sabato 14 dicembre 2019

Il 91% delle cose di cui ti preoccupi non accadrà mai: è scientifico


Tutte quelle serate trascorse a mangiarsi le unghie e immaginare i peggiori scenari per il proprio futuro. Molti di noi le hanno vissute, prima o poi. Le preoccupazioni che ci divorano sono di vario tipo: vanno dal farò una figuraccia, non sarò all'altezza, fino al sarò licenziata, non troverò mai lavoro, il mio ragazzo mi lascerà. E poi quelle più senza senso: l'aereo potrebbe cadere, questo strano dolore al dente potrebbe essere sintomo di una grave malattia. Ci sono anche quelle sul futuro del pianeta, per esempio l'ansia dei cambiamenti climatici, che sono poi quelle che hanno più probabilità di avverarsi.

Uno studio della Penn State University, pubblicato sulla rivista Behaviour Therapy, ha mostrato che in media il 91% delle preoccupazioni delle persone parte del campione utilizzato non si sono poi avverate. E voi, ansiosi e pessimisti, non pensate che l'angoscia che ora vi affligge è di sicuro in quel 9% e succederà di sicuro. La percentuale più comune di preoccupazioni non veritiere per persona, infatti, è stata del 100%.

Secondo gli psicologi, preoccuparsi fa parte della natura umana. Se le persone non si preoccupassero, non sarebbero in grado di anticipare e prepararsi alle sfide della vita. Per alcune persone, tuttavia, la preoccupazione diventa travolgente e si parla di Disturbo di Ansia generalizzata.

Lo studio della Penn State University

Lo studio in grado di tranquillizzare anche il più ansioso del mondo ha coinvolto 29 persone con disturbo d'ansia generalizzato: dovevano scrivere tutto ciò di cui si preoccupavano per un mese e registrare anche i risultati delle loro preoccupazioni. I ricercatori hanno scoperto che il 91% delle preoccupazioni delle persone non si è avverato. Per molte persone nello studio, non è successo proprio nulla di quello di cui si preoccupavano.

Anche in quelle rare occasioni in cui la preoccupazione di una persona si è tradotta in realtà, il risultato è stato spesso migliore di quanto la persona avesse temuto, secondo lo studio. Quando è stata presentata questa evidenza e i 29 partecipanti hanno capito che le loro preoccupazioni erano in gran parte infondate, molti di loro hanno sperimentato miglioramenti nei loro sintomi di ansia.

Italiani popolo ansioso

Perciò, questo studio ci dice che non ha senso passare notti a ruminare su qualcosa che potrebbe non accadere mai, anzi è molto probabile. Il Rapporto Censis 2019 sulla situazione sociale del Paese, dice che lo stato d’animo dominante tra il 65% degli italiani è l’incertezza.

Nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per mille abitanti) è aumentato del 23,1% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800 mila in più dal 2015).

La reazione immediata a questa incertezza, secondo il rapporto, è stata “una formidabile resilienza opportunistica, con l’attivazione di processi di difesa spontanei e molecolari degli interessi personali”. Ma la situazione è andata peggiorando perché dagli stratagemmi individuali si è passati allo “stress esistenziale, logorante perché riguarda il rapporto di ciascuno con il proprio futuro”.


giovedì 12 dicembre 2019

La Regola dei 20 secondi che migliora il buon umore




La Regola dei 20 secondi che migliore il buon umore, rafforza il sistema immunitario e ringiovanisce l’animo | Non sai ancora qual è? Scopri allora tutti i maggiori benefici in un semplice gesto.

La Regola dei 20 secondi per sentirti subito di umore migliore, esiste ed è scientificamente provato. Bastano solo 20 secondi affinché il tuo corpo e la tua psiche stiano meglio sotto molti punti di vista. E’ semplice da fare – all’apparenza – perché al giorno d’oggi, questo semplice gesto, non è poi così “semplice” come si pensa. A spiegare di cosa si tratta c’ha pensato la scienza e la psicologia. I benefici apportati sono numerosi a patto che il gesto sia sincero e amorevole e, cosa bella, più trascorrono i secondi e meglio ci si sente! Di cosa stiamo parlando? Dell’abbraccio, non di quello classico, no, dell’abbraccio sincero che – badate – deve durare almeno 20 secondi per essere efficace. Vediamo subito il perché e come agisce sulla nostra mente e sul nostro organismo e scopriamo anche tutti i benefici dell’abbraccio sia fisici che psicologici

Quando dovrebbe durare un abbraccio per essere benefico? Almeno 20 secondi. Questo il tempo necessario affinché l’ormone dell’amore (l’ossitocina) entri in circolo nel nostro organismo. Ovviamente, più si sta abbracciati con chi si ama, maggiori saranno i benefici apportati al nostro benessere psico-fisico. Solo 20 secondi per sentire i primi benefici che questa “regola” apporta al nostro benessere psico-fisico.

Riceve un abbraccio da una persona che ci vuole bene o, dare un abbraccio a chi amiamo, comporta sia nell’immediato che a lungo termine, benefici a livello fisico e psicologico.L’abbraccio è un gesto primordiale che è legato intrinsecamente all’abbraccio tra una madre e suo figlio, in particolare al primo abbraccio della madre alla nascita del figlio. Quindi l’abbraccio è considerata una vera terapia per il mantenimento della salute e del benessere.

L’abbraccio è considerato infatti il principale gesto di affetto dell’essere umano. Si può parlare quindi di vero e proprio potere dell’abbraccio: che si tratti di un amico, di un familiare o del proprio partner, gli abbracci hanno un effetto benefico e terapeutico su mente e corpo. La cosa fondamentale è che i vantaggi dell’abbraccio non appartengono a razze, colori e partiti diversi ma, per chi li riceve, hanno gli stessi benefici di qualunque altra persona.

In Italia, in vista proprio di questo, sono nati gli abbracci liberi, cioè un gruppo di persone che abbraccia spontaneamente e senza nulla in cambio (se non un abbraccio) chiunque voglia essere abbracciato per strada o in mezzo ad una piazza mentre si passeggia.

Ma vediamo nello specifico quali sono i vantaggi e benefici psico-fisici di che la regola dei 20 secondi apporta al nostro umore e perché, quindi è così importante abbracciare ed essere abbracciati.

Mettere in pratica la regola dei 20 secondi più volte durante la giornata è positivo per la psiche e per la salute. Gli abbracci aiutano a ridurre ansia e stress, favoriscono il buonumore, alleviano il mal di testa e ci proteggono da ipertensione e malattie cardiache. Scopriamo allora tutti i benefici della regola dei 20 secondi per il nostro benessere psico fisico.

Terapia di guarigione

L’abbraccio è parte di un vero e proprio percorso di guarigione. È per questo che si parla talvolta di abbraccio-terapia. Gli abbracci stimolano nel nostro organismo la produzione di sostanze benefiche che permettono l’autoguarigione e l’autoriparazione delle cellule e dei tessuti. Abbracciare un ammalato, dal punto di vista interiore, regala un piccolo momento di sollievo.

