“Lei è depresso” mi dice la psichiatra, e ci rimango di sale. Io che scrivo di serial killer e sociopatici, io che ho imparato a memoria il DSM-4, che studio avidamente ogni cosa che riguarda il cervello umano, come mai non mi sono reso conto di una cosa tanto banale? Che non è per lo stress se mi trasformo ciclicamente in un gorilla desideroso di scassare il mondo per poi danzare sulle macerie, in un essere feroce capace di tirare il culo a colleghi e amici per ogni minima mancanza. Che gli attacchi di panico che mi tengono sveglio di notte con la certezza che ogni respiro sarà l’ultimo (perché quando hai un attacco sei sicuro di stare morendo, non ne hai solo timore) non dipendono dal fatto che me la meno troppo.
Con lo stupore, però, mi sale anche uno strano e imprevedibile sollievo. Perché capisco che non è solo colpa mia per le cazzate che ho fatto e le persone che ho ferito. Per quanto evidentemente insufficienti, i miei studi mi hanno insegnato che la depressione è una malattia, non uno stato d’animo volontario. Al depresso non puoi mica intimare “tirati su” o “fatti una risata ogni tanto”, non è che sta fingendo. È il suo cervello che sballa. Le endorfine che mancano, i neuroni che arrancano.
Mentre torno a casa dopo la seduta, ho un satori, un momento di chiarezza assoluta durante il quale mi scorrono davanti agli occhi i miei ultimi anni.
Quando è stata l’ultima volta che mi sono divertito davvero? E non parlo delle serate in cui scivolo nell’oblio sbronzo o alterato. Non riesco a ricordarmelo. Anzi, ricordo la festa di matrimonio di un caro amico durante la quale mi sono dovuto fare violenza per non scappare via e tornare a casa a scrivere.
O a fingere di scrivere, che è quello che faccio più spesso.
2
Pubblico dal ’98, e primi due romanzi li ho partoriti con facilità e agio. Dal terzo romanzo in poi, però, le cose sono cambiate. Mi siedo alla tastiera senza avere il coraggio di toccarla per ore, e quando ci riesco il giorno dopo cancello quello che ho scritto. A volte passano mesi prima che riesca a scrivere una pagina che mi sembri decente. A volte anche anni.
Il gorilla dentro di me mi blocca le mani, mi insulta per il mio ardire, mi deride ripetendo che dovrei tornare a fare il cuoco, o suicidarmi. I tentativi di esorcizzarlo trasformandolo in un personaggio dei miei romanzi non hanno successo. Vince lui quasi sempre, e io me ne vergogno e non lo dico a nessuno. Sparo balle che vanno dal classico “quasi finito” al “ho avuto un lutto in famiglia”, e mi tocca spesso scansare i colleghi cui ho promesso la consegna. Ricordo fughe alla Fiera di Francoforte per non incrociare il mio editor, ma anche nella stessa Mondadori. Cercavo di non passare davanti alle scrivanie di chi aspettava il mio manoscritto e temevo mi avrebbe preso a bastonate. Ho scritto anche un racconto in proposito, in cui il mio alter ego, dopo essersi bruciato in droga l’anticipo, uccide l’agente per aver una proroga.
Seduta dopo seduta, comincio a mettere a fuoco altri sintomi che ho trascurato negli anni. In testa a tutti la mia incapacità di frenare la rabbia, al limite dell’autolesionismo. Litigo e insulto direttori editoriali e produttori, qualche volta rischiando di venire alle mani, qualche volta arrivandoci, perdendo amici, soldi e lavori.
E poi c’è l’isolamento, cazzo. Sono diventato un solitario, chiuso in casa e spaventato a uscire. Trascorro almeno cento notti all’anno in qualche albergo, ma nessuno di quei viaggi è stato fatto per piacere personale. Incontri di lavoro, presentazioni di libri che vivo come stessero per fucilarmi, rare vacanze che trascorro nella hall degli alberghi con il computer sulle ginocchia, disgustato all’idea di mettere il naso fuori.
L’unico posto dove sono a mio agio che non sia casa è il cinema, perché non devo parlare con le altre persone, neanche quelle che mi accompagnano. L’unico problema è che piango sempre quando c’è una scena triste.
