Il mondo al di là dell’uscio di casa può spaventarci e diventare una sfida impossibile da accettare. Può succedere in caso di agorafobia. Il nome, però, non inquadra con la dovuta precisione il disturbo. “Fobia”, tutti lo sappiamo, sta per paura, mentre “agorà”, nell’antica civiltà greca, era il nome che contraddistingueva la piazza principale della città. Così, spesso, l’agorafobia viene intesa come una paura degli spazi aperti, in quanto tali.
Un po’ come se fosse, solamente, il contrario della claustrofobia. Ma non è proprio così, il quadro è un po’ più variegato.
“Infatti, nella maggior parte dei casi– spiega il Direttore della Psichiatria dell’Ospedale Niguarda– l’agorafobia è un problema che emerge secondariamente all’insorgenza di attacchi di panico e che si instaura quando si comincia ad evitare sistematicamente tutti i luoghi, le situazioni ed i contesti nei quali si teme che possa verificarsi una nuova crisi di panico”.
In genere le persone che vivono l’esperienza dell’attacco di panico presentano vari sintomi, anche a livello fisico, ad esempio quelli di tipo cardiocircolatorio, come palpitazioni e tachicardia, ma anche respiro affannoso, sudorazione, dolore o fastidio al petto, vampate di calore e brividi.
Possono associarsi, inoltre, nausea o disturbi addominali, formicolii, sensazione di sbandamento, vertigini e tremori. Questo conduce spesso al timore di perdere il controllo su di sé, di avere un malore o addirittura di essere in procinto di morire.
Nei casi più gravi possono comparire anche sintomi psichici come la depersonalizzazione, cioè l’alterata percezione di sé, caratterizzata da una sensazione di distacco o estraneità dai propri processi di pensiero o dal proprio corpo.
Non tutte le persone che soffrono di attacchi di panico sviluppano l’agorafobia. Quelle interessate dal disturbo temono in particolare le situazioni in cui sarebbe imbarazzante scappare o per cui sarebbe difficile ricevere soccorso.
Di conseguenza, evitano questi luoghi con l’obiettivo di controllare l’ansia legata alla possibilità di una nuova crisi di panico. Quando queste preclusioni iniziano a compromettere le normali attività quotidiane, allora si parla di agorafobia. Il disturbo è due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini e il picco d’esordio è intorno ai primi 20 anni, la comparsa dopo i 40 è rara.
Il trattamento prevede l’uso di psicofarmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (un particolare neurotrasmettitore), sono i cosiddetti antidepressivi SSRI.
Hanno dimostrato efficacia nel prevenire la ricorrenza degli attacchi di panico – sottolinea lo specialista –, possono però presentare effetti collaterali che vanno valutati caso per caso. Nelle fasi iniziali del trattamento possono essere utili anche ansiolitici benzodiazepinici, che vanno però limitati a periodi brevi per il rischio di creare dipendenza. L’altro punto saldo del trattamento è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che permette di avere dei miglioramenti in un arco temporale che va dai sei mesi ad un anno”.
Un po’ come se fosse, solamente, il contrario della claustrofobia. Ma non è proprio così, il quadro è un po’ più variegato.
“Infatti, nella maggior parte dei casi– spiega il Direttore della Psichiatria dell’Ospedale Niguarda– l’agorafobia è un problema che emerge secondariamente all’insorgenza di attacchi di panico e che si instaura quando si comincia ad evitare sistematicamente tutti i luoghi, le situazioni ed i contesti nei quali si teme che possa verificarsi una nuova crisi di panico”.
In genere le persone che vivono l’esperienza dell’attacco di panico presentano vari sintomi, anche a livello fisico, ad esempio quelli di tipo cardiocircolatorio, come palpitazioni e tachicardia, ma anche respiro affannoso, sudorazione, dolore o fastidio al petto, vampate di calore e brividi.
Possono associarsi, inoltre, nausea o disturbi addominali, formicolii, sensazione di sbandamento, vertigini e tremori. Questo conduce spesso al timore di perdere il controllo su di sé, di avere un malore o addirittura di essere in procinto di morire.
Nei casi più gravi possono comparire anche sintomi psichici come la depersonalizzazione, cioè l’alterata percezione di sé, caratterizzata da una sensazione di distacco o estraneità dai propri processi di pensiero o dal proprio corpo.
Non tutte le persone che soffrono di attacchi di panico sviluppano l’agorafobia. Quelle interessate dal disturbo temono in particolare le situazioni in cui sarebbe imbarazzante scappare o per cui sarebbe difficile ricevere soccorso.
Di conseguenza, evitano questi luoghi con l’obiettivo di controllare l’ansia legata alla possibilità di una nuova crisi di panico. Quando queste preclusioni iniziano a compromettere le normali attività quotidiane, allora si parla di agorafobia. Il disturbo è due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini e il picco d’esordio è intorno ai primi 20 anni, la comparsa dopo i 40 è rara.
Il trattamento prevede l’uso di psicofarmaci inibitori della ricaptazione della serotonina (un particolare neurotrasmettitore), sono i cosiddetti antidepressivi SSRI.
Hanno dimostrato efficacia nel prevenire la ricorrenza degli attacchi di panico – sottolinea lo specialista –, possono però presentare effetti collaterali che vanno valutati caso per caso. Nelle fasi iniziali del trattamento possono essere utili anche ansiolitici benzodiazepinici, che vanno però limitati a periodi brevi per il rischio di creare dipendenza. L’altro punto saldo del trattamento è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che permette di avere dei miglioramenti in un arco temporale che va dai sei mesi ad un anno”.
Dal Sito: corrierenazionale.it
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