Rafforza il sistema immunitario

Abbracciare qualcuno per almeno 20 secondi allevia sia il dolore fisico che quello mentale. Il suo effetto calmante ha effetti benefici anche sul sistema nervoso: abbracciarsi più volte al giorno rilassa i nervi, e il sistema immunitario, rinforza infatti le difese dell’organismo. La produzione di ossitocina diminuisce il rischio di infezioni e di malattie legate ad un sistema immunitario debole: avviene infatti un incremento degli anticorpi che aiutano a combattere virus e batteri.

Rende più giovani

Il potere dell’abbraccio è nel contatto tra due corpi, quindi, quando abbracciamo una persona, rafforziamo il suo organismo stimolando la produzione di emoglobina, che trasporta l’ossigeno ai tessuti. Quando essi ricevono ossigeno, hanno con sé una nuova energia che permette al nostro corpo di ringiovanire.

Rafforza i legami e il buon umore

Abbracciare con affetto una persona cara o a cui vogliamo molto bene, può davvero cambiare il corso della nostra giornata: ci sentiremo di buonumore, affrontando al meglio i piccoli contrattempi quotidiani.

Questo accade grazie sempre all’ossitocina, conosciuto anche come ormone dell’amore, e alle endorfine, che vengono rilasciati durante l’abbraccio e che ci forniscono un’intensa sensazione di benessere e calma, aiutando anche a rinforzare i legami. Soprattutto in una coppia, il linguaggio del corpo è un fattore importante per un rapporto felice, quindi un abbraccio può dire più di tante parole e crea un legame emotivo molto forte che ci aiuta a sentirci più amati e sicuri di noi stessi e del partner. Per di più l’abbraccio è un gesto reciproco e gratuito. Un abbraccio non costa nulla e non richiede molto tempo. È un vero e proprio “regalo” reciproco, benefico per entrambe le persone che si abbracciano, che si donano calore e conforto a vicenda. È inoltre un gesto positivo di riappacificazione. Aiuta le persone a sfogarsi e ad aprirsi agli altri.

Sviluppo neuronale del bambino

l’abbraccio è il primo contatto, come suggerivamo prima, che avviene tra una mamma e il suo bambino. Abbracciare un bambino comporterebbe uno buono sviluppo neuronale per quest’ultimo. Infatti, al contrario, non ricevere abbracci provocherebbe la morte di alcuni neuroni: ciò ridurrebbe le capacità mentali e motorie del bambino negli anni successivi. In più ricevere e donare un abbraccio migliora l’autostima e le capacità intellettive, oltre che le competenze linguistiche e il QI nei bambini. Se il bambino piange non c’è nulla di più efficace di un abbraccio per calmarlo. Solo l’abbraccio della mamma può calmare realmente il neonato.

Accresce la propria autostima

Gli abbracci accrescono la propria autostima e la fiducia in noi stessi e nel prossimo, riducendo il senso di solitudine. L’abbraccio aiuta a sbloccarsi emotivamente e migliora le relazioni sociali e alcuni problemi comportamentali, si tratta di un gesto che riduce in modo significativo le paure e la necessità di ricevere approvazione da parte degli altri. L’abbraccio contribuisce quindi a migliorare l’autostima: un effetto dovuto alla condivisione di energie positive scambiate durante questo gesto semplice ma molto molto benefico.

Diminuisce lo stress, l’ansia e la depressione

Nel caso di attacchi di panico e stati d’ansia, abbracciare qualcuno che ne soffre o farsi abbracciare diventa una vera e propria terapia. Questo perché l’abbraccio libera ormoni come la serotonina e la dopamina che hanno un effetto sedativo e calmante. Ciò produce da subito una sensazione di benessere e relax. La stimolazione delle endorfine avviene con abbracci frequenti e prolungati: ce ne vorrebbero almeno 4 al giorno per sentirsi sereni. Mentre, per alleviare gli stati di ansia, la dose consigliata sarebbe di 12 abbracci al giorno. 8, invece è il numero degli abbracci per mantenerci in salute. Ricevere abbracci e carezze frequenti, diminuirebbe il rischio di depressione e di disturbi mentali: ciò sarebbe merito dell’ossitocina, il cosiddetto ormone del buonumore che funziona da antistress naturale. Alcuni studiosi hanno dimostrato che coloro che ricevono frequenti dimostrazioni di affetto, che si manifestano con abbracci e carezze, presentano un rischio inferiore di andare incontro a depressione e disturbi mentali rispetto a coloro a cui non vengono mai dedicati gesti gentili.

Effetti benefici sulla memoria e il cervello

Per stimolare il nostro cervello a ricordare meglio ciò che di importante ci accade, impariamo ad abbracciarci più spesso. Come nel caso dell’effetto antistress dell’abbraccio, il merito sarebbe ancora una volta della produzione di ossitocina.

Migliora il sistema cardiovascolare e il cuore si rinforza

Forse non tutti ne erano a conoscenza ma la regola dei 20 secondi contribuisce a migliorare la salute del cuore. Questo avviene poiché gli abbracci producono degli effetti positivi sulla salute del cuore, con particolare riferimento alledonne. In esse, infatti, dopo una serie di abbracci, è stato evidenziato un calo della pressione sanguigna e del cortisolo, a beneficio del cuore e della circolazione sanguigna.

Chi non riceve mai un abbraccio, è soggetto ad un maggior rischio di soffrire di malattie cardiache. Questo gesto d’affetto abbassa anche la pressione sanguigna: ciò avviene grazie ad alcuni recettori della pelle, chiamati crepuscoli, che lanciano un segnale al sistema nervoso.

Come appena specificato, la regola è valevole solo se si rispettano alcuni principi base, e cioè il tempo necessario affinché l’abbraccio faccia effetto davvero è almeno 20 secondi. Ovviamente più ci si abbraccia e maggiori saranno i risultati positivi. Ma qual è la ricetta perfetta da mettere in pratica? Ecco di seguito alcuni consigli da “provare” con chi amate, in base al tipo di “disagio” che volete alleviare.

Stati d’ansia, panico e stress psichico: 12 abbracci al giorno

Per ritrovare la serenità: 4 abbracci al giorno

Per mantenerci in salute: 8 abbracci al giorno è la dose consigliata

Dal Sito: chedonna.it 

Training autogeno: esercizi e benefici



Il training autogeno è una tecnica di rilassamento che può aiutare coloro che per diverse motivazioni sono affetti da stress e che vogliono avere un maggiore controllo del loro corpo

Il training autogeno è una tecnica di rilassamento terapeutico ideata nel ventesimo secolo dal neurologo Johannes Heinrich Schultz. Gli esercizi effettuati aiutano a rilassare profondamente la mente ed il corpo. 

E' una tecnica di rilassamento che aiuta le persone a raggiungere da sole questo stato di relax grazie a delle autosuggestioni che si riferiscono a sensazioni corporee come pesantezza, calore, freschezza e calma.

Il training autogeno è basato sull'autosuggestione: durante una giornata spesso ci si lascia influenzare dai messaggi e dalle informazioni ricevute e questo causa tensioni e stress che diventano a seconda dei casi difficilmente controllabili. 

Il training autogeno può essere praticato a scopo preventivo o per curare problemi come stress, ansia, insonnia. In base alle diverse necessità si può decidere di seguire lezioni individuali, di coppia o di gruppo. E' fortemente consigliato anche a chi pratica sport a livello agonistico o a chi svolge una attività lavorativa particolarmente stressante.

