi per le preoccupazioni.

È prigioniero della propria mente. Oltre a questo, sembra che nessuno lo capisca. Il vostro partner soffre d’ansia. L’ansia ha gettato radici spinose nel suo nido d’amore.

Avere una relazione con una persona che soffre d’ansia richiede molta pazienza ed empatia. Servono soprattutto capacità di riconoscere la situazione, disposizione a istruirsi in materia e una comprensione profonda di ciò che vive il partner.

Ecco 5 cose che dovete sapere se il vostro partner soffre di un disturbo d’ansia per poterlo aiutare.

1) L’ansia è molto più di una semplice preoccupazione. Prendetela sul serio. L’ansia è pensare troppo, avere troppo a cuore cose e situazioni, una battaglia costante tra i peggiori demoni della propria mente.

Superare questo disturbo mentale non è una cosa facile. Non è uno scherzo o qualcosa che scomparirà per magia non appena lo si desidera. È per questo motivo che ci si deve informare su cosa vive il partner.

Se non capite cos’è l’ansia e come questo problema di salute mentale influisca sulla salute del vostro partner non sarete in grado di aiutarlo/a.

Siate quindi disposti a imparare il più possibile, leggete, parlate con qualcuno che ha lo stesso problema, chiede aiuto professionale. Il vostro partner vi ringrazierà per lo sforzo.

2) Il vostro partner vuole parlare dei suoi sentimenti. Ascoltatelo. Anche se l’ansia ha il potere di paralizzare la mente e il corpo, il vostro partner vorrà comunicare con voi…

se gli darete l’opportunità di parlare. Ascoltate quello che ha da dire. Soprattutto, chiedetegli se sta bene e mostrategli di essere disposti a offrire sostegno e aiuto. Lasciate che sappia che siete sempre lì per lui.

Ciò non vuol dire che dobbiate pressarlo e torturarlo a furia di domande quando è nel panico! Ascoltate le sue necessità. Cercate di capire se non vuole parlare di ciò che prova. Rispettate i suoi momenti di solitudine. Ve ne sarà grato.

3) Il suo non farvi caso non significa che non vi ami. Comprendetelo. Le persone che soffrono d’ansia affrontano soprattutto il loro mondo interiore. Pensano molto, analizzano troppo, cercano di vincere la battaglia con le loro preoccupazioni e le loro paure.

Per questo, sono spesso assenti anche quando sono fisicamente presenti. Il vostro partner vi ama e vuole essere presente; semplicemente resta prigioniero della sua mente e si sente impotente di fronte ai suoi tentativi di rimanere in contatto con la realtà. Ricordatevene.

Non riesce a controllare o semplicemente a lasciar correre. Anziché lamentare la sua mancanza di attenzione, tendetegli la mano e offritegli un aiuto che gli mostri la bellezza del momento presente. Ditegli che sapete che vi ama.

4) Accettate e incentivate il vostro partner a cercare aiuto. Il vostro partner può avere un attacco di panico. Può avere una pessima giornata, e nulla può aiutarlo a rientrare nei ranghi. Non importa cosa facciate, capita.

Questo può provocare preoccupazioni e frustrazioni. Non dovete comunque sentirvi in colpa. Rimanete calmi. Cercate di accettare la situazione reale e incoraggiatelo a cercare un aiuto professionale.

Il vostro partner sa che siete sempre lì per lui, e vi è grato per il fatto di restare al suo fianco. Se il vostro partner non vuole affrontare un trattamento, non forzatelo. Siate pazienti, gentili. Cercate di trovare ciò che per lui è confortevole e funziona bene.

5) L’ansia può portare alla depressione. Cercate di bloccare i primi segnali. Alcuni ricercatori associano l’ansia sociale alla depressione, e se l’ansia porta emozioni intense e mantiene la mente costantemente attiva, la depressione comporta una riduzione dell’energia e ritarda tutto.

Immaginate cosa accadrebbe se il vostro partner provasse ansia e depressione allo stesso tempo! Essere divisi tra due pericoli sarebbe una grande sfida da affrontare.

L’ansia e la depressione in genere procedono di pari passo. Non lasciate mai il vostro partner a lottare da solo. Affrontate tutto insieme. L’ansia è una condizione curabile.

Oltre a questo, se pensate che non riesca a superare la cosa da solo non vergognatevi di cercare l’aiuto di uno psicologo, uno psichiatra, un terapeuta.

