Definiamo l’ accettazione come
“l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso”. L’ accettazione serve a far sì che non si sperperino risorse in uno scopo irraggiungibile ed è direttamente al servizio dello pseudo scopo “dell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse e del tempo per il perseguimento dei propri scopi”.
Le tre emozioni spesso prevalentemente presenti in una condizione di frustrazione definitiva e irrevocabile di uno scopo importante sono la tristezza, l’ansia e la rabbia. Tutte e tre sono generatrici di uno stato d’animo sgradevole ma non non per questo inutili e disadattive, sostiene Lorenzini.
La tristezza favorisce il ritiro dell’investimento dallo scopo perduto per sempre e il reinvestimento su scopi sostitutivi o del tutto diversi. Permette di abbandonare le strategie impercorribili e di trovarne altre sostitutive. È un’emozione che, comportando la sospensione di molte attività e un disinteresse verso l’esterno, consente un ritiro in se stessi da cui si esce rinnovati. Nuovi interessi sostituiscono i vecchi.
L’ansia è comprensibile e persino utile perché il soggetto si trova improvvisamente ad operare in un contesto radicalmente mutato e quindi molto meno conosciuto e prevedibile del precedente. Un sovrappiù di allerta può rappresentare un utile investimento per scongiurare i pericoli di una situazione nuova e ignota.
Infine la rabbia che è rivolta verso chi si ritiene responsabile del danno subito (gli altri, il destino, Dio o se stessi). La rabbia verso i responsabili del danno costituisce un fattore protettivo verso il ripetersi della situazione dannosa. È una sorta di minaccia a non riprovarci più. Anche quella verso se stessi, la più apparentemente disfunzionale, protegge da comportamenti imprudenti o autolesivi che possono essere stati causa del danno.
L’ accettazione dunque serve a sospendere investimenti inutili e le emozioni negative associate a ricreare un nuovo equilibrio e a prevenire il ripetersi del danno. Riepilogando l’ accettazione è un meccanismo utile per un razionale utilizzo delle risorse. Essa è costituita da un atteggiamento comportamentale consistente nella sospensione di attività inutili. Non significa però che non ci siano emozioni negative di tristezza, ansia e rabbia che sono invece utili.
L’ accettazione come processo finale del lutto
Il lutto è definibile come uno:
… stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale e simili (Galimberti, 1999, 617).
Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:
Fase della negazione o del rifiuto: costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà;
Fase della rabbia: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare il dolore e la sofferenza esternamente (forza superiore, dottori, società…) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto…);
Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;
Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;
Fase dell’ accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’ accettazione della differente condizione di vita.
Solitamente, infatti, al lutto seguono fasi caratterizzate da specifici aspetti cognitivi ed emotivi, che vanno da una iniziale negazione dell’evento, con profonda angoscia, tristezza e ansia associate alla mancanza di motivazione, fino alla sua progressiva accettazione, che porta al recupero di un buon funzionamento alla luce della rielaborazione, sul piano affettivo e cognitivo, della relazione con il defunto e all’acquisizione della capacità di stare nel mondo anche senza di lui. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi e a fare progetti per il futuro.
Il lutto patologico: quando l’accettazione è impossibile
Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Il lutto può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità. Per Perdighe e Mancini (2010), il lutto è un evento che compromette o minaccia scopi personali; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia domini connessi.
I fattori legati alla struttura di personalità che possono contribuire ad allungare i tempi e limitare l’elaborazione del lutto, sono la presenza di basse capacità di copinge la tendenza a reagire negativamente a situazioni che prevedono la necessità di tollerare gli imprevisti e il distress emozionale, quale quello conseguente alla perdita. Gli individui che hanno sperimentato una perdita significativa, infatti, non possono continuare a sostenere le loro vecchie assunzioni su sé, mondo e futuro, ma allo stesso tempo faticano ad accettare le nuove, che implicano una visione di questi aspetti negativi e priva di significato. È necessario, quindi, che gli assunti vengano modificati e resi nuovamente adattivi, ristabilendo un’interpretazione degli eventi focalizzata su aspetti positivi grazie ad un drastico cambio di prospettiva.
Pertanto, avvenuta la perdita, per giungere alla fase di accettazioneanche in questo caso l’obiettivo dovrà orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili.
Accettazione della malattia
Anche le persone affette da malattie terminali o i pazienti con patologie croniche e/o degenerative si trovano a dover fare i conti con una realtà difficile da accettare: oltre ai fattori fisici determinati dalla malattia, vi sono anche fattori psico-sociali che impattano sulla salute e sulla qualità di vita di queste persone. L’ accettazione della malattia implica “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia” (Hayes e Wilson, 1994) e “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici”. Questo non significa arrendersi; piuttosto, significa reindirizzare le energie ai propri valori personali, che vanno oltre la semplice gestione della malattia (Risdon, Eccleston et al., 2003).