3
Quando chiedo alla psichiatra perché sono depresso, e da così tanto tempo che non riesco a vedere l’inizio, lei non dà risposte precise. Ma lascia cadere con delicatezza l’idea che in parte sia connesso a problemi che ricadono nella “sfera autistica”.
What?
All’alba dei cinquant’anni non solo scopro di essere depresso fin dall’adolescenza, ma anche autistico? Pare di sì, ad alto funzionamento e solo per certe cose. Come stare in mezzo agli altri, per esempio, che per me è più difficile che per i normodotati. E per la sensibilità eccessiva, come avessi uno strato in meno di pelle, al punto che mi ferisco troppo facilmente.
Ne so poco, ammetto, perché la psichiatra affronta malvolentieri la questione, che io vivo eccitato come un bambino che scopre di avere dei poteri mutanti. Invece cominciamo la cura chimica per i sintomi. Ho troppo poche endorfine nel cervello, bisogna fare in modo che ne rimangano in circolo di più.
Il farmaco che mi viene prescritto è la Sertralina, una roba che fa sì che le endorfine ci mettano di più a smaltirsi. All’inizio mi dà una notevole nausea e un po’ di sonnolenza. Poi, nel giro di una ventina di giorni comincia a succedere qualcosa, che posso definire solo per la sua mancanza.
Avete mai vissuto accanto a una ferrovia o una cascata? Il rumore continuo diventa alla fine un sottofondo cui non fai più caso, se non quando cessa.
Per me è lo stesso.
Una mattina mi rendo conto che la voce del gorilla nella mia testa c’è ancora, ma non è più rabbiosa. Non è più un pungolo costante che trasforma tutto in un carico da mille, le sue braccia non mi stringono più facendomi soffocare ogni volta che guardo al futuro. È solo cinica e cupa, e posso tenerla a bada se non sono sottoposto a uno stress eccessivo.
Un po’ alla volta le discussioni di lavoro diventano solo discussioni, senza strepiti e insulti, l’ansia si placa come non è mai accaduto con i tranquillanti e gli ansiolitici che ho preso a badilate. Quando mi chiama la banca perché ho sfondato il fido, invece di nascondere il telefono sotto il cuscino e sperare che cada un asteroide, rispondo e contratto un prestito. Litigo ancora, non sono diventato un santo, ma con meno frequenza. E, soprattutto, riesco a fermarmi a un certo punto, senza andare avanti tutta la notte in loop. Quando il gorilla esce, lo rimetto in gabbia.
Le cose che mi agitano e preoccupano sono molte di meno, e ciò che prima mi provocava notti insonni e sudori gelidi adesso lo risolvo con un’alzata di spalle. ‘Sti cazzi, come si dice a Roma. Ed è così che comincio a chiamare la pillola.
La pillola ‘sti cazzi.
E scrivo. Ho ancora blocchi, problemi e momenti di sconforto, ma sono quelli che ritengo normali, posto che ci sia qualcosa di normale in questo mestiere o nel mondo. Riscrivo ancora un sacco, e sono sempre insoddisfatto del risultato finale, ma questo è ok, mi va bene così, mi spinge a migliorarmi, a non accontentarmi. Quello che conta è che comporre le mie storie e darle in pasto ai lettori è diventato un piacere, che vivo senza sensi di colpa.
Scrivere è bello, me n’ero dimenticato.
Non so come andrà da qui in poi. Per adesso, visto che nel giro di due anni ho scritto e pubblicato un migliaio di pagine, direi bene. Ma ci sono cose da cui non si “guarisce”, e la depressione è una di queste (per non parlare dell’altra questione sulla sfera autistica: e no, non so fare calcoli a mente e non ho la memoria perfetta, cazzo), e quindi probabilmente avrò ricadute e momenti brutti.
Ma sapete chi vi dico?
‘Sti cazzi.
Sandrone Dazieri (Scrive thriller per la carta stampata e la televisione, cura qualche volta anche libri altrui. Prima faceva il cuoco. Il suo ultimo romanzo è L'Angelo (Mondadori). @sandronedazieri su Twitter.)
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