Abbiate speranza. Credeteci. Ricordate che il vostro partner è forte, e che dovete esserlo anche voi. Fonte: Aleteia

Dal Sito: www.informarexresistere.fr

sabato 26 maggio 2018

Emetofobia, la battaglia di Elena contro il male che viene da dentro


Ciao, mi chiamo Elena*, Yume in arte. Molti di voi non mi conosceranno molto probabilmente, ma il messaggio che voglio trasmettere è indirizzato a tutti, poiché si tratta di crescita personale mia e vostra. È molto importante per me che tutti siano al corrente di ciò, non tanto per egocentrismo quanto perché quel che ho vissuto io in questi mesi non debba viverlo più nessun altro.

Partiamo però dall’inizio, dal problema di fondo, che ha messo le radici all’interno del mio corpo e ha lasciato crescere quella pianta velenosa nel mio cuore che mi ha portato ad assentarmi per gran parte dell’anno scolastico di quarta liceo: fin da quando ho memoria ho sofferto di emetofobia (ossia, la fobia di vomitare o di vedere altri che vomitano), anche se sono riuscita a dare un nome a questa fobia solamente da poche settimane. Da piccola non sapevo cosa avessi, ma ogni giorno piangevo per la paura di vomitare. Nessuno sapeva che fosse qualcosa di simile anche per colpa mia, che da bambina quale ero mi esprimevo solo con un “mi fa male lo stomaco”, senza dire altro, piangendo e basta divorata dalla paura. Crescendo, in famiglia mi hanno aiutato a capire che non era lo stomaco a “fare male”, ma che era la mia testa che, a causa della mia paura, mi metteva in agitazione, e così per diversi anni ho imparato a controllare questa fobia, che ancora pensavo fosse una cosa da “bambini”, che crescendo sarebbe scomparsa. Ma, ahimé, mi sbagliavo.

Nell’aprile 2017, nell’ultimo giorno di gita scolastica, ebbi il primo attacco di panico a causa dell’emetofobia, che fortunatamente passò nel giro della mattinata anche grazie all’aiuto di una mia compagna di classe e di stanza che mi è stata vicina in quei momenti, dei professori e del supporto di mia madre al telefono, e di tanto, tanto autocontrollo. Pensavo che fosse un caso, che sarebbe finita lì, ma non è stato affatto così.

I mesi restanti di scuola li feci serenamente, l’estate fu fantastica, ma a settembre ebbi un nuovo attacco di panico, durante la notte passata a casa di una cara amica, prima che iniziasse la scuola. Anche quella volta, con l’aiuto suo, della persona che adesso è il mio ragazzo, e di mia madre (che mi sgridò per averla svegliata nel cuore della notte per qualcosa di simile, e nei suoi panni al tempo le avrei dato anche ragione), ma soprattutto con l’aiuto di me stessa e di tanto autocontrollo, di una ripetizione continua di “sto bene, sto bene, sto bene…” riuscii a calmarmi.
Per un altro mese la situazione fu tranquilla, ma nulla fu più lo stesso…

La sera iniziai ad aver paura di andare a dormire, perché spesso mi svegliavo la notte agitata o molto tesa, alcune di queste notti avevo anche degli attacchi di panico senza però ancora sapere che fossero realmente quelli. La situazione non fece altro che peggiorare, ogni giorno che passava, e dall’inizio del 2018 in particolar modo questa fobia iniziò a condizionare in maniera pesante la mia vita.

Mi resi conto che, per la mia fobia di vomitare, oltre alla già presente paura di dormire iniziò a venirmi la paura di mangiare, perché nella mia testa si era innescato un meccanismo: “Se io non mangio non posso vomitare”, e la sensazione di fame iniziò quasi a essere qualcosa che cercavo più spesso, perché ero consapevole di non avere nulla in corpo che avrei potuto buttar fuori. In quel momento, quando confessai di avere paura di mangiare, mia mamma mi portò dallo psicologo; feci la prima seduta a fine gennaio, prenotando la successiva a distanza di un mese. Ma era già troppo tardi: gli attacchi di panico, che prima era qualcosa che accadeva qualche volta la notte, erano diventati un appuntamento giornaliero, potevano capitare a qualunque ora, che fosse la mattina appena sveglia, in pieno pomeriggio o nel cuore della notte. Svolgere ciò che faceva una persona normale era diventato estremamente difficile, come il semplice frequentare la scuola: iniziai a fare più assenze e a uscire prima.