In altre parole, accettazione della malattia significa “un ri-orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita” (McCracken ed Eccleston, 2003). Un’ulteriore componente dell’ accettazione della malattia è la volontà di affrontare i vissuti difficili, come paura, imbarazzo, dolore e affaticamento, quando ciò consente di prendere parte ad attività gratificanti (McCracken ed Eccleston, 2003). Lo svolgimento di attività piacevoli, permesso dalla capacità di accettare esperienze interiori come il dolore, l’ansia e l’imbarazzo, aiuta anche a mantenere alta la qualità di vita. Ci si aspetta che l’approccio alla malattia in cui è presente una certa accettazione dia luogo a una migliore qualità di vita rispetto all’approccio indirizzato all’evitamento di sentimenti comprensibili di perdita, turbamento o persino imbarazzo, che induce al disimpegno da qualsiasi attività.
Accettazione: altri ostacoli
In primo luogo accettare una nuova condizione è difficile per una sorta di inerzia cognitiva. Per la fatica che il sistema deve sobbarcarsi per ricostruire una mappa di sé e del mondo diversa dalla precedente. Due esempi banali. Chi ha subito un lutto grave e inaspettato si abitua progressivamente e dolorosamente all’idea. Al risveglio, dopo ogni sonno, sperimenta di nuovo il senso di sgomento e di spaesamento. Ci vogliono mesi prima che la nuova mappa della realtà in cui la persona scomparsa è assente si stabilizzi e non vada aggiornata daccapo ogni volta. Altrettanto esplicativa è la sindrome dell’arto fantasma. Il braccio amputato non c’è più ma il cervello non ne prende atto stabilmente. Ogni volta è una sgradevole sorpresa a cui riabituarsi.
Un secondo ostacolo all’ accettazione viene dal fatto che in previsione di un evento negativo gli interventi degli altri e del soggetto stesso hanno carattere rassicurativo e quindi allontanano la effettiva rappresentazione e costruzione dell’evento temuto. Si tende a dire e a dirsi: “stai tranquillo ciò che temi non accadrà, è estremamente improbabile” piuttosto che “prova ad immaginarti la nuova condizione e vedrai che non è così terribile come credi”.
In terzo luogo molti credono che gli esseri umani siano e debbano essere completamente plastici e in grado di adattarsi ad ogni situazione. Non si accettano i vincoli dovuti alla nostra stessa struttura e dunque, paradossalmente, non si accetta il fatto che certe condizioni siano inaccettabili. Bisogna invece accettare che certe condizioni siano inaccettabili.
Il delta aggiuntivo di sofferenza, che Lorenzini chiama “tribolazione”, si produce quando si ritiene da un lato che le emozioni negative, connesse all’ accettazione dell’impossibilità del raggiungimento di uno scopo, sarebbe possibile e opportuno che non ci fossero, e, dall’altro, che si dovrebbe essere in grado di adattarsi ad ogni situazione. La tribolazione cesserebbe se si accettasse l’idea che accettare una situazione significhi non sforzarsi di modificare l’immodificabile consentendosi però di provare emozioni negative (lo storico “diritto al mugugno”). Questa tribolazione si innesca perchè nella nostra cultura è spesso esaltata l’ accettazione, il riuscire a fare buon viso a cattivo gioco. A volte, poi, viene scambiata per straordinaria accettazione qualcosa di diverso che somiglia piuttosto alla dissociazione. Alcuni hanno una grande capacità di incassare senza turbarsi. Nei momenti peggiori si assentano e ritornano quando tutto è finito. L’assenza dissociativa è una sorta di stato mistico. Il corpo non sente più niente e la mente dorme. Sa che prima o poi la nottata dovrà finire e resiste senza nulla sentire.
L’ accettazione secondo l’ACT
Secondo il modello Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio. Di fatto l’Acceptance and Commitment Therapy non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’ accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente.
Il fine ultimo dell’Acceptance and Commitment Therapy è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT. I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente.
L’ACT prende in considerazione i seguenti concetti:
La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona. Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa; non è dunque una sensazione fugace, bensì un senso profondo di una vita ben vissuta nella quale esperiamo l’intera gamma delle emozioni umane.
Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza, dato che il controllo che abbiamo in situazioni simili è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere.
Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi tutti perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire come ritengono sia meglio per se stessi.
L’ accettazione si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione di ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
L’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Quale alternativa, quindi, all’ evitamento esperienziale? Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”. Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorno la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi. Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’Acceptance and Commitment Therapy) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.
