Da sette mesi a causa del Covid 19 la nostra vita è notevolmente cambiata: ciascun Paese, governo e persona sta cercando il proprio modo per fronteggiare un evento sconosciuto e pericoloso. Tutto ciò ha delle ripercussioni sulla nostra salute mentale oltre che fisica. Diversi articoli pubblicati di recente sulla rivista scientifica “Brain, Behaviour and Immunity” hanno evidenziato alcuni dei profondi impatti psicologici che la pandemia Covid 19 sta avendo in tutto il mondo.
I ricercatori sostengono che un livello ragionevole di attenzione e riflessione sulle informazioni relative al coronavirus può aiutare le persone a stare al sicuro durante la crisi, ma pensare troppo alla malattia può essere debilitante e malsano. Quando il pensiero correlato al Covid 19 è “troppo”? Per rispondere a questa domanda sono state esaminate sistematicamente le frequenze dei processi di pensiero relativi al virus. È stato analizzato il modo in cui i “pensieri” si relazionavano alle misure di angoscia e compromissione funzionale (quindi delle aree affettivo/relazionali, cognitive, autonomia, ecc…).
Questa indagine condotta negli USA si è basata su due grandi campioni di dati. Un campione era costituito da 775 adulti (età media di 30 anni) che hanno riportato un certo livello di ansia per il coronavirus (raccolti dall’11 al 13 marzo 2020), mentre l’altro campione era costituito da 398 adulti (età media 32 anni) che non erano limitati a nessun livello di ansia (raccolti dal 23 al 24 marzo 2020). Da un punto di vista pratico, pensare troppo al Covid 19 corrisponde all’incirca a trascorrere almeno dai tre ai sette giorni pensando ripetutamente al coronavirus, sognando il coronavirus, avendo pensieri inquietanti di aver preso il coronavirus e pensieri preoccupanti sulla possibilità di incontrare persone che potrebbero averlo.
Sebbene questi processi cognitivi (di difesa dal pericolo) derivino da un sistema biologicamente evoluto progettato per mantenere una persona al sicuro dai danni, questi tipi di schemi di pensiero persistenti e angoscianti sono sintomi comuni di ansia clinica. Inoltre, questi modelli di pensiero si sono dimostrati disadattivi non solo per il disagio funzionale, ma anche perché associati ad una serie di problemi, dall’abuso di sostanze ai pensieri suicidari.
Altre ricerche, invece, hanno indagato come la perturbazione del sistema immunitario innescata da infezioni potrebbe indurre psicopatologia e sono state osservate sequele psichiatriche dopo precedenti focolai di coronavirus. I risultati di uno studio condotto dal professore Benedetti all’Ospedale San Raffele di Milano sull’impatto psicopatologico del Covid 19 nei sopravvissuti ha determinato una percentuale significativa di pazienti autovalutati nel range psicopatologico: 28% per il disturbo post traumatico da stress, 31% per depressione, 42% per ansia, 20% per sintomi ossessivo compulsivi e 40% per insonnia. Complessivamente, il 56% ha ottenuto un punteggio nel range patologico in almeno una dimensione clinica.
Nonostante i livelli significativamente più bassi di marker infiammatori al basale, le donne soffrivano di più sia per l’ansia che per la depressione. I pazienti con una precedente diagnosi psichiatrica positiva hanno mostrato un aumento dei punteggi sulla maggior parte delle misure psicopatologiche. Precedenti ricerche hanno evidenziato che i sopravvissuti alla Sars hanno riportato sintomi psichiatrici, tra cui il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), depressione, disturbo da attacchi di panico e disturbo ossessivo-compulsivo. Oltre ai meccanismi immunologici, la paura della malattia, l’incertezza del futuro, lo stigma, i ricordi traumatici di una malattia grave e l’isolamento sociale sperimentato dai pazienti durante il Covid 19 sono fattori di stress psicologici significativi che possono interagire nella definizione del risultato psicopatologico.
Questi dati scientifici mi elicitano due considerazioni, la prima è l’importanza di interventi al livello politico e sanitario, come già sollecitato dall’appello delle Nazioni Unite e dal Consiglio nazionale degli psicologi per il sostegno psicologico delle persone che manifestano disagio, quindi un approccio integrato alla cura, secondo il modello bio-psico-sociale di salute proposto dall’OMS. La seconda riflessione è relativa al pensare “troppo” al contagio e alla visione incerta del futuro, ciascuno può essere promotore di una cultura della speranza, di spazi di benessere dove ritrovare equilibrio.
Continuare a progettare, trovare strategie innovative per il lavoro, in questo momento è fondamentale. Occorre rassicurarci emotivamente contenendo le paure. Concedersi anche attività piacevoli in contesti sicuri è nutrimento per il nostro benessere. La sfida di oggi, che ci coinvolge tutti e a tutti i livelli, penso sia costruire il presente non cadendo nella negazione del problema e non facendoci assorbire dal “troppo” pensiero Covid 19.
Dal Sito: unimondo.org
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