Nella seconda settimana di febbraio, quando il mio ragazzo scese da Torino per stare con me qualche giorno, ci fu un altro episodio che mi ha segnato profondamente, ma prima di raccontarlo facciamo un passo indietro, tornando agli inizi del 2018.

Ho avuto l’immenso piacere di incontrare il mio ragazzo, di vederlo per la prima volta fuori da uno schermo, la persona che mi è stata più accanto in tutto questo tempo, anche nel cuore della notte, durante le ore scolastiche, ogni volta che avevo bisogno di lui. L’ultima sera che restava siamo tutti insieme andati a cena al ristorante giapponese, essendo amanti del sushi. La serata si concluse nel peggiore dei modi: quando andai in bagno sentii chiaramente qualcuno vomitare nella porta affianco. Da quel momento fino a tarda notte ebbi attacchi di panico, che mi portarono ad avere la paura di mangiare fuori.

Torniamo ora al mese di febbraio, il mio ragazzo torna e proviamo ad avere il nostro primo appuntamento da soli, sempre nello stesso ristorante: mi bastava il pensiero di andare lì per agitarmi, e anche quella serata fu un disastro. Ebbi un nuovo attacco di panico, il primo di una lunga serie che avrei avuto quella sera per cinque ore consecutive, e il mio primo attacco di rabbia. È da quel giorno che non mangio sushi, e da quel giorno non solo iniziai ad avere paura del cibo, ma iniziai a odiarlo proprio, a ridurne drasticamente le porzioni fino a mangiare il minimo indispensabile, a saltare pasti, continuando a cercare quella sensazione di fame che sembrava placare per un po’ le mie ansie.
Alla fine di febbraio cambiai psicologo, perché un appuntamento mensile non avrebbe risolto niente, e iniziai a essere seguita da una privata, con appuntamenti settimanali.

Andiamo adesso al mese di marzo, precisamente al giorno 10: facevo parte di un progetto teatrale, il Festival Dantesco, e quel giorno vi erano le prove generali che non riuscii a fare per colpa di diversi attacchi di panico avuti nella giornata. Cedetti così le mie parti a due ragazze che facevano il progetto insieme a me e lasciai loro un mio dipinto per aiutarle, e per me quella fu un’enorme sconfitta: avevo permesso alla mia fobia di portarmi via un qualcosa che amavo fare.

Ma la cosa peggiore accadde quella notte, tra il 10 e l’11 marzo. Tornare a casa fu devastante la sera, continuai ad avere attacchi di panico sempre più violenti, urlai fino a sentire la gola bruciare e non riuscii neanche ad arrivare a casa: mi fermai fuori sulla strada, in preda ai brividi del freddo e della paura, e a urlare come una disperata nel tentativo di calmarmi, finché non mi venne somministrato un ansiolitico che, nel giro di qualche minuto fece effetto, riuscendo a farmi tornare a casa. In seguito a quanto successo quella notte, iniziai ad avere paura della macchina, di viaggiare e di stare fuori casa. Il giorno seguente, preoccupato per me, il mio ragazzo scese da Torino per qualche giorno, riuscendo per un po’ a placare quell’inferno che stavo vivendo.

Passiamo adesso ad aprile, fine vacanze di Pasqua. Il primo giorno di rientro a scuola feci solamente un’ora e mezza, che passai fuori dalla classe con un attacco di panico, e da quel giorno ho smesso di andare a scuola, iniziando a temerla come temevo qualsiasi altra cosa. Inoltre smisi di fare il laboratorio teatrale che portavo avanti da tre anni con le scuole dei comuni a causa di un altro attacco di panico avvenuto durante una giornata di prove.

Ero stanca, stavo rinunciando a tutto, non riuscivo più a fare niente, mi sembrava quasi di impazzire.
Un’altra notte, con diversi attacchi di panico violenti dalla sera fino a tarda notte fu messa a tacere solo dopo aver chiamato il 118 e dopo avermi somministrato un calmante per endovena, che mi lasciò stordita per tutto il giorno seguente. A me sembrò quasi il paradiso. Da quel giorno, mi misi nelle mani di un neurologo che ritenne necessario prescrivermi calmanti e antidepressivi. I medicinali che prendevo per stare tranquilla continuavano ad aumentare, da chimici a naturali a omeopatici, e ancora la situazione non sembrava migliorare, nonostante tutto il supporto psicologico e farmacologico.