In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
Le tre emozioni spesso prevalentemente presenti in una condizione di frustrazione definitiva e irrevocabile di uno scopo importante sono la tristezza, l’ansia e la rabbia. Tutte e tre sono generatrici di uno stato d’animo sgradevole ma non non per questo inutili e disadattive, sostiene Lorenzini.
La tristezza favorisce il ritiro dell’investimento dallo scopo perduto per sempre e il reinvestimento su scopi sostitutivi o del tutto diversi. Permette di abbandonare le strategie impercorribili e di trovarne altre sostitutive. È un’emozione che, comportando la sospensione di molte attività e un disinteresse verso l’esterno, consente un ritiro in se stessi da cui si esce rinnovati. Nuovi interessi sostituiscono i vecchi.
L’ansia è comprensibile e persino utile perché il soggetto si trova improvvisamente ad operare in un contesto radicalmente mutato e quindi molto meno conosciuto e prevedibile del precedente. Un sovrappiù di allerta può rappresentare un utile investimento per scongiurare i pericoli di una situazione nuova e ignota.
Infine la rabbia che è rivolta verso chi si ritiene responsabile del danno subito (gli altri, il destino, Dio o se stessi). La rabbia verso i responsabili del danno costituisce un fattore protettivo verso il ripetersi della situazione dannosa. È una sorta di minaccia a non riprovarci più. Anche quella verso se stessi, la più apparentemente disfunzionale, protegge da comportamenti imprudenti o autolesivi che possono essere stati causa del danno.
L’ accettazione dunque serve a sospendere investimenti inutili e le emozioni negative associate a ricreare un nuovo equilibrio e a prevenire il ripetersi del danno. Riepilogando l’ accettazione è un meccanismo utile per un razionale utilizzo delle risorse. Essa è costituita da un atteggiamento comportamentale consistente nella sospensione di attività inutili. Non significa però che non ci siano emozioni negative di tristezza, ansia e rabbia che sono invece utili.
L’ accettazione come processo finale del lutto
Il lutto è definibile come uno:
… stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale e simili (Galimberti, 1999, 617).
Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:
Fase della negazione o del rifiuto: costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà;
Fase della rabbia: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare il dolore e la sofferenza esternamente (forza superiore, dottori, società…) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto…);
Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;
Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;
Fase dell’ accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’ accettazione della differente condizione di vita.
Solitamente, infatti, al lutto seguono fasi caratterizzate da specifici aspetti cognitivi ed emotivi, che vanno da una iniziale negazione dell’evento, con profonda angoscia, tristezza e ansia associate alla mancanza di motivazione, fino alla sua progressiva accettazione, che porta al recupero di un buon funzionamento alla luce della rielaborazione, sul piano affettivo e cognitivo, della relazione con il defunto e all’acquisizione della capacità di stare nel mondo anche senza di lui. Solo dopo aver attraversato tali fasi ed il dolore associato ad esse è possibile accedere alla fase della riorganizzazione e accettazione, la sofferenza comincia ad attenuarsi, la ricerca della solitudine e l’evitamento si riducono e pian piano si ricomincia a coltivare interessi e a fare progetti per il futuro.
Il lutto patologico: quando l’accettazione è impossibile
Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Il lutto può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità. Per Perdighe e Mancini (2010), il lutto è un evento che compromette o minaccia scopi personali; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia domini connessi.
I fattori legati alla struttura di personalità che possono contribuire ad allungare i tempi e limitare l’elaborazione del lutto, sono la presenza di basse capacità di copinge la tendenza a reagire negativamente a situazioni che prevedono la necessità di tollerare gli imprevisti e il distress emozionale, quale quello conseguente alla perdita. Gli individui che hanno sperimentato una perdita significativa, infatti, non possono continuare a sostenere le loro vecchie assunzioni su sé, mondo e futuro, ma allo stesso tempo faticano ad accettare le nuove, che implicano una visione di questi aspetti negativi e priva di significato. È necessario, quindi, che gli assunti vengano modificati e resi nuovamente adattivi, ristabilendo un’interpretazione degli eventi focalizzata su aspetti positivi grazie ad un drastico cambio di prospettiva.
Pertanto, avvenuta la perdita, per giungere alla fase di accettazioneanche in questo caso l’obiettivo dovrà orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili.
Accettazione della malattia
Anche le persone affette da malattie terminali o i pazienti con patologie croniche e/o degenerative si trovano a dover fare i conti con una realtà difficile da accettare: oltre ai fattori fisici determinati dalla malattia, vi sono anche fattori psico-sociali che impattano sulla salute e sulla qualità di vita di queste persone. L’ accettazione della malattia implica “la resa nella futile lotta per fermare i pensieri automatici e intrusivi sulla malattia” (Hayes e Wilson, 1994) e “la sosta nella ricerca di una soluzione definitiva per i sintomi fisici”. Questo non significa arrendersi; piuttosto, significa reindirizzare le energie ai propri valori personali, che vanno oltre la semplice gestione della malattia (Risdon, Eccleston et al., 2003).
