venerdì 21 settembre 2018

Cherofobia, la paura di essere felici

Per qualcuno, l’idea di divertirsi e provare gioia è una prospettiva spaventosa. Succede quando si teme che scatti un meccanismo di compensazione per cui, quando ci si lascia andare, accada qualcosa di terribile.

Un periodo davvero fortunato, soddisfazioni sul lavoro, felicità in amore, coincidenze favorevoli. Se la maggior parte di noi non si augura altro, per qualcuno troppe circostanze positive, troppa gioia e troppo divertimento sono guardati, invece, con sospetto.

Ne parla il quotidiano inglese The Independent: le persone che hanno un’irrazionale avversione per la felicità soffrono di cherofobia. Non sono le attività divertenti a fare loro paura, ma il timore che se si lasciano andare, e si sentono felici e spensierate, allora accadrà qualcosa di terribile.
Oppure perderanno il controllo. Pensano che stato di serenità possa diventare una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie per prevenire pericoli e minacce. L’idea che esista un subdolo meccanismo di compensazione ha spesso origine da traumi ed esperienze negative.
Di cherofobia non si parla nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), ma alcuni esperti la classificano come una forma di ansia.
Ci sono alcuni sintomi ricorrenti, che accomunano le persone che hanno paura della felicità. Provano ansia quando sono invitati a partecipare a un evento sociale, si rifiutano di partecipare alle attività «divertenti», pensano che quando si è felici qualcosa di brutto debba per forza accadere.Ritengono che puntare alla felicità renda le persone peggiori e comporti uno spreco di tempo e di fatica, e che mostrarsi contenti sia pericoloso.
In un post pubblicato su Psychology Today, la psichiatra Carrie Barron spiega alcune possibili ragioni per cui le persone sviluppano la cherofobia. «Potrebbe sembrare strano che qualcuno tema le emozioni positive. Spesso succede quando, durante l’infanzia, si è creato un legame fra felicità e punizione. Se sei spaventato dal piacere, potrebbe essere perché, in passato, la punizione o l’umiliazione hanno distrutto la tua gioia. Adesso hai paura di sentirti felice perché temi che la bolla esploda di nuovo».
Gli introversi potrebbero avere più probabilità degli altri di sviluppare la cherofobia. In genere preferiscono svolgere le loro attività da soli o con una o due persone alla volta, e possono sentirsi intimiditi o a disagio in gruppo, nei luoghi rumorosi e troppo popolati. Anche i perfezionisti possono essere cherofobici, perché potrebbero essere convinti che la felicità sia un tratto tipico delle persone ingenue e superficiali.
Stephanie Yeboah, blogger che convive con la cherofobia, spiega che cosa significhi questa condizione: «In definitiva, è una sensazione di completa disperazione, che porta a sentirsi ansiosi o diffidenti all’idea di partecipare o fare cose per arrivare alla felicità, perché è come se si avesse la percezione netta che non durerà – ha detto -. La paura della felicità non significa necessariamente vivere sempre nella tristezza: nel mio caso la mia cherofobia è stata innescata o esacerbata da eventi traumatici, e anche cose positive come completare un compito difficile o conquistare un nuovo cliente mi mettono a disagio».
Risolvere questo problema non è semplice: «Non c’è molto che io possa fare – aggiunge Yeboah – perché non ci sono molte risorse specifiche contro la cherofobia: mi limito ad andare avanti e cercare di non pensarci».
Probabilmente la cherofobia è un meccanismo di difesa costruito dopo un conflitto o un trauma. Secondo Carrie Barron, può essere utile cercare di scavare nel proprio passato: trattamenti come la terapia cognitivo comportamentale sono utili per comprendere le cause del disturbo e cercare finalmente di annullare l’associazione negativa tra piacere e dolore.
Però non tutti devono necessariamente curare la loro cherofobia: alcune persone si sentono più sicure (e, paradossalmente, felici) quando evitano la felicità. A meno che il disturbo non interferisca con la qualità di vita o la possibilità di mantenere il posto di lavoro, potrebbe anche non esserci bisogno di alcun trattamento.
Dal Sito: vanityfair.it

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