Una mattina mi rifiutai sia di bere che di mangiare, mi portarono al pronto soccorso per cercare di risolvere anche stavolta il mio problema, e dopo un paio di flebo di calmante e due fisiologiche per ciò che non avevo bevuto e mangiato potei tornare a casa.
Poco a poco tentavo di continuare a mangiare, di riprendere in mano la mia vita, ma non riuscivo.
Finché, un giorno, qualcosa non scattò: 7 maggio a mezzanotte e mezza.
Premetto che nei momenti dei peggiori attacchi di panico il pensiero che avevo più spesso era quello del suicidio, perché ero stanca della situazione che stavo vivendo e avrei preferito la morte a una vita in quelle condizioni.

Pochi giorni prima, iniziai a guardare la serie tv “13”, sapendo che forse mi sarebbe stata d’aiuto per cambiare la mia visione del suicidio, e questo riuscì a farmi fare, dopo mesi, il primo passo. Alla fine di quella serie tv, i pensieri suicidi non mi sfiorarono più. Il 6 maggio inoltre, vidi in televisione una testimonianza di una giovane ragazza di 23 anni, emetofobica come me a cui era stata diagnosticata l’anoressia perché, con lo schema del “se non mangio non vomito” era arrivata a pesare 37 chili. Mi arrabbiai, i medici non avevano capito affatto che l’anoressia era solo una conseguenza del vero problema che ha molte sfaccettature. Lei, per esempio, non aveva ansia o attacchi di panico, evitava semplicemente il problema non mangiando. Durante l’estate passò il tempo con la borsa dell’acqua calda sulla pancia, perché le avevano detto che aiutava a digerire, e ciò le portò ad avere ustioni su tutto l’addome. La sua situazione mi fece fare il secondo passo, che fu un semplice pensiero, ma che cambiò completamente la mia vita da quel momento: “Non voglio arrivare a quelle condizioni. Voglio smettere di stare male. Voglio tornare a vivere”.

Il giorno dopo, tornai a scuola a salutare la mia classe, a raccontare loro quanto successo, e fu un altro passo in quel buio tunnel. Fu come svegliarsi da un incubo, sentivo che qualcosa era cambiato. L’ansia iniziò a diminuire poco a poco, gli attacchi di panico pure, i calmanti da prendere al bisogno passarono da due/tre al giorno a uno ogni tanto. Iniziai a programmare le interrogazioni finali con studio individuale a casa per non perdere l’anno, stamattina (22 maggio) ho fatto la terza, e il mio calendario di interrogazioni terminerà il 5 giugno, continuando a lottare in modo attivo ogni giorno, cercando di fare ciò che amo.

Un altro traguardo fu andare a salutare il gruppo di teatro e raccontare anche a loro la mia storia, per trasmettere un messaggio importante che sto cercando di trasmettere anche qui.

Bisogna che sia chiara una cosa: non fate i miei stessi errori, non aspettate, non lasciate crescere quella pianta velenosa dentro di voi, estirpate le radici non appena queste si scavano il loro spazio all’interno del vostro corpo. Al primo attacco di panico toglietevi subito dalla testa il pensiero “è stato solo per stavolta, non accadrà di nuovo” perché potreste sbagliarvi. Accadrà di nuovo, finché non imparerete la lezione, accadrà ancora e ancora, sempre con più frequenza. Al primo attacco di panico rivolgetevi da subito a uno psicologo, con una mente lucida risolverete molto prima i problemi e riuscirete a maneggiare meglio le armi che vi forniranno.

Voglio poi assicurarvi che da questa situazione si esce, ma solo se siete voi a volerne davvero uscire, finché vi crogiolate nel dolore e non agite di vostra volontà la situazione non si risolverà. Ognuno ha bisogno degli stimoli giusti, e prima o poi questi arrivano, bisogna resistere fino ad allora, ma sempre con l’aiuto psicoterapeutico al primo segnale, dal primo attacco di panico, anche se sembra una sciocchezza o qualcosa che non possa accadere di nuovo, fatelo. Rivolgetevi da subito a uno specialista.
Voglio poi dirvi un’ultima cosa, che per me è molto importante e per cui avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi: l’emetofobia non è un caso raro che accade a qualcuno e basta, si tratta di un problema che hanno molte più persone di quanto si creda, ma non è diagnosticato come lo sono problemi come l’anoressia o la bulimia.