Obiettivi del training autogeno

- riportare equilibrio tra il sistema nervoso vegetativo e quello endocrino in virtù del fatto che entrambi sono influenzati dal visssuto emotivo
- modificare situazioni psico-patologiche attraverso il decondizionamento, migliorando vissuti psicologici
- indurre un benessere generale

All'inizio di una terapia è lo specialista che indica al paziente il metodo migliore per elaborare il vissuto che emerge durante i momenti di rilassamento e per sviluppare in modo adeguato la capacità personale di autosuggestionarsi.

La seduta di training autogeno inizia con una fase di raccoglimento per stabilire la calma, col paziente che si deve lasciare guidare dalla voce del terapeuta. Le condizioni per praticare il training sono una stanza silenziosa, riscaldata e con poca luce e vestiti comodi. E' fondamentale una respirazione profonda.

Posizioni del training autogeno

Posizione supina - E' la posizione che facilita di più il rilassamento: bisogna stendersi su un materassino con un cuscino sotto la testa e sotto le ginocchia per facilitare il rilassamento muscolare. Occhi chiusi, gambe divaricate e piedi rilassati verso l'esterno.

Posizione in poltrona - Bisogna scegliere una poltrona che abbia la giusta altezza da terra e braccioli e schienale. I piedi devono toccare il pavimento, le gambe devono essere leggermente aperte.

Posizione del cocchiere - Seduti su una panca o su uno sgabello senza schienale, leggermente accasciato.

Le fasi del training autogeno

- allenamento con esercizi di base
- modificazioni autogene: ciclo superiore
- allenamento alla meditazione autogena
- metodi di neutralizzazione autogena

Training autogeno inferiore - Esercizi

Nella prima fase di training autogeno biogna svolgere esercizi in sequenza che hanno come obiettivo quello di distendere muscoli, vasi sanguigni, cuore, respirazione, organi addominali e capo. 

Esercizio della pesantezza - Ha l'obiettivo di distendere tutta la muscolatura.

Esercizio del calore - Ha l'obiettivo di sperimentare la sensazione di calore, immaginando per esempio che un braccio diventi molto caldo. 

Esercizio del cuore - Ha l'obiettivo di regolarizzare l'attività cardiaca

Esercizio del plesso solare - Deve attivare la vasodilatazione nella zona addominale. 

Esercizio della fronte fresca - Ha l'obiettivo, diversamente dagli altri esercizi, non di vasodilatare ma di vasocostringere limitatamente alla testa. 


Training autogeno superiore - Esercizi

Visualizzazione del colore personale - Raggiunto un primo stato di concentrazione, bisogna scegliere una tonalità affettiva.

Visualizzazione dei colori dello spettro solare - Consiste nel visualizzare tutti i colori dello spettro solare capendo così il significato emotivo di ogni colore.

Visualizzazione - Visualizzare gli oggetti che compaiono nel campo visivo interiore che corrispondono a ricordi, sentimenti, contenuti inconsci che causano disturbi.

Visualizzazione di concetti - Esercizio che consiste nella visualizzazione di concetti astratti come la bellezza, l'amore e l'autonomia.

Visualizzazione di vissuti personali - Si lasciano arrivare dal profondo stati d'animo, esperienze ed avvenimenti che hanno condizionato la persona.

Visualizzazione di persone - Si viene invitati a visualizzare una persona ed a rapportarsi direttamente con la propria affettività e la capacità di relazionarsi con gli altri.

Dialogo con l'inconscio - Esperienza meditativa con il paziente che fa domande al proprio inconscio ed aspetta che dal profondo della sua psiche possano arrivare delle risposte adeguate. 

Le tecniche terapeutiche di training autogeno sono efficaci nei casi di: attacchi di panico, disturbi d'ansia, fobie, tic e balbuzie, disturbi del sonno, dipendenze da sostanze come il fumo, disturbi della sfera sessuale e disturbi alimentari.

Può essere inoltre efficace nei casi di: colon irritabile, gastrite, stipsi, colecistopatia, tachicardia, bradicardia, angina pectoris, dismenorrea, asma, disturbi della pelle. Il training autogeno è invece sconsigliato nei casi di ipocondria, profonda depressione.

I benefici psicofisici sono:

- autoregolazione delle funzioni corporee involontarie (apparato cardiocircolatorio, respiratorio e viscerale)
- migliorare la concentrazione e la memoria
- modificare la percezione del dolore

Training autogeno - Benefici sul lavoro e nello sport

- controlla l'aggressività
- maggiore efficienza
- miglioramento del rapporto con gli altri
- vivere meglio le difficoltà
- controllare lo stress
- vivere meglio la competizione
- migliorare le prestazioni sportive
- imparare a gestire l'iperattività nei bambini

La depressione maschile è ancora un tabù


Soffre di depressione un uomo su 20, ma per gli esperti le vittime del male oscuro sono molte di più. Perché vivono la malattia con senso di colpa, la negano, la curano con l’alcol. Come racconta il conduttore Daniele Bossari nel suo libro-verità

«È stato un lento scivolare tra le pieghe dell’anima. Talmente lento che non me ne sono accorto. La luce è scomparsa un fotone per volta: così i miei occhi si sono abituati all’oscurità». Comincia così La faccia nascosta della luce (Mondadori), il libro-confessione in cui Daniele Bossari, 45 anni, conduttore in radio e in tv, racconta «i lunghi anni in cui sono stato vittima della depressione, in cui non avevo certezze, a parte una: che là fuori non fosse rimasto più niente, per me. La depressione aveva cancellato ogni mia aspirazione, ogni slancio vitale».

«Non riuscivo a trattenermi dal medicarmi con un altro bicchiere. Un sorso di whiskey, un sorso di oblio». Nei romanzi e nelle poesie ha nomi evocativi come “il male oscuro” o il “cane nero”. Nella realtà la depressioneè una malattia come le altre, forse più terribile di altre, e più assurda: la vita che abbiamo amato a un certo punto diventa ostile. Daniele Bossari la descrive come «un punteruolo che ti trafigge e ti fa a brandelli: io, letteralmente, non vedevo più i colori». Non è consolante che siano in tanti a soffrirne: secondo i dati Istat, in Italia il 9,1% delle donne e il 4,8% degli uomini, anche se questi ultimi sono probabilmente molti di più, ma non lo dichiarano. «L’uomo tende a ritardare la sua richiesta d’aiuto, o a non presentarla affatto, la vive come una colpa, con vergogna» chiarisce Emanuela Cafiso, psichiatra e psicoterapeuta. Rispetto a quella femminile, poi, la depressione maschile ha caratteristiche precise: «Se per le donne i sintomi più frequenti riguardano il campo dell’affettività, negli uomini prevalgono un vissuto di fallimento e di incapacità, anche lavorativa» continua Cafiso. «Spesso, poi, il maschio cerca di trovare risposte concrete al problema e ricorre a una sorta di autoterapia, assumendo alcol o sostanze che lo aiutino a stare meglio». Bossari ci ha provato col whiskey: «Pensavo “domani smetto”. Ma poi non smettevo» è la sua confessione dolorosa. «Mi ripromettevo di farlo solo quando il senso di colpa mi divorava, ma il ribrezzo che provavo per me stesso era tale che non riuscivo a trattenermi dal medicarmi con un altro bicchiere. Un sorso di whiskey, un sorso di oblio».