In altre parole, accettazione della malattia significa “un ri-orientamento dell’attenzione verso altri aspetti della vita” (McCracken ed Eccleston, 2003). Un’ulteriore componente dell’ accettazione della malattia è la volontà di affrontare i vissuti difficili, come paura, imbarazzo, dolore e affaticamento, quando ciò consente di prendere parte ad attività gratificanti (McCracken ed Eccleston, 2003). Lo svolgimento di attività piacevoli, permesso dalla capacità di accettare esperienze interiori come il dolore, l’ansia e l’imbarazzo, aiuta anche a mantenere alta la qualità di vita. Ci si aspetta che l’approccio alla malattia in cui è presente una certa accettazione dia luogo a una migliore qualità di vita rispetto all’approccio indirizzato all’evitamento di sentimenti comprensibili di perdita, turbamento o persino imbarazzo, che induce al disimpegno da qualsiasi attività.
Accettazione: altri ostacoli
In primo luogo accettare una nuova condizione è difficile per una sorta di inerzia cognitiva. Per la fatica che il sistema deve sobbarcarsi per ricostruire una mappa di sé e del mondo diversa dalla precedente. Due esempi banali. Chi ha subito un lutto grave e inaspettato si abitua progressivamente e dolorosamente all’idea. Al risveglio, dopo ogni sonno, sperimenta di nuovo il senso di sgomento e di spaesamento. Ci vogliono mesi prima che la nuova mappa della realtà in cui la persona scomparsa è assente si stabilizzi e non vada aggiornata daccapo ogni volta. Altrettanto esplicativa è la sindrome dell’arto fantasma. Il braccio amputato non c’è più ma il cervello non ne prende atto stabilmente. Ogni volta è una sgradevole sorpresa a cui riabituarsi.
Un secondo ostacolo all’ accettazione viene dal fatto che in previsione di un evento negativo gli interventi degli altri e del soggetto stesso hanno carattere rassicurativo e quindi allontanano la effettiva rappresentazione e costruzione dell’evento temuto. Si tende a dire e a dirsi: “stai tranquillo ciò che temi non accadrà, è estremamente improbabile” piuttosto che “prova ad immaginarti la nuova condizione e vedrai che non è così terribile come credi”.
In terzo luogo molti credono che gli esseri umani siano e debbano essere completamente plastici e in grado di adattarsi ad ogni situazione. Non si accettano i vincoli dovuti alla nostra stessa struttura e dunque, paradossalmente, non si accetta il fatto che certe condizioni siano inaccettabili. Bisogna invece accettare che certe condizioni siano inaccettabili.
Il delta aggiuntivo di sofferenza, che Lorenzini chiama “tribolazione”, si produce quando si ritiene da un lato che le emozioni negative, connesse all’ accettazione dell’impossibilità del raggiungimento di uno scopo, sarebbe possibile e opportuno che non ci fossero, e, dall’altro, che si dovrebbe essere in grado di adattarsi ad ogni situazione. La tribolazione cesserebbe se si accettasse l’idea che accettare una situazione significhi non sforzarsi di modificare l’immodificabile consentendosi però di provare emozioni negative (lo storico “diritto al mugugno”). Questa tribolazione si innesca perchè nella nostra cultura è spesso esaltata l’ accettazione, il riuscire a fare buon viso a cattivo gioco. A volte, poi, viene scambiata per straordinaria accettazione qualcosa di diverso che somiglia piuttosto alla dissociazione. Alcuni hanno una grande capacità di incassare senza turbarsi. Nei momenti peggiori si assentano e ritornano quando tutto è finito. L’assenza dissociativa è una sorta di stato mistico. Il corpo non sente più niente e la mente dorme. Sa che prima o poi la nottata dovrà finire e resiste senza nulla sentire.
L’ accettazione secondo l’ACT
Secondo il modello Acceptance and Commitment Therapy (ACT) ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio. Di fatto l’Acceptance and Commitment Therapy non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’ accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente.
Il fine ultimo dell’Acceptance and Commitment Therapy è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT. I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente.
L’ACT prende in considerazione i seguenti concetti:
La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona. Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa; non è dunque una sensazione fugace, bensì un senso profondo di una vita ben vissuta nella quale esperiamo l’intera gamma delle emozioni umane.
Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza, dato che il controllo che abbiamo in situazioni simili è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere.
Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi tutti perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire come ritengono sia meglio per se stessi.
L’ accettazione si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione di ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
L’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Quale alternativa, quindi, all’ evitamento esperienziale? Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”. Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorno la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi. Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’Acceptance and Commitment Therapy) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.
In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
Dal Sito: stateofmind.it
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