Ho bisogno che venga sparsa la voce il più possibile affinché venga riconosciuto come un vero disturbo con tante sfaccettature, che può manifestarsi con attacchi di panico e ansia continua, o con il rifiuto di mangiare e sfociare poi in un’anoressia o magari anche in altri modi che fortunatamente non ho avuto modo di sperimentare. Ho bisogno che la mia storia venga ascoltata, per proteggere le persone che soffrono di questo problema ma non sanno di cosa si tratta, per le persone che sanno di soffrirne ma non sanno come uscirne, e per far sì che venga riconosciuto come un disturbo. L’anoressia può portare alla morte come la può portare l’emetofobia… il giorno in cui mi rifiutavo di mangiare e di bere, soprattutto di bere, avevo le ore contate.

Si tratta di un problema più grave di quanto possa sembrare se questo prende una brutta piega, per questo voglio che tutti sappiano quanto accaduto così che nessuno commetta i miei stessi errori.
Vi prego, chiedete da subito aiuto, non aspettate, perché ogni giorno in più che passa senza fare niente è un giorno in più che lasciate al vostro nemico.
E vi assicuro che da questo problema ne uscirete: il vostro obiettivo iniziale non deve essere guarire dall’emetofobia, a cui potrete pensare poi successivamente, la cosa più importante è imparare a controllarla, a non lasciare che la fobia condizioni la vostra vita, non dovete permettere alla fobia di privarvi di ciò che più amate, come ha fatto con me in questi mesi passati. Non abbiate paura di parlarne con uno psicologo, non abbiate paura di dover prendere dei farmaci, non vergognatevene, perché sono le armi giuste per vincere le battaglie e la guerra.
Io mi sto rialzando poco a poco, con l’aiuto del mio ragazzo, della mia famiglia, dei miei amici. Tutti possono rialzarsi e imparare di nuovo a camminare, a vivere.

Vi prego di condividere e raccontare la mia storia, parlatene, fate in modo che si sappia, che questo problema venga riconosciuto.
Ma soprattutto, vi prego di non smettere mai di lottare, qualsiasi sia il vostro problema o la difficoltà che state affrontando.
Non limitatevi a sopravvivere, il tempo perso non tornerà indietro, la vita deve essere vissuta a pieno, fate ciò che amate, non permettete a niente e a nessuno di portarvi via la vostra felicità, non permettetelo neanche a voi stessi. Combattete. So che vincerete.

(Sono Elena*, una ragazza di quasi 18 anni. Mi ritengo una persona creativa poiché amo scrivere, disegnare e suonare; un grande progetto che sto portando avanti adesso è infatti un romanzo illustrato scritto a quattro mani con il mio ragazzo, è la storia che ci ha uniti fin dall’inizio e che mi ha permesso di non mollare mai nei mesi passati, estremamente importante per me e per lui).

Il disegno che illustra questo articolo è stato realizzato da Elena.

di Elena "Yume"

Dal Sito: ilgiunco.net

mercoledì 23 maggio 2018

"A RITMO DI CUORE"

Incontri sul:

"BENESSERE PSICO-FISICO"



L'Associazione INSIEME Onlus, www.insiemedap.it 
Ansia-Attacchi di Panico-Agorafobia

è lieta di invitarvi al secondo  appuntamento del ciclo di incontri sul:

"BENESSERE PSICO-FISICO"

31 Maggio 2018 ore 21,00
Centro Polifunzionale Dep Art
Piazzale Stazione Stazione Ferroviaria
63066 Grottammare (AP) 

"A RITMO DI CUORE"

LABORATORIO DI DANZAMOVIMENTOTERAPIA

Percorso di consapevolezza e creatività, attraverso l'esperienza di ascolto e movimento. Il corpo sarà il ponte creativo tra il proprio immaginario e lo spazio circostante.

Con
SHEILA MURCIANO
Insegnante di danza

(si consiglia abbigliamento comodo)

Per info: info@insiemedap.it 
www.insiemedap.it




venerdì 18 maggio 2018

Quando l’ansia viene scambiata per maleducazione



In psicologia si impara presto a capire che, per determinati comportamenti, non esiste soltanto una chiave di lettura. Di base, anzi, sono sempre perlomeno due: quella del diretto interessato, con i suoi motivi per relazionarsi in un certo modo agli altri, e quella che viene percepita dall’esterno.

Ciascuno di noi è figlio e frutto delle proprie esperienze personali, del proprio bagaglio di vita, del proprio DNA intersecato tra quello che si sarebbe potuti diventare e quello che gli accadimenti relativi alla nostra esistenza ci hanno fatto diventare: un’intersezione doppia tra la nostra indole e le conseguenze del modo in cui siamo cresciuti, che ci rende più o meno ribelli, più o meno succubi in svariati ambiti.