«Non diventi depresso da un giorno con l’altro, ci finisci dentro lentamente. E quando ti accorgi di essere in trappola sei già sopraffatto». Esistono 2 tipi di depressione: «Quella reattiva, che segue a un trauma o un lutto, è abbastanza fisiologica e frequente» dice Cafiso. «È “normale” sentirsi depressi dopo un evento doloroso, ed è più facile uscirne, con il trascorrere del tempo e un graduale ritorno alla vita di prima». L’altra forma, la più subdola e faticosa da sconfiggere, viene definita “endogena”. All’origine non c’è uno specifico evento scatenante; si tratta di un processo graduale, di cui non è facile individuare l’inizio. «È l’acqua che ti sommerge e il tuo progressivo abbandonarti a essa, per non sentire più nulla» confessa Daniele Bossari. «Nel mio caso, dopo una vita sotto i riflettori, tra tanti momenti di esaltazione e qualche sporadica sconfitta, un giorno un critico importante ha scritto un articolo negativo su di me. Ho cominciato così a scivolare verso il baratro. A posteriori penso che se quell’episodio non fosse accaduto, ce ne sarebbe stato un altro: forse esistono individui più vulnerabili, più esposti di altri, e io sono tra questi. Il fatto è che non diventi depresso da un giorno con l’altro, ci finisci dentro lentamente. E quando ti accorgi di essere in trappola sei già sopraffatto».

Spiega Alberto Simone, psicologo e psicoterapeuta, autore di Ogni giorno un miracolo – Imparare l’arte di amare la vita (Tea): «La depressione discende da un mix di cause genetiche, biologiche, psicologiche e sociali: difficile, insomma, definirle con esattezza. Invece, il fatto che gli uomini siano meno inclini a chiedere aiuto ha una ragione antropologica: per il genere maschile esporsi a nemici o potenziali rivali mostrandosi deboli significava rischiare la vita. Ancora oggi, gli uomini faticano a entrare in contatto con i propri problemi emozionali, a riconoscerli e condividerli. Per molti il confronto con l’altro, specie se maschio, su un tema “sensibile” non è previsto». Infatti, dice Bossari: «Per un periodo ho frequentato solo gli amici più stretti, poi ho smesso. Il telefono squillava ma non rispondevo: all’idea di sentire una voce che non fosse quella di mia moglie Filippa o mia figlia Stella provavo ansia».

«Una notte mi sono trovato in bilico su una trave, a una decina di metri d’altezza, il vuoto sotto, con un litro di whiskey in corpo».Il cosiddetto “ritiro sociale”, assieme al chiudersi in se stessi e al cercare il buio è uno dei sintomi della depressione 

«Per me è stato come camminare nel bosco, da solo, un passo dopo l’altro, finché il buio non è calato. E solo allora ho capito di essermi perso» dice Bossari. Ogni attività, anche incontrare un amico, del resto «richiede un investimento energetico: il depresso sente di non potercela fare» spiega Alberto Simone. La depressione è una condizione che può diventare molto grave ma si può uscirne: «Per cominciare, un consiglio è entrare in contatto col corpo e tornare a muoverlo» continua l’esperto. «È un primo passo per rientrare in relazione con ciò che ci circonda anche dal punto di vista sensoriale. Il depresso ha una carica energetica bassissima. E le difese immunitarie deboli. L’attività fisica è l’equivalente del “ricaricarsi” alla presa di corrente».

Una volta riconosciuta la propria condizione, l’ideale sarebbe affiancarla a una psicoterapia: «I farmaci antidepressivi da soli non aiutano a raggiungere indipendenza e autonomia» ricorda Simone. «L’invito per chi soffre è quello di riconoscersi come prima cosa il diritto a provare emozioni negative. Gli uomini tendono a reagire a questo tipo di problemi ignorandoli, negandoli. Ma la depressione non è una colpa, non è una difettosità. Chiamarla col suo nome e chiedere aiuto significa aver già fatto un pezzo di strada».

Anche un libro che racconti una storia onesta e positiva può servire. Quella di Bossari è entrambe le cose: «Una notte mi sono trovato in bilico su una trave, a una decina di metri d’altezza, il vuoto sotto, con un litro di whiskey in corpo e la tentazione di farla finita. Mi piacerebbe dire che non l’ho fatto perché ho pensato a mia moglie e mia figlia, ma non è così. Non sono morto perché ho avuto paura, e come ero salito sono sceso. La paura quel giorno mi ha salvato. La paura: in fondo a un pozzo in cui non vedevo niente, non sentivo niente, non percepivo niente, finalmente un’emozione».


IN LIBRERIA
S’intitola La faccia nascosta della luce (Mondadori) il libro-verità in cui Daniele Bossari, 45 anni, volto noto della tv negli anni ’90, racconta come ha affrontato la lunga depressione. Un racconto lucido e onesto della sua discesa “all’inferno” verso il buio, gli attacchi di panico, l’alcolismo. «Ero in fondo a un pozzo in cui non vedevo niente» confessa. «Oggi mi sento un miracolato».



Così riconosci i sintomi della depressione

In Italia colpisce il 4,8% degli uomini e il 9,1% delle donne ma le statistiche maschili sono sottostimate: i depressi faticano a rivolgersi al medico e mascherano la loro malattia con altri problemi fisici (mal di testa, stanchezza, disturbi del sonno, difficoltà a digerire).

La malattia deteriora la qualità di vita e nella sua forma più grave può portare al suicidio (secondo l’Oms, nel mondo è causa di 850.000 morti l’anno): ecco perché è importante che chi vive accanto a un depresso - marito, fratello, padre - impari a riconoscerne i sintomi.

Tra i comportamenti tipici degli uomini depressi, che devono protrarsi per almeno 2 settimane: assumere più alcol del normale o sostanze illecite; lavorare moltissimo, in modo ossessivo e senza pause; evitare le situazioni familiari e sociali; diventare aggressivi e maltrattanti; mettere in atto comportamenti a rischio come il gioco d’azzardo o il sesso non protetto.

Dal Sito: donnamoderna.com

martedì 10 dicembre 2019

Le lamentele e le storie che racconti sono le tue prigioni





Non serve la scienza per dire che la lamentela spegne i neuroni del cervello. La lamentela e le scuse che ti racconti, sono i modi che utilizzi per non fare il cambiamento che ti servirebbe davvero per essere felice!

MA TU A CHE COSA CREDI DAVVERO?

Sono tanti anni che mi occupo di crescita personale. Ho iniziato non perchè non sapessi cosa fare, nè tantomeno perchè faceva figo farlo. 

Ho iniziato, come spesso succede a tante persone. Stavo male. La mia vita andava così così, non “potevo lamentarmi”.

O meglio, quando mi lamentavo, subito mi sentivo meglio e magari quella sensazione durava per un po’. Il lavoro non andava? Mi lamentavo del fatto che le persone “non mi capivano”, il mio capo era una str**** di dimensioni colossali, oppure c’era la lamentela del tempo! 

