martedì 3 marzo 2020

Ansia, il male dei nostri giorni (sempre troppo frettolosi)



Tutti l’hanno provata: è una sensazione normale se si accompagna alle «prestazioni» richieste, ma rischia di diventare una patologia se si superano il limiti
Inizia e finisce con la prima lettera dell’alfabeto. Quando scatta, traccia una curva che parte da zero, si impenna e quando va bene torna a zero. A volte ci salva la vita, altre è all’origine di una folle sensazione di star per morire. Può essere leggera o estremamente materiale, corporea. Compare come una stoccata nel cuore della notte o è presente già al risveglio. Ama maschere e travestimenti. È sulla bocca di tutti perché tutti la conoscono e molti ne soffrono. È l’ansia. Secondo uno studio dell’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr circa il 15 per cento degli italiani fa uso di psicofarmaci. Anche l’ultimo rapporto Osmed di Aifa, riporta che nel 2017 oltre 2 milioni di individui, su circa 35 milioni, hanno ricevuto almeno una prescrizione di antidepressivi. E il consumo di farmaci per il trattamento dei disturbi d’ansia è aumentato dell’8 per cento, una curva in crescita e prima voce di spesa dei medicinali a carico del cittadino. Si assumono con funzione ansiolitica, sedativa o ipnotica. L’ansia infatti interferisce con l’addormentamento, con il risveglio e con la continuità del sonno. Cresce il consumo negli under 35, anche fra gli adolescenti (in modo spesso illegale) che ricorrono all’alprazolam con le stesse modalità di alcol e cannabis, a loro volta usati impropriamente come ansiolitici.

Che cosa è l’ansia

Ma che cos’è l’ansia? Sappiamo che appartiene alla sfera dell’affettività e può avere intensità e cause diverse. Situazionale, cronica, sociale, libera fluttuante, da prestazione. Sono tante le modalità con cui si presenta. Ma innanzitutto esiste un’ansia fisiologica, normale, che da un punto di vista dell’evoluzione ci ha salvato mettendoci in fuga di fronte a una tigre. Però in molte circostanze le stesse risposte risultano inadeguate o addirittura patologiche. Non bisogna infatti dimenticare che prima di tutto l’ansia normale è un fenomeno essenziale per la sopravvivenza, un’ allerta psichica dell’organismo con conseguente attivazione generale. È una reazione d’allarme, legata all’evoluzione, alla base della nota risposta al pericolo, fight or flight (combatti o scappa). Non interferisce dunque negativamente con la reazione del soggetto alla situazione, anzi, attiva e potenzia le capacità di affrontarla. Possiamo ben comprendere il rapporto tra ansia e prestazione pensando ai periodi di esame, «pericoli» più comuni delle tigri ai giorni nostri. Ad esempio, la mamma di Bianca, una bambina di seconda elementare, racconta di averla dovuta consolare perché si era «alzata con l’ansia» per le prove di esame Invalsi. Affrontate le prove, l’ansia non c’era più, lasciando il posto a un senso di leggerezza. Ma senza l’ansia Bianca non avrebbe rinunciato a qualche ora di gioco per ripassare le tabelline. Un po’ d’ansia è quindi uno stimolo indispensabile per una buona preparazione, diventa patologica quando le risposte dell’organismo sono sproporzionate allo stimolo, con conseguente caduta nel livello delle prestazioni.

Quando si supera la soglia di normalità

Dunque, per capire quando si supera la soglia della normalità, dobbiamo fare riferimento all’inadeguatezza della risposta allo stimolo e a una durata prolungata. Quest’ultimo aspetto apre a un’altra importante distinzione. L’ansia può essere transitoria e contingente (di stato) o può essere una modalità persistente di affrontare le diverse esperienze di vita (di tratto). Per quanto riguarda questa differenziazione stato/tratto le persone ansiose tendenzialmente sanno di esserlo e volentieri ne farebbero a meno. Più difficile capire quando si varca la soglia dal normale al patologico. Quali i segnali a cui prestare attenzione? Da un punto di vista specialistico, l’ansia viene classificata in termini operativi attraverso veri e propri criteri diagnostici. Manifestazioni o disturbi d’ansia sono presenti già in età pediatrica e persistono se non adeguatamente trattati, e sono più comuni nella popolazione femminile. L’ansia è un fenomeno che tende a manifestarsi sia sul piano cognitivo sia su quello somatico (corporeo), con sintomi molto vari.