Ci sono, però, determinati percorsi di vita (o tendenze meramente ereditarie) che portano le persone ad essere particolarmente ansiose, fino anche a cronicizzare questa condizione rendendola pericolosamente invalidante.

Ansia e introversione: due facce della stessa medaglia

Può capitare, ad esempio, di ritrovarsi ad avere a che fare con persone che spesso non rispondono al telefono, che rifiutano le chiamate o, peggio, che scompaiono da una festa senza avvisare nessuno o non rispondono ai messaggi per giorni e giorni. Sebbene ogni caso vada valutato di per sé, è anche vero che in alcuni casi questo tipo di modus operandipuò essere collegato ad una introversione, a sua volta figlia di un profondo stato di ansia perenne. Ansia di affrontare un problema, ansia da prestazione sul lavoro o in una relazione, ansia di non essere “abbastanza” per intavolare discussioni con questa o quell’altra persona; insomma, un’eccessiva preoccupazione che si traduce in un evitamento della vita stessa.

Le persone ansiose, in questo caso, non si comportano in questo modo per scortesia o maleducazione, ma soltanto perché non riescono ad empatizzare con l’altra persona, completamente assorbiti da quello che provano in una sorta di “malessere egoistico”.

Stime

Secondo Renato De Rita, medico e psicoterapeuta intervenuto al ciclo di conferenze di medicina psicosomatica organizzate dalla Simp (Società italiana di psicosomatica), nel nostro Paese sarebbero 8 milioni le persone a soffrire d’ansia, con 3 milioni assediate dagli attacchi di panico e 5 milioni di depressi.

Numeri importanti su cui ci si dovrebbe fermare a riflettere, soprattutto per cercare delle soluzioni: affrontare i problemi che, naturalmente, possono apparire nella vita di tutti, diventa ancora più complicato con uno stile di vita frenetico, insoddisfacente, ansiogeno, alimentando un circolo vizioso da cui difficilmente, poi, si può uscire da soli.

La ricerca del controllo

In poche decine di anni si è riuscita a forgiare una società dove tutti sono alla ricerca del controllo, ben consci di averlo perso e di non avere più il dominio totale sulla propria esistenza. È questo, forse, che si riflette maggiormente nelle relazioni interpersonali e che provoca più danni.

A questo punto c’è una sola cosa da fare: quando percepiamo un comportamento scortese da parte di qualcuno, cercare un dialogopuò essere una soluzione per capire come stanno le cose realmente, anche se l’introversione, per qualcuno, non lascia scampo nemmeno in questo caso…

Dal Sito: yourmag.it

giovedì 17 maggio 2018

Non Posso Cambiare La Situazione Ma Posso Cambiare La Mia Mente



“Non devi cercare di fare in modo che le cose vadano come vuoi, ma accettare le cose come vanno: così sarai sereno.” Epitteto

I latini usavano dire: Faber est suae quisque fortunae, vale a dire ognuno è artefice della propria fortuna, del proprio destino e in ultima analisi è il costruttore della propria vita. In questo senso non è azzardato sostenere che la persona che più di tutte può renderci felici è rappresentata, per ciascuno, da se stesso.

Ci sono situazioni che possiamo cambiare, altre no

Certo, ci sono situazioni che non possiamo cambiare ma possiamo cambiare la mente: preferite la via della rassegnazione o dell’accettazione?

Se mi alzo una mattina e penso “Oh mio Dio, non credo sarò capace di affrontare la mia separazione“, vuol dire che la mia vita non è affatto come la desidero” ovviamente mi sentirò male o comunque frustrato/a.

La via della rassegnazione

Questo atteggiamento mi porterà ad avere un pensiero tipo “ok, le cose stanno così, me ne faccio una ragione perché tanto non posso fare nulla per cambiarle”. Questo è RASSEGNARSI e scegliere più o meno consapevolmente la strada della frustrazione, dell’impotenza, della tristezza, dello svuotamento, del vedere la vita con occhi incolori.

La via dell’accettazione

E sappiatelo: tutte noi, ci siamo caduti a volte. Non importa. Se in questo preciso momento ci rendiamo conto che stiamo seguendo questa strada, possiamo scegliere di cambiarla… in un istante. Esiste infatti un’altra via, quella dell’accettazione.

“Ci sono sempre due scelte nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle” Denis Waitley

La via dell’accettazione, nella stessa situazione, ci porterà ad avere un pensiero tipo “ok, le cose stanno così: mi piacerebbe che fossero diverse ma prendo atto che ora questa è la situazione. Ok, ci sto. Adesso cosa possa fare per migliorarla? Cosa è in mio potere per cambiarla?”