Quella era bellissima, una delle migliori, “non ho tempo” per fare questo, non ho tempo per fare quell’altro…

Ma poi, una che dice che non ha mai tempo, ma cosa avrà da fare poi di così importante????:D

Facendo così, l’unica cosa che mi sucedeva era che allentavo leggermente la pressione che sentivo dentro. E questo mi dava l’opportunità per andare avanti ancora un pochino. Era come prendere una boccata d’aria mentre stavo annegando!

La lamentela poi ha un altro brutto, bruttissimo effetto: è contagiosa! E quando si nuota tutti nello stesso mare e insieme si annega, si sa, alla fine è come se nessuno veramente anneghi mai. Insomma se tutti si lamentano chi sono io per non farlo??

E quindi ricominciavo esattamente dallo stesso punto in cui mi ero fermata.

Un perfetto criceto.

Poi un giorno incontrai qualcuno che mi disse che avevo la tipica mentalità italiana (avrei capito solo molto tempo dopo che si riferiva alla lamentela in particolare) e mi ricordo che io mi arrabbiai davvero moltissimo.

Infondo cosa sapeva questa persona di me? Non mi conosceva eppure stava esprimendo un giudizio nei miei confronti. Mi sentii offesa, oltraggiata. 

Allora non capii le sue parole. Sono passati tanti anni e ho dovuto prendere una serie di “mazzate” in faccia. Nulla è cambiato per molto, c’ho girato intorno e molte sono state le storie che mi sono raccontata…

LE STORIE CHE CI RACCONTIAMO SONO LA NOSTRA PRIGIONE

Storie storie storie… Come iniziano queste storie? Sempre nello stesso modo…

Non ho tempo, tu non sai cos’è la mia vita, ho i figli, il cane, un marito geloso…insomma non posso farlo, non è il momento, quando sarò pronta, non sono capace e brava abbastanza. Bla bla bla. 

Quanto fiato e quanta fatica sprecata, davvero. Ciascuna di noi ha la sua vita e le sue esperienze e le sue bellissime storie da raccontare, e se, attenzione, di mestiere, fai la cantastorie non c’è nessun problema!

Ma hai mai notato che quando racconti la tua storia, stai indossando una maschera e quella maschera finisce per essere la tua identità da cui poi, non riesci più a liberarti?

Proprio come era successo a me, quando mi venne fatto notare che me la stavo raccontando.

Quando reagisci in un modo esagerato a quello che le persone ti fanno osservare dall’esterno probabilmente ti hanno toccato un nervo scoperto e ovviamente fa male. Io qui non sto dicendo che sia facile, ma sto dicendo che, ci possiamo rendere conto delle “bugie” che ci raccontiamo sul nostro fare o non fare una cosa o farla parzialmente, e che questi comportamenti conducono tutti allo stesso risultato. A farti scoprire uno schema.  

COME INTERROMPERE LE CREDENZE DISFUNZIONALI

Come forse avrai ben capito, è arrivato il momento di interrompere questo circuito malsano che metti in atto. Ovviamente non sto parlando di situazioni patologiche invalidanti che richiedono un altro tipo di intervento, ma ti sto dando un’opportunità concreta di poter risolvere un modo che hai, un atteggiamento che poni in essere e che ti fa solo male.

Tra Tormenti Passati E Ansie Per Il Futuro, Esiste Un Oasi Di Pace: Il Presente

“PER ESSERE FELICI BISOGNA ELIMINARE DUE COSE: IL TIMORE DI UN MALE FUTURO E IL RICORDO DI UN MALE PASSATO;
QUESTO NON CI RIGUARDA PIÙ, QUELLO NON CI RIGUARDA ANCORA.”
(SENECA)

La mente è uno strumento bizzarro capace di farci vivere in una dimensione intermedia fatta di rimpianti per il passato e ansie per il futuro, costringendoci a dimenticare ciò che abbiamo tra le mani, come se fossimo ipnotizzati da proiezioni che scambiamo per reali. In questo limbo mentale, le ombre sembrano talmente reali che le sentiamo presenti, ma basterebbe aprire gli occhi per renderci conto che tutto questo è soltanto un’illusione.

In quale tempo abiti se non sei “presente”?

Il concetto di tempo ci sfugge. Ci convinciamo che vada in una direzione soltanto: in avanti, che non possiamo tornare indietro, ma se fosse davvero così, lasciarsi il passato alle spallesarebbe una cosa talmente naturale da non richiederci così tanti sforzi; ed invece sappiamo tutti che una delle lezioni più difficili da imparare in questa vita è proprio quella del distacco, del lasciar andare. Per altri, invece, le ombre spaventose provengono dal futuro; i fantasmi di possibili intoppi, catastrofe, incidenti sono talmente terrificanti da paralizzare ogni impulso di vita creando ansia e attacchi di panico.

Da una parte i pesi del passato ci fanno camminare coi stivali di piombo, dall’altra, gli spettri futuri ci gelano il sangue. Com’è possibile allora vivere in queste condizioni, se il nostro naturale impulso vitale è bloccato o paralizzato da un tempo che non esiste più o non ancora?

Siamo più vulnerabili quando la testa vaga altrove

Il nostro corpo, il tempio del nostro essere più autentico, può vivere soltanto in una dimensione temporale: qui ed ora; allora per quali ragioni la nostra mente continua a vagare come un aquilone in preda ai venti?

Quando ci ritroviamo imprigionati in questa dimensione mentale intermedia, ci sentiamo vulnerabili, fragili, in bilico nella nostra vita; la mancanza di stabilità interiore deriva dal fatto che i nostri pensieri ci fanno letteralmente a pezzi: ci impediscono di rimanere integri, di un pezzo solo, perché quando ci lasciamo trascinare dai nostri pensieri, per lo più per semplice abitudine, la nostra testa va altrove mentre il corpo rimane qui, e di conseguenza la comunicazione tra loro viene interrotta da stimoli incongrui: “Mi sento male perché mi stanno prendendo in giro!” urla la mente tornata ai tempi della scuola elementare; “Vedo solo i colleghi di lavoro qui…” risponde il corpo… Ecco come auto-alimentiamo le nostre sofferenze.

La mente parla di un tempo, il corpo di un altro, e in un istante si crea un collegamento sbagliato: il passato si proietta sul presente, andando ad alimentare vecchie ferite, perché non riusciamo a pensare che le cose possano andare diversamente da come sono andate in passato.

L’ansia rivolta al futuro deriva invece da un processo di generalizzazione: le esperienze passate sono rimaste talmente marchiate a fuoco dentro di noi che per proteggerci ci chiudiamo in noi stessi per paura di soffrire ancora; il rifiuto di fare nuove esperienze si ritorce contro di noi perché nel momento in cui ci chiudiamo alla novità, alla sorpresa, all’inaspettato, la nostra mente attua una strategia di difesa perché non sopporta di non sapere cosa l’aspetta, in questo modo proietta il passato sul futuro. E dalla proiezione alla profezia auto-avverante, il passo è breve.

La pace si trova nel punto d’incontro tra mente e corpo

Per evitare di perdere noi stessi in costruzioni mentali disfunzionali e tossiche, possiamo seguire la via indicata dal corpo e riconoscere il presente. Per aiutarci a tornare integri, con mente e corpo di nuovo uniti, abbiamo un meraviglioso strumento a disposizione in grado di calarci in un attimo nel presente: le sensazioni.

