martedì 7 gennaio 2020

Paura di rimanere soli: quando la solitudine spaventa



Origini evolutive della paura di rimanere soli

Per ragioni evoluzionistiche legate alla sopravvivenza, gli esseri umani temono di essere rifiutati e allontanati rimanendo soli. La motivazione alla base di questi comportamenti è che, all’epoca dei nostri antenati, mantenere legami affiliativi di reciproca protezione e collaborazione con il proprio gruppo sociale era fondamentale per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Finire per essere esclusi e allontanati costituiva un rischio concreto per la propria vita!

Il nostro cervello si è perciò evoluto identificando come una grave minaccia l’eventualità di essere respinti, emarginati, dimenticati e quindi rimanere soli. I segnali di stress alla separazione e la motivazione alla ricongiunzione sono i modi principali in cui si esprime questa strategia evolutiva.

Il fatto di stare con gli altri e creare connessioni per scongiurare l’esclusione, ha quindi acquisito un’importanza vitale. L’uomo deve essere capace di creare relazioni, di far parte di un gruppo e non deve subire un allontanamento. Rimanere soli spaventa molto, per natura.

Sentimento di solitudine e isolamento sociale

Sembra quindi che il sentimento di solitudine motivi l’individuo a porre rimedio a eventuali sensazioni di disconnessione ed esclusione. Queste sono potenzialmente dannose. Ma con l’evoluzione della specie il senso di solitudine ha assunto anche altri e molteplici significati.

Si tratta infatti di un sentimento soggettivo, caratterizzato da aspetti emotivi e cognitivi, che ci permette di attribuire significato all’esperienza. Valutando i nostri rapporti o avendo convinzioni su di essi possiamo non sentirci soli anche se isolati o, al contrario, sentirci da soli in mezzo alla folla.

Quindi, la solitudine è stato riconosciuto essere maggiormente influenzata da parametri soggettivi. Ciò rende talvolta i rapporti con gli altri qualitativamente scarsi come: difficoltà relazionali, conflittualità di coppia e mancanza di intimità, delusione per le proprie condizioni di vita.

Se, in base a quanto detto, sentirsi soli è uno stato d’animo soggettivo, l’isolamento ha un valore più oggettivo. E’ quantificabile, ad esempio con il numero di contatti sociali che si hanno o la distanza dai familiari o dagli amici.

Ma i due costrutti hanno una relazione bidirezionale in quanto possono influenzarsi a vicenda. Una persona può sentirsi sola dopo essersi allontanata da un gruppo di amici, ma la sua predisposizione a sentirsi sola, anche in presenza del gruppo, può incidere negativamente sui rapporti e rendere maggiormente possibile la separazione.

La paura della solitudine si automantiene

Date queste premesse sulla relazione tra solitudine e isolamento, è quindi possibile immaginare che vi possa essere una sorta di “profezia che si autoavvera” relativamente alla percezione soggettiva di solitudine.

Chi è maggiormente predisposto al senso di solitudine avrà anche una maggiore attenzione alle minacce sociali. Identifica con maggiore probabilità la pericolosità nelle relazioni,  ha maggiori aspettative negative nelle interazioni con gli altri e ha una memoria selettiva per gli episodi in cui si è sentito solo o escluso. Come se guardasse il mondo attraverso la lente soggettiva della sua paura di rimanere solo.

Queste predisposizioni sono inconsapevoli e porteranno a comportamenti disfunzionali nei rapporti con gli altri. Questi a loro volta risponderanno in maniera negativa ai tentativi maldestri di connessione che la persona mette in atto. Il risultato sarà la conferma di essere soli, con aumento di ansia, depressione, diminuzione dell’autostima in un circolo vizioso autoperpetuante.

Origini della paura di rimanere soli e della solitudine

Ma come mai alcune persone si sentono connesse anche se isolate e altre si sentono sole tra tanta gente?