E da lì ogni cambiamento è decisamente più semplice. Quante volte le persone dicono “NON POSSO ACCETTARLO!” quasi sempre con rabbia, frustrazione, rancore, malessere? Quante volte tu, lo hai detto e lo dici ad alta voce o nella tua testa? Non lo trovi stancante? Non è difficile, vivere in un mondo in cui devi sempre lottare contro qualcosa o qualcuno?

E quanto prima lo accettiamo, tanto prima smetteremo di soffrire

Quando una persona non vuole rimanere al nostro fianco possiamo fare ben poco per trattenerla. È inutile lamentarci se abbiamo perso un’opportunità di lavoro. Per quanto proattivi, entusiasti e positivi siamo, ci sono situazioni che non possiamo cambiare. In questi casi ci resta solo la possibilità di cambiare la nostra mente.

I pericoli della non-accettazione

Ci sono situazioni che dobbiamo accettare anche se non siamo in grado di cambiarle. Quando non le accettiamo si trasformano in un ostacolo che ci sottrae energia. Il vero miracolo succede quando le accettiamo, dato che durante questo processo di apparente resa cresciamo e voltiamo pagina. Che cosa accade quando non accettiamo una situazione che non possiamo cambiare?

Ci mantiene bloccati

Se ci troviamo di fronte a un muro e tentiamo di tutto per abbatterlo ma senza riuscirci, ci sentiremo frustrati e inizieremo a lamentarci. In questo modo resteremo bloccati sul nostro cammino. Al contrario, se cerchiamo di trovare altre soluzioni, possiamo continuare ad andare avanti, grazie anche al muro che ci ha stimolati.

Ci rende infelici

Quando non riusciamo a cambiare la situazione o gli altri non soddisfano le nostre aspettative, la frustrazione può crescere enormemente. Legandoci a questo problema ci impediamo di essere felici, è come se ci costringessimo a trascinare una grossa pietra, anche se in realtà ci piacerebbe lasciarla andare, ma non sappiamo come.

Ci impedisce di vedere le opportunità

Un problema o una situazione negativa, soprattutto se mantenuti nel tempo, tendono a generare frustrazione. E in questo stato non solo non siamo in grado di andare avanti, ma non riusciamo neppure a percepire le soluzioni e le opportunità che abbiamo sotto gli occhi. Non accettare un fatto significa chiudersi alle opportunità, scegliendo di rimanere nel passato.

Non è la situazione, è come reagisci

Spesso confondiamo la realtà con le nostre reazioni. Ma è importante notare che non è la situazione in se stessa che genera frustrazione, sofferenza o angoscia, queste sono solo le nostre risposte agli eventi che non possiamo o non vogliamo gestire. Si tratta di una differenza sostanziale, perché in questo modo è possibile separare l’evento dalla nostra reazione allo stesso. Si tratta insomma di renderti conto che stai reagendo a un significato, non a un fatto.

Infatti, molte volte siamo noi stessi che aggiungiamo benzina al fuoco, immaginando i peggiori scenari possibili o lasciando che le emozioni negative prendano il sopravvento. In questo modo otteniamo solo di peggiorare la situazione, quando l’obiettivo è quello di sentirci meglio. In pratica, finiamo per perdere la prospettiva che bene e male, negativo e positivo, si basino essenzialmente sui nostri punti di vista, su come scegliamo di reagire a determinate situazioni.

Molte delle situazioni che a prima vista possiamo considerare negative o cattive, possono essere positive, o almeno assumere un carattere neutro se cambiamo prospettiva e ne approfittiamo.

Naturalmente, non si tratta di relativizzare tutto o soffrire in silenzio. Quando una situazione non ci piace o diventa un ostacolo per il raggiungimento dei nostri obiettivi, dobbiamo cercare di cambiarla, ma se non siamo in grado di farlo, sbattere continuamente contro il muro servirà solo a farci del male. Se non siamo in grado di abbattere quel muro è meglio imparare a sfruttarlo.

Per raggiungere questo obiettivo, è importante capire che tutto dipende dall’interpretazione, che è determinata dalle nostre esperienze, le aspettative e le emozioni che ci trattengono e ci condizionano. Tuttavia, quella che stiamo vedendo non è l’unica realtà, ma solo un aspetto di questa. La nostra reazione alla situazione sarà la versione finale. Pertanto, concentrati sulla ricerca di soluzioni, non lamentarti.

