domenica 25 maggio 2014

Storie di panico - Alberto



Non starò a raccontarvi la genesi dei miei attacchi di panico e la storia di questi anni chiusi e maledetti. Le nostre storie sono varie nei particolari ma uniche nella sostanza. Ho cominciato a soffrire di panico a 20 anni, ora ne ho 34 e in questo tempo ho perduto un’infinità di cose: amori, lavori, amici, fiducie e speranze. I primi due anni li ho spesi alla ricerca spasmodica e infruttuosa di una causa organica alle devastanti crisi che mi colpivano, in questo tempo ho costruito una piramide rovesciata di nevrosi e fobie, una montagna che ho spostato a mani nude ma che non sono mai riuscito a scalare per vedere cosa mai si nascondesse sulla cima. Quando è arrivata la diagnosi ritardata di Dap, non ero già più il ragazzo che ero sempre stato; quei due anni sono bastati a divenire, forse per sempre, un altro. Così, l’attacco di panico ha modificato il dentro e il fuori di me stesso e oggi mi identifica come una sorta di “segno particolare” impresso su un documento. Neanche questo mi interessa dirvi (e non interesserebbe nemmeno a voi). Ciò che mi preme discutere  è la distinzione che esiste tra la causa, la sintomatologia e la vera e propria sindrome da attacchi di panico che i medici chiamano  “disturbo”. Non sono uno psicologo, dunque cercherò di usare un linguaggio semplice ma il più possibile verosimile. La causa è la nostra vita: ciò che siamo, che abbiamo fatto da quando siamo nati, emozioni, pensieri, traumi, esperienze e soprattutto – è bene ricordarlo – tutto quello che si svolge al piano di sotto, vale a dire nel nostro inconscio che decide per noi senza possibilità di appello né contraddittori. Il sintomo (la sensazione di morte imminente con tutti i suoi corollari) è il linguaggio che il nostro cervello usa per dirci che qualcosa non va. La sindrome è la presenza di tutti o quasi i sintomi, le loro modalità di manifestazione, le fobie dell’evitamento (il vero nemico che degrada la nostra vita a una fuga continua, grottesca e inutile). Ma nonostante tutto, chi soffre di panico (o ansia o agorafobia o le tre cose insieme) si concentra di più sul sintomo, sulla crisi, e molto meno sulla causa che può averla scatenata. Il vecchio Freud la definiva “resistenza”: quanto più ci si avvicina alla causa tanto più il nostro inconscio si preoccupa di far fallire la lotta, mette delle vere e proprie bombe lungo la strada che ci separa dalla soluzione del problema. Non guariremo finché non saremo disposti a spogliarci delle nostre dure convinzioni, delle persone che abbiamo accanto (se non fanno per noi), dei ricordi, del dolore. Io per primo mi tengo il passato dentro, ben protetto, al punto che oggi è divenuto il mio vero presente. Quando tutto cambia intorno a me, io non riesco a mutare e mi ritrovo fermo su una banchina a veder passare migliaia di treni senza prenderne mai uno, ben sapendo che non faranno più ritorno. Così, il tempo mi diminuisce accanto e vivo di una vita che non c’è più, e cammino lungo strade che hanno cambiato nome, e divento giorno dopo giorno inattuale. Le persone che fino a un attimo prima avevo avuto accanto spariscono esauste e deluse non tanto dalla nostra malattia quanto dalla convinzione che il nostro male nasconda in realtà una mancanza di amore nei loro confronti. Ho pianto lacrime di vetro, ho atteso su una panchina improbabili ritorni, nessuno è tornato, nessuno mai ritorna. Ah, se non mi fossi concentrato sulla crisi ma fossi andato a fondo alla ricerca del motivo primario! Forse oggi sarei io a prendere quel treno su cui ho sognato ogni notte ma che ho abbandonato l’indomani prima che partisse.
Alberto

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao Alberto, scrivi un libro per tutti noi che siamo condannati all'inferno qui, proprio sulla terra.mi sono riconosciuta nelle tue parole, ma quelle che mi hanno colpita di piu' è cio' che scrivi sulle persone che ci vivono accanto......sacrosante parole......ciao e grazie.

Unknown ha detto...

Alberto, ci sono speranze. Io soffro di agorafobia da quando avevo 11 anno, ora ne ho 54. Non ho vissuto? Forse la mia è stata una, diciamo così, sopravvivenza accidentale. Ma ci sono i farmaci: siamo solo organismi, e dobbiamo combattere con quelli che ora ci sono messi a disposizione: non sono i migliori? Non importa, non lasciare terreno alle discrasie dei neurotrasmettitori! Poi, quando starai meglio, rivedi la tua struttura cognitiva ed analizza il tuo passato. Tanti auguri!!!
Giorgio Nero