Quando usiamo i nostri 5 sensi, uniamo la dimensione corporea e fisica con la dimensione sottile del nostro essere: siamo nella mano che tocca, nell’orecchio che ascolta, nel naso che sente, nella bocca che gusta. La mente si fa carne. Abita il corpo. È in quella dimensione che sperimentiamo quell’oasi di pace che possiamo assaporare momento dopo momento. L’integrità ritrovata ci porta a sentirci forti e stabili, imperturbabili come le montagne ancorate alla terra che rimangono impassibili al passar delle stagioni e delle intemperie.

Se ci sentiamo forti, colmi della nostra essenza, ci liberiamo anche dalla paura di non farcela e ci apriamo al mondo e al cambiamento, alla novità, abbandonando l’abitudine di proiettare sul futuro le nostre ansie e paure; possiamo anche liberarci dai pesi del passato con la consapevolezza di essere un’altra persona rispetto ad allora, e di poter permettere all’energia cristallizzata nelle nostre vecchie ferite di fluire di nuovo.

“SE SEI DEPRESSO STAI VIVENDO NEL PASSATO.
SE SEI ANSIOSO, STAI VIVENDO NEL FUTURO.
SEI SEI IN PACE, STAI VIVENDO NEL PRESENTE”
(LAO TZU)

La vita è fatta di attimi che ci sfuggono spesso dalle mani perché siamo troppo impegnati a guardare altrove nel tentativo di trattenere ciò che abbiamo già perso. Basterebbe accorgersi di questi attimi che ci scivolano nei palmi delle mani, come dei piccoli diamanti travestiti da rugiada, per accorgerci che il tesoro più grande che possiamo avere è proprio qui, nell’eternità dell’ “adesso”.


Dal Sito: eticamente.net 

“FOMO” e “NOMO” fobia: di cosa stiamo parlando ?



“L’abuso dei social network può portare all’isolamento,  l’utilizzo smodato e improprio del cellulare può portare non solo divari enormi tra persone, ma anche a chiudersi in se stessi e a alimentare la paura del rifiuto” . Esistono due sindromi connesse all’uso eccessivo della tecnologia e alla dipendenza da smartphone. La prima si chiama “No.Mo.Fobia”: Sta per “no mobile fobia” oppure “Sindrome da Disconnessione”,la paura di rimanere senza connessione alla Rete da mobile,colpisce per lo più giovani tra i 18 e 25 anni. Chi ne è colpito può arrivare a sperimentare attacchi di panico con vertigini, tremore, mancanza di respiro e tachicardia in caso di assenza di Rete mobile o di cellulare fuori uso. La No.Mo.Fobia è connessa all’uso eccessivo dei social network. La seconda sindrome è nota come FOMO,(acronimo che sta per “fear of missing out”, “ansia di essere tagliati fuori” . Le persone temono di essere tagliati fuori da esperienze gratificanti che fanno altre persone e dal continuo desiderio di essere sempre connessi con l’esterno controllando compulsivamente un’eventuale nuova notifica dei social network. È una vera e propria forma di ansia sociale di venire esclusi da eventi piacevoli condivisi nei social, che in qualche modo implica il continuo confronto con gli altri. Per una persona insicura, insoddisfatta e con bassi livelli di autostima, vedere un “post” con tante persone, soprattuttocoetanei che si divertono, potrebbe diventare qualcosa di inaccettabile, provocare risentimento verso se stessi o gli altri, insoddisfazione, agitazione e senso di incapacità. Pur non essendo una patologia riconosciuta a livello clinico, la sua presenza può peggiorare una pregressa condizione di aspetti ansiosi/depressivi.

Il primo a studiare tale fenomeno è stato Andrew Przybylski, ricercatore della Oxford University che, insieme al suo team, mise in luce diversi fattori basilari della FOMO, come: la presenza di ansia ed irrequietezza in assenza del controllo delle notifiche; la maggiore diffusione della problematica tra i giovani, in particolare tra i maschi; la maggiore frequenza nelle persone con scarse capacità attentive; lo sviluppo della problematica tra coloro che utilizzano i social network nel contesto scolastico; la possibile comorbidità ad un basso livello di autostima. Si tratta di uno stato di ansia sociale, dato dal bisogno di essere sempre informati su tutto ciò che stanno facendo gli altri e dalla preoccupazione eccessiva e ossessiva che gli altri facciano esperienze gratificanti nelle quali non si è presenti o coinvolti direttamente (Przybylski et al., 2013). Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza  quasi 8 adolescenti su 10 hanno paura che si scarichi il cellulare o che non gli prenda quando sono fuori casa e tale condizione, nel 46% dei casi, genera ansia, rabbia e fastidio. Questo fenomeno è meno diffuso tra i ragazzi più piccoli, tra gli 11 e i 14 anni, che si fermano ancora al 60% e solo il 32% sperimenta alti livelli di ansia e preoccupazione.

La NOMOFOBIA sarebbe caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati da essere fuori dal contatto con un telefono cellulare o un computer” ed il risultato sarebbe un incessante controllo del cellulare, che consente di avere la sensazione di monitorare qualsiasi situazione in modo costante. Questo processo potrebbe rischiare di trasformarsi in un vero e proprio meccanismo di dipendenza, completamente analogo ad un disturbo di dipendenza da sostanze. È importante, dunque, riconoscere quali sono i campanelli d’allarme che ci segnalano il rischio di essere affetti da questa patologia. Vediamo quali sono:

Non staccarsidal cellulare utilizzarlo di continuo

Il solo pensiero di essere senza smartphone genera malessere e angoscia;

Aumento repentino dell’ansia, della paura e dell’irritabilità nelle situazioni di sconnessione dello smartphone dalla rete;

Monitorare costantemente il livello di batteria del dispositivo e munirsi di eventuali batterie di riserva o di un caricatore portatile;

Sperimentare, in alcuni momenti, la sindrome da vibrazione fantasma, ossia la sensazione che il telefono stia vibrando o squillando, ma in realtà è solo frutto della propria immaginazione;

Portare sempre con sé il caricabatterie e appena possibile si ricaricare il telefono

Controllare di avere il credito sufficiente affinché non venga bloccato l’accesso a internet.

Connettersi, appena è possibile, alle reti Wi-Fi per evitare di consumare i Mb del proprio abbonamento o della ricaricabile;

Guardare di continuo lo schermo del telefono per vedere se sono stati ricevuti messaggi, chiamate o nuove notifiche sui social;

Non spegnere mai i dispositivi tecnologici nemmeno durante le ore notturne;

Come superare la Nomofobia?

1. Porsi dei piccoli obiettivi. Iniziare a spegnere gli strumenti tecnologici quando non è realmente necessario, ritagliandosi degli spazi offline, quando si mangia, si dorme e si va in bagno.

2. Organizzare il proprio tempo.Pianificare le ore giornaliereevitando di restare costantemente connessi. C’è un tempo per ogni cosa: uno per gli amici, uno per il pranzo, uno per guidare e, certamente, uno da dedicare esclusivamente al web.

3. Disattivare le notifiche. Decidere i momenti in cui guardare e controllare i messaggi ricevuti e le mail.

4. Imparare a rimandare. Non bisogna avere fretta di rispondere subito alle notifiche e ai messaggi e porsi la domanda “posso aspettare?” È importante iniziare a dilazionare il tempo, partendo anche da cinque minuti, per vedere così che è possibile resistere all’impulso.