Ricorda che la vita non è come si desidera che sia, molto spesso è capricciosa e imprevedibile. Continuerà a mettere dei problemi sul tuo cammino ma anche nuove opportunità. Sei tu che scegli se vuoi essere una vittima o se preferisci prendere in mano le redini e imparare ad ogni passo che fai.

Dopo tutto, ricorda che nulla è per sempre. Se qualcosa non ti piace, prova a cambiarlo, se non è possibile, non torturarti e cambia atteggiamento. Impara ad abbracciare la vita con tutto ciò che comporta.

Ana Maria Sepe

Dal Sito: psicoadvisor.com

martedì 15 maggio 2018

Attacchi di panico e disturbi d’ansia. 8 frasi che chi ne soffre vorrebbe dire alle persone care

Molte persone hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’attacco di panico. Pochi secondi (o nei peggiori dei casi iqualche minuto) possono essere in grado di sconvolgere una persona.

In una scala da 1 a 10 (dove 10 rappresenta le persone con il valore più alto di ansia), una persona con ansia generalizzata potrebbe posizionarsi tra il 5 e il 7, a seconda della sua attuale situazione di vita. Quando una persona supera questo valore fino a raggiungere un 8 o un 9, sperimenta quelli che sono noti come attacchi di panico.

Queste sono esperienze di ansia molto intense, che restano impresse nella memoria per molto tempo. La mente ed il corpo sono assaliti dalla percezione profonda delle paure umane più intense: la malattia, la follia, la morte. Questa esperienza così intensa e negativa raramente lascia le persone indifferenti anche a distanza di tempo. Molte settimane dopo ancora resta la “paura della paura“, che rende difficile la vita quotidiana, e quasi impossibili le attività che un tempo erano molto semplici.

L’attacco di panico inoltre arriva in modo improvviso e comporta non solo sintomi fisici ma anche sensazioni in grado di terrorizzare. Si tratta di sensazioni che le persone che non hanno mai provato un attacco di panico difficilmente possono capire.

Perchè la paura degli attacchi di panico aumenta l’intensità dei sintomi?

Gli attacchi di panico si auto-alimentano per colpa di pensiero di tipo catastrofico del tipo “Questa situazione potrebbe uccidermi” e generalmente includono alcune delle seguenti sensazioni o esperienze:

Dolori al petto

Nausea / crampi allo stomaco

Sensazione di vertigini o instabilità

Sensazione di irrealtà o di estraneità dal proprio corpo

Brividi o vampate di calore

Batticuore

Sensazione di respiro corto o asfissia

Parestesia (torpore o sensazione di formicolio)

Sudorazione

Tremore

Sensazione di soffocamento

Una volta che abbiamo avuto il nostro primo attacco di panico, immediatamente temiamo che capiti di nuovo e iniziamo a evitare le situazioni che potrebbero provocarne uno. La paura della paura entra in gioco, e il loop dell’ansia parte.

I pensieri più comuni tra chi soffre di attacchi di panico

Il noto sito Bored-Panda ha proposto a tutti i suoi lettori che soffrono di attacchi di panico di inviare le frasi che vorrebbero dire ai propri amici, partner e familiari per trasmettere i sentimenti più difficili da condividere. Ecco, tradotte in italiano, quelle più votate:

Non so mai quando verrà a prendermi, ma quando lo farà, per favore, supportami. (Dani H.)

Lo so che a te può apparire del tutto incomprensibile, ma per me è spaventosamente reale. (Page J.)

Lasciami il mio spazio ma, per favore, non dimenticarti di me. (Vickie B.)

Mi dispiace molto rifiutare un invito. Mi dispiace quando la mia ansia la paghi anche tu. (Melissa K.)

Quando non riesco a fare qualcosa nessuno ci soffre più di me, per favore cerca di capirlo. (Lindsey H.)

Soprattutto quando le cose vanno nella maniera migliore io sono sempre in attesa di qualcosa di orribile che potrebbe succedere. (Lindsay B.)

Per favore non dirmi che le cose che mi fanno paura sono sciocche. (Carla E.)

Non ti chiedo di risolvere il problema, ti chiedo di amarmi per come sono. (Carole O.)

La buona notizia però è che  esistono oggi delle strategie cognitivo-comportamentali che possono aiutare chi soffre a superare queste paure. Il primo passo importante verso la guarigione è quello di non sentirsi “strani” o “malati”.


DI ERNESTA-ZANOTTI

Dal Sito: psicoterapista.it