Come spesso accade in psicologia e psicopatologia, i fattori che determinano uno stato mentale, emozioni e percezioni di sé sono molteplici. Ormai è chiaro che, anche se vi sono disposizioni innate, genetiche, le esperienze interpersonali hanno un ruolo predominante, influenzando un’eventuale disposizione innata.

Sappiamo ormai che lo scambio di cure con le figure di riferimento sia il primo contesto in cui si presenta l’opportunità di fare esperienza con l’altro. Ambienti familiari caratterizzati da deprivazione emotiva, abusi, manipolazioni da parte del caregiver, abbandono o messaggi di non andare bene come persona, possono portare il bambino a strutturare idee/schemi di sé come non amabile, di non valore, diverso dagli altri.

Questi schemi, di cui spesso non siamo consapevoli, potrebbero essere alla base della paura di sentirsi soli da adulti. Questo aspetto sarebbe troppo minaccioso in quanto farebbe riemergere le emozioni dolorose sperimentate durante l’infanzia.

Come affrontare la paura di restare soli

Innanzitutto è utile chiedersi quale sia il timore ultimo della paura di rimanere da soli: “se rimanessi solo allora vuol dire che nessuno mi ama?”, “se rimanessi solo non saprei cosa fare né come muovermi nel mondo?”, “se rimanessi solo vuol dire che non vado bene come persona?”.

In secondo luogo comprendere se vi sono delle reali condizioni di vita che aumentano l’isolamento. Quali avere scarsi contatti con gli altri, non avere amici o familiari su cui fare affidamento, per quindi agire al fine di ridurre l’isolamento oggettivo.

Infine chiedersi se la paura di rimanere da soli è invalidante, quanto limiti la propria qualità di vita, le relazioni sociali, il proprio umore. Se le risposte a queste domande sono positive è utile chiedere un aiuto ad un professionista per comprendere le origini di questo timore e lavorare per prendersi cura di sé.

Curare la paura eccessiva di rimanere soli

La psicoterapia cognitivo comportamentale e i relativi approcci di terza generazione (Schema Therapy, Compassion Focused Therapy, Acceptance and Commitment Therapy ecc.), hanno l’obiettivo generale di portare la persona a prendersi cura di sé. Ciò per soddisfare quei bisogni che sono stati frustrati nell’infanzia (quali l’essere amato, curato, protetto o apprezzato).

Questo processo avviene tramite tecniche cognitive, comportamentali, esperienziali e tramite la relazione terapeutica. Questa funge da esperienza correttiva e di “riparazione”. Infatti, il terapeuta sarà colui dal quale “apprendere” ad accettarci come persone e ad amarci per quello che siamo.

Più specificatamente queste terapie si caratterizzano per alcuni aspetti fondamentali:

Un’esplorazione accurata delle esperienze infantili e adolescenziali ritenute all’origine dei problemi psicologici attuali, così da permetterci di comprendere come mai vi è questa paura di rimanere da soli.

L’uso di tecniche emotive/esperienziali (es. imagery rescripting), che permettono di “riscrivere” le esperienze del passato, attraverso la soddisfazione dei bisogni frustrati.

Centralità della relazione terapeuta-paziente, considerata un fondamentale strumento di valutazione e di cambiamento della persona.

Grande attenzione alle modalità disfunzionali attraverso le quali il paziente ha cercato di non sentire quel dolore derivante dagli schemi di sé. Ad esempio, se rimanere da solo è intollerabile la persona potrebbe rimanere in una relazione violenta, fare uso di sostanze per non sentire il dolore di rimanere da solo o isolarsi, convinto che non ci possano essere speranze.

Queste terapie tendono a perseguire i valori della persona, che sono la guida efficace per le nostre azioni, per creare una vita ricca, piena e significativa, mentre accettiamo il dolore che inevitabilmente la accompagna.

Dal Sito: ipsico.it

1 commento:

Anonimo ha detto...

E vero