5. Prendere le distanze. Non utilizzare lo smartphone come strumento indispensabile per addormentarsi o per iniziare la giornata, né tanto meno durante la notte. Bisogna trovare altre strategie in questi momenti, ad esempio leggere un libro per rilassarsi nelle ore serali e dilatare il tempo al mattino prima di mettersi davanti ad uno schermo.

6. Ritagliarsi dei momenti per se stessi. Bisogna cercare di dedicarsi ad attività nuove e diverse, magari all’aria aperta.

7. Parlarne. Se ci si rende conto di avere un disagio molto forte e di accusare i sintomi della dipendenza, è fondamentale poterne parlare con qualcuno.

8. Rivolgersi ad un professionista. Se si pensa che la disintossicazione sia un obiettivo difficile da raggiungere, è bene sapere che ci si può rivolgere ad un esperto, per cercare di comprendere quali siano le motivazioni profonde e le dinamiche sottostanti al bisogno di essere iperconnessi ad uno smartphone.

Impara a riprendere gradualmente il controllo su te stesso,gli strumenti tecnologici, i social, dovrebbero “facilitare” la tua vita non comandarla .

Dal Sito: ilgolfo24.it

venerdì 6 dicembre 2019

Ansia da Natale? La sindrome del Grinch esiste: uno studio lo conferma

C'è chi gioisce all'arrivo del Natale, ma c'è anche chi non lo fa: le feste non sono per tutti, e la sindrome del Grinch lo dimostra. Come affrontarla?

“It’s the most wonderful time of the year!”. Quante volte sentiamo Andy Williams cantare questa frase iconica, sin dal 1962? Il Natale è alle porte, e tutto diventa sempre di più un crescendo di luci, regali, alberi e addobbi, persino di freddo sentito gioiosamente. Ma, per quanto questo possa sembrare strano agli amanti del Natale, questa festività non è per tutti. Esistono dei veri e propri Grinch attorno a tutti noi, e ora più che mai, è una vera e propria sindrome.

Il Grinch nella fantasia

Ma partiamo dalle basi: chi o cosa è il Grinch? Strano ma vero, non tutti hanno visto i film ispirati ai racconti del Dr. Seuss; il primo e più famoso, ha per protagonista Jim Carrey, il secondo Grinch è reso in digitale, con la voce di Benedict Cumberbatch/Alessandro Gassmann. Il Grinch è un personaggio burbero, che odia il Natale da più di cinquant’anni. Questo perché non ha una particolare simpatia per la felicità dilagante del periodo, e per eventi del passato, che lo hanno lasciato con un cuore di tre taglie più piccolo.

Stanco dell’ennesimo periodo festoso, decide di “rubare” il Natale. Si traveste da Santa Claus, deruba le case di doni, alberi e luci, lascia la città vicino la quale vive, spoglia di ogni traccia della festività. Speranzoso di sentire lo stesso dolore che sente lui nel momento del Natale, si renderà conto che i cittadini amano la vera essenza della festività, e non la parte materiale. Il suo cuore si ingrandirà di tre volte, rendendolo così buono e amabile, e permettendogli di passare la sua prima festività non in solitudine.

Il Grinch nel mondo reale

Quante volte è capitato di dire “sei un Grinch!”, a chi non gioisce pienamente delle festività natalizie? Ebbene, senza volerlo, si tratta di qualcosa che in realtà esiste. Di recente, uno studio dell’Università di Copenaghen ha appurato l’esistenza di una sorta di “sindrome del Grinch”. Chi gioisce senza freni del Natale, lo deve ad una parte del cervello che si “accende” proprio in quel periodo.

Ma, come ogni persona è diversa, lo è anche ogni cervello. Ci sono coloro che sono rimasti traumatizzati dal Natale, o da qualche suo elemento, o da qualche evento ad esso legato. C’è chi, semplicemente, non riesce proprio a sopportare l’idea del Natale. Magari, non ai livelli di andare a “rubarlo” per le vie della città. Ma comunque, fisicamente, non riesce ad “accendere” quella parte di cervello. E dunque, come sopravvivere?

Come sopravvive un Grinch al Natale?

Se si è un Grinch, è dura partecipare a tutti quelli che sono gli eventi legati ad una festa che, per molti, si celebra sin dal mese prima. La vita potrebbe diventare infernale, eppure si deve trovare un modo per sopravvivere. Si parta dai lati positivi della festa: potranno non piacere lucette e addobbi, ma vi è tantissimo modo per riposarsi. Basti pensare che, ovviamente non per tutti, le vacanze vanno dal periodo del 20 dicembre, fino a dopo la Befana. Un periodo lungo, pieno di momenti per svegliarsi tardi e non fare assolutamente niente se non godersi un po’ di libertà.

Ma, avvicinandosi le celebrazioni con amici e parenti, toccano i regali. Ecco allora che si può dire “benedetto Internet!”, perché lo shopping online consente non solo di non muoversi da casa, ma anche di evitare la folla immane in cerca di regali. E a “momento doni” terminato, cominciano le cene. Le lunghissime, infinite mangiate a casa della zia un giorno, dell’amico un altro giorno ancora, che fanno male alla bilancia e alla voglia di rintanarsi al riparo dai festeggiamenti. In questo caso, il no gentile vale sempre: non si è obbligati ad andare dove non si vuole.

Infine, resta la soluzione drastica, quella per il Grinch più oscuro di tutti, che non vuol saperne di doni, feste, neanche di shopping online. Le vacanze sono sempre una soluzione: specialmente quelle nei luoghi tropicali, dove ogni traccia di freddo e addobbi tipicamente natalizi spariscono. A prescindere da tutto, questi sono i momenti migliori per prendersi un momento per sé: quindi, perché non lasciare tutto e andar via per un po’?

Dunque, se si è dei Grinch, è ora di armarsi ad affrontare il periodo più caotico e felice dell’anno. Sicuramente, anche per un po’, il calore della festività porterà il vostro cuore ad ingrandirsi almeno di una taglia. Se così non fosse, vi sono mille e più soluzioni: l’importante, in fondo, come in ogni festa, è sentirsi nella propria “zona sicura” per qualsiasi cosa si faccia.

Dal Sito: liveuniversity.it 

Respira con il diaframma! Aiuta contro ansia e tensione




Pochi lo sanno e se ne accorgono, ma la respirazione che facciamo solitamente non è corretta e ci crea problemi anche di stress. Il consiglio: mettersi di fronte ad uno specchio e osservarsi.

Valutare la qualità del proprio respiro non è facile, anche se averne consapevolezza è importante per capire il nostro grado di benessere. Respirare bene vuol dire anche essere in armonia con sé stessi, ascoltare il proprio corpo ed avere un certo grado di rilassamento che aiuta l’ossigenazione dei tessuti. 

Concentrarsi sul respiro è un ottimo aiuto contro lo stress

Nonostante ciò, la respirazione resta una funzione autonoma del nostro organismo: grazie al sistema neurologico infatti, ciascuno ha dentro di sé il giusto ritmo per respirare, senza pensare di doverlo fare. Di come respirare correttamente ha parlato la dottoressa Francesca Puggioni, pneumologa del Centro di Medicina Personalizzata: Asma e Allergologia in Humanitas in un articolo pubblicato su Humanitasalute che qui riportiamo integralmente.


Una corretta respirazione deriva soprattutto da un corretto uso del diaframma. L’uso di questo organo, del tutto naturale se siamo rilassati e in posizione distesa, può risultare più difficoltosa in chi è in sovrappeso o quando siamo in posizioni non particolarmente comode.

«Per capire come respiriamo - ha spiegato la dottoressa Puggioni - può essere utile mettersi davanti allo specchio a torace scoperto, in modo tale da poter osservare i movimenti del nostro torace e vedere come si respira con la parte alta dell’addome e come si respira con il petto. Vedremo dunque il diaframma che si abbassa e si alza per permettere ai polmoni di espandersi, e poi come la cassa toracica si apre verso l’esterno per consentire ai polmoni di espandersi. Occorre anche controllare i movimenti delle spalle, perché spesso quando non si ha una respirazione ottimale si usano muscoli “accessori” per compensare».

«Quando siamo in uno stato di ansia o tensione può capitare di avvertire una sensazione di difficoltà alla respirazione, da un lieve disagio fino alla cosiddetta fame d’aria. In questi casi è consigliabile dapprima fermarsi, non farsi prendere dal panico, e controllare il ritmo del respiro. Questo accade perché, ancestralmente, il nostro organismo in condizioni di tensione è portato a prepararsi allo scatto, irrigidendo tutti i muscoli per potenziarli e partire. Oggi non applichiamo più questo meccanismo a livello fisico, ma agiamo sulla psiche, pertanto blocchiamo la muscolatura respiratoria trattenendo il respiro in maniera inconsapevole e di conseguenza respiriamo male». 

Una cattiva respirazione, soprattutto in caso di tensione, si accompagna spesso a vertigini e confusione mentale. «Il nostro cervello infatti ha bisogno di ossigeno per espletare al meglio le proprie funzioni: l’agitazione però ci porta a respirare a un ritmo molto più veloce del normale, immagazzinando così più anidride carbonica che rende le idee meno chiare e inficia le performance cerebrali».

«Il ritmo naturale è 12 respiri al minuto: respirazioni profonde in cui inspiriamo dal naso ed espiriamo lentamente dalla bocca, questo consente di ossigenare bene il cervello», consiglia la dottoressa Puggioni. È importante sottolineare come possa esserci un legame tra uno stato di ansia e la cattiva respirazione, perché non è facile mantenere la calma se si ha l’impressione che manchi il respiro o se si fa fatica a respirare come di consueto. I problemi respiratori però non vanno sottovalutati e vanno considerati come tali, senza etichettare il paziente come ansioso e come tale trattarlo. 

Sarà cura dello specialista dunque effettuare una corretta diagnosi, volta a escludere o ad accertare la presenza di problemi respiratori, prima di imputare a uno stato d’ansia la causa della cattiva respirazione. «In generale, praticare yoga, pilates, tai chi o arti marziali è particolarmente indicato per chi ha problemi respiratori o per chi ha una forte emotività che alterano il ritmo del respiro, perché queste discipline permettono di prendere maggior consapevolezza del proprio respiro e lavorare così un un’efficace respirazione», consiglia la specialista.


mercoledì 4 dicembre 2019

IL SENSO DI COLPA





Il senso di colpa è un’emozione complessa, cioè deriva dall’interazione dell’individuo con il mondo esterno. Si sviluppa a partire dall’età pre-scolare, quando comincia a delinearsi il tema della morale. La morale è l’insieme di valori secondo cui le persone distinguono ciò che è giusto da ciò che è sbagliato secondi principi religiosi, etici e giuridici.
Il senso di colpa ha una funzione ben specifica: serve per spingere l’individuo a mettere in atto comportamenti pro-sociali, a stimolare riflessioni sul comportamento adottato o che si vuole adottare, a spingere il soggetto a chiedere perdono o compiere gesti riparativi in caso di errore.

PENSARLO È COME FARLO

Di norma il senso di colpa ha a che fare con “ciò che si è fatto”, talvolta però si può provare un senso di colpa anche in relazione a “qualcosa che si è pensato”. Ad esempio, pensate di trovarvi in una situazione in cui un vostro collega vi fa tremendamente innervosire, potreste trovarvi ad avere pensieri crudeli su di lui ed il solo pensiero potrebbe farvi sentire in colpa. Avere un pensiero del tipo “gli vorrei tirare un calcio” non corrisponde al comportamento “dare un calcio”, tuttavia ci si potrebbe sentire in colpa ugualmente. I pensieri sono solo pensieri, ma per alcune menti il solo pensare di compiere un’azione corrisponde a compierla, cioè infrangere una regola morale. Avvenuto il pensiero si genera il senso di colpa. La regola implicita che sottostà a tutto ciò è “non lo devo nemmeno pensare, altrimenti sono una brutta persona”.

2 TIPI DI SENSI DI COLPA

Esistono 2 tipi di senso di colpa: il senso di colpa deontologico e quello di tipo altruistico (Mancini e Gangemi, 2006).
1. Il senso di colpa deontologico si prova quando si infrange una regola morale, religiosa, giuridica “non dovevo farlo”, “ non si deve fare”, “non è giusto”.
2. Il senso di colpa altruistico è di tipo interpersonale, ha a che fare con l’empatia e si prova quando si è commesso un atto che ha provocato sofferenza a qualcuno o quando non si è fatto nulla per impedire la sofferenza altrui. “E’ tutta colpa mia!”, “Potevo evitarlo…”.

Dove si trova il senso di colpa nel cervello?

Studi scientifici dimostrano come le due tipologie di senso di colpa siano del tutto differenti tra loro, avendo origine in aree cerebrali diverse (Basile, 2011). Il senso di colpa deontologico nasce a livello della corteccia cingolata, area connessa anche all’emozione di disgusto, mentre il senso di colpa altruistico è connesso alle aree della corteccia prefrontale implicate nell’empatia.
Quando il senso di colpa si fa consistente, il soggetto si trova continuamente a rimuginare sul passato. Il passato invade la mente ed occupa il presente e la sofferenza aumenta ed insorgono rimproveri auto-riferiti “è tutta colpa mia”.





COSA FARE?

In psicoterapia spesso si indaga il senso di colpa, si impara a riconoscere l’emozione negativa, comprendendola ed accettandola in tutte le sue parti, ci si sperimenta e ci si allena a sentirsi imperfetti e fragili. La netta distinzione tra giusto e sbagliato poco a poco assume anche qualche sfumatura, in particolare la persona impara a distinguere tra ciò che è “giusto per sé stessi” e ciò che è “sbagliato per sé stessi” e non tra ciò che è giusto/sbagliato in termini assolutistici. il rimuginio e le autoaccuse svaniscono.
La doverizzazione lascia il posto alla flessibilità: “devo farlo” diventa “preferirei/potrei fare…”, cioè la persona diviene protagonista delle sue scelte e non vittima passiva di uno schema rigido e severo che distingue le esperienze del mondo in bianco e nero, bensì si prendono in considerazione le sfumature di grigio.


Dott. ssa Camilla Pacassoni



Dal sito: 

thestrangesituation.it