Tre situazioni

Sono tre le condizioni in cui l’ansia può essere definita patologica. La prima: quando la risposta ansiosa è eccessiva e non funzionale rispetto agli stimoli che l’hanno indotta e il soggetto ne è consapevole; in questi casi lo stato ansioso si manifesta con sintomatologia somatica e cognitiva, in maniera costante e non gestibile razionalmente dal soggetto, nonostante sia in grado di riconoscerne la disfunzionalità (ansia generalizzata). La seconda: quando lo stato ansioso si verifica in assenza di uno stimolo scatenante, sotto forma di attacco di panico. Si manifesta in modo acuto, con sintomi quali sensazione di soffocamento, sudorazione improvvisa, sbandamento, paura di morire o di perdere il controllo. A questo segue spesso un comportamento di marcato evitamento di tutte le situazioni in cui potrebbero verificarsi altri attacchi, determinando conseguenze ancora più penalizzanti degli attacchi stessi. La terza: quando lo stato ansioso e/o la paura sono irragionevoli e inappropriate risposte nei confronti di uno stimolo esterno o una situazione da affrontare. Il soggetto è consapevole della irragionevolezza e sproporzione di queste paure ma non riesce ad eliminarle e tende a mettere in atto comportamenti di evitamento (fobie).

Sistema d’allarme

Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in luce i sistemi neuroanatomici coinvolti nella modulazione degli stati d’ansia. I ricercatori hanno scomposto l’ansia in due dimensioni: preoccupazione e paura. Si tratta di caratteristiche che rimandano a due zone distinte del cervello. Sulle stesse zone si basava il classico circuito della paura di Joseph LeDoux, neurobiologo degli anni Novanta, che per primo scoprì che un agglomerato di neuroni a forma di mandorla (denominata dal greco amigdala), aveva un ruolo fondamentale di sistema di allarme. Ancora più interessante la scoperta che essa fa parte di una vera e propria «via». In realtà, di vie LeDoux ne identificò due: la prima (low road, via bassa), rapida e istintiva, riguarda aree del cervello più primitive e «animali». Non arrivando all’elaborazione corticale, fornisce una rappresentazione dello stimolo grossolana e imprecisa, che tuttavia basta per innescare nel cervello una risposta emotiva e cominciare a reagire al pericolo. La seconda (high road, via alta), più lenta e razionale, ne valuta, attraverso le parti più evolute del cervello, la reale consistenza. Questo sistema permette di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di capire esattamente cosa siano. L’interpretazione emotiva precede dunque quella cognitiva e razionale: questo è il motivo per cui stentiamo a controllare razionalmente le emozioni di fronte a una situazione minacciosa. Conferme a questa teoria sono arrivate da studi di laboratorio sui topi, e poi da lavori neuropsicologici su pazienti con lesioni dell’amigdala o della corteccia visiva. In pratica, prima scappiamo, poi, eventualmente, ci pensiamo, perché come diceva LeDoux, «meglio trattare un bastone come un serpente che accorgersi troppo tardi che in realtà un bastone è un serpente».

Alterazione dei circuiti

Un’alterazione di questi circuiti -un’iperattivazione o un’anomala lentezza della valutazione- sarebbe dunque implicata nella genesi dell’ansia patologica. La conoscenza della natura medico-biologica di questi disturbi dovrebbe essere portata più spesso nella pratica clinica per aiutare le persone a comprendere ciò che stanno vivendo. Non sempre infatti sono situazioni da ricondurre a reazioni psicologiche esagerate, ma dovrebbe essere spiegato il ruolo centrale dei meccanismi biologici, in parte legati a una predisposizione genetica, come mostrano studi di genetica comportamentale su gemelli e adottivi. Le teorie più attuali dunque spiegano l’ansia alla luce dell’interazione tra fattori genetici e ambientali. Storicamente, anche la tradizione psicoanalitica si è cimentata nella ricerca dell’origine degli stati d’ansia, identificando conflitti interni e inconsci di natura diversa. Più semplice la concezione cognitivo-comportamentale, che fa leva su schemi cognitivi impliciti, sedimentati sulla base di errate associazioni stimolo-risposta.

Riflesso condizionato

È al fisiologo russo Ivan Pavlov che dobbiamo le prime osservazioni sul riflesso condizionato, da lui scoperto all’inizio del Novecento. Tutto sembra dunque ruotare intorno alla qualità degli stimoli, alla capacità del nostro cervello di processarli, elaborarli, tenerli insieme e dare una risposta. E alla loro quantità. Le sollecitazioni a cui l’uomo di oggi è sottoposto simultaneamente si moltiplicano in maniera esponenziale. I ritmi sono sempre più veloci e le esigenze sempre più pressanti. In relazione a questo, difficile non pensare all’effetto dell’ansia che concretamente blocca le capacità dell’individuo, il suo pensiero, la partecipazione alla vita, e che può indurlo a comportamenti di «evitamento». Su questi temi anche la sociologia e la filosofia stanno fornendo contributi importanti. Se, come si diceva all’inizio, è un fenomeno che riguarda quasi tutti, l’ansia è anche un fenomeno sociale. Capita di sentir parlare sempre più spesso di «società dell’ansia» e di ansia come patologia sociale. Ma già a metà dell’Ottocento, in tutt’altra società, il filosofo Soren Kierkegaard vedeva l’ansia come la paralisi derivante dall’eccessiva quantità di possibilità, di scelte, di libertà. The dizziness of freedom. Era il 1844. Immaginiamo cosa ne direbbe oggi.


Dal Sito